Tribunale ordinario di Milano – Ufficio del Giudice per le Indagini preliminari, decreto del 22 gennaio 2024
IL CASO E LA DECISIONE
Sul territorio del Comune di Milano viene avviata la costruzione di due palazzi di 16 e 23 piani (c.d. "torri"), dopo l'abbattimento del precedente manufatto preesistente sul sito, costituito da due vecchi fabbricati a destinazione produttiva e terziaria, fabbricati aventi rispettivamente un piano fuori terra e due piani.
L'iniziativa edilizia risulta classificata, in parte, come di ristrutturazione edilizia, e autorizzata tramite SCIA sulla base di una determina dirigenziale del Comune di Milano del 31 maggio 2018, la quale ha stabilito che l’art. 33 del Regolamento edilizio meneghino, quando disciplina la modalità diretta convenzionata, comprende anche la SCIA con atto unilaterale d’obbligo in alternativa al permesso di costruire; al riguardo, l’assenso del suddetto atto unilaterale d’obbligo è considerato presupposto per il perfezionamento del titolo edilizio, di modo che tale atto, una volta registrato e trascritto, costituisce parte sostanziale ed integrante del titolo abilitativo in questione.
La scelta classificatoria di edilizia appena descritta – così come derivante dall’interpretazione operata dagli Uffici comunali della normativa primaria, subprimaria e regionale esistente in materia – tende a raggiungere l'obiettivo della costruzione dell'imponente nuovo assetto urbanistico tramite una procedura fortemente semplificata, non necessitante, tra l'altro, della redazione di un previo piano attuativo.
Sul punto, il Comune di Milano ha d'altro canto emanato, nel 2023, una circolare "applicativa", in base alla quale è da considerarsi esclusa la cogenza delle disposizioni di cui al decreto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1444 per gli interventi edilizi con altezza superiore ai 25 metri, e conseguentemente esclusa anche la necessità di pianificazione attuativa per tali tipi di intervento.
In particolare, la suddetta circolare ha argomentato una così importante e impattante conclusione sulle disposizioni normative da applicare ai casi di interesse, in base all’art. 103 della Legge regionale n. 12 del 2005 – previsione che disapplica, dopo le intervenute modifiche costituzionale in tema di riparto di competenze tra Stato e Regioni, una serie di norme statali -, e coerentemente con una pronuncia del TAR Milano del 2010, che aveva ammesso la derogabilità della norma primaria di legge abilitante il decreto ministeriale del 1968, laddove gli interventi si fossero collocati in una zona sufficientemente e adeguatamente urbanizzata, "che rende superflua l'adozione preventiva di un piano attuativo".
In tale ottica, secondo la richiamata circolare, la necessità dello strumento attuativo sarebbe esclusa nei casi nel quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura “incompatibile” con un piano attuativo.
La Procura della Repubblica di Milano non ha però aderito alla ricostruzione giuridica operata dal Comune di Milano e ha ritenuto che la deroga consentita dal citato art. 103 della Legge regionale n. 12 del 2005 abbia avuto un ambito di applicazione limitato sia dal punto di vista funzionale che temporale, avendo operato unicamente nella fase in cui i Comuni hanno adeguato i loro piani regolatori generali in vista dell’adozione dei piani di governo del territorio.
Al contrario, secondo l’impostazione accusatoria, avrebbe carattere di diritto vivente il principio secondo cui ogni intervento di trasformazione edilizia comportante un aumento del carico urbanistico è soggetto al rispetto della disciplina di cui al d.m. n. 1444 del 1968, che non sarebbe applicabile soltanto ai casi espressamente ivi previsti (fase di approvazione dei piani regolatori generali, attuativi e loro varianti), ma anche a tutte le ipotesi in cui un determinato intervento sia autorizzato in deroga o ad integrazione delle previsioni contenute nei predetti piani o nei regolamenti edilizi, qualora il conseguente cambio di destinazione d’uso con aumento dei volumi abitabili abbia come conseguenza un incremento tale da modificare, in una determinata zona, il rapporto abitanti/standard previsto dalla pianificazione urbanistica generale.
Il caso sarebbe, dunque, proprio quello della costruzione delle due Torri.
Il procedimento penale in base al quale è stato richiesto al GIP il decreto di sequestro preventivo degli edifici in divenire è stato aperto a carico del legale rappresentante della società operatrice, del suo progettista-direttore dei lavori, oltre che del legale rappresentante della ditta assuntrice dei lavori stesso, sul fronte dei privati; del dirigente, del tecnico istruttore e del responsabile del procedimento del Servizio unico Edilizia, sul fronte dei dipendenti del Comune di Milano.
Costoro sono tutti accusati di cooperazione colposa in due fattispecie contravvenzionali: quella prevista dall'art. 44, comma 1 lett. b) del d.P.R. n 380 del 2001 (esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso) e quella punita dall'art. 44 lett. c) e 30 dello stesso testo unico (lottizzazione abusiva, intendendosi per tale l’avvio di opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione).
Tra le altre violazioni individuate e poste alla base delle contestazioni, oltre a quelle già in precedenza descritta, vi sarebbe anche la violazione, insieme alle norme statali poste a presidio del corretto inquadramento tipologico del progetto edilizio, dell'art. 46 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, avendo il SUE, nell'ipotesi criminosa tratteggiata dalla Procura, consentito la "monetizzazione" degli standard, nell'assenza dei presupposti cui lo stesso art. 46 subordina la possibilità del ricorso a tale istituto.
Il GIP a cui è stata chiesta l’emanazione del decreto di sequestro preventivo delle Torri ha ritenuto sussistenti i reati contestati, seppure nella particolare sede cautelare in cui si è dovuto pronunciare.
In particolare, ha accertato il fumus dell'elemento oggettivo di una condotta criminosa consistita nella proposta di un intervento edilizio rispetto al quale sia promotore, sia funzionari del Comune, sia società esecutrice dell'opera hanno contribuito a garantire allo stesso "un'apparenza di legalità", quando invece erano presenti violazioni dei limiti inderogabili relative alle altezze delle nuove costruzioni, agli standard di aree a servizi e all'obbligo di preliminare pianificazione urbanistica di dettaglio, dettati dalla legge per edifici dalle dimensioni simili a quelli in costruzione.
Anche sotto il profilo dell'elemento soggettivo è stata riconosciuta l’astratta riconducibilità dei fatti contestati ai reati ipotizzati, posto che il Giudice ha accertato la sussistenza di indizi volti a corroborare una situazione eclatante di illegalità, la quale gli ha consentito di escludere, nei confronti degli indagati, e sulla base di una valutazione propria della fase cautelare reale, che difettino in modo immediatamente evidente la colpa o il dolo necessari per la configurazione dei reati in discorso.
In particolare, la situazione di “eclatante illegalità” sarebbe stata testimoniata dal fatto che si tratta di un imponente intervento edilizio di demolizione e ricostruzione con connessa radicale trasformazione del territorio di riferimento, consentito mediante un titolo abilitativo come la SCIA, rilasciato non solo in assenza di un piano attuativo, ma anche in assenza di adeguata istruttoria e relativa motivazione sulla non necessità dello stesso nel caso concreto, “sulla base di una lettura puramente formale delle regole dettate dalle NtA del PgT e di una valutazione parcellizzata dell’intervento edilizio da realizzare".
Ad ogni modo, pur riconoscendo il fumus di reità dei fatti contestati, il GIP ha respinto la richiesta di sequestro preventivo sotto il profilo della insussistenza del periculum in mora (esigenze cautelari), tenendo conto della recessività dell’orientamento secondo cui la confisca penale è una sanzione da applicarsi in materia in modo automatico, ed evidenziando, quanto al “test di proporzionalità”, che l’intervento edilizio è quasi ultimato, che la misura reale andrebbe a incidere anche sui diritti di soggetti estranei (terzi acquirenti e promissari acquirenti dei singoli beni immobili) alle fattispecie di reato in contestazione, e che sono possibili interventi alternativi ripristinatori da parte dell’autorità amministrativa, la cui adozione impedirebbe la confisca ad opera del giudice del merito.
Secondo il Giudice adito, dunque, la limitazione dei diritti costituzionalmente garantiti che vengono in gioco nel caso di specie (diritto di proprietà e di iniziativa economica), così come derivante da un eventuale provvedimento di sequestro, risulterebbe sproporzionata rispetto allo scopo che il sequestro stesso intende perseguire (interesse pubblicistico al corretto governo del territorio).
GOVERNO DEL TERRITORIO, RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA E NORMATIVA APPLICABILE
Le disposizioni di cui all’art. 41-quinquies della legge urbanistica fondamentale sono state introdotte dalla L. n. 765 del 1967 affinché le trasformazioni edificatorie aventi maggiore impatto sul tessuto urbano e sulla rete dei servizi pubblici vengano previamente inquadrate in un idoneo strumento attuativo e la loro realizzazione sia assistita da atti convenzionali che assicurino il necessario reperimento di risorse pubbliche congrue rispetto al nuovo peso insediativo.
Tali disposizioni, secondo l’impostazione della Procura della Repubblica e del GIP del Tribunale di Milano, sono ancora oggi da ritenersi vincolanti per il legislatore regionale, posto che la Corte costituzionale ha costantemente affermato, in materia, il principio secondo cui la pianificazione urbanistica svolte una funzione necessaria e insostituibile di disciplina dell’uso del territorio, come unica sede in cui è possibile operare la sintesi dei molteplici interessi, anche di rilievo costituzionale, afferenti a ciascun ambito territoriale.
In quest’ottica, i limiti fissati dal d.m. n. 144 del 1968 – atto che trova il proprio espresso fondamento nei commi 8 e 9 della norma sopra citata (art. 41-quinquies) – hanno efficacia vincolante anche verso il legislatore regionale, costituendo gli stessi principi fondamentali della materia, in particolare come limiti massimi di densità edilizia a tutela del primario interesse generale all’ordinato sviluppo urbano.
Per ciò che concerne la norma di cui all’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001, così come introdotta dal decreto-legge n. 69 del 2013, la quale ha previsto che le leggi regionali possano derogare alle distanze fissate nel d.m. n. 144 del 1968, la Corte costituzionale ha precisato che ciò può avvenire solo a condizione che le deroghe siano recepite da strumenti urbanistici attuativi, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio, e non riguardino singoli edifici.
L’art. 2-bis sopra richiamato non riguarderebbe peraltro soltanto le distanze, ma anche la disciplina dei parametri in tema di densità e di altezze, rispetto alla quale una eventuale deroga deve ritenersi legittima soltanto a condizione che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati e sia fondata su previsioni planivolumetriche che evidenzino una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario.
Le deroghe in questione dovrebbero dunque ritenersi ammissibili soltanto qualora predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.
Più in generale, il ragionamento del Tribunale di Milano, volto ad escludere che il Comune possa lecitamente disciplinare la materia prescindendo da alcuni vincoli urbanistici ineludibili, fa leva su alcuni consolidati orientamenti giurisprudenziali della Corte di Cassazione e del Giudice amministrativo, volti a riaffermare che:
- il principio secondo cui nelle zone già urbanizzate è consentito derogare all'obbligo dello strumento attuativo, può trovare applicazione solo nell'ipotesi, del tutto eccezionale, che si sia già realizzata una situazione di fatto che da quegli strumenti consenta con sicurezza di prescindere, in quanto gli stessi risultano oggettivamente non più necessari, essendo stato pienamente raggiunto il risultato cui sono finalizzati, in termini di adeguata dotazione di infrastrutture, primarie e secondarie previste dal piano regolatore;
- l'esigenza di un piano attuativo sussiste anche in zone già edificate, quando l'insediamento pianificato renda necessario un raccordo con il preesistente aggregato abitativo e un potenziamento delle opere di urbanizzazione già esistenti, di modo che, in assenza di uno strumento pianificatorio di dettaglio, anche in zone già interamente o parzialmente urbanizzate, non possono essere realizzati interventi di consistenza e complessità tali da costituire una notevole trasformazione del territorio.
Torna così prepotentemente in rilievo il concetto di carico urbanistico e la necessità di raccordare le nuove edificazioni con quelle preesistenti, specie quando gli ultimi interventi, come nel caso affrontato dal GIP di Milano, comportano un elevato numero di abitanti in più nella medesima zona di interesse, e l'elemento c.d. primario del carico (abitazioni, uffici, negozi) rischia di diventare sproporzionato in eccesso rispetto all'elemento secondario di servizio (uffici pubblici, parchi, strade, fognature etc.) preesistente.