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Alla ricerca della giustizia giusta

di Roberto Lombardi • 8 giugno 2022

Il referendum del 12 giugno 2022 è diventato nei fatti un banco di prova inutile del rapporto tra cittadini e giustizia, se si pensa ai singoli quesiti a cui si deve rispondere.

Costituisce invece ancora un discreto termometro della disaffezione e della sfiducia del singolo utente rispetto al sistema giudiziario nel suo complesso, se si proietta la sfida referendaria in una dimensione assoluta.

Dal primo punto di vista, posto che, come si vedrà di seguito, i quesiti sono sostanzialmente incomprensibili anche per gli addetti ai lavori – dovendo incidere in modo frammentato su una pluralità di norme per raggiungere l’obiettivo dichiarato -, l’assenza di un referendum trainante (come poteva essere quello sull’eutanasia, bocciato dalla Corte costituzionale) e la non ammissione del quesito sulla responsabilità civile dei magistrati hanno sterilizzato l’interesse vero al voto.

Sotto il secondo aspetto, peraltro, desta curiosità il dato sull’affluenza alle urne referendarie, in quanto i promotori vanno dicendo – a torto o a ragione, poco importa – che se si vota sì l’effetto immediato sarà quello di una giustizia più giusta.

Occorre dunque verificare se lo scontento nel Paese verso i magistrati è talmente grave e radicalizzato da portare i cittadini a votare in massa a favore dei referendum, anche senza coglierne l’effettiva portata in termini di incidenza reale sul sistema giustizia.

Ma veniamo ai singoli quesiti.


Il primo è così formulato:

«Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190)?».

Si propone di abrogare norme pensate in funzione del contrasto alla corruzione e del rafforzamento della trasparenza della e nella pubblica amministrazione, sostenendo che le disposizioni da abrogare avrebbero valore retroattivo e prevedrebbero ingiustamente, anche a nomina avvenuta regolarmente, la sospensione di una carica comunale, regionale e parlamentare anche solo se il soggetto in questione venga condannato in primo grado per determinati reati contro la pubblica amministrazione.

Ma la ratio della sospensione sta proprio nell’evitare fenomeni di degenerazione della cosa pubblica con la permanenza nella carica di amministratori che hanno subito una condanna per fatti anche gravi, condanna che, se è vero che non è definitiva, ha comunque già subito il vaglio del dibattimento, dinanzi ad un Giudice terzo, e all’interno di un processo che è tendenzialmente garantista.

E’ un errore poi qualificare come retroattiva una norma che stabilisce semplicemente che chi non può essere candidato perché raggiunto da una determinata condanna per reati contro la pubblica amministrazione, non può per gli stessi motivi restare al suo posto.

In caso contrario, si perverrebbe all’assurdo per cui basta “anticipare” la condanna con l’elezione, in relazione a fatti magari commessi molto tempo prima, per sfuggire poi definitivamente ad ogni tipo di “sanzione”, così incentivando fenomeni di candidature “strategiche” di soggetti in odore di condanna.


Il secondo quesito è così formulato:

«Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 274, comma 1, lettera c), limitatamente alle parole: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni”?».

Per limitare il gravissimo abuso della custodia cautelare che secondo i promotori del referendum esisterebbe in Italia, si propone di ridurre la possibilità per il Giudice di disporre (qualsiasi) misura cautelare (e non solo la custodia, che corrisponde alla traduzione in carcere o agli arresti domiciliari), quando vi è il pericolo che l’indagato possa commettere reati della stessa specie.

Più in particolare, si consentirebbe la possibilità di disporre misure cautelari (dall’obbligo di presentazione alla Polizia giudiziaria alla custodia preventiva in carcere), oltre che in caso di pericolo di fuga e di possibile inquinamento probatorio, soltanto nei casi in cui sussista “il concreto e attuale pericolo” che l’indagato “commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l'ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”. 

In pratica, il corruttore seriale e l’estorsore seriale tramite minaccia, tanto per fare un paio di esempi di facile comprensione, non potrebbero mai essere sottoposti a nessuna misura cautelare, se si tratta di soggetti socialmente “validi”, come spesso accade in caso di delitti dei colletti bianchi.

Se non vi è pericolo di inquinamento probatorio (che è già di per sé soggetto a limiti molto stringenti) o pericolo di fuga (difficile da ipotizzarsi per una certa tipologia di individui ben inseriti in società), niente misure preventive, perfino a fronte di clamorose violazioni di legge e “ruberie” nei confronti della collettività.

Invero, sembra che nel bilanciamento fra il diritto di libertà dell’indagato/imputato prima della condanna definitiva e le esigenze di sicurezza sociale sulle quali si fondano le esigenze cautelari, l’intervento proposto provoca un pesante squilibrio in danno delle seconde.

Viene cancellata con un tratto di penna ogni cautela nei confronti di soggetti che spesso e volentieri, anche per le loro connivenza con la criminalità organizzata, sono molto più pericolosi per la società dell’extracomunitario che – non avendo magari nessun radicamento con il territorio nazionale -, ricade sempre, ricorrendone i presupposti di legge, nell’ipotesi del “pericolo di fuga”, anche qualora commetta delitti di scarso impatto sociale. 

Viene altresì cancellata la possibilità di disporre misure cautelari nei confronti di coloro per i quali sussistono gravi indizi di avere commesso il delitto di finanziamento illecito dei partiti, mentre ad esempio la cessione di sostanze stupefacenti, anche di rilevante entità, purché non accompagnata dalla partecipazione ad associazioni per delinquere volte al traffico della droga, con la modifica referendaria diventerebbe un reato per cui l’arresto in flagranza (cioè con l’intervento diretto della polizia giudiziaria durante lo scambio) potrebbe essere paradossalmente seguito dalla immediata rimessione in libertà dell’arrestato.


Il terzo lunghissimo quesito è così formulato (si riporta solo una parte del quesito):

«Volete voi che siano abrogati: l’ “Ordinamento giudiziario” approvato con Regio Decreto 30 gennaio 1941, n. 12, risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 192, comma 6, limitatamente alle parole: “, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del consiglio superiore della magistratura”; la Legge 4 gennaio 1963, n. 1 (Disposizioni per l’aumento degli organici della Magistratura e per le promozioni), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 18, comma 3: “La Commissione di scrutinio dichiara, per ciascun magistrato scrutinato, se è idoneo a funzioni direttive, se è idoneo alle funzioni giudicanti o alle requirenti o ad entrambe, ovvero alle une a preferenza delle altre”; il Decreto Legislativo 30 gennaio 2006, n. 26 (Istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché’ disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera b), della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 23, comma 1, limitatamente alle parole: “nonché per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa” (…)?».

Sintetizzando al massimo, l’intento di questo quesito sarebbe di eliminare dall’ordinamento tutte quelle norme che consentono, seppure con particolari cautele e limiti, il passaggio dalle funzioni requirenti (pubblico ministero) alle funzioni giudicanti (giudice civile e penale) – e viceversa – durante la carriera del magistrato.

Si dice che il magistrato dovrà scegliere all’inizio della carriera la funzione giudicante o requirente, per poi mantenere quel ruolo durante tutta la vita professionale.

L’abrogazione delle disposizioni elencate dal quesito referendario farebbe sì che al magistrato che sia stato destinato, all’atto dell’assunzione in servizio, a una funzione – P.M. o giudice -, sia precluso definitivamente di chiedere il passaggio all’altra.

L’effetto di tale abrogazione implica indubbiamente una rilevante distorsione rispetto all’unicità di concorso che caratterizza l’ingresso in magistratura.

Si pensi soltanto che la scelta della sede e della funzione, dopo un periodo di tirocinio in cui il neo-magistrato “sperimenta” tutte le funzioni, non dipende nella grande maggioranza dei casi da una effettiva volontà di volere fare il lavoro di giudice piuttosto che quello di pubblico ministero, ma dalla necessità di recarsi in un luogo, tra i tanti sparsi su tutta la Penisola, che non sia eccessivamente lontano da quello in cui è già radicata la vita personale e familiare del neo-assunto.

In altri termini, un magistrato in tirocinio che preferirebbe fare il giudice ma che vuole o deve restare vicino ai propri affetti, in prima battuta potrebbe essere costretto a scegliere di svolgere la meno gradita funzione di pubblico ministero, seppure con la riserva mentale di cambiare le funzioni assunte non appena possibile, magari in conseguenza di una maggiore anzianità di servizio conseguita.

In egual modo, privare l’interessato della possibilità di un cambio di funzioni nel corso della carriera significa depotenziare la professionalità del magistrato, che può soltanto “arricchirsi”, come per ogni altra professione, a seguito della “sperimentazione” di tutti i risvolti pratici e giuridici di un lavoro che resta di fatto unitario nella sua componente culturale e tecnica.

L’attuale normativa segna un punto di corretto equilibrio tra tali esigenze e il pericolo di contiguità tra il pubblico ministero e il giudice (penale), fermo restando che non vi è materia di antagonismo tra poteri, trattandosi di soggetti che sono comunque al servizio dell’interesse pubblico nell’ambito del potere giudiziario.

Il d.lgs. n. 160 del 2006, infatti, dispone, in linea generale, che il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa Regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di Corte di Appello che ha competenza, per i reati commessi dai magistrati, sul distretto in cui il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni.

E’ previsto inoltre che tale passaggio può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del Consiglio giudiziario.

L’effetto dell’abrogazione richiesta sarebbe inoltre di dubbia costituzionalità, in quanto non si interviene contestualmente sulle modalità di accesso alla magistratura: resterebbe un unico concorso di magistratura che consente di accedere sia alle funzioni giudicanti che a quelle requirenti, a cui seguirebbe una scelta definitiva del vincitore di concorso nell’ambito delle sedi individuate dal CSM, con illegittima compressione dei diritti di quei neo-magistrati “costretti” a scegliere sulla base delle sole sedi disponibili al momento della prima scelta.

Al riguardo, vale la pena di ricordare che l’art. 106 Cost. stabilisce che le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso e l’art. 107 co. 3 Cost. prevede che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni. A Costituzione invariata, pertanto, ed essendo unico il concorso, chi accede alla magistratura ha il diritto di svolgere entrambe le funzioni. Le disposizioni attualmente vigenti – oggetto del quesito referendario – hanno solo la funzione di porre le condizioni per l’esercizio di un diritto costituzionalmente fondato.


Il quarto quesito è così formulato:

«Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 (Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005 n. 150), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 8, comma 1, limitatamente alle parole “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 7, comma 1, lettere a)”; art. 16, comma 1, limitatamente alle parole: “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 15, comma 1, lettere a), d) ed e)”?».

Si propone una modifica delle competenze spettanti ad avvocati e professori universitari in materie giuridiche all’interno dei Consigli giudiziari – che sono quegli organismi territoriali, istituiti presso ogni Corte di Appello, a cui spetta, tra l’altro, il parere motivato sulla valutazione pluriennale di professionalità dei magistrati -, cancellando la loro attuale esclusione dalle discussioni e deliberazioni che riguardano il suddetto parere.

In altre parole, il giudizio di merito sull’attività svolta nel quadriennio dal magistrato ordinario, ai fini della sua progressione in carriera, non spetterebbe più soltanto ad altri magistrati – che compongono per due terzi il Consiglio Giudiziario – ma vedrebbe il coinvolgimento anche di soggetti esterni alla magistratura.

Il raggiungimento del risultato che il quesito ha di mira – depotenziamento dell'autovalutazione all'interno della magistratura -, seppure coerente con la necessità di aprire una breccia nella supposta autoreferenzialità di essa, sembra peraltro in contrasto con l’articolo 105 della Costituzione, che riserva al CSM le promozioni dei magistrati.

Attualmente, il Consiglio giudiziario adotta un parere obbligatorio che di fatto vincola, ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. n. 160 del 2005, la decisione finale del CSM.

Ma, mentre la presenza nel CSM di soggetti estranei alla magistratura è prevista dalla Costituzione e legittima tale organo, nella sua composizione mista, a deliberare sulle promozioni dei magistrati, la presenza di soggetti estranei alla magistratura non legittimati dalla Costituzione nell’iter della valutazione sulle promozioni dei magistrati – e sulla base di una legge ordinaria – risulta minare il principio di autonomia e indipendenza da ogni altro potere della magistratura previsto dall’art. 104 della Costituzione.

Si arriverebbe al paradosso per cui il medesimo avvocato potrebbe difendere nel processo un soggetto accusato di omicidio e subito dopo “giudicare” la professionalità del giudice che gli ha appena dato torto in sentenza.


Il quinto e ultimo quesito è così formulato:

«Volete voi che sia abrogata la Legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 25, comma 3, limitatamente alle parole “unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’articolo 23, né possono candidarsi a loro volta”?».

In sostanza, si propone una modifica del procedimento di elezione del singolo magistrato a componente dell’Organo di autogoverno – ovvero la partecipazione al consesso a cui spettano secondo Costituzione le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati -, tramite soppressione dell’obbligo di presentare, unitamente alla propria candidatura, una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta.

L’effetto diretto è la possibilità per chiunque aspiri ad essere eletto al CSM di proporre la propria candidatura individuale senza dovere già dimostrare una base di consenso (ovvero la lista dei “magistrati presentatori”), il che è in sé astrattamente coerente con una maggiore autonomia e indipendenza nella corsa al CSM del magistrato stesso; l’effetto indiretto, che poi è quello dichiaratamente perseguito dai promotori del referendum, è quello di cercare di depotenziare il ruolo delle correnti nella scelta dei rappresentanti dei magistrati che compongono il CSM.

L’idea è che se non si deve presentare una lista di sostenitori già in partenza, non si dovrà essere necessariamente fedeli a una corrente per essere competitivi.

L’assunto prova troppo, se si pensa che il consenso per essere eletto occorre comunque averlo, e che anche una candidatura “indipendente” dalle correnti deve potere contare su una base elettorale solida, poco importa se formatasi precedentemente o successivamente alla presentazione della candidatura stessa.

In altri termini, forse potrà correre “da solo” un candidato molto autorevole e già noto ai magistrati – magari per iniziative interne, indagini o processi importanti -, ma tutti gli altri dovranno necessariamente avere il sostegno, per essere eletti, di quelle formidabili fonti di consenso, a volte “acritico”, che sono le correnti.

L’obiettivo sarebbe dunque da ritenersi neanche parzialmente raggiunto, in caso di abrogazione della norma.


Questi i quesiti da votare il 12 giugno prossimo.

Nel frattempo, la “riforma Cartabia” dell’ordinamento giudiziario è quasi al traguardo.

L’Associazione nazionale dei magistrati ha espresso grosse riserve sulle modifiche normative e ha addirittura proclamato un giorno di sciopero generale.

Il consigliere del CSM Di Matteo, chiamato recentemente in audizione alla Commissione Giustizia del Senato, ha anch’egli formulato un parere negativo sulla riforma, evidenziando che il nuovo sistema escogitato per eleggere i membri togati dell’Organo di autogoverno potrebbe finire per rafforzare il potere dei gruppi associativi di maggioranza rispetto alle cosiddette candidature indipendenti, che la separazione di fatto delle funzioni tra giudici e pubblici ministeri è un fattore di impoverimento della professionalità del magistrato, e che il nuovo fascicolo per la valutazione del magistrato – dove saranno inserite statistiche di successo e insuccesso delle iniziative e pronunce giurisdizionali - avrà l’effetto di burocratizzare e gerarchizzare ulteriormente gli uffici giudiziari, spingendo il magistrato ad essere più attento a fare numeri piuttosto che a fare veramente giustizia.

Fondate o infondate che siano queste paure, la sensazione è che le modifiche in discussione (referendarie e non) siano più mirate a ritarare il rapporto di forza attualmente esistente tra magistrati, avvocati e politica, che a salvaguardare veramente i diritti dei soggetti che cercano riparo ad un torto nelle aule giudiziarie.

Mancano come al solito i mezzi, le persone e i soldi necessari per far decollare per davvero il sistema giustizia, e ci si perde in questioni di scarso rilievo per la collettività, ma di sicuro interesse per qualche privilegiato che desidera essere ancora più privilegiato e protetto dal sistema di potere in cui abita.

Di una cosa però non bisogna dimenticarsi. Se viviamo in un Paese in cui le libertà fondamentali e il diritto di dissentire sono formalmente salvaguardati è soltanto perché la magistratura italiana, così come concepita dalla Costituzione repubblicana, è indipendente da ogni influenza esterna, vigila sull’operato delle forze dell’ordine e non risponde delle sue decisioni al potere esecutivo.

Le mele marce devono essere cacciate, ma il magistrato che fa bene il suo lavoro, prima di prendere una decisione che incide sulla vita di una persona, non deve avere né timore di una punizione né speranza di una ricompensa, anche se per assurdo sta per scegliere, in piena coscienza di adempiere al suo dovere, la verità “sbagliata”.

L’unico infallibile non vive su questa Terra. 


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