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Concessione di spazi pubblici e limiti alla libertà di espressione

a cura di Federico Smerchinich • 23 dicembre 2024

TAR per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, sent. n. 166 del 2020/ Consiglio di Stato, Sez. II, 19.09.2024, n. 7687


PREMESSA (a cura di Roberto Lombardi)

I valori dell'antifascismo e della Resistenza e il ripudio dell'ideologia autoritaria propria del ventennio fascista sono valori fondanti la Costituzione repubblicana del 1948, non solo perché sottesi implicitamente all'affermazione del carattere democratico della Repubblica italiana e alla proclamazione solenne dei diritti e delle libertà fondamentali dell'individuo, ma anche perché affermati esplicitamente sia nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista, sia nell'art. 1 della legge "Scelba" n. 645 del 20 giugno 1952.

I capisaldi di questa affermazione, che pure ha innanzitutto un altissimo senso ideale e programmatico, provocano di tanto in tanto delle ricadute concrete sulle attività economiche e non che cittadini e imprese intraprendono quotidianamente.

E se è vero che le limitazioni alla libertà garantita dall’art. 21 della Costituzione che discendono dall’ordinamento costituzionale e, in particolare, dalla XII disp. trans. della Cost., non si riverberano sulla libertà di formazione del pensiero nel cosiddetto “foro interno”, è altresì vero che è la connotazione pubblica della manifestazione del pensiero a delineare la rilevanza penale delle condotte tipizzate dalla citata legge Scelba, di modo che sembra astrattamente possibile subordinare l’utilizzo di spazi pubblici per l’esercizio di un’attività alla produzione di una manifestazione esterna di volontà che garantisca l’impegno dell’occupante di farlo nel pieno rispetto della Costituzione e per il perseguimento di obiettivi con essa compatibili.

Su questo presupposti, la Giunta Comunale di Brescia, con una delibera di dicembre 2017, aveva stabilito che, per ottenere la concessione e l’utilizzo di spazi pubblici da parte dei privati, fosse obbligatorio allegare alla domanda una dichiarazione esplicita che contenesse, oltre a una pluralità di impegni del richiedente, l’affermazione, al punto 1, “di riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo”.

Tuttavia, l’associazione di promozione sociale Casapound Italia – che intendeva richiedere l’autorizzazione all’occupazione di suolo pubblico finalizzata alla raccolta delle firme necessarie per la presentazione delle liste per le vicine competizioni elettorali -, ha ritenuto tale richiesta illegittima, chiedendo l'annullamento del relativo atto in giudizio, nella parte in cui obbligava al ripudio del Fascismo, ed evidenziando al riguardo  di essere un’associazione attiva nella città di Brescia da molto tempo, e di avere sempre agito nel rispetto della legge e dei regolamenti, senza mai creare problemi di ordine pubblico, pur non condividendo, nel suo background culturale,  quelli che definisce i “presunti valori dell’antifascismo".

Il Giudice di primo grado ha respinto il ricorso di Casapound, motivando, nel suo passaggio probabilmente più significativo, che la direttiva della Giunta del Comune di Brescia non è da considerarsi sproporzionata, perché la specificazione da allegare obbligatoriamente alla domanda di concessione non conculca la libertà di pensiero in vista di obiettivi pubblici, in quanto non direttamente preordinata al perseguimento di tali obiettivi, "bensì all’acquisizione di garanzie atte ad assicurare che l’uso del bene pubblico non sia strumentale all’esercizio di attività non rispettose dei principi costituzionali e, in particolare, del divieto di ricostituzione del partita fascista e di fare propaganda filo-fascista".

Non si costringerebbero, in altri termini, le strutture comunali preposte al rilascio della concessione a "deragliare" dalla loro missione volta ad evitare che i beni pubblici possano essere utilizzati per scopi non conformi alla Costituzione, "a prescindere dall’innegabile e aggiuntiva possibilità di intervenire, in esito all’esercizio dell’attività di controllo, con provvedimenti dichiarativi della decadenza immediata dalla concessione nel caso di turbativa dell’ordine pubblico legata a condotte del concessionario".

E' un tema delicato, quello affrontato dal Tar Lombardia-Brescia, che meritava senz'altro un vaglio anche da parte del Giudice di appello, per non restare sullo sfondo di una vicenda locale e di concreta conflittualità politica, e per non venire liquidato come espressione di un sentimento "anacronistico" e condizionato da orientamenti ideologici non più largamente condivisi.

Perché solo conoscere il passato e le conseguenze di certe azioni può aiutare a non ripetere gli stessi errori, e per dare il giusto peso a quel passato bisogna probabilmente essere pronti anche a ricordare espressamente cosa non vogliamo più essere.


LA DECISIONE DEL CONSIGLIO DI STATO (di Federico Smerchinich)

Nella vicenda decisa dalla sentenza di appello si è discusso della legittimità dell’atto della Giunta del Comune di Brescia che ha stabilito indirizzi per il rilascio di concessioni temporanee per le occupazioni occasionali di spazi e aree pubbliche nel territorio cittadino, prevedendo l’obbligo di allegare alla relativa domanda una dichiarazione che contenga, tra l’altro, l’impegno del richiedente «di riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo». L'appellante è un’associazione notoriamente vicina al pensiero fascista, che ha contestato l’atto comunale proprio perché la costringerebbe a ripudiare il fascismo.

Dopo che in primo grado il TAR ha respinto il ricorso, rilevando la discrezionalità del Comune nel decidere il contenuto degli atti per la concessione degli spazi pubblici e l’inscindibilità tra la condivisione dei principi costituzionali e il ripudio del fascismo e del nazismo, il Consiglio di Stato ha affrontato innanzitutto la tematica della sussistenza delle condizioni dell’azione, affermando l’importante principio per cui, nel momento in cui il rappresentante legale di un’associazione sostiene che un determinato indirizzo amministrativo leda la libertà di espressione dell’associazione e dei propri aderenti, tale lesione si deve presumere, salvo essere smentita in concreto.

L’appello è affidato a vari motivi che contestano, in particolare, la possibilità di subordinare il rilascio di una concessione per l’utilizzo di spazi pubblici a dichiarazioni che apparterebbero al “foro interno” di ogni singolo individuo, senza che sia dimostrato il collegamento tra il lecito utilizzo di spazi pubblici e le dichiarazioni di rispetto della Costituzione e dei suoi principi. 

Il Consiglio di Stato ritiene l’appello infondato, condividendo l’orientamento per cui gli enti pubblici avrebbero grande discrezionalità nell’esercitare la potestà di dare in concessione per scopi privati spazi pubblici. In tal senso, la scelta dell’amministrazione di approvare atti di indirizzo a cui vincolare le future scelte è sintomo di buon andamento amministrativo ai sensi dell’art. 97 Cost..

Smarcato l’argomento presupposto sul perimetro della discrezionalità amministrativa, il Consiglio di Stato si sofferma sul contenuto degli atti concessori stessi, rilevando che l’Amministrazione ben può perseguire l’obiettivo di evitare che essi vengano utilizzati per il perseguimento delle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, ovvero per la pubblica esaltazione di esponenti, principi, fatti, metodi e finalità antidemocratiche del fascismo – comprese le idee e i metodi razzisti – o ancora per il compimento di manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste.

Questo sarebbe, infatti, un obiettivo coerente con la Costituzione italiana, dichiaratamente antifascista (come affermato nella sentenza Corte Cost. 254/1974). A suffragio di questa tesi, il giudice di appello richiama anche la dottrina costituzionalista che descrive la nostra Costituzione come frutto di quella “cesura ordinamentale” avvenuta dal passaggio alla Repubblica del 1946, e come organizzata sistematicamente per far risaltare i principi fondanti della società italiana. Questa importanza è data dalla gerarchia con cui sono organizzati gli articoli che creano una scala di valori che si susseguono in tutta la Costituzione, partendo dall’importanza del lavoro, passando per l’importanza della pace e delle comunità internazionali, per concludersi con un necessario controllo di costituzionalità sulle leggi.

Un sistema che viene “chiuso” dal comma 1 della XII disposizione sul divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista, in coordinamento con l’art. 139 Cost. che non consente di sottoporre a revisione costituzionale la forma costituzionale, proprio allo scopo di evitare ritorni a totalitarismi. Un sistema attuato anche tramite la legge Scelba (645/1952), che fornisce a quel bene giuridico definibile come “ordine pubblico democratico e costituzionale” «una tutela anticipata in relazione a manifestazioni che, in connessione con la natura pubblica delle stesse, espressamente richiesta dalla norma, possano essere tali da indurre alla ricostituzione di un partito che, per la sua ideologia antidemocratica, e per espressa previsione appena sopra richiamata, contenuta nella stessa Carta del 1948 (XII, disp. trans. fin. Cost.), è contraria all’assetto costituzionale»

Alla luce di ciò, il Consiglio di Stato ricorda che non è ammesso che un’associazione o un movimento  si muova in spazi contrari a quanto sopra detto. Perciò spetta all’autorità, non solo giudiziaria penale in sede repressiva, ma anche amministrativa in sede preventiva, di fare in modo che non si concretizzi il rischio di realizzare attività organizzative contrarie al divieto di ricostituire il disciolto partito fascista.

In tal senso, il Consiglio di Stato ritiene proporzionata la scelta del Comune di Brescia di subordinare la concessione di spazi pubblici alla dichiarazione «di riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo; - di non professare e non fare propaganda di ideologie neofasciste e neonaziste, in contrasto con la Costituzione e la normativa nazionale di attuazione della stessa; - di non perseguire finalità antidemocratiche, esaltando, propagandando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la Costituzione e i suoi valori democratici fondanti; - di non compiere manifestazioni esteriori inneggianti le ideologie fascista e/o nazista». Contenuto della dichiarazione che si rifà all’art. 1 della legge Scelba.

In definitiva, dunque, il Consiglio di Stato condivide l’assunto del primo giudice, confermando il principio per cui «se non può essere limitata la libertà di pensiero, che peraltro non può giustificare comportamenti contrari alla Costituzione e alla legge, nemmeno può limitarsi il potere dell’ente pubblico di perseguire l’interesse collettivo alla cui tutela è preposto escludendo da un uso esclusivo dei beni pubblici soggetti che si facciano portatori del pensiero fascista e che per la sua tutela e diffusione potrebbero avvalersi degli stessi beni sottratti all’uso della collettività».

Di conseguenza, l’atto del Comune è legittimo perché assunto in ottica preventiva di tutela degli interessi collettivi, senza che si crei alcuna lesione della libertà di manifestazione del pensiero e di associazione.


OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
Tra i diritti tutelati dalla nostra Costituzione vi è quello di espressione e manifestazione del pensiero, anche attraverso l’associazionismo. Non a caso la Costituzione tutela il cittadino quale individuo e nelle formazioni sociali. Spesso si parla di queste libertà quando vengono minacciate o quando vanno in collisione con altre libertà. Nel caso in commento, la libertà di espressione e di associazione viene in rilievo perché limitata da un atto amministrativo. Come si vedrà, tuttavia, la limitazione è solo apparente, perché tesa a tutelare interessi collettivi alla base dell’ordinamento costituzionale italiano. 

Le pronunce di primo e secondo grado in discorso sono particolarmente interessanti perché, sfruttando un caso di impugnazione di un atto comunale, ci ricordano le origini storiche della nostra Costituzione e lo scopo della stessa, attuabile attraverso il ruolo della pubblica amministrazione. Infatti, l’atto contestato riguarda la concessione di spazi pubblici per scopi privati condizionato alla dichiarazione di condividere i principi costituzionali, ripudiando il fascismo e il nazismo. Una dichiarazione che parrebbe semplice da fare, considerando il periodo in cui viviamo e i decenni trascorsi dal superamento del ventennio fascista. Ma è allo stesso tempo una dichiarazione che potrebbe essere interpretata (come di fatto è stata) come una limitazione alla libertà di espressione da parte di quelle associazioni che ancora condividono gli ideali di quel periodo storico.

Se ben ci pensiamo, la Costituzione italiana, in astratto, tutelerebbe sia la libertà di pensiero, sia quella di associazionismo, per cui un atto amministrativo che limita questi diritti sarebbe generalmente illegittimo. Tuttavia, tale affermazione non vale in assoluto, quando le ragioni del limite posto dall’amministrazione pubblica risiedono nella tutela delle fondamenta dello Stato italiano e dell’identità democratica su cui si basa la Costituzione.

Perciò, la pubblica amministrazione può condizionare gli atti satisfattivi degli interessi legittimi pretensivi anche a dichiarazioni di ripudio del fascismo. Questo perché l’attuazione del comma 1 della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione deve essere attuato non solo in via repressiva dall’azione penale, ma anche in via preventiva dalla pubblica amministrazione. Proprio questa affermazione è fondamentale nella sentenza del Giudice di appello: cioè il riconoscimento nella pubblica amministrazione di un presidio alla tenuta costituzionale tramite l’esercizio del proprio potere discrezionale per preservare l’ordine democratico.

A voler essere critici, si potrebbe obiettare che l’amministrazione pubblica ha fatto una mera valutazione astratta sulla connessione tra mancata dichiarazione di ripudiare il fascismo e possibilità di ottenere la concessione di suolo pubblico, senza, però, che sia dimostrato che l’associazione o l’aderente che non fa una certa dichiarazione, poi effettivamente utilizzerà lo spazio pubblico in maniera contraria ai principi costituzionali. Una specie di prognosi ricollegabile ai reati a pericolo astratto, dove il pericolo è individuato dal legislatore tramite una presunzione. Eppure, l’importanza della pronuncia che ha chiuso il giudizio risiede proprio nel superare tale questione avallando l’agire del Comune.

Infatti, il Consiglio di Stato parrebbe legittimare qualsiasi agire discrezionale della pubblica amministrazione che sia volto a prevenire pericoli all’assetto democratico e costituzionale, anche se questo potere discrezionale si basi su valutazioni astratte, sganciate da istruttorie o dagli approfondimenti propri dei procedimenti amministrativi (la cui assenza sarebbe sintomatica di eccesso di potere). Un’astrazione nell’esercizio del potere amministrativo che trova peraltro la propria origine giustificativa proprio nelle radici della storia costituzionale italiana, e che per tale motivo si autolegittima senza ulteriori distinguo. 


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