IL CASO
Una società titolare di una concessione demaniale marittima, avente in gestione uno stabilimento balneare in Salento, dopo avere ottenuto, in un primo momento, la proroga della concessione in essere per la durata di 13 anni ai sensi dell’art. 1 commi 682 e 683 della Legge 145/2018 (fino al 2033), ha poi subito l’annullamento in autotutela di tale titolo.
L’amministrazione comunale di pertinenza dello stabilimento balneare ha infatti disposto l’annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies della Legge 241/90 del provvedimento di proroga sopra citato, in quanto ritenuto adottato in violazione del diritto eurounitario e della cosiddetta “direttiva servizi”.
In particolare, il Comune interessato ha ritenuto di dovere disapplicare la normativa nazionale che, in contrasto con il diritto cogente dell’Unione europea, aveva disposto un’ulteriore proroga ex lege delle concessioni demaniali in vigore, dal primo gennaio 2021 al 31 dicembre 2033.
Tale provvedimento è stato impugnato dalla società interessata davanti al Tar per la Puglia, sezione staccata di Lecce, e annullato ad esito del relativo giudizio dal tribunale salentino, per violazione della normativa nazionale vigente e per eccesso di potere consistito nell’erroneo convincimento di ritenere ormai consolidato il principio secondo cui la disapplicazione della norma nazionale confliggente con il diritto dell’unione europea, a maggior ragione se tale contrasto sia stato accertato dalla Corte di Giustizia UE, costituirebbe un obbligo anche per l’apparato amministrativo dello Stato membro, qualora questo sia chiamato ad applicare una norma interna contrastante con il diritto comunitario.
Commento
a cura di Matteo Manfredi, Avvocato e Docente a contratto dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
Con una pronuncia resa alla fine del mese di novembre 2020 in materia di rinnovo delle concessioni balneari (sentenza del 27 novembre 2020, n. 1321), il Tar Puglia – Lecce ha proposto una discutibile disamina dei caratteri del primato e degli effetti diretti delle norme del diritto dell’Unione europea.
La decisione si inserisce nell’ambito del dibattito sulle concessioni del demanio pubblico marittimo e lacustre che, da quando è entrata in vigore la direttiva 2006/123/CE (c.d. direttiva Bolkestein), vede contrapporsi il legislatore nazionale e la giurisprudenza interna.
Tra le disposizioni della direttiva più criticate dagli operatori balneari vi è senza alcun dubbio l’art. 12, che prevede sia che il rilascio di un numero limitato di autorizzazioni giustificato dalla scarsità delle risorse naturali debba essere soggetto a una procedura di selezione tra i potenziali candidati, improntata sui principi di imparzialità, trasparenza e pubblicità, sia che tali autorizzazioni abbiano una durata adeguata e non suscettibile di rinnovo automatico.
A seguito dell’attivazione della procedura di infrazione da parte della Commissione europea nel 2009, il legislatore italiano ha eliminato il riferimento al diritto di insistenza previsto dall’art. 37 comma 2 del codice della navigazione italiano, facendo però salva la regola del rinnovo automatico delle concessioni demaniali marittime turistico-ricreative fino alla data del 31 dicembre 2012 (art. 11 della legge del 15 dicembre 2011, n. 217), termine più volte prorogato.
Tale normativa, e più in generale il rinnovo automatico delle concessioni, sono stati ritenuti non compatibili con l’ordinamento dell’UE, ed in particolare con le norme del Trattato sulla libertà di stabilimento e sulla tutela della concorrenza, sia dalla sentenza della Corte di giustizia nel caso Promoimpresa del 2016, sia dalla Corte Costituzionale (si vedano ad esempio le sentenze n. 180/2010, n. 340/2010 e n. 213/2011) sia, infine, dal Consiglio di Stato (ex multis si rinvia alla sentenza del 18 novembre 2019, n. 7874).
Come noto, la legge finanziaria del 2019 ha previsto un nuovo regime di prorogatio, disponendo un ulteriore rinnovo delle concessioni demaniali in vigore fino al 31 dicembre 2033. Tale normativa ha aperto la strada all’avvio di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea (procedura di infrazione n. 2020/4118, lettera di messa in mora del 3 dicembre 2020) e, dall’altro, determina uno stato di assoluta incertezza tra gli operatori economici e tra le pubbliche amministrazioni.
In tale contesto, i pubblici funzionari sono costretti a fronteggiare sul piano operativo un contrasto tra fonti che il legislatore italiano ad oggi non ha voluto risolvere e su cui il Tar Puglia - Lecce si è pronunciato con una decisione destinata a far discutere.
Secondo il tribunale salentino, la statuizione della Corte di giustizia “con cui si afferma che il principio di dare attuazione alla norma comunitaria disapplicando la norma interna costituirebbe un obbligo dello Stato membro “in tutte le sue articolazioni” ovvero giudice e pubblica amministrazione, non può ritenersi norma dichiarativa di interpretazione autentica della norma comunitaria, perché essa non ha ad oggetto alcuna individuazione della ratio legis di una specifica norma comunitaria, ma attiene invece alle generali regole e modalità di applicazione della normativa unionale in generale considerata, dovendosi riguardare alla stregua di mero obiter dictum” (pag. 16).
Tale affermazione non prende però in considerazione gli elementi caratterizzanti il primato del diritto dell’Unione, principio di derivazione giurisprudenziale, ma pienamente riconosciuto dalle corti nazionali. Inoltre, con specifico riferimento alla direttiva Bolkestein, non è l’interpretazione della Corte di giustizia, ma sono le caratteristiche della “precisione, chiarezza, incondizionatezza” della direttiva stessa, ed in particolare dell’art. 12, che producono dei diritti e degli obblighi in capo sia ai singoli sia a “tutte le articolazioni” dello Stato membro. Infatti, se l’efficacia diretta non fosse accompagnata al primato, con il conseguente potere/dovere di disapplicazione della norma interna contrastante, la norma dell’UE self-executing non potrebbe creare in concreto diritti in capo ai singoli e gli effetti di tale disposizione varierebbero da Stato a Stato.
Il punto della pronuncia in esame che solleva le maggiori perplessità riguarda, però, il ruolo della pubblica amministrazione nella disapplicazione della norma nazionale in contrasto con il diritto dell’UE. Attraverso un ragionamento giuridico molto complesso, il tribunale amministrativo arriva a considerare “dirimente” la possibilità di rivolgersi alla Consulta o alla Corte di Lussemburgo per risolvere l’antinomia, in quanto funzione strumentale e ancillare rispetto al potere di disapplicazione della norma nazionale. Essendo tali rimedi esperibili solo dai giudici nazionali, essi sarebbero gli unici soggetti titolati a disapplicare la norma interna in contrasto con il diritto dell’Unione, mentre la norma interna risulterebbe “vincolante per la pubblica amministrazione e, nel caso in esame, per il dirigente comunale, che sarà tenuto ad osservare la norma di legge interna e ad adottare provvedimenti conformi e coerenti con la norma di legge nazionale” (pag. 19).
Tale affermazione risulta confliggente, però, con la giurisprudenza inaugurata dalla Corte di giustizia nel caso Fratelli Costanzo (sentenza del 22 giugno 1989, causa 103/88), laddove è stato espressamente indicato che l’obbligo di disapplicare una normativa nazionale contraria al diritto dell’UE incombe non solo al giudice nazionale, ma anche a tutti gli organi dello Stato, comprese le autorità amministrative. Dal momento che un'autorità pubblica è investita della funzione di garantire la corretta applicazione delle norme non solo interne, ma anche dell’ordinamento dell’UE dotate di effetti diretti, l'effetto utile delle norme di diritto dell’Unione sarebbe affievolito se quell'autorità non potesse accertare il contrasto con la disposizione dell’UE della norma nazionale e, conseguentemente, non la disapplicasse. Anche la Corte Costituzionale (sentenze n. 389/1989 e n. 168/1991) e il Consiglio di Stato (sentenza del 23 maggio 2006, n. 3072 e sentenza del 28 febbraio 2018, n. 1219) hanno ribadito che sarebbe contraddittorio consentire ai singoli di invocare dinanzi al giudice interno le norme del diritto dell’Unione self-executing per censurare atti della pubblica amministrazione che non ne hanno data attuazione e, al contempo, negare che la stessa pubblica amministrazione possa disapplicare le norme interne contrastanti. Questo determinerebbe una situazione caotica e incerta nell’applicazione delle norme dell’UE dotate di efficacia diretta con una conseguente disparità di trattamento di tutela dei diritti dei singoli tra Paesi membri oltre che all’interno dei singoli Stati.
Non resta, a questo punto, che aspettare la decisione del Consiglio di Stato, se ci sarà, per verificare se intende aderire all’interpretazione proposta dal Tar Puglia – Lecce o consolidare e confermare l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario e coerente ai principi del diritto dell’Unione, circostanza, quest’ultima, che gioverebbe all’attività quotidiana dei pubblici funzionari chiamati a risolvere le antinomie tra diritto interno e diritto dell’Unione e alla tutela dei diritti dei singoli.