La pandemia di Covid-19 ha messo alla prova la tenuta del sistema del diritto pubblico. Gli operatori del diritto e i semplici cittadini si sono interrogati sul fondamento costituzionale e sull’estensione del potere di limitare i diritti fondamentali non con legge, ma con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sia pure dotato di copertura legislativa; sul bilanciamento tra i diversi diritti e interessi che vengono in gioco allorché si tratti di predisporre una disciplina di contenimento dell’epidemia; sul rapporto tra potere esecutivo e Parlamento, nonché sui diversi livelli di governo in cui è articolata la Repubblica.
Le tensioni derivanti dall’emergenza hanno, però, investito profondamente anche il diritto civile, e in particolare quello contrattuale, saggiando la capacità di risposta dell’ordinamento a una situazione straordinaria.
Situazione tanto più straordinaria in quanto idonea a produrre effetti negativi su due diversi versanti. Da un lato, infatti, le misure di contenimento del virus adottate possono incidere sulla capacità di eseguire la prestazione diversa da quella pecuniaria; dall’altro, la crisi economica che si è prodotta unitamente all’evolversi dell’epidemia può provocare impotenza finanziaria dell’obbligato a una prestazione pecuniaria, ponendolo nelle condizioni di non adempiere, o adempiere parzialmente o in ritardo, la sua obbligazione.
A fronte di una situazione così complessa, la risposta del legislatore, a parte quanto stabilito in materia di mutui fondiari, di cui in questa sede non si parlerà, si è limitata, sul piano del diritto sostanziale, al comma 6-bis dell’art. 3 d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, conv. con mod. con l. 5 marzo 2020, n. 13, introdotto dall’art. 91, comma 1 d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con mod. con l. 24 aprile 2020, n. 27. In base a tale norma, il rispetto delle misure di contenimento disposte dall’Autorità pubblica ai sensi della normativa emergenziale è sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti (per un esame più completo si rimanda a DOLMETTA, “Misure di contenimento” della pandemia e disciplina dell’obbligazione (prime note all’art. 91, comma 1 d.l. n. 18/2020), in Banca Borsa e Titoli di credito, 2020, 151 ss.).
Poiché il legislatore non ha inteso escludere tout court la responsabilità per inadempimento del debitore, lasciando ogni valutazione al giudice tenuto ad applicare l’art. 1218, che come noto definisce i contorni della responsabilità del debitore, e l’art. 1223 c.c., che invece individua i pregiudizi risarcibili, la norma ha un sapore vagamente tautologico: nella valutazione dell’imputabilità dell’inadempimento, così come nella determinazione della misura del risarcimento, si deve già tener conto di tutte le circostanze rilevanti. Dunque, la previsione può essere forse intesa come un indirizzo del legislatore all’interprete, affinché nelle valutazioni di sua pertinenza non trascuri di valorizzare l’impatto che il Covid-19 ha avuto sul sistema economico.
Venendo a un esame più specifico, l’epidemia può incidere in modi diversi sull’obbligazione non pecuniaria.
Innanzitutto, essa può divenire definitivamente impossibile perché proibita dalle misure di contenimento. Si pensi al concerto fissato per una determinata ricorrenza che ricada, però, in una data in cui le misure di contenimento abbiano vietato ogni manifestazione pubblica. In tal caso, l’obbligazione si estingue per factum principis ai sensi dell’art. 1256 c.c.; conseguentemente, in forza dell’art. 1463 c.c., il contratto si risolve e la parte liberata dalla propria prestazione non può esigere la controprestazione, dovendo anzi restituire quanto già ricevuto, secondo le norme dettate dall’art. 2033 c.c. per l’indebito oggettivo.
Più frequentemente, la prestazione può divenire impossibile solo temporaneamente. Si pensi al caso in cui la consegna di un bene o la prestazione di un servizio sia ritardata dal blocco imposto alle attività produttive. In tal caso, l’estinzione dell’obbligazione e la risoluzione del contratto si verificano, ai sensi dell’art. 1256, comma II c.c., solo quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla. Fino a quel momento, il contratto rimane quasi “in sospeso”, con una parte che non è responsabile dell’inadempimento e l’altro contraente che, ai sensi dell’art. 1460 c.c., può rifiutare la controprestazione, sollevando l’eccezione inadimplenti non est adimplendum.
Sfugge alla regolamentazione il caso in cui il differimento nel tempo della prestazione non elida integralmente l’interesse a riceverla, ma lo diminuisca in maniera apprezzabile. In tale ipotesi, infatti, non è prevista per il creditore la possibilità di ottenere una corrispettiva riduzione della propria controprestazione, con la conseguenza che l’interprete dovrà optare tra il mantenimento del contratto secondo le pattuizioni originariamente previste, oppure ritenere che l’interesse sia venuto meno, con la conseguente dissoluzione del vincolo negoziale. In ambedue i casi vi è un’alterazione dell’equilibrio contrattuale, che, in realtà, potrebbe essere evitata dalle stesse parti mediante un’opera di rinegoziazione delle condizioni contrattuali.
A questo punto, occorre anticipare una riflessione che tornerà, più matura, nel prosieguo. E cioè che la rinegoziazione dei contratti attinti dalle conseguenze dell’epidemia in corso è spesso lo strumento migliore per salvaguardare l’equilibrio contrattuale e, in fin dei conti, il corretto contemperamento degli interessi dei contraenti.
Proseguendo nell’esame della casistica, potrebbe ancora avvenire che la prestazione sia possibile solo in parte. È il caso del ristorante che, dopo aver accettato la prenotazione di un tavolo per una certa quantità di persone, ricevendo un anticipo di pagamento o una caparra confirmativa a dimostrazione della serietà dell’impegno, sia costretto dalla disciplina di contenimento dell’epidemia a servire il pasto per un numero più ristretto di persone.
In questi casi, salva l’estinzione parziale dell’obbligazione ai sensi dell’art. 1258 c.c., è data alla controparte, ai sensi dell’art. 1464 c.c., la scelta tra un rimedio demolitorio, e cioè la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta, quando non vi sia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale; e il rimedio conservativo della riduzione del prezzo in misura corrispondente alla parziarietà dell’altra prestazione.
Ovviamente, la necessità di rispettare le norme di contenimento si può riverberare come aumento dei costi necessari per eseguire la prestazione. Nei contratti a esecuzione continuata, periodica o differita sovviene l’art. 1467 c.c., che consente alla parte che subisce l’aumento dei costi di domandare la risoluzione del contratto.
Condizione di applicazione dell’istituto è che la causa dell’onerosità eccessiva risieda in eventi straordinari ed imprevedibili, tra i quali non sembra potersi dubitare che rientri anche la pandemia attualmente in corso.
Alla controparte è comunque data la facoltà di conservare il contratto, offrendo la modifica delle condizioni onde ricondurlo a equità.
Altro caso che sfugge alla regolamentazione codicistica è quello che vede la prestazione in astratto possibile; e tuttavia l’obbligato si rifiuti di eseguirla, ritenendola troppo rischiosa per la salute propria e dei propri collaboratori. Si può fare il caso del lavoratore di un’impresa esclusa dal blocco delle attività produttive o l’impresa di pulizie che presti la propria attività all’interno di una RSA ove si sia manifestato un focolaio di infezione.
In tali casi, l’inadempimento non può certo attribuirsi al factum principis, né sembra potersi altrimenti ricondurre al concetto di forza maggiore. La conseguenza è che l’inadempimento è imputabile ai sensi dell’art. 1218 c.c., e può dar luogo alla risoluzione del contratto in forza dell’art. 1453 c.c. ove l’inadempimento non sia di trascurabile rilievo.
Si può, ancora, ipotizzare che la prestazione sia tuttora possibile, ma sia venuto meno o sia grandemente scemato l’interesse della controparte a riceverlo. È il caso della locazione di un immobile a uso commerciale, per il quale il conduttore potrebbe non avere più interesse, vuoi perché la sua attività è oggetto di divieto da parte delle misure di contenimento, vuoi perché l’alterazione della domanda provocata dalla pandemia lo ha convinto ad astenersi, temporaneamente o definitivamente, dall’attività.
Non sembra, in tali casi, che l’ordinamento civile fornisca un rimedio adeguato alla profonda alterazione del sinallagma contrattuale: non ci sono vizi nel momento genetico del contratto, la prestazione è possibile, non vi è inadempimento, il contratto non è divenuto più oneroso.
Dunque, la parte che si rifiuti di dare esecuzione al contratto risponde a titolo di responsabilità contrattuale, non sembrando valide soluzioni di discutibile tenuta teorica, come quella che, partendo da una concezione della causa del contratto non solo concreta (come attualmente ritenuta dalla giurisprudenza dominante) ma addirittura dinamica e quindi mutevole nel tempo, giunga a predicare la sopravvenuta nullità del contratto per difetto non genetico della causa.
Non a caso, si segnala qualche pronuncia (Trib. Pordenone, 8 luglio 2020, riportata da www.dejure.it) che, osservato come nessuna norma connessa all’emergenza conseguente alla pandemia da Covid-9 lo abbia previsto, ha ritenuto ingiustificata la pretesa dell’affittuario di una azienda o del conduttore di un immobile di sospendere o rifiutare il pagamento del canone nell’ipotesi in cui l’attività esercitata sia risultata interdetta dai provvedimenti emergenziali.
Però, sia nel caso di prestazione pericolosa, sia nel caso di prestazione inutile, le parti potrebbero porre rimedio alla crisi contrattuale attraverso la rinegoziazione del contratto, che porti a un nuovo punto di equilibrio tra gli interessi delle parti, tale da salvaguardare il vincolo negoziale, sia pure a rinnovate condizioni.
E la rinegoziazione è la chiave anche per affrontare, sul fronte del debitore di una prestazione pecuniaria, il problema dell’impotenza finanziaria determinata dal contesto della pandemia (in questi termini anche la Relazione dell’8 luglio 2020 redatta sulla tematica dall’Ufficio Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione, reperibile su cortedicassazione.it).
È noto, infatti, come alle obbligazioni pecuniarie si applichi il principio per cui genus numquam perit: è sempre possibile, in astratto, procurarsi del denaro, eventualmente vendendo i propri beni, cosicché l’obbligazione di pagare una somma di denaro non potrà mai divenire oggettivamente impossibile. E, a cascata, l’inadempimento non potrà derivare a causa non imputabile, cosicché il debitore sarà sempre civilmente responsabile ai sensi dell’art. 1218.
Tuttavia, la crisi derivante dalla pandemia tornerà rilevante allorché, ai sensi dell’art. 1455 c.c., si debba valutare l’importanza dell’inadempimento nell’equilibrio contrattuale onde valutare se l’alterazione del sinallagma contrattuale derivatone sia sufficientemente significativo da giustificare la risoluzione del contratto. Valutazione che andrà operata anche tenuto conto di quanto disposto con l’art. 3, comma 6-bis d.l. n. 6 del 2020, sopra illustrato.
In quest’ottica si possono allora comprendere quelle pronunce, sia pure sommarie, con cui diversi Tribunali, nel contesto di procedimenti per convalida di sfratto, hanno rifiutato di emettere ordinanza di rilascio ai sensi dell’art. 665 c.p.c., ritenendo quindi non prive di fumus boni iuris le eccezioni opposte dal conduttore inadempiente e fondate sull’impotenza contrattuale causata dal contesto pandemico (Trib. Napoli, ord. 15 luglio 2020, reperibile su www.dejure.it; Trib. Catania, ord. 30 luglio 2020, reperibile su www.altalex.it; Tribunale Roma, ord. 28 agosto 2020, reperibile in pa.leggiditalia.it; Trib. Palermo, ord. 25 settembre 2020, reperibile su iusletter.com).
Venendo al tema, più volte accennato della rinegoziazione, non si pone alcun problema nel caso in cui le parti, nell’esercizio della loro autonomia privata, raggiungono spontaneamente un accordo che modifichi la precedente regolamentazione negoziale, raggiungendo un nuovo punto di equilibrio tra interessi contrapposti.
I veri interrogativi sorgono quando una delle parti si rifiuti di entrare in trattativa per ridefinire le condizioni contrattuali. Si può ritenere che vi sia un obbligo giuridico alla rinegoziazione?
La risposta deve essere affermativa, giacché un tale obbligo si radica nel dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. e trova un sicuro fondamento legislativo nell’obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede, di cui all’art. 1375 c.c. (si veda TRIMARCHI, Le “Locazioni commerciali”, il Covid-19 e gli equilibri contrattuali dei rapporti di durata, in Notariato, 2020, 235 ).
Peraltro, va notato che l’ordinamento civile mostra favore verso la conservazione del contratto (o delle sue clausolesquilibrato mediante la sua riconduzione a equità: si pensi alla riduzione della penale eccessiva (art. 1384 c.c.), alla rettifica del contratto annullabile per errore essenziale (art. 1432 c.c.), alla modificazione del contratto rescindibile (art. 1450), alla possibilità di evitare la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta modificando equamente le condizioni del contratto (art. 1467 c.c.).
Ed in effetti, lo stesso legislatore ha mostrato di favorire una soluzione negoziale, prevedendo una (invero problematica) ipotesi di mediazione obbligatoria nelle controversie in materia di obbligazioni contrattuali, nelle quali rilevi un inadempimento che, ai sensi dell’art. 3, comma 6-bis d.l. n. 6 del 2020, debba essere valutato tenendo conto della necessità di rispetto delle misure di contenimento (la previsione è contenuta nel successivo comma 6-ter, introdotto dall’art. 3, comma 1-quater d.l. 30 aprile 2020, n. 28, conv. con mod. con l. 25 giugno 2020, n. 70).
Dal canto suo, la giurisprudenza (cfr. Tribunale di Roma, ord. 27 agosto 2020, reperibile su www.dejure.iti) ha affermato che la crisi economica derivata dalla pandemia da Covid-19 e la conseguente chiusura forzata delle attività commerciali, in particolar modo quelle legate al settore della ristorazione, devono qualificarsi quale sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che impone, in base alla clausola generale di buona fede e correttezza, un obbligo delle parti di contrattare al fine di addivenire a un nuovo accordo volto a riportare in equilibrio il contratto entro i limiti dell'alea normale.
Appurata l’esistenza dell’obbligo di entrare in trattativa, il passo successivo è verificare se vi sia anche l’obbligo di raggiungere un accordo di rinegoziazione. A questa seconda domanda sembra doversi rispondere negativamente: il rispetto dell’autonomia privata riconosciuta dall’ordinamento comporta che spetti alle parti raggiungere un incontro tra i rispettivi antitetici interessi. La conseguenza è che il mancato raggiungimento di un accordo di rinegoziazione non comporta di per sé la violazione dei doveri di solidarietà sociale e della buona fede contrattuale. Al contrario, potranno essere qualificate come illecito contrattuale solo condotte quali la simulazione dell’intento negoziale, l’irragionevole rifiuto di valide proposte di controparte, il ritiro ingiustificato dalle trattative.
Rimane, in fine, la questione, non secondaria, dei rimedi esperibili in caso di mancata rinegoziazione. Si è ipotizzato che il giudice possa essere chiamato, mediante l’azione di cui all’art. 2932 c.c., a individuare con sentenza i nuovi contenuti del contratto (in questo senso si sbilancia la già citata Relazione dell’Ufficio Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione). La soluzione, però, lascia forti perplessità ricostruttive (su cui, v. BRIGUGLIO, Novità sostanziali del diritto “emergenziale” anti-Covid. Contro il paternalismo giudiziario a spese della autonomia dei privati, in giustiziacivile.com, che in realtà critica più in generale l’idea che esista un obbligo di rinegoziazione; dubita anche BENATTI, Contratto e Covid-19: possibili scenari, in Banca Borsa e Titoli di credito, 2020, 198 ss.), visto che renderebbe il giudice dominus della regolamentazione contrattuale, mentre l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto è di regola ammessa quando il contratto da stipulare sia definito nei suoi contenuti essenziali da un contratto preliminare, salvi lievi interventi ortopedici ammessi per esempio nel caso di preliminare di vendita su pianta in cui il promittente venditore abbia realizzato un immobile diverso da quello in progetto.
Meno dubbi ci sono, invece, nell’affermare che la violazione dell’obbligo di entrare seriamente in trattativa ai fini della rinegoziazione, così come il rifiuto ingiustificato di proposte ragionevoli di modifica contrattuale, configurino inadempimento di un’obbligazione sorta ai sensi dell’art. 1375 c.c.
La conseguenza è che la parte non inadempiente potrà azionare la tutela risarcitoria ai sensi dell’art. 1218 c.c.; inoltre, evocata in giudizio con l’azione di adempimento o quella di risoluzione per inadempimento potrà paralizzare l’avversa azione con l’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c.; infine, potrà eventualmente agire essa stessa per ottenere la risoluzione del contratto per inadempimento.