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La "riforma Palamara”?

dalla Redazione • 27 dicembre 2020

La nuova riforma ordinamentale della magistratura voluta dal Governo nasce, come spesso accade in Italia, da uno scandalo che ha scosso dalle fondamenta il sistema su cui ha l’ambizione di incidere.

L’affaire Palamara - il caso del Giudice rimosso dalla magistratura ordinaria perché accusato di avere tramato e cercato di influenzare le decisioni del CSM in materia di nomine -, è tuttavia più semplice e più complicato da capire di quanto possa apparire dall’esterno.

E’ più semplice da comprendere, se soltanto si pensa agli effetti prodotti nel tempo dalla “riforma Castelli” del 2005, una riforma che ha eliminato la rilevanza dell’anzianità di servizio come criterio di valutazione per l’accesso alla dirigenza giudiziaria, parzialmente gerarchizzato le Procure e di fatto indebolito il sistema del “potere diffuso” del Giudice immaginato dalla Costituzione.

E’ più arduo da identificare, se si fa riferimento alla complessità dell’indole umana e alla necessità per il magistrato di tenere una condotta che è di gran lunga superiore allo standard morale medio, specie in un Paese come il nostro, che, secondo il report di Transparency International dell’anno 2019, è al 51esimo posto nel mondo per “indice di percezione della corruzione”, a pari merito con il Ruanda.

Colpisce dall’affaire Palamara, al di là della pesante sanzione a lui inflitta (rimozione dalla Magistratura), e per quanto incidentalmente accertato dalla Sezione Disciplinare del CSM (con decisione ritenuta legittima in fase cautelare dalla Corte di Cassazione a Sezioni unite), la naturalezza con cui si era instaurata, all’interno di un ordine istituzionale che dovrebbe fare del rigore morale e della riservatezza una bandiera e uno stile di vita, una condotta volta a discutere e pianificare con altri colleghi “strategie di valorizzazione o discredito dei profili professionali dei candidati” al conferimento di Uffici direttivi.

L’illecito che la Sezione disciplinare del CSM ha ritenuto accertato, in via principale, è quello previsto dall'art. 2, comma 1, lett. d) del d.lgs. n. 109 del 2006, secondo cui sono disciplinarmente rilevanti "i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell'ambito dell'ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori".

Sull’interpretazione di tale norma si contrappongono due orientamenti.

Secondo il primo, sposato anche dalla difesa dell’incolpato, la fattispecie tipica di questo illecito dovrebbe avere ad oggetto soltanto "il reale esercizio della giurisdizione", così escludendosi tutti quei comportamenti non collegati strettamente ai rapporti attinenti all'esercizio di funzioni giudiziarie, ivi comprese le relazioni di tipo personale che intercorrono con soggetti che tali relazioni hanno intessuto con il magistrato, per il ruolo che questi svolge.

Secondo il secondo orientamento, avallato nel caso di specie dalla Corte di Cassazione, la previsione che dà rilievo come illecito disciplinare ai "comportamenti abitualmente e gravemente scorretti", anche quando tenuti nei confronti di "altri magistrati", deve invece essere interpretata nel senso che tali comportamenti non debbono necessariamente essere frutto dell'esercizio delle funzioni attribuite al magistrato, ma possono riferirsi anche ai rapporti personali tra colleghi all'interno dell'ufficio, atteso che la formulazione normativa appare prescindere del tutto dalla "funzionalità" della scorrettezza.

In altri termini, secondo tale interpretazione, l'esercizio delle funzioni giudiziarie deve intendersi come concetto “dinamico”, in quanto connesso allo status di magistrato, e l'obbligo, imposto dall'art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006 al singolo magistrato, di esercitare le funzioni attribuitegli, tra l'altro, con correttezza, va osservato non solo nel concreto esercizio della giurisdizione, al quale specificamente si dirige il precetto posto nella prima parte della norma, ma anche, come depone l'utilizzo della congiunzione disgiuntiva "ovvero", nei rapporti che si instaurano con altri magistrati (o collaboratori) in ragione della funzione che il magistrato incolpato svolge e della carica pubblica dallo stesso rivestita.

Del resto, la Corte Costituzionale ha da tempo chiarito che le specifiche prerogative assicurate ai magistrati dagli artt. 101 e seguenti della Costituzione comportano l'imposizione di speciali doveri, che vanno rispettati non solo con riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento, al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza e imparzialità.

Di conseguenza, non dovrebbero mai essere considerate mero esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, costituendo invece violazioni dei doveri di correttezza ed equilibrio propri del magistrato, condotte volte a screditare o valorizzare colleghi, “anche al fine” di tentare di interferire con l'attività del Consiglio superiore della Magistratura.

La tesi della Cassazione pare oltremodo condivisibile.

In particolare, non è pensabile che un magistrato possa operare da politico “puro” per indirizzare, tramite conoscenze e intrecci personali, le nomine o l’attività dell’organo di autogoverno nel senso da lui voluto, anche se per assurdo il fine di tali condotte non sia illecito o volto ad ottenere un personale tornaconto; capita molto spesso, infatti, che l’interessato sia spinto anche solo da motivi di mera gestione e conservazione del potere.

Questo punto è peraltro fondamentale, perché è posto ad un incrocio ideale tra livello di condotta che si può pretendere da un magistrato e modalità di rappresentanza delle toghe nel CSM.

Come si fa a impedire in modo oggettivo e preventivo a un magistrato in servizio e ben integrato nel sistema delle “correnti”, il cui alto livello di correttezza individuale esigibile sia nel frattempo scemato, di incidere sul corretto funzionamento dell’organo di autogoverno?

Il disegno di legge recante delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario – allo stato in discussione presso la competente Commissione parlamentare – non ha intrapreso la strada più coraggiosa e forse risolutiva per spezzare a monte il legame tra rapporti impropri di colleganza (non improntati cioè a correttezza) e influenza delle “correnti” associative sulle nomine: l’individuazione dei componenti togati del CSM mediante sorteggio “selettivo”.

Una decisione di tal fatta avrebbe il sostanziale effetto di sterilizzare la gestione della politica associativa come costruzione di un ponte per gestire potere anche all’interno dell’organo di autogoverno.

Qualsiasi magistrato, in possesso di una specifica anzianità e di un determinato bagaglio di esperienze professionali, potrebbe essere nominato al Consiglio Superiore della Magistratura.

Nessuna campagna elettorale, nessuna azione di proselitismo interno, nessun favore da dovere ricambiare, nessuna gestione del potere.

La strada intrapresa dal Governo è stata però un’altra, e cioè quella di stabilire paletti rigidi per la scelta dei futuri capi degli Uffici giudiziari.

Sotto un primo profilo, le funzioni direttive e semidirettive devono essere conferite, nel disegno immaginato dal Governo, ad esito di un vero e proprio procedimento amministrativo avviato e istruito secondo l’ordine temporale con cui i posti si sono resi vacanti, previa audizione dei candidati, dei rappresentanti dell’avvocatura, dei magistrati e dirigenti amministrativi assegnati all’ufficio giudiziario di provenienza dei candidati.

Sotto un secondo versante, si spinge verso l’acquisizione di una maggiore “esperienza” e “capacità” da parte dei futuri Presidenti e Procuratori, con riferimento alle valutazioni di professionalità richieste, ai requisiti attitudinali individuati, e al conseguimento di un’idoneità ad esito di specifici corsi tenuti presso la Scuola superiore della magistratura.

Più trasparenza e valorizzazione del merito, si legge. Ma, per farlo, si limita la platea degli aspiranti alle funzioni direttive e si ingolfa in modo forse eccessivo la procedura di nomina, sfiorando soltanto il sistema di condizionamento delle “correnti” sulle nomine.

Per converso, il Governo ritorna ad auspicare l’accesso in magistratura di menti giovani e fresche di studi, prescrivendo la riduzione dei tempi per l’accesso in magistratura dei laureati in giurisprudenza, come ai tempi dei giudici “ragazzini”, per usare un’infelice espressione dell’ex Presidente della Repubblica Cossiga.

Corsi e ricorsi storici.

Ma ha senso cambiare soltanto per cambiare, se poi non cambia nulla per davvero?

Si potrebbe rispondere al quesito ricordando che in Italia ci sono tre tipi di riforma: quelle che partono da un problema serio e cercano di risolverlo; quelle che partono da un interesse di parte e cercano di realizzarlo; quelle che partono da uno scandalo e mirano a trasformarlo in un fattore di consenso politico.

Ciascuno è libero di collocare la nuova “riforma ordinamentale della magistratura” dove meglio crede.

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