(Scritto tratto dalla Relazione tenuta dal cons. Fenicia nel convegno dell’11-13 novembre 2024, tenutosi a Palazzo Spada e organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura e dall’Ufficio Studi della Giustizia amministrativa sul tema: “Il diritto dell’ambiente nella prospettiva della tutela amministrativa e penale”)
Premessa
Nel Codice dell’ambiente (d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152), nel Titolo V della Parte quarta, troviamo la disciplina del procedimento volto alla bonifica e al ripristino del sito inquinato che è in particolare delineato agli artt. 239-253.
Nella parte sesta del Codice troviamo invece la disciplina della tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente e in particolare la disciplina dell’azione risarcitoria proponibile dal Ministro dell’ambiente dinanzi al G.O. di cui all’art. 311, dove è previsto che il risarcimento del danno ambientale debba avvenire in forma specifica, e solo “se necessario”, e dunque in via residuale, per equivalente pecuniario.
Sempre nella parte sesta vi è un’altra serie di norme (artt. 304 e ss. e artt. 312 e ss.) che disciplinano un altro procedimento funzionale alla tutela ambientale e all'adozione di misure di prevenzione e di riparazione e ripristino in caso di danno ambientale, incardinato sul potere di ordinanza-ingiunzione cui il Ministro dell'ambiente può fare ricorso per ingiungere le misure di prevenzione e il ripristino ambientale o, in mancanza, il pagamento di una somma pari ai costi del ripristino, con conseguente assorbimento anche del giudizio risarcitorio che, per suo effetto, diviene improponibile ed improcedibile (art. 315 d.lgs. n. 152/2006). Si tratta in quest’ultimo caso di misure di riparazione in forma specifica del danno ambientale (artt. 305 ss. d.lgs. n. 152/2006), eventualmente precedute da misure di prevenzione e di messa in sicurezza d'urgenza che, in caso di mancata, impossibile o oltremodo difficoltosa individuazione del soggetto responsabile, devono essere attuate d'ufficio dalla pubblica amministrazione competente. L’ordinanza-ingiunzione ministeriale è impugnabile dinanzi al TAR in sede di giurisdizione esclusiva (art. 316).
Bonifiche, risarcimento del danno e ordinanze ministeriali compongono una disciplina complessa alla cui applicazione sono chiamate tre giurisdizioni: civile, penale e amministrativa.
Ciò comporta l’adozione di approcci diversi alla normativa con divergenze applicative dovute anche all’applicazione di standard probatori diversi relativamente all’accertamento della responsabilità e quindi dell’elemento soggettivo e del nesso di causalità: si pensi alla regola del più probabile che non nel civile e nell’amministrativo, laddove nel penale vige la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, con le conseguenti criticità che possono sorgere laddove la sanzione penale scatta per l’inadempimento ad un ordine amministrativo invece impartito sulla base di semplici presunzioni.
In questa sede ci si soffermerà sull’analisi del rapporto fra le due parti del Codice: titolo quinto della parte quarta e parte sesta, parti che affondano le loro radici in testi legislativi preesistenti al Codice: il danno ambientale nella legge n. 349 del 1986 e le bonifiche nel d.lgs. n. 22 del 1997; infatti, quando il legislatore italiano è stato chiamato a recepire la direttiva 2004/35/CE sul risarcimento del danno all’ambiente, egli anziché far confluire le due discipline, quella generale sul danno ambientale e quella speciale sulle bonifiche, in un’unica parte, le ha invece mantenute separate creando un affastellamento di norme e una notevole farraginosità nella lettura e nell’applicazione del Codice.
Norma di raccordo fra le due parti del Codice è l’art. 298 bis (Principi generali) posto alla fine della parte quinta, che prevede che i principi della parte sesta si applicano alle bonifiche. Si delinea quindi un rapporto di genere a specie tra le norme generali sulla tutela risarcitorio-ripristinatoria della parte sesta e le norme speciali e settoriali sulla bonifica.
Ma sarebbe stato più logico disciplinare tutta la materia del ripristino ambientale nella parte sesta, perché così invece la disciplina presenta delle sovrapposizioni e delle incongruenze; ad esempio, le definizioni si ripetono nella parte sesta, i termini di prescrizione (30 anni dall’evento di cui all’art. 303) e decadenza (due anni dalla notizia del fatto, art. 313) sono presenti nella parte sesta ma non nella parte IV dove l’obbligo di bonifica di fatto è imprescrittibile; ancora, la disciplina dell’elemento soggettivo è contenuta nell’art. 311, mentre nella parte IV si parla solo di soggetto responsabile, tranne che alla fine della parte quinta, all’art. 298 bis citato, dove si distingue fra responsabilità soggettiva e responsabilità oggettiva.
Ulteriori problemi applicativi crea la disciplina sui rifiuti (art. 192 – Divieto di abbandono) perché l’art. 239, aprendo il titolo V sulla bonifica, esclude l’applicazione della disciplina ivi prevista all’ipotesi di abbandono di rifiuti. Dunque, le regole sull’imputazione della responsabilità per la rimozione dei rifiuti non si sa dove andarle a cercare (nel 192 è responsabile chi viola il divieto di deposito di rifiuti, ma se l’autore della condotta ha agito in buona fede non essendo consapevole del fatto che il materiale che ha depositato è qualificabile come rifiuto perché non è stato regolare il passaggio da rifiuto a materiale utilizzabile ad es. per l’edilizia, risponde o meno?); solo se inserisco l’ordine di rimozione di rifiuti nella categoria generale del ripristino ambientale posso applicare la dicotomia resp. soggettiva/responsabilità oggettiva per attività pericolose, di cui all’art. 298 bis.
Inoltre, nel caso dell’obbligo di rimozione dei rifiuti il proprietario incolpevole non risponde nei limiti del valore del fondo come nelle bonifiche.
Anzi, in caso di abbandono di rifiuti in area privata, se i responsabili dell’abbandono sono ignoti e non vi è il concorso del proprietario, il Comune non è tenuto ad adottare nessun intervento sostitutivo: i rifiuti rimangono lì finché non si accerti il superamento dei valori di attenzione e allora si dovrà procedere alla caratterizzazione dell’area e all’eventuale bonifica.
Ciò detto, scopo del presente scritto è quello di delineare gli spazi applicativi di ciascuna forma di tutela al fine di verificare l’esistenza di possibili interferenze fra le stesse.
Breve analisi della disciplina sulle bonifiche
La bonifica, quale misura di ripristino delle matrici ambientali contaminate, si pone in termini di specialità e di priorità rispetto al risarcimento di cui all’art. 311, che dalla prima deve necessariamente essere preceduto, assumendo così il risarcimento un carattere soltanto residuale.
Essa ha natura riparatoria e ripristinatoria in relazione ad un evento ancora attuale di inquinamento, ma non ha finalità sanzionatoria.
La dimostrazione del nesso di causalità tra la contaminazione e la condotta si fonda sul criterio del “più probabile che non”, e le disposizioni legislative dettate dal d.lgs. 152/2006 in tema di bonifiche si applicano anche a fatti avvenuti prima dell’entrata in vigore dello stesso (art. 242, comma 11). “La bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione nel regime previgente alla riforma del diritto societario. Anche per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangono al momento dell’adozione del provvedimento.” (Cons. Stato, Ad. Plen., 22 ottobre 2019 n. 10).
Altro elemento fondamentale è l’inconfigurabilità dei doveri di bonifica in capo al proprietario non colpevole della contaminazione a differenza dei doveri di assunzione di misure di prevenzione gravanti anche in capo a quest’ultimo (v. Cassazione civile, sez. un. 1° febbraio 2023, n. 3077). Chi però acquista un bene conoscendone la situazione di dissesto ambientale non può essere qualificato come proprietario incolpevole, secondo Cons. Stato n. 4298/2024.
Lo scopo della bonifica è l’eliminazione dei rischi inaccettabili per l’uomo.
Le misure sono: misure di prevenzione, di messa in sicurezza d’emergenza, di messa in sicurezza operativa e di bonifica vera e propria.
L’obbligo di bonifica è in capo al responsabile dell’inquinamento che le autorità amministrative hanno l’onere di individuare e ricercare mentre il proprietario dell’area non responsabile dell’inquinamento o altri soggetti interessati hanno solo la facoltà di effettuare interventi di bonifica (art. 245). Nel caso di mancata individuazione del responsabile o di assenza di interventi volontari, le opere di bonifica sono realizzate dalle amministrazioni competenti (art. 250) che, a fronte delle spese sostenute, si vedono riconosciuto un privilegio speciale immobiliare sul fondo (art. 253). La spesa delle bonifiche non ricade quindi sulla collettività perché l’amministrazione si rivale sul proprietario incolpevole nei limiti del valore del fondo una volta bonificato. E ciò secondo un vincolo sulla proprietà oggi coerente con l’emersione costituzionale dell’ambiente come valore tutelato e limite di svolgimento e indirizzo dell’iniziativa economica privata (artt. 9 e 41 Cost.).
L’art. 242 del Codice delinea le coordinate procedimentali e operative del sistema: in caso di “evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito”, il responsabile deve adottare — nel termine di ventiquattro ore — “le necessarie misure di prevenzione” e deve darne puntuale comunicazione all’amministrazione.
Si richiede un’analisi preliminare tesa ad accertare il ricorrere del superamento dei valori, uniformi su base nazionale, indicati per ciascuna delle possibili sostanze inquinanti dagli allegati al Codice e definiti concentrazione soglia di contaminazione (c.s.c.). Le concentrazioni soglia di contaminazione (c.s.c.) sono distinte per i suoli in due colonne dell’allegato V alla Parte Quarta del codice: nella colonna A sono indicati i valori per le aree destinate ad uso residenziale e verde pubblico; nella colonna B sono previsti i valori per le aree a destinazione commerciale/produttiva. In caso di mancato superamento, la procedura si conclude dopo l’attuazione d’interventi di riqualificazione ambientale paesaggistica.
Viceversa, in caso di superamento di una o più c.s.c., il privato deve informare il Comune, la Provincia e la Regione e indicare quali misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza siano state adottate.
Si parla in tal caso di sito potenzialmente contaminato e la Regione, nei successivi trenta giorni, indice una conferenza dei servizi preordinata all’autorizzazione del piano di caratterizzazione del sito.
Segue l’analisi del rischio sito-specifica (fase di contestualizzazione dei valori tabellari), volta alla determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (c.s.r.) riferite al sito in questione: sulla base delle indagini, concentrate sulla natura e l’entità del rischio connesso alla presenza di inquinanti, vengono individuati ulteriori limiti (sito-specifici) che costituiscono allo stesso tempo il presupposto e l’obiettivo degli interventi di bonifica (in quanto livelli di contaminazione residui accettabili).
La successiva attività di analisi di rischio potrà determinare, in caso di esito negativo, l’esaurimento della procedura (con eventuale prescrizione, anche in questo caso, di un monitoraggio). Per contro, in caso di effettivo superamento di una o più c.s.r., il soggetto responsabile sarà tenuto a presentare, nei sei mesi dall’approvazione del documento di analisi del rischio, il progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza (operativa o permanente). La messa in sicurezza operativa trova applicazione in caso di siti con impianti ancora in esercizio, ha la finalità precipua di consentire la prosecuzione nel lungo termine delle attività industriali e si sostanzia in interventi transitori di contenimento della contaminazione nelle more di iniziative più radicali, attuabili solo a fine esercizio. La messa in sicurezza permanente trova invece applicazione in casi di impossibilità di fatto o di eccessiva onerosità dell’intervento di bonifica e deve garantire l’isolamento definitivo delle fonti inquinanti dalle matrici circostanti.
Dunque, in tale sequenza assumono una centralità i limiti tabellari c.s.c. (che misurano in milligrammi per chilo la contaminazione del suolo e in micron per litro la contaminazione delle acque sotterranee): il rilevamento di valori superiori alle c.s.c. (uguali su tutto il territorio nazionale) costituisce solo un fattore di ‘allarme’ e postula unicamente l’obbligatorietà di una analisi (“analisi di rischio sanitario e ambientale sito specifica”) non limitata al mero riscontro di valori tabellari ma articolata in valutazioni di rischiosità concreta sito-specifica, sulla scorta di giudizi riferiti cioè al particolare contesto, insediativo e ambientale. Segue una successiva fase di contestualizzazione dell’inquinamento volta ad accertare la rischiosità concreta dell’inquinamento per la salute umana.
Elemento soggettivo - chi è il responsabile dell’inquinamento?
Come detto, la normativa in materia di bonifiche è strettamente collegata con quella in tema di danno ambientale che il d. lgs. 152/2006 tratta separatamente nella Parte VI.
Gli articoli 242 e 244 del D.lgs. n. 152 del 2006 individuano nel “responsabile” della contaminazione il soggetto nei cui confronti è possibile disporre l’obbligo di bonifica, senza indicare quale sia il titolo di imputazione, di carattere soggettivo o oggettivo della responsabilità a cui si riferiscono le norme.
Sul punto va infatti osservato che le operazioni materiali necessarie per la bonifica di un sito inquinato coincidono con gli interventi necessari al risarcimento in forma specifica del danno ambientale (anche se non li esauriscono nell’ipotesi in cui all’esito della bonifica permanga un danno. Infatti l’avvio delle attività di bonifica era prevista espressamente dall’art. 303, comma 1, lett. i, del D.lgs. n. 152 del 2016, come causa di esonero dalla responsabilità risarcitoria. Tale norma è stata abrogata per adeguarsi alla procedura di infrazione 2007/4679, con cui la Commissione europea ha contestato, tra l’altro, che l’art. 4 della direttiva non considera la bonifica come fattispecie in grado di dispensare in via generale dagli obblighi di riparazione).
È pertanto evidente che i presupposti soggettivi che giustificano l’obbligo di bonifica debbano coincidere con i presupposti soggettivi che giustificano l’obbligo di risarcimento in forma specifica, tenuto conto della tendenziale sovrapponibilità degli interventi di ripristino ambientale necessari ad ottenere il raggiungimento degli obiettivi della bonifica e del risarcimento in forma specifica.
La Direttiva 2004/35/CE “sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale”:
- all’art. 3, paragrafo 1, lett. a), prevede, per il danno ambientale causato dalle attività pericolose elencate nell’allegato III - tra cui rientrano le operazioni di gestione di rifiuti e le attività di gestione dei siti di discarica - una forma di responsabilità oggettiva;
- all’art. 3, paragrafo 1, lett. b), prevede, per il danno ambientale causato da attività diverse da quelle pericolose dell’allegato III, che l’autore risponda solamente in caso di comportamento doloso o colposo.
L’art. 8 della direttiva prevede inoltre che la responsabilità oggettiva per il danno ambientale causato dalle attività pericolose, non abbia carattere assoluto.
L’art. 8 al paragrafo 3 prevede infatti che l’interessato, con un’inversione dell’onere della prova, possa provare l’esistenza di circostanze idonee ad escludere il nesso causale (il fatto del terzo) o che assumano valenza scriminante (l’ordine dell’autorità), e al paragrafo 4 consente agli Stati membri di prevedere delle forme di esonero dalla responsabilità se l’interessato, anche in questo caso con un’inversione dell’onere della prova, sia in grado di dimostrare che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo e il danno ambientale è stato causato in base ad un’autorizzazione legittima dell’autorità, o a seguito dell’impiego di un prodotto che al momento in cui è stato utilizzato non era considerato probabile causa di pregiudizi per l’ambiente.
Il legislatore nazionale nel recepire la direttiva comunitaria inizialmente aveva previsto un criterio di imputazione di tipo soggettivo anche per le attività pericolose ai sensi dell’allegato III della direttiva.
Infatti il testo originario dell’art. 311 del D.lgs. n. 152 del 2006, prevedeva che “chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato all’effettivo ripristino a sue spese della precedente situazione”.
La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione 2007/4679 osservando che “alcune norme della Direttiva 2004/35/CE, in materia di danno ambientale, non sono state correttamente recepite dal Decreto Legislativo n. 152/06, che ha attuato la Direttiva in oggetto”. Il legislatore nazionale, per porre rimedio alla procedura di infrazione, ha quindi adeguato l’ordinamento nazionale a quello eurounitario con l’art. 25 della legge n. 97 del 2013, rubricato “Modifiche alla parte sesta del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente. Procedura di infrazione 2007/4679”, distinguendo il titolo di responsabilità di tipo oggettivo e soggettivo a seconda che il danno ambientale sia causato o meno da un’attività pericolosa.
È stato quindi introdotto l’art. 298 bis della parte sesta del D.lgs. n. 152 del 2006, il quale prevede che la responsabilità in materia di tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente, che normalmente deve avvenire in forma specifica, trovi applicazione:
“a) al danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate nell'allegato 5 alla stessa parte sesta e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività;
b) al danno ambientale causato da un’attività diversa da quelle elencate nell'allegato 5 alla stessa parte sesta e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività, in caso di comportamento doloso o colposo”.
Inoltre è stato modificato l’art. 311, comma 2, del D.lgs. n. 152 del 2006, prevedendo che “quando si verifica un danno ambientale cagionato dagli operatori le cui attività sono elencate nell'allegato 5 alla presente parte sesta, gli stessi sono obbligati all'adozione delle misure di riparazione di cui all'allegato 3 alla medesima parte sesta secondo i criteri ivi previsti, da effettuare entro il termine congruo di cui all'articolo 314, comma 2, del presente decreto. Ai medesimi obblighi è tenuto chiunque altro cagioni un danno ambientale con dolo o colpa”.
In questo modo è stato recepito nell’ordinamento il principio di derivazione eurounitaria della responsabilità oggettiva per le attività pericolose, che costituiscono un numerus clausus, di cui all’allegato 5 del D.lgs. n. 152 del 2006, che corrisponde all’allegato III della direttiva 2004/35/CE.
Va anche sottolineato che il legislatore nazionale nel dare attuazione alle disposizioni dell’art. 8 della direttiva, non ha configurato come assoluta tale responsabilità oggettiva per le attività pericolose, ma ha ammesso delle forme di esonero.
Infatti l’art. 308, comma 4, ha previsto che non sono a carico dell’operatore i costi di ripristino, qualora lo stesso, con un’inversione dell’onere della prova, possa “provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno:
a) è stato causato da un terzo e si è verificato nonostante l'esistenza di misure di sicurezza astrattamente idonee;
b) è conseguenza dell'osservanza di un ordine o istruzione obbligatori impartiti da una autorità pubblica, diversi da quelli impartiti a seguito di un'emissione o di un incidente imputabili all'operatore; in tal caso il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio adotta le misure necessarie per consentire all'operatore il recupero dei costi sostenuti”.
Al comma 5 del medesimo art. 308, il legislatore ha altresì previsto che non sono a carico dell’operatore i costi di ripristino, qualora lo stesso sia in grado di dimostrare, anche in questo caso con un’inversione dell’onere della prova, due distinti presupposti, ovvero “che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo e che l'intervento preventivo a tutela dell'ambiente è stato causato da:
a) un'emissione o un evento espressamente consentiti da un'autorizzazione conferita ai sensi delle vigenti disposizioni legislative e regolamentari recanti attuazione delle misure legislative adottate dalla Comunità europea di cui all'allegato 5 della parte sesta del presente decreto, applicabili alla data dell'emissione o dell'evento e in piena conformità alle condizioni ivi previste;
b) un'emissione o un'attività o qualsiasi altro modo di utilizzazione di un prodotto nel corso di un'attività che l'operatore dimostri non essere stati considerati probabile causa di danno ambientale secondo lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento del rilascio dell'emissione o dell'esecuzione dell'attività”.
Pertanto, laddove gli articoli 242 e 244 del D.lgs. n. 152 del 2006 individuano il soggetto obbligato alla bonifica dei siti contaminati nel “responsabile” dell’inquinamento, gli stessi devono essere integrati con i criteri di imputazione di derivazione comunitaria recepiti dalla parte sesta del D.lgs. n. 152 del 2006, i quali implicano la necessaria distinzione tra attività pericolose ed attività non pericolose. Stesso ragionamento andrebbe fatto in relazione all’art. 192 sull’ordine di rimozione di rifiuti.
Si può affermare quindi che:
- in caso di attività pericolose è sufficiente che l’Amministrazione accerti in termini oggettivi la responsabilità di un operatore nella contaminazione di un sito, provando l’evento della contaminazione e, secondo il principio del “più probabile che non”, l’esistenza di un nesso causale tra la condotta attiva o omissiva dell’operatore e l’inquinamento riscontrato, senza essere tenuta a dimostrare l’elemento soggettivo del dolo o della colpa;
- l’operatore, alla luce dell’inversione dell’onere della prova prevista dalla norma, può dimostrare, fornendone la prova rigorosa, che sussistono le circostanze ed i presupposti che elidono il nesso causale o le esimenti contemplate dall’art. 308, commi 4 e 5, del D.lgs. n. 152 del 2006;
- solo nel caso di attività non pericolose, e quindi non comprese tra quelle contemplate dall’allegato 5 alla parte sesta del D.lgs. n. 152 del 2006, l’Amministrazione, nell’individuare il responsabile dell’inquinamento destinatario dell’ordine di bonifica, deve provare non solo in termini oggettivi l’evento della contaminazione e, secondo il principio del “più probabile che non”, l’esistenza di un nesso causale tra la condotta attiva o omissiva dell’operatore e l’inquinamento riscontrato, ma anche l’elemento soggettivo del dolo o della colpa (v. T.A.R. Veneto, IV sez., n. 458 del 2024).
In particolare, le attività professionali intese dal legislatore come ex se pericolose per loro stessa natura sono ricondotte alle ipotesi di impianti soggetti ad autorizzazione integrata ambientale; alle operazioni di gestione dei rifiuti, compresi la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento di rifiuti e di rifiuti pericolosi, nonché la supervisione di tali operazioni e i controlli successivi sui siti di smaltimento soggetti ad autorizzazione o registrazione; di qualsiasi spedizione transfrontaliera di rifiuti all'interno dell'Unione europea; della gestione dei rifiuti di estrazione; della gestione dei siti di stoccaggio geologico di biossido di carbonio; degli scarichi nelle acque interne superficiali e nelle acque sotterranee soggetti ad autorizzazione preventiva o registrazione; di fabbricazione, uso, stoccaggio, trattamento, interramento, rilascio nell'ambiente e trasporto sul sito di sostanze pericolose; di trasporto per strada, ferrovia, navigazione interna, mare o aria di merci pericolose o di merci inquinanti; di traporto o di rilascio di organismi geneticamente modificati (Allegato V alla Parte VI d.lgs. n. 152/2006, cit.).
È evidente che tenendo conto del carattere impugnatorio dei giudizi promossi avverso i provvedimenti che ordinano la bonifica, la prova delle circostanze che elidono il nesso causale e delle esimenti, deve essere data dall’interessato in sede procedimentale.
Non trattandosi di un giudizio sul rapporto, come quello che si svolge innanzi al giudice ordinario sulla domanda di risarcimento, il giudice amministrativo può solamente verificare se la mancata considerazione di tali circostanze da parte dell’Amministrazione possa essere sintomatica di un vizio di difetto di presupposto o di difetto di istruttoria e di motivazione, ferma restando la possibilità di un’eventuale riedizione dell’attività amministrativa alla luce degli elementi inizialmente non considerati.
Solidarietà e concorso nel danno ambientale
Anche in tal caso la disciplina contenuta nella parte VI può valere anche per gli obblighi di bonifica: «nel caso di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale» con previsione della trasmissibilità del debito, secondo le leggi vigenti, agli eredi, nei limiti del loro effettivo arricchimento (art. 311, comma 3, d.lgs. n. 152/2006);
L'unicità dell'evento dannoso importa la necessità di comprendere se il medesimo risulti causalmente imputabile a più soggetti secondo un principio di responsabilità individuale e parziaria oppure se operi il più generale principio della responsabilità solidale di cui all'art. 2055 c.c., ai fini del quale assume rilievo la posizione del soggetto che subisce il danno, nel cui favore è stabilita la solidarietà, che nel caso di specie è individuato nello Stato, per il tramite del Ministro dell'ambiente, quale ente esponenziale di un interesse collettivo a carattere nazionale ed unitario.
Deve ritenersi che il principio della solidarietà sia applicabile nel caso in cui l'inquinamento possa essere ritenuto un unico fatto dannoso, mentre diversa è l'ipotesi in cui sia avvenuta una contaminazione a seguito di distinti eventi dannosi o pericolosi, che siano giuridicamente scindibili poiché riconducibili a differenti decorsi causali.
La disciplina posta dal danno ambientale pare doversi perciò leggere in un rapporto di genus a species rispetto alla disciplina generale in tema di solidarietà dei coobbligati, attesa la rilevanza della responsabilità parziaria posta in punto di danno ambientale (art. 311, comma 3 d.lgs. n. 152/2006), che pone l'obbligo di riparazione solo in misura corrispondente al contributo di ciascuno al verificarsi dell'inquinamento.
La speciale disciplina ora in esame mira ad evitare la responsabilità anche per fatti altrui, sicché opera nei casi di plurime condotte indipendenti e non anche in quelli di azioni od omissioni concorrenti in senso stretto alla concretizzazione di un'unitaria condotta di danneggiamento dell'ambiente, che restino tutte tra loro avvinte quali indispensabili antefatti causali di questa. Ne consegue che, in tale ultima ipotesi, non soffre limitazione la regola di cui all'art. 2055 c.c. in tema di responsabilità di ciascun coautore della condotta per l'intero evento causato.
Azione risarcitoria ex art. 311 del Codice proponibile dinanzi al G.O. - ambito applicativo differente rispetto a quello delle bonifiche
L’art. 300, al comma 1, definisce il danno ambientale come qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell'utilità assicurata da quest'ultima provocato, in confronto alle condizioni originarie, alle specie e agli habitat naturali protetti, alla flora e alla fauna selvatiche e alle acque interne e costiere. Volendo leggere la norma alla luce del nuovo art. 9 della Costituzione diremmo che la tutela riguarda la biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni.
L’art. 311 prefigura ora quale soluzione ordinaria il risarcimento in forma specifica mentre il risarcimento per equivalente costituisce la soluzione residuale.
Invero, solo per il caso in cui siano in tutto o in parte omesse, o, comunque, attuate in modo non completo o difforme dai termini prescritti le misure di riparazione, il Ministero dell'ambiente dovrà provvedere alla determinazione dei costi necessari per darvi completa e corretta attuazione e agire nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti.
Il danno ambientale è perciò una speciale categoria di danno, la cui disciplina, seppur fondata sugli istituti della responsabilità extracontrattuale da fatto illecito secondo il principio del neminem laedere (art. 2043 c.c:), prevede come modalità privilegiata dall’ordinamento il risarcimento in forma specifica (art. 2058 c.c.), inteso come ripristino del bene danneggiato, seppur con declinazioni differenti.
Si distingue tra ripristino in senso stretto (o riparazione primaria), che si riferisce alle condizioni e ai materiali originari e ripristino funzionale (o riparazione complementare); in tale caso i beni non tornano alle condizioni originarie e la riproduzione riguarda beni con caratteristiche diverse o in siti alternativi che siano in grado di assicurare la stessa funzionalità di quello danneggiato (es. la funzione idrogeologica di un bosco compromessa a seguito di disboscamento abusivo può essere ripristinata, senza riprodurre il bosco, attraverso manufatti alternativi come briglie o muri di sponda).
In ogni caso il ripristino deve consistere nella riqualificazione del sito e del suo ecosistema, mediante qualsiasi azione o combinazione di azioni, comprese le misure di attenuazione o provvisorie, dirette a riparare, risanare o, qualora sia ritenuto ammissibile dall'autorità competente, sostituire risorse naturali o servizi naturali danneggiati.
Tuttavia lo strumento stesso dell’azione giurisdizionale ha perso il proprio originario ruolo di vettore privilegiato dell’iniziativa ministeriale per fare spazio ad un modello di intervento provvedimentale che assume le forme dell’ordinanza emanabile a conclusione di un’istruttoria amministrativa tipizzata, sul cui sfondo sono sempre operative le garanzie assicurate agli interessati dalla l. 7 agosto 1990 n. 241.
Ordinanza impugnabile – anche da quei soggetti che non hanno più legittimazione ad agire per il risarcimento del danno ambientale, cioè soggetti portatori di un interesse alla tutela ambientale indicati dall'art. 309 fra cui gli enti territoriali e le associazioni ambientaliste - dinanzi al TAR del luogo in cui si è prodotto il danno ambientale in sede di giurisdizione esclusiva.
Il Ministro dunque può optare certamente per l'azione giudiziaria in sede civile o esercitare l'azione in sede penale mediante costituzione di parte civile (art. 311), e potrà, in alternativa alla via giudiziaria, utilizzare esclusivamente strumenti di diritto pubblico, adottando un apposito procedimento che si svolge in via amministrativa sino all'emanazione dell'ordinanza di ripristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica (art. 313, comma 1°). In quest'ultimo caso ci troveremo di fronte ad un provvedimento amministrativo esecutivo che ingiunge il ripristino ed è impugnabile solo davanti al giudice amministrativo in via di giurisdizione esclusiva (art. 133, comma 1°, c.p.a.).
L’art. 315 stabilisce che l’adozione dell’ordinanza preclude al Ministro di procedere in giudizio per il risarcimento del danno, fatta salva la residua possibilità di intervento in qualità di persona offesa dal reato nel processo penale.
La dottrina concorda nel ritenere la disciplina del decreto totalmente "sbilanciata" a favore del procedimento amministrativo e dello strumento di diritto pubblico rispetto all’azione giudiziaria in sede civile.
Inoltre lo spazio residuo per il risarcimento è eroso dalle bonifiche di cui alla parte IV che possono essere considerate alla stregua di un particolare metodo di ripristino idoneo a eliminare (o almeno ridurre significativamente) il danno differenziale residuo da risarcire ancora in forma specifica o per equivalente.
Criterio di riparto tra interventi previsti dalla disciplina sulle bonifiche da una parte e azione di risarcimento del danno e altre tutele previste dalla parte VI
Tale criterio può essere correlato alla tipologia delle matrici ambientali coinvolte: sulle matrici suolo, sottosuolo e acque sotterranee trova spazio la bonifica, mentre in relazione alle acque, agli habitat e in relazione alla biodiversità trova applicazione il diverso modello risarcitorio.
Ma è anche valida la dicotomia spazi antropizzati, dunque già compromessi dal punto di vista naturalistico vs. areali in condizione di naturalità, con applicazione del paradigma della bonifica circoscritto ai primi e applicabilità delle misure di prevenzione e risarcimento-ripristino ai secondi, anche ove l’inquinamento abbia ad oggetto il suolo o le acque sotterranee in contesto non antropizzato o antropizzabile. La bonifica è infatti da considerare la tecnica di intervento previlegiata dall’ordinamento per i contesti antropizzati, rispetto ai quali non sia preponderante il recupero delle condizioni di naturalità originarie.
La disciplina delle bonifiche è stata disegnata avendo presente il tema degli impatti al suolo delle attività industriali e di gestione dei rifiuti e imperniata sulla nozione di ‘sito’, mentre la disciplina del danno ambientale non sconta restrizioni spaziali predeterminate, e anzi assume quale orizzonte spaziale le unità ecosistemiche.
Altra differenza è nella finalità: le bonifiche hanno come obiettivo (limitato) la riconduzione dei valori degli inquinanti entro limiti (concentrazione soglia di rischio: c.s.r.) differenziati riferibili alle destinazioni urbanistiche del sito, mentre il danno ambientale si configura in ogni caso di significativo e misurabile deterioramento delle matrici ambientali (art. 300 codice) e il ripristino ambientale mira mediante la cd. riparazione primaria al pieno recupero qualitativo-funzionale delle matrici. Dunque da una parte si cerca la mera riconduzione dei fattori alteranti entro soglie ritenute prive di attitudine ad esporre a rischi concreti l’uomo in considerazione della conformazione insediativa (più che naturalistica) del sito, dall’altra la piena restitutio in integrum.
Il modello di stampo risarcitorio si prefigge la finalità di restituire l’ambiente alla condizione di purezza originaria, e di conseguenza si concentra sulle funzioni ecosistemiche e sulla biodiversità; il modello imperniato sulla bonifica ha ordinariamente ad oggetto siti che nel tempo hanno subito processi di più o meno spinta antropizzazione (siti produttivi, discariche, luoghi urbani, porti, etc.) e sono urbanisticamente destinati ad ulteriori usi antropici (produttivi, residenziali, etc.), con la conseguenza che gli obiettivi di risanamento possono limitarsi alla riconduzione dei fattori perturbativi al di sotto della soglia di concreta rischiosità per l’uomo negli spazi entro cui le comunità sono insediate (chiarissimo sul punto, Emanuele Boscolo, “Bonifiche e risarcimento del danno ambientale: Rapporti incerti entro la cornice della funzione di ripristino”; Rivista giuridica dell’Edilizia, n. 1-2021).
Altre differenze e altri punti di contatto
Il grado di tipizzazione delle operazioni, delle sequenze procedimentali e dei poteri amministrativi, per una esigenza di garanzia delle parti private coinvolte, è massimo nelle bonifiche, mentre le norme sul ripristino e sul risarcimento si presentano a fattispecie aperta.
Le competenze in materia di bonifiche sono distribuite tra i diversi livelli amministrativi mentre i procedimenti in tema di rispristino e risarcimento sono saldamente accentrati a livello ministeriale.
Infine, l’intervenuta abrogazione, a far data dal 2013, della lett. i) dell’art. 303 del d. lgs. 152 del 2006 – che escludeva l’applicazione della disciplina in tema di danno ambientale alle situazioni di inquinamento per le quali erano state iniziate le azioni di bonifica disciplinate dal Titolo V della Parte IV, così come a quelle per le quali le bonifiche erano terminate -, può voler significare la definitiva presa d’atto, da parte del legislatore, che danno ambientale e contaminazione del sito sono due nozioni distinte e che, soprattutto, la prima contiene la seconda senza esaurirsi in essa. L’effetto dell’abrogazione della lett. i) dell’art. 303 d. lgs.152/2006 è infatti che le procedure per la riparazione del danno ambientale potranno essere attivate anche rispetto a siti che, nonostante siano bonificati, presentino ancora delle criticità connesse a deterioramenti nell’ambiente che rendano necessarie attività di ripristino ambientale (v. Cons. Stato, IV sez., n. 1397/2023).
Ma nonostante queste differenze le due discipline si prestano ad una lettura unitaria e possono per alcuni aspetti (es. accertamento della responsabilità – elemento soggettivo – nesso di causalità fra danno e attività di singoli operatori, regola della responsabilità parziaria) essere integrate reciprocamente fra loro, essendo tese al ripristino ambientale ed essendo entrambe inquadrabili nell’alveo della responsabilità extracontrattuale. D’altro canto la bonifica ha una funzione di reintegrazione del bene giuridico propria delle responsabilità civile e riecheggia il rimedio della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 c.c.. Ad esempio, al fine di accertare la catena causale fra danni e attività di singoli operatori si può fare comunque ricorso ad alcuni elementi presuntivi, conferendo significatività alla vicinanza dell’attività dell’operatore all’area incisa ovvero alla corrispondenza fra le sostanze inquinanti rinvenute e quelle del processo produttivo anche con ricorso a presunzioni secondo il criterio del più probabile che non.
Tuttavia, occorre fare anche attenzione ad alcune differenze: in base all’art. 303, e a differenza della disciplina sulle bonifiche, la parte sesta del Codice non si applica alle contaminazioni storiche, cioè a quelle intervenute prima dell’entrata in vigore del Codice (mentre invece per la giurisprudenza amministrativa, v. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.10 del 2019, è pacifica la possibilità di configurare obblighi di bonifica a carico dei responsabili di contaminazioni storiche ove gli effetti dannosi dell'inquinamento permangano al momento dell'adozione del provvedimento); né al danno in relazione al quale siano trascorsi più di trent’anni dalla sua verificazione.
Inoltre la parte sesta (v. art. 303, lett. h) non si applica al danno causato da inquinamento di carattere diffuso per il quale non sia possibile risalire a singole responsabilità (invece per le bonifiche l’art. 250 prevede comunque un onere di attivazione d’ufficio da parte del Comune).
Rapporto con le azioni civili ex art. 313 comma 7 (azioni a tutela della proprietà o della salute).
Non ci dovrebbe essere invece pericolo d’interferenze fra l’azione ex art. 311 e le azioni intentate dai privati che si dicono lesi nella proprietà o nella salute a causa della situazione d’inquinamento, trattandosi di azioni poste a tutela d’interessi diversi.
Rileva in questo caso infatti la distinzione tra il danno all'ambiente in sé considerato (cfr. gli artt. 300, 311, cod. ambiente) e il danno ai singoli beni di proprietà pubblica o privata.
Nel primo caso si parla di "compromissione in sé del bene ambientale" che prescinde dal mero pregiudizio patrimoniale derivato ai singoli beni che ne fanno parte, perché il bene ambientale deve essere considerato per il valore di uso da parte della collettività, con la conseguenza che il risarcimento per la sua lesione non può che riguardare un ente esponenziale della collettività. Nel d.lgs. n. 152/2006, a differenza della precedente legislazione, vi è un accentramento della legittimazione a favore dello Stato, che diviene il solo legittimato a proporre l'azione risarcitoria. In tal senso l'art. 311, comma 1°, stabilisce che il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio agisce, anche esercitando l'azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, oppure procede ai sensi delle disposizioni della parte VI° del presente decreto.
Per quanto concerne il danno ai singoli beni o comunque a posizioni individuali, tale danno trova la sua tutela nelle regole ordinarie della responsabilità civile. Questa distinzione tra il danno collettivo (agli interessi collettivi) e il danno al privato portatore di diritti soggettivi costituzionalmente protetti (diritto alla salute o all'ambiente salubre) o ai beni in sua proprietà, è stato esplicitato, in conformità al contenuto della dir. 2004/35, all'art. 313, comma 7°, che prevede la possibilità per i soggetti singolarmente danneggiati nella loro salute o nel godimento dei loro beni da un fatto produttivo di danno ambientale di agire per il risarcimento del danno (cfr. art. 2043 cod. civ.) davanti al giudice ordinario nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi.
La dottrina ha precisato che con tale disposizione si è riconosciuto ai soggetti (persone fisiche, persone giuridiche, associazioni ambientaliste, enti territoriali) che lamentano un danno diverso ed ulteriore rispetto al danno ambientale, il diritto di promuovere dinanzi al giudice ordinario tutte le azioni dirette ad ottenere il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale derivante da illecito ambientale secondo gli artt. 2043 e 2059 cod. civ.. E sempre nel caso del danno da inquinamento ambientale, ciascun cittadino minacciato e anche gli enti territoriali diversi dallo Stato potranno avvalersi della tutela di urgenza ex artt. 700 cod. proc. civ. e 844 cod. civ. per conseguire provvedimenti di tipo inibitorio.
Qualora l’attività nociva sia svolta in conformità a provvedimenti autorizzativi della P.A., ciò non incide sul riparto di giurisdizione (atteso che ai predetti provvedimenti non può riconoscersi l'effetto di affievolire diritti fondamentali dei terzi) ma esclusivamente sui poteri del giudice ordinario, il quale, nell'ipotesi in cui l'attività lesiva derivi da un comportamento materiale non conforme ai provvedimenti amministrativi che ne rendono possibile l'esercizio, provvederà a sanzionare, inibendola o riportandola a conformità, l'attività rivelatasi nociva perché non conforme alla regolazione amministrativa, mentre, nell'ipotesi in cui risulti tale conformità, dovrà disapplicare la predetta regolazione ed imporre la cessazione o l'adeguamento dell'attività in modo da eliminarne le conseguenze dannose.
Non è neppure detto che le immissioni che rispettino formalmente i limiti massimi di tollerabilità stabiliti dalle leggi e dai regolamenti nell’interesse della collettività non siano comunque illecite, in quanto intollerabili rispetto alla proprietà del vicino più esposto rispetto agli altri alle immissioni; mentre è senz’altro illecito il superamento dei detti limiti.