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La tutela del minore maltrattato dagli educatori dell'asilo nido

dalla Redazione • 7 gennaio 2025

Tribunale di Milano, Sezione IX Penale, sentenza n. 800/23 – Corte di Appello di Milano, sentenza n. 5613 depositata il 21 novembre 2024


IL CASO E LE DECISIONI

Due educatrici in servizio presso un asilo nido comunale vengono accusate dalla Procura della Repubblica competente di avere maltrattato, sia singolarmente che in concorso tra di loro, i minori a loro affidati, mediante punizioni corporali e atti di mortificazioni reiterati.

In particolare, secondo la tesi accusatoria, avrebbero esposto i minori stessi – tutti bambini tra i due e i tre anni – a un ambiente di abituali vessazioni e violenza.

Il compendio probatorio connesso all’imputazione per il reato di cui all’art. 572 c.p. è costituito da una serie di intercettazioni ambientali svolte all’interno dell’asilo nido, dalle dichiarazioni testimoniali dei genitori degli scolari oltre che dalle consulenze psicologiche e dalle segnalazioni effettuate dal Comune interessato.

Tale compendio probatorio è stato considerato sia dal Giudice di primo grado che dal Giudice di appello come idoneo a dimostrare la tesi dell’accusa, in quanto attestante al di là di ogni ragionevole dubbio anche la commissione delle seguenti condotte, reiterate in un arco di tempo non irrilevante:

- afferrare i bambini per i capelli;

- percuotere i bambini da tergo sulle natiche;

- denigrare i bambini con espressioni sprezzanti;

- spingere con i piedi bambini a terra in lacrime;

- ordinare ad altri bambini di trascinare un piccolo compagno in lacrime.

Si tratta di atti ritenuti dai Giudici come indicativi di violenza ed espressione di prevaricazione fisica e psicologica, che hanno causato nei minori direttamente attinti dai maltrattamenti crisi di pianto, agitazione anche notturna e difficoltà nell’espletamento dei propri bisogni fisiologici, e nei minori non direttamente attinti dai maltrattamenti (tutti gli altri affidati alle educatrici del nido) un senso di diffusa prostrazione (cd. violenza assistita) per l’esposizione ad un ambiente di abituali vessazioni e violenze nei confronti dei compagni più piccoli, con reiterazione di condotte manesche, prevaricanti e denigranti, e reciproco avallo delle modalità di azione.

Parimenti, i Giudici che si sono espressi sulla vicenda hanno considerato priva di fondamento la tesi difensiva che, pur prendendo atto delle incontestabili condotte di abuso, ha tentato di escludere dalle stesse un intento vessatorio.

Si sarebbe trattato, in altri termini, a dire delle imputate, non di atti di violenza fisica e/o psicologica, ma a condotte, seppur deplorevoli, di eccessiva severità.

Tuttavia, Tribunale e Corte di appello hanno convenuto nel ritenere le modalità adottate dalle imputate al di fuori dai normali metodi educativi, e comunque idonee a ledere la sfera fisica e psichica dei minori, in relazione alla prova della ricorrenza di condotte di umiliazioni e schiaffi, da considerarsi abituali anche se "segmentate", ossia poste in essere di volta in volta ai danni di bambini diversi, in quanto è stato ritenuto che la scelta di attuare i castighi di fronte a tutti gli alunni abbia stimolato negli spettatori - ovvero nell'intera classe -, una visione educativa fondata sul principio della punizione, del controllo e dell'aggressività, che si è tradotta, in definitiva, e come anticipato, in una forma di violenza assistita. D’altra parte, i Giudici hanno ricordato che anche comportamenti che non si traducono in vere e proprie aggressioni fisiche sono tali da determinare un clima destabilizzante per il corretto sviluppo della personalità del minore e attentano gravemente alla sua autostima, arrivando dunque ad integrare la materialità del delitto di cui all'art. 572 c.p..

Né sarebbe valso a giustificare i metodi “duri” delle due imputate il clima difficile esistente in classe – che avrebbe esasperato le insegnanti portandole, nonostante la loro alta professionalità, ad una eccessiva severità – in quanto circostanze di tal genere, secondo i Giudici aditi, appaiono del tutto normali in una classe di bambini di tenera età e non possono distogliere l’educatore dalla missione di fornire ai bimbi quei principi educativi di cui dovrebbe essere portatore.

In conseguenza di tali considerazioni, il Tribunale di Milano – con sentenza poi confermata dalla Corte di Appello – ha condannato le due imputate alla pena di un anno e otto mesi di reclusione.


CONDOTTE DI MALTRATTAMENTI, ABITUALITA’ ED ELEMENTO SOGGETTIVO

L’art. 572 c.p., al comma 1, punisce con la reclusione da tre a sette anni chiunque maltratti, tra gli altri, anche “una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia”.

Rientrano senz’altro in questa fattispecie gli educatori  che prestano servizio negli asili nido, in quanto a costoro sono affidati minori in tenera età, spesso per un lungo arco temporale nel corso della giornata e dell’anno scolastico.

Dall’affidamento degli scolaretti nascono, a seguito di un contratto tra genitori e struttura che gestisce il “nido” (privata o pubblica è indifferente), sia l’obbligo di educazione, sia l’obbligo di cura, sia quello di vigilanza e custodia dei minori stessi.

D’altra parte, è facile che, nel caso di maltrattamenti operati da educatori addetti ad asilo nido, si applichi a tali condotte anche l’aggravante prevista dal comma 2 dell’art. 572 c.p., secondo cui “La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore”.

Tale aggravante riconduce in un’unica ipotesi sia la condotta commessa direttamente “contro” il minore che la condotta commessa “in presenza” del minore (c.d. violenza assistita).

Da notare che il comma 2 dell’art. 572 c.p. ricalca, nell’individuazione della condotta integrante l’aggravante, la definizione contenuta nell’art. 61, n. 11-quinquies, secondo cui aggrava il reato la circostanza dell’avere “nei delitti non colposi contro la vita e l'incolumità individuale e contro la libertà personale, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza”. 

Con riferimento precipuo al delitto di maltrattamenti “assistiti”, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che vi è necessità, prima di tutto logica e poi anche giuridica, che il minorenne, quale ne sia l'età, abbia presenziato ad un numero di episodi che, per la loro gravità e per la loro ricorrenza nel tempo (abitualità), possano comprometterne il sano sviluppo psico-fisico. 

Parimenti, peraltro, la Corte di Cassazione ha aderito, da ultimo, con un cambio di orientamento, all’inquadramento della fattispecie dei “maltrattamenti assistiti” tra i reati di pericolo astratto  e non di pericolo concreto (ciò che implica la non necessità, ai fini della condanna, che le condotte maltrattanti siano considerate nello specifico idonee ad incidere sull'equilibrio psicofisico del minore), in quanto per tale reato si assumerebbe l'elevata probabilità di produzione del danno in ragione della semplice realizzazione della condotta tipica alla presenza del minorenne.

Non sarebbe dunque né necessario né opportuno, secondo questa tesi, proporre letture che mirino a prevedere limitazioni di età del minorenne, in quanto ai fini della c.d. offensività “in astratto” del reato è sufficiente che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all'id quod plerumque accidit.

Quanto al requisito dell’abitualità della condotta tipica di maltrattamenti, la giurisprudenza di legittimità è univoca nel senso di ritenere integrato l'elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti con il compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo invece sufficiente la loro ripetizione, e non rilevando - data la natura abituale del reato - che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell'agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo-

Tale principio è stato ribadito nella sentenza della Corte di Appello oggetto del presente commento, con particolare riferimento alla tesi difensiva – confutata dai Giudici - secondo cui la presumibile alternanza di momenti di punizione a situazione più distese in classe avrebbe escluso l'abitualità del reato.

Quanto all’elemento soggettivo del delitto di maltrattamenti, è stato ripetutamente sottolineato come il dolo non richieda la sussistenza di uno specifico programma criminoso verso il quale sia finalizzata una serie di condotte tali da cagionare le abituali sofferenze fisiche o morali della vittima, essendo invece sufficiente la sola consapevolezza dell'autore del reato di persistere in un'attività vessatoria già poste in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima.

Nel caso delle educatrici prima imputate e poi condannate dal Tribunale di Milano, è stato provato, anche tramite le dichiarazioni latamente “confessorie” da loro rese in dibattimento (ammissione di aver adottato metodi "sbagliati", con affermazioni di scuse per quanto accaduto, e mancata contestazione dell’avvenuto licenziamento) che le stesse abbiano agito del tutto consapevolmente, adottando metodi punitivi chiaramente svilenti e umilianti della personalità dei minori, attuando approcci poco rispettosi della loro corporeità, oltre che aggredendoli verbalmente con frasi gravemente offensive e cariche di violenza.

L’effetto afflittivo e vessatorio  di tali reiterati comportamenti, consapevoli e volontari, improntati a particolare durezza e connotati da assenza di empatia, non poteva certo sfuggire a soggetti particolarmente qualificati quali sono appunto gli insegnanti di una scuola materna, dotati di cognizioni specifiche di carattere psicologico e pedagogico.



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