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Diritto all'anonimato nelle sentenze e "motivi legittimi"

Alma Chiettini • 21 settembre 2021

(Premessa a cura della redazione)


Il diritto alla riservatezza, pur non espressamente contemplato dalla Costituzione, è un diritto  assoluto della personalità che tutela, in generale, le vicende strettamente personali, prive di un rilievo socialmente apprezzabile per i terzi, contro ingerenze non giustificate da interessi pubblici preminenti, e che consente all’interessato di controllare la diffusione dei propri dati personali e di reagire di fronte a comportamenti illegittimi da parte di coloro che trattano tali dati.

La ricerca di un continuo bilanciamento tra privacy e interesse dei consociati alla più ampia conoscenza di dati e informazioni - esigenze tra di loro in potenziale contrasto -, connota ormai i più  diversi settori dell’ordinamento, compreso quello della giustizia, e rende sempre più attuale la problematica della possibile diffusione indebita dei dati personali.

L’entrata in vigore del GDPR - regolamento (UE) 2016/679 del  Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati -, ha abrogato la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati), è direttamente applicabile in tutti gli Stati membri dal 25 maggio 2018, e ha reso necessario l’adeguamento del già vigente Codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.

Il legislatore nazionale non ha tuttavia inteso abrogare il predetto Codice, ma ha piuttosto provveduto a una sua complessiva riscrittura mediante il decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, abrogando le disposizioni  incompatibili e adeguando il restante testo al contenuto del regolamento, attraverso l’inserimento di nuove disposizioni o la modifica di quelle previgenti.

Prima dell’approvazione delle norme self-executing del GDPR, gli artt. 46 e 47 del Codice in materia  di protezione dei dati personali costituivano i riferimenti essenziali nell’ambito del trattamento di dati effettuato per ragioni di giustizia.

A seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 101 del 2018, l’art. 47 è stato abrogato, e il suo contenuto è confluito nell’art. 2-duodecies del d.lgs. n. 196 del 2003, che stabilisce che in tale materia «i diritti e gli obblighi di cui agli artt. da 12 a 22 e 34 del Regolamento sono disciplinati nei limiti e con le modalità previste dalle disposizioni di legge o di regolamento che regolano tali procedimenti». Il comma 4 di tale articolo precisa poi che i trattamenti effettuati per “ragioni di giustizia” sono quelli «correlati alla trattazione giudiziaria di affari e controversie», nonché «i trattamenti effettuati in materia di trattamento giuridico ed economico del personale di magistratura, nonché i trattamenti svolti nell’ambito delle attività ispettive su uffici giudiziari. Le ragioni di giustizia non ricorrono per l’ordinaria attività amministrativo-gestionale di personale, mezzi, strutture, quando non è pregiudicata la segretezza di atti direttamente connessi alla trattazione giudiziaria di procedimenti».

Tuttavia, poiché ad oggi le leggi e i regolamenti che disciplinano i singoli procedimenti in materia di giustizia non contengono disposizioni destinate specificamente al trattamento e protezione dei dati personali, salvo alcune limitate eccezioni, si concorda sul fatto che in linea generale nell’ordinamento italiano la tutela della riservatezza in ambito giudiziario non riguarda gli atti del processo, che devono essere sempre completi dei dati identificativi delle parti, ma la divulgazione delle decisioni una volta depositate in  cancelleria. In effetti, i cancellieri e i depositari di pubblici registri sono tenuti, eccettuati i casi  determinati dalla legge, a spedire a chiunque ne faccia istanza le copie e gli estratti degli atti giudiziali  da essi detenuti, così come qualunque depositario pubblico, autorizzato a spedire copia degli atti che detiene, deve rilasciarne copia autentica (artt. 743 e 744 c.p.c.). 

Deve allora essere sempre assicurata la conoscenza integrale della sentenza a richiesta, fatte salve le  eccezioni previste dalla legge. 

Quanto alla divulgazione all’esterno, anche per scopi di informazione giuridica, delle  pronunce giudiziarie, gli artt. 51 e 52 costituiscono la base legale per la liceità del trattamento in tema di informazione e  informatica giuridica e delle limitazioni correlative anche alla salvaguardia dell’indipendenza della  magistratura e dei procedimenti giudiziari (art. 23, par. 1, lett. f) del Regolamento (UE) 2016/679).

L’art. 51, che è rimasto immutato a seguito del GDPR, riguarda specificamente la diffusione dei  provvedimenti giudiziari, e dispone che «[…] i dati identificativi delle questioni pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado sono resi accessibili a chi vi abbia interesse anche mediante reti di comunicazione elettronica, ivi compreso il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet». Il secondo comma stabilisce che le sentenze e le altre decisioni dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado depositate in cancelleria o segreteria sono rese accessibili anche attraverso il sistema informativo e il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet, osservando le cautele previste dal dal successivo art. 52, parzialmente innovato dal d.lgs. 101 del 2018, il quale stabilisce i limiti per la diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e altri provvedimenti giurisdizionali. Lo stesso trova oggi applicazione non solo ai casi di divulgazione per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici, bensì a ogni fattispecie di riproduzione di pronunce giudiziarie.

In base al comma 7 del citato art. 52, la regola è la diffusione del contenuto integrale di sentenze e altri provvedimenti giurisdizionali, a meno che, come sancito dal primo comma del detto art. 52, l’interessato non chieda per motivi legittimi - con richiesta depositata nella cancelleria o segreteria dell’ufficio che procede prima che sia definito il relativo grado di giudizio - che sia apposta a cura della medesima cancelleria o segreteria, sull’originale della sentenza o del provvedimento, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento (fermo restando quanto previsto dalle disposizioni concernenti la redazione e il contenuto di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado). 

Il successivo comma 2, oltre a stabilire che sulla citata richiesta provvede in calce con decreto, senza ulteriori formalità, l’autorità che pronuncia la sentenza o adotta il provvedimento, attribuisce alla medesima autorità giudiziaria il potere di disporre d’ufficio che sia apposta l’annotazione di cui al comma 1, a tutela dei diritti o della dignità degli interessati.

Il richiamo al concetto di dignità compiuto dal citato comma 2 va letto alla luce del disposto di cui all’art. 1 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, per cui «il trattamento dei dati personali avviene secondo le norme del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, di seguito «Regolamento», e del presente codice, nel rispetto della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali della persona».

In tal senso, quanto al potere officioso di “omissare” i dati, il comma 2 opera come una norma in bianco posta a presidio dei diritti e della dignità degli interessati, rinviando alla disciplina in materia di privacy, nell’ambito della quale vanno richiamati il già citato art. 9 del Regolamento (UE) 2016/679, da cui si ricava la regola per cui sono soggetti a oscuramento obbligatorio quei dati che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché i dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona, nonché l’art. 10 sempre del Regolamento (UE) 2016/679, secondo cui il trattamento dei dati 

personali relativi alle condanne penali e ai reati o a connesse misure di sicurezza sulla base dell’articolo 6, paragrafo 1, deve avvenire soltanto sotto il controllo dell’autorità pubblica, letto in combinato con l’art. 2-octies, comma 3, lett. e) del Codice della privacy. In tali casi il potere officioso di oscuramento non sembra essere conseguente a una previa ponderazione delle opposte esigenze effettuato dall’autorità giudiziaria, ma sembra essere vincolato nell’esito dall’ordinamento, che ex ante ha compiuto tale bilanciamento a tutela dei diritti e della dignità degli interessati, in tal senso impegnando il giudice che procede.

In entrambi i casi (di apposizione dell’annotazione d’ufficio o su richiesta di parte), ai sensi del comma 4, in caso di diffusione anche da parte di terzi di sentenze o di altri provvedimenti recanti l’annotazione di cui al comma 2, o delle relative massime giuridiche, è omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi dell’interessato.

L’art. 52, comma 5, prevede che, al di là della tutela assicurata dall’art. 734-bis del cod. pen. alle vittime di reati a sfondo sessuale , non sono ostensibili in ogni caso le generalità, altri dati identificativi o altri dati anche relativi a terzi dai quali può desumersi anche indirettamente l’identità di minori, oppure delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone. Dunque, in tale ambito, l’ordinamento appresta alla sfera di riservatezza degli interessati una tutela che prescinde dalla richiamata annotazione che prescrive l’oscuramento, operando essa, in ragione del preventivo apprezzamento del legislatore, ipso iure.

Può dunque concludersi che gli artt. 51 e 52, nel costituire, ai sensi dell’art. 45-bis del Codice della privacy, la base legale per la liceità del trattamento, consentono la diffusione integrale, anche a mezzo della rete o supporti informatici, delle decisioni giudiziarie di ogni ordine e grado, salvi i casi in cui sia stata disposta l’anonimizzazione o debba procedersi all’oscuramento dei dati come per legge.

In caso di mancata anonimizzazione, qualora sia diffusa una pronuncia sottoposta in via obbligatoria all’oscuramento (giacché sussumibile nell’ambito applicativo dell’art. 9 del Regolamento (UE) 2016/679; dell’art. 10 del Regolamento (UE) 2016/679, letto in combinato con l’art. 2-octies, comma 3, lett. e) del Codice della privacy; dell’art. 52, comma 5, del medesimo codice, dell’art. 734-bis del cod. pen.) o in relazione alla quale il giudice non abbia provveduto sulla richiesta di anonimizzazione, le parti o i terzi interessati possono attivare alcuni possibili rimedi a loro tutela, oltre alle iniziative di ufficio rimesse al Garante della Privacy.

In primo luogo, si può chiedere all’amministrazione, e segnatamente al responsabile del sito istituzionale, di interrompere la divulgazione di dati sensibili attraverso la pubblicazione in rete, nonostante il divieto posto direttamente dalla legge alla diffusione dei dati in determinate ipotesi.

In secondo luogo, si può attivare un rimedio di carattere giurisdizionale, che si sostanzia in un’istanza rivolta al giudice e in quanto tale destinata ex post a sollecitare a disporre l’oscuramento supposto come obbligatorio o a ottenere una pronuncia sulla richiesta previamente depositata e non ancora delibata.

Resta in ogni caso sempre percorribile dalla parte interessata la tutela risarcitoria azionabile innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria avverso l'amministrazione, costituendo fatto illecito la diffusione, anche a meri scopi di informazione giuridica, di pronunce giurisdizionali in via integrale, comprensiva cioè di dati che, in via obbligatoria per legge o per annotazione del giudice, devono rimanere oscurati, come ad esempio i cosiddetti "dati sensibilissimi".

Recentemente, la Corte di cassazione (Sez. V, 10 agosto 2021, n. 22561), occupandosi di diritto all'anonimato nelle sentenze tributarie, ha fatto alcune precisazioni importanti in materia, partendo proprio dal disposto di cui all'art. 52 del d.lgs. n. 196 del 2003, secondo cui l’anonimizzazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti può essere disposta dal giudice su istanza delle stessi parti, qualora sussistano "motivi legittimi".

Premesso che le definizioni di “dato” e di “interessato” legittimato a presentare l’istanza di oscuramento si ritrovano oggi nell’art. 4, primo comma, n. 1), del Regolamento 27.4.2016, n. 2016/679/UE, è stato ribadito che “dato personale” è qualsiasi informazione riguardante un soggetto fisico (“interessato”), identificato o identificabile, e che si considera identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale.

Pertanto, se un privato intende chiedere l’oscuramento dei suoi dati personali su di una sentenza tributaria (caso specifico di cui si è occupata la Cassazione), o comunque su qualsiasi altro provvedimento giurisdizionale, deve:

- presentare apposta istanza al giudice entro la chiusura della discussione;

- indicare i “motivi legittimi” che la giustificano.

La norma di cui all’art. 52 non specifica, peraltro, neppure esemplificativamente, quali sono i “motivi legittimi”: essa si traduce dunque in una clausola generale, in un concetto giuridico a contenuto indeterminato. Tale tecnica normativa difetta di una puntuale tipizzazione ma è sovente utilizzata dal Legislatore. Per cui, in presenza della stessa, per la sussunzione del fatto concreto nell’ipotesi normativa è necessaria un’integrazione che il Legislatore stesso ha affidato al potere ricostruttivo dell’interprete con l’utilizzo di parametri che, in conformità ai principi fondamentali dell’ordinamento, vanno completati e specificati con gli elementi e i criteri fattuali della singola fattispecie. Tale ricostruzione è quindi volta a declinare il concetto giuridico indeterminato non in sé e per sé ma di volta in volta sullo specifico caso in esame, prendendo a riferimento i parametri oggettivi e soggettivi caratterizzanti la singola fattispecie concreta. E ciò al fine di valutare, in concreto, se è stato salvaguardato il fine considerato dalla norma.

La Corte di Cassazione ha avuto dunque occasione di affermare che i “motivi legittimi” sono da interpretare come “motivi opportuni”, e che al dovere della parte di esplicitarli corrisponde il potere-dovere del giudice di vagliarne la legittimità, da intendersi come “meritevolezza delle ragioni addotte” e non come conformità della richiesta a una facoltà prevista dalla legge.

Diversamente, l’onere di indicazione dei motivi non avrebbe alcuna ragione d’essere.

Per cui, per un primo profilo, se le parti non specificano quali sono i motivi legittimi del preteso oscuramento, limitandosi a invocare l’applicazione della norma, la richiesta è da respingere.

Per un secondo correlato profilo, la richiesta è da respingere “ogniqualvolta l’autorità giudiziaria ravvisa un equilibrato bilanciamento tra le esigenze di riservatezza del singolo e il principio della generale conoscibilità dei provvedimenti giurisdizionali e del contenuto integrale delle sentenze, quale strumento di democrazia e di informazione giuridica”.

Su questo punto, il Giudice di legittimità ha specificato, in termini generali, che “una contesa tributaria fondata sulla diversa interpretazione che il contribuente e l’erario offrono di una norma di legge, non contiene alcun dato sensibile, né si tratta di materia particolarmente delicata come ad esempio quelle che incidono sui diritti personalissimi; non essendovi imputazione di illecito, non sono neppure in discussione l’onere e la reputazione delle parti, che non hanno tenuto un comportamento elusivo, ma si limitano a dissentire dalla interpretazione data dall’erario ad una norma di legge”.

Nello specifico, non sono materie di per sé sensibili, come tali assoggettate al cogente regime di tutela della riservatezza delle parti, né contengono dati di per sé di particolare delicatezza:

- la contesa tra il notaio e due privati con l’Agenzia delle Entrate sulla nozione di pertinenza immobiliare, destinata al servizio e ornamento dell’abitazione oggetto dell’acquisto, alla quale è possibile estendere l’aliquota agevolata per l’acquisto della prima casa (sent. 10 agosto 2021, n. 22561);

- la controversia con oggetto avvisi di accertamento e corrispondenti atti di contestazione di sanzioni con i quali l’Ufficio delle dogane rettifica il valore doganale di prodotti di abbigliamento - riproducenti loghi di noti marchi registrati - importati da fabbricanti extracomunitari (sent. 7 agosto 2020, n. 16807);

- gli avvisi di accertamento emessi nei confronti di un avvocato per infedele dichiarazione ICI a seguito di variazioni urbanistiche e catastali (sent. 29 marzo 2019, n. 8829).

Ebbene, in tutti questi casi la Corte di Cassazione non ha derogato alla regola generale di cui al comma 7 dello stesso art. 52, secondo cui “fuori dei casi indicati nel presente articolo è ammessa la diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali”.



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