Riflessioni a margine dalla sentenza Corte di Giustizia Grande sezione 21 dicembre 2021 in causa C-497/20
1. I presupposti del rinvio pregiudiziale ed i quesiti posti alla Corte di giustizia.
In una procedura di appalto indetta dalla Azienda USL Valle d’Aosta per individuare una agenzia cui affidare la somministrazione di lavoro temporaneo, la legge di gara fissava un punteggio tecnico minimo di sbarramento per accedere all’aggiudicazione.
Solo due degli otto concorrenti superavano tale sbarramento e la prima delle imprese escluse per questa ragione contestava, innanzitutto, la propria esclusione e, quindi, l’intera disciplina di gara sotto plurimi profili (suddivisione in lotti, criteri di aggiudicazione, composizione della commissione giudicatrice).
In primo grado il Tar Valle d‘Aosta, con la sentenza n. 13 del 22 marzo 2019, respingeva nel merito tutte le censure, disattendendo l’eccezione della controinteressata di inammissibilità dei motivi di ricorso volti a censurare lo svolgimento della gara, per carenza di legittimazione ad agire della ricorrente, una volta che fosse stato respinto il primo motivo relativo al punteggio tecnico e l’impresa ricorrente fosse quindi risultata legittimamente esclusa.
Entrambe le parti proponevano appello al Consiglio di Stato che, con sentenza sez. III, n. 5606 del 7 agosto 2019, confermava la reiezione nel merito delle censure volte a contestare il mancato superamento del punteggio tecnico minimo e, quindi, ritenuta l’originaria ricorrente legittimamente esclusa dalla procedura, decretava l’inammissibilità delle ulteriori censure dalla medesima proposte per carenza di legittimazione ad agire.
La sentenza di appello veniva impugnata con ricorso per Cassazione per asserita violazione del diritto ad un ricorso “effettivo”, come declinato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia con le sentenze del 4 luglio 2013, Fastweb (C‑100/12), del 5 aprile 2016, PFE (C‑689/13), nonché del 5 settembre 2019, Lombardi (C‑333/18), assumendo che il principio di diritto ivi affermato, e non fatto proprio dal Consiglio di Stato nella sentenza impugnata, integrasse un parametro riconducibile ad un “motivo inerente la giurisdizione” ai sensi dell’art. 111 della Costituzione.
La Corte di Cassazione, con ordinanza SU 19598/2020, prendendo atto che la lettura dell’art. 111 della Costituzione estesa sino a permettere un sostanziale sindacato sul merito delle decisioni del giudice amministrativo – se pure per profili di diritto eurounitario – risulta nel nostro ordinamento superata alla luce della giurisprudenza costituzionale, ha interpellato la Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 del TFUE circa la conformità di tale assetto istituzionale interno ai parametri eurounitari.
Evidenziava nel proprio rinvio pregiudiziale il giudice del riparto che, in base all’attuale giurisprudenza costituzionale, il difetto di giurisdizione contemplato dall’art. 111 della Costituzione si riscontra solo nei casi in cui un giudice esorbiti in termini assoluti dalla giurisdizione (in senso positivo affermandola, là dove sussiste invece una sfera riservata al legislatore o all’amministrazione, ovvero, in senso negativo, assumendo l’esistenza di tale riserva in ambiti in cui essa non sussiste) o lo faccia in termini relativi affermando (o, simmetricamente, negando) la sua giurisdizione là dove operi (o, simmetricamente, non operi) quella di altro plesso giurisdizionale.
Lo stesso giudice del rinvio ricordava che la propria giurisprudenza precedente alla pronuncia della Corte Costituzionale 18 gennaio 2018 n. 6 aveva ricondotto le ipotesi di applicazione del diritto processuale interno in modo non conforme al principio del ricorso effettivo, come declinato dalla giurisprudenza eurounitaria, ad una forma di denegata giustizia e, quindi, ad una violazione dell’art. 111 della Costituzione; tale soluzione sarebbe stata tuttavia preclusa dalle più recenti pronunce del giudice delle leggi, sicchè la Corte di Cassazione, per il tramite del primo quesito in rinvio pregiudiziale, ha, in sostanza, chiesto alla Corte di Giustizia, di sconfessare la giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana, riaprendo la via a questo rimedio.
Con un ulteriore quesito la Corte di Cassazione ha stigmatizzato il fatto che il Consiglio di Stato non si fosse avvalso, nel caso specifico, dell’onere/dovere, nella propria qualità di giudice di ultima istanza, di interpellare la Corte di giustizia in presenza di un dubbio di interpretazione circa la corretta applicazione della normativa eurounitaria in un ambito, quale quello delle gare pubbliche, in cui detta normativa trova applicazione con principio di primazia; ha quindi evidenziato che, ammettendo la denuncia di tale mancanza con ricorso per cassazione, il giudice del riparto potrebbe, in ultima istanza, rimediare a tale omissione foriera di responsabilità per lo Stato.
Da ultimo, con un terzo quesito, la Corte di Cassazione ha nuovamente sollecitato la Corte di giustizia sulla vexata questio della possibilità o meno, per una impresa che risulti legittimamente esclusa da una gara o comunque che non abbia avuto legittimamente accesso ad una fase successiva della stessa (nel caso di specie per mancato raggiungimento del punteggio tecnico minimo), di contestare la procedura nel suo complesso e nei suoi sviluppi successivi, così da aspirare, non ad una aggiudicazione o miglior collocamento in graduatoria (stante la acclarata legittimità della sua esclusione), bensì ad una complessiva riedizione dell’intero confronto concorrenziale.
L’ordinanza e la sentenza della Corte di giustizia che ne è derivata rappresentano una sorta di sintesi di tensioni istituzionali, nazionali e sovranazionali, che interpellano i massimi equilibri dei rapporti tra le giurisdizioni.
2. Il tormentato rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale nel processo amministrativo italiano.
Con le tre sentenze citate dalla Corte di Cassazione nel proprio rinvio pregiudiziale la Corte di giustizia ha sostanzialmente ridisegnato l’assetto che era stato raggiunto dalla giurisprudenza nomofilattica italiana per quanto concerne il rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale nel processo amministrativo.
Limitandosi ai più recenti arresti dell’adunanza plenaria, il sistema era stato faticosamente ricostruito dal giudice nazionale come segue.
La decisione dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 11/2008 aveva dato atto della “risalente pacifica giurisprudenza” per la quale, per economia processuale, il ricorso incidentale cosiddetto paralizzante, cioè volto a contestare l’ammissione in gara e quindi la stessa legittimazione ad agire della ricorrente principale, ben poteva essere valutato per primo quando, anche in esito all’eventuale esclusione tanto dell’aggiudicataria e ricorrente incidentale che della ricorrente principale, quest’ultima non avrebbe potuto ottenere alcuna utilità, perché sarebbero residuate da prendere in esame le ulteriori offerte valide presentate, senza dunque alcun automatico effetto di riedizione della gara. In ipotesi di questo tipo, l’ordine di esame delle questioni non avrebbe in effetti inciso sulla parità delle parti (tutte teoricamente da escludere); tale regola avrebbe potuto trovare eccezione in una gara con due soli partecipanti i quali, simmetricamente, contestassero le rispettive ammissioni; in tal caso, infatti, qualora entrambe le impugnative fossero state fondate, la scelta del giudice di privilegiarne nel merito una a discapito dell’altra la cui analisi restava preclusa da questioni di rito avrebbe avuto incidenza sul pari diritto delle parti di vedere tutelato l’interesse alla riedizione della gara; ne veniva desunto il principio per cui la riconosciuta tutela dell’interesse alla riedizione della gara comportava, per il giudice, l’obbligo di analizzare tanto il ricorso principale che quello incidentale nelle ipotesi di gara con due sole concorrenti e simmetriche impugnative volte a contestare la reciproca ammissione.
La successiva decisione dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 4/2011 ha ridimensionato il principio; ha osservato che il principio di parità delle parti, che informa tutta la disciplina processuale, e la tutela dell’interesse strumentale - qui definito non come “autonoma posizione giuridica soggettiva” ma come “rapporto di utilità tra l’accertata legittimazione al ricorso e la domanda formulata dall’attore” - dovevano trovare sintesi in “un sistema di giurisdizione soggettiva, ove la verifica di legittimità dei provvedimenti amministrativi non va compiuta nell’astratto interesse generale ma è finalizzata all’accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere, ritualmente, dalla parte attrice”; ciò in quanto un ricorso non è mera “occasione del sindacato giurisdizionale sull’azione amministrativa”. Da tale premessa l’adunanza plenaria del 2011 ha fatto discendere il dovere del giudice di preliminarmente verificare la sussistenza delle condizioni dell’azione (come in generale di tutte le questioni preliminari di rito) tra cui, appunto, la legittimazione ad agire della parte, garantita dalla idoneità dell’offerta dalla stessa presentata ad essere ammessa in gara. Siffatta verifica sarebbe stata imposta in caso di presentazione di un ricorso incidentale volto a contestare l’ammissione in gara del ricorrente principale e conseguentemente la sua legittimazione ad agire. Ancora la plenaria ricordava come, da un lato, un soggetto definitivamente escluso da una gara con provvedimento inoppugnabile/inoppugnato non avrebbe più potuto, per pacifica giurisprudenza, contestarne gli esiti e, dall’altro, non vi sarebbero state ragioni per differenziare tale posizione da quella di colui che, pur avendo beneficiato di una illegittima ammissione da parte della stazione appaltante, era risultato effettivamente privo dei requisiti di partecipazione all’esito dell’accoglimento di un ricorso incidentale. L’eventuale diversità di trattamento di queste posizioni sarebbe stata infatti frutto, non di una diversa consistenza sostanziale delle rispettive posizioni giuridiche soggettive, ma del diverso “casuale” andamento della gara, che avrebbe visto, nel primo caso, la stazione appaltante legittimamente escludere il concorrente con atto divenuto definitivo e, nel secondo caso, illegittimamente ammetterlo, con atto la cui illegittimità era tuttavia emersa in esito al ricorso incidentale.
La plenaria concludeva con un revirement in senso più restrittivo rispetto al precedente assetto, affermando il principio di diritto secondo il quale: “il ricorso incidentale, diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale, mediante la censura della sua ammissione alla procedura di gara, deve essere sempre esaminato prioritariamente, anche nel caso in cui il ricorrente principale alleghi l’interesse strumentale alla rinnovazione dell’intera procedura”.
Da ultimo la sentenza dell’adunanza plenaria del Consigilo di Stato n. 9/2014 rimeditava ancora l’indirizzo nomofilattico, alla luce dei contemporanei sviluppi della giurisprudenza della Corte di giustizia. La decisione è stata infatti emessa dopo la pubblicazione della sentenza della Corte di giustizia Fastweb (su cui infra). L’adunanza plenaria ricordava che il pur affermato “principio di autonomia processuale nazionale” degli Stati membri (sentenza 22 dicembre 2010 Commissione contro Repubblica slovacca, in causa C-507/08, e 30 settembre 2010 Stadt Graz contro Strabag, in causa C314/09) deve conciliarsi con i principi di effettività di tutela delle posizioni giuridiche soggettive di derivazione eurounitaria, declinati, tra l’altro, come non discriminazione ed accesso a un ricorso realmente effettivo negli ordinamenti nazionali.
Analizzando la sentenza della Corte di giustizia la plenaria giungeva alla conclusione che la necessità di analizzare tanto il ricorso principale che quello incidentale era stata affermata nella sentenza Fastweb limitatamente al caso in cui gli operatori rimasti in gara fossero due e i vizi che affliggevano le offerte fossero esattamente identici. La plenaria riaffermava per contro il principio per cui la parità delle parti nel processo non esclude la sussistenza di legittime asimmetrie decisionali, in particolare là dove l’attore, la cui posizione è afflitta da un vizio che ne precluderebbe la partecipazione, non può invocare un interesse contra ius (vedersi aggiudicata una gara cui non aveva titolo a partecipare) o comunque tenere atteggiamenti che sono legittimamente sospettabili di rappresentare forme di abuso del diritto e alimentare contenzioso artificiale. D’altro canto, precisava sempre la plenaria, “l’interesse ad agire va valutato nella sua concretezza, ricercando un punto di equilibrio tra interesse pubblico e privato nel contesto di un processo governato dal principio della domanda, evitando la torsione del sistema verso una giurisdizione di tipo oggettivo”. Per contro la peculiarità della decisione Fastweb (avente ad oggetto l’identico vizio dedotto per le due uniche offerte) avrebbe fatto sì che l’accoglimento dell’identica censura dedotta da entrambe le parti fosse automaticamente ad indifferentemente predicabile per entrambe, rendendo, nello specifico caso, preminente il principio di parità, sì da superare di fatto la problematica dell’ordine di analisi delle questioni; si affermava invece che restasse fermo il principio di prioritaria analisi del ricorso incidentale paralizzante in tutti gli altri casi.
L’adunanza plenaria procedeva quindi a meglio disegnare i confini dell’“eccezione” Fastweb, individuando il “motivo identico” nell’ipotesi in cui sussistessero identità del vizio ed identità del suo effetto escludente; identici sarebbero stati non i vizi assolutamente sovrapponibili nella loro causa ma quelli afferenti alla medesima sub-fase del procedimento, oltre che ugualmente idonei a comportare una esclusione.
Per delimitare le sub-fasi nel cui contesto potevano essere dedotte censure qualificabili “di identico contenuto” la sentenza proponeva la seguente scansione del procedimento di gara:
1. valutazione di tempestività della domanda di partecipazione di integrità dei plichi;
2. valutazione dei requisiti soggettivi generali e speciali di partecipazione (economici, finanziari, tecnici, organizzativi e di qualificazione);
3. valutazione di eventuali carenze di elementi essenziali dell’offerta previsti a pena di esclusione (ivi inclusa l’incertezza assoluta dell’offerta).
Il potenziale accoglimento di entrambi i ricorsi sarebbe stato ammissibile se i vizi dedotti fossero stati riferibili alla medesima sub-fase, come sopra disegnata; in mancanza di tale “simmetria escludente”, e per i vizi afferenti a diverse fasi, sarebbe tornata applicabile la regola processuale della previa analisi del ricorso incidentale, con possibile preclusione di vaglio del ricorso principale.
3. Il rapporto tra ricorso principale e incidentale sotto la lente della Corte di giustizia.
Sull’assetto come sopra elaborato dalla giurisprudenza nazionale ha avuto un evidente impatto la parallela evoluzione della giurisprudenza eurounitaria.
Come già ricordato, il primo intervento della Corte di giustizia in materia risale alla nota sentenza Fastweb del 4 luglio 2013, in causa C-100/12, sentenza sollecitata da un rinvio pregiudiziale del Tar Piemonte.
Essa ha, in verità e come rilevato anche nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, analizzato una fattispecie molto peculiare; si trattava della deduzione, con ricorso tanto principale che incidentale, di censure sostanzialmente speculari afferenti le due uniche offerte in gara; in tale ipotesi urtava, in senso logico prima che giuridico, contro il principio di parità delle parti l’eventuale affermazione della sussistenza del vizio per una sola delle due offerte, con effetti paralizzanti del ricorso principale.
In questa evenienza la Corte, richiamata la disciplina dettata in materia di appalti dalla direttiva 89/665, che riconosce ad ogni concorrente escluso la possibilità di proporre ricorsi efficaci ed accessibili qualora “abbia o abbia avuto interesse ad ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto” o “rischi di essere leso a causa di una presunta violazione”, ha affermato che l’art. 1 par. 3 della direttiva “deve essere interpretato nel senso che se, in un procedimento di ricorso, l’aggiudicatario che ha ottenuto l’appalto e proposto ricorso incidentale solleva un’eccezione di inammissibilità fondata sul difetto di legittimazione a ricorrere dell’offerente che ha proposto il ricorso, con la motivazione che l’offerta da questi presentata avrebbe dovuto essere esclusa dall’autorità aggiudicatrice per non conformità alle specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni, tale disposizione osta al fatto che il suddetto ricorso sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell’esame preliminare di tale eccezione di inammissibilità senza pronunciarsi sulla compatibilità con le suddette specifiche tecniche sia dell’offerta dell’aggiudicatario che ha ottenuto l’appalto sia di quella dell’offerente che ha proposto il ricorso principale.”
Il principio a quel momento affermato poteva, come visto, essere reso compatibile con la ricostruzione prospettata dall’adunanza plenaria sino al 2014; in tali casi, in effetti, ciò che stride è l’esito in un certo senso di casualità del risultato paralizzante in quanto, acclarata necessariamente contestualmente la sussistenza del vizio delle offerte tecniche, essa verrebbe poi sanzionata in capo a solo una delle parti.
Con la successiva sentenza 5 aprile 2016 Puligienica Facility Esco s.p.a., in causa C-689/13, provocata da un rinvio pregiudiziale del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, il principio enunciato nella sentenza Fastweb è stato esteso oltre la sua iniziale portata; nel caso specifico il ricorso principale e incidentale miravano alla reciproca esclusione dei concorrenti ma, alla gara, avevano partecipato più imprese; tuttavia le imprese non coinvolte nel contenzioso erano a loro volta state escluse dall’amministrazione.
La Corte di Giustizia ha comunque affermato l’estensione del principio definibile “Fastweb”, sostenendo che “ciascuna delle parti della controversia ha un analogo interesse legittimo all’esclusione dell’offerta degli altri concorrenti”, e ciò tanto più in quanto “non è escluso che una delle irregolarità che giustificano l’esclusione tanto dell’offerta dell’aggiudicataria quanto di quella dell’offerente che contesta il provvedimento di aggiudicazione dell’amministrazione aggiudicatrice vizi parimenti le altre offerte presentate nell’ambito della gara d’appalto, circostanza che potrebbe comportare la necessità per tale amministrazione di avviare una nuova procedura”.
Concludeva la sentenza che “il numero di partecipanti alla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico, così come il numero di partecipanti che hanno presentato ricorsi e la divergenza dei motivi dai medesimi dedotti sono privi di rilevanza ai fini dell’applicazione del principio giurisprudenziale che risulta dalla sentenza Fastweb”.
Nella medesima occasione il giudice comunitario ricordava anche che il giudice del rinvio pregiudiziale è tenuto ad applicare il principio enunciato dalla Corte anche qualora in ipotesi esso si presenti in contrasto con la giurisprudenza (nel caso di specie nomofilattica) in precedenza o successivamente affermata nel proprio ambito nazionale.
In sintesi, e benchè la fattispecie presupposta vedesse comunque i concorrenti di fatto ridotti a due, il principio della necessaria esaustiva indagine delle incrociate censure di potenziale esclusione veniva affermato in termini ampi.
Nella successiva pronuncia Lombardi s.r.l. del 5 settembre 2018, in causa C-338/18, su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato, la Corte di Giustizia ha ulteriormente esteso il principio ad una gara con più concorrenti in cui le imprese postergate a quelle coinvolte in giudizio vedevano il loro inserimento in graduatoria consolidato, non essendo la loro posizione stata attinta da alcun ricorso o annullamento da parte dell’amministrazione. L’estensione del principio è stata ribadita sostenendo che “in tal caso non si può escludere che l’amministrazione aggiudicatrice sia indotta a constatare l’impossibilità di scegliere un’altra offerta regolare e proceda di conseguenza all’organizzazione di una nuova procedura di gara”; ancora “qualora il ricorso dell’offerente non prescelto fosse giudicato fondato, l’amministrazione aggiudicatrice potrebbe prendere la decisione di annullare la procedura e di avviare una nuova procedura di affidamento a motivo del fatto che le restanti offerte regolari non corrispondono sufficientemente alle attese dell’amministrazione stessa”.
La Corte ne inferiva complessivamente che l’effetto utile dalla direttiva 89/665 può essere pregiudicato dal fatto che la ricevibilità di un ricorso sia subordinata alla previa constatazione che “tutte le offerte classificate alle spalle di quella dell’offerente autore di detto ricorso sono anch’esse irregolari. Tale ricevibilità non può neppure essere subordinata alla condizione che il suddetto offerente fornisca la prova del fatto che l’amministrazione aggiudicatrice sarà indotta a ripetere la procedura di affidamento di appalto pubblico. L’esistenza di una possibilità siffatta deve essere considerata in proposito sufficiente”; infine la Corte ricordava come il principio di autonomia processuale degli Stati membri non può giustificare disposizioni di diritto interno che rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione.
La Corte precisava anche che tale principio non sarebbe in contrasto con quanto in precedenza affermato nella sentenza 21 dicembre 2016 Bietergemeinshaft Technische Gebäudebetreuung GesmbH, in causa C-355/15, che ugualmente si è occupata dell’estensione del principio “Fastweb”; in quella occasione il concorrente che contestava l’aggiudicazione e invocava l’azzeramento della procedura era una impresa che era già stata esclusa della stazione appaltante, aveva in separato giudizio contestato la propria esclusione ed era ivi rimasta soccombente, sicchè la stessa doveva considerarsi definitivamente esclusa. La Corte non riteneva la posizione del soggetto definitivamente escluso dalla gara (con atto non contestato o non più contestabile) assimilabile a quella dei concorrenti le cui offerte fossero state in prima battuta ritenute ammissibili dall’amministrazione e fossero poi state messe in discussione in un unico contestuale giudizio. Si potrebbe agevolmente replicare che la fragilità di questo distinguo è già stata stigmatizzata dall’Adunanza plenaria, là dove ha evidenziato che esso può dipendere dal mero “caso” per cui la stazione appaltante, in prima battuta, si avveda o non si avveda del vizio che preclude l’ammissione in gara del concorrente.
Con la pronuncia del 27 dicembre 2021, ora in commento, la Corte non ha fatto altro che ribadire i propri precedenti in materia, riaffermando la non conformità all’ordinamento eurounitario di una decisione che non abbia valutato le contestazioni mosse avverso la posizione dell’aggiudicatario da parte di una impresa la cui esclusione dalla gara di appalto, in quanto anch’essa contestata, non poteva in quella fase dirsi definitiva, ancorché in ipotesi fosse risultata corretta in corso di giudizio.
Pertanto, anche se nel caso di specie il problema di legittimazione/interesse ad agire non nasceva dalla dinamica ricorso principale/incidentale ma investiva gli stessi graduati motivi proposti da un’unica ricorrente principale, il sotteso principio di diritto processuale appare sovrapponibile.
Per questo specifico profilo la decisione in analisi si colloca dunque nel percorso di progressiva estensione del principio “Fastweb”, che ha reso necessario il superamento del sistema disegnato dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato nel 2014 in tema di equilibrio tra ricorso principale e ricorso incidentale e, più in generale, ha indotto un ampliamento dell’interesse ad agire in materia di appalti; l’estensione è stata, come visto, sempre giustificata con l’esigenza di garantire l’effetto utile delle direttive appalti, declinato in termini di effettività di tutela e parità di trattamento.
4. Le “questioni inerenti la giurisdizione” ai sensi dell’art. 111 della Costituzione all’attenzione della Corte di giustizia.
La seconda questione portata all’attenzione della Corte di giustizia in questo contenzioso ha una valenza squisitamente nazionale ed attiene al rapporto tra giurisdizioni.
Nel dibattito relativo all’ordine di valutazione di ricorso principale ed incidentale da parte del giudice amministrativo, a livello nazionale, si era da tempo inserita la Corte di Cassazione che, con l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, ha portato alla sua massima espressione un conflitto tra giurisdizioni, conflitto che ha trovato nella specifica problematica di diritto processuale una mera “occasione”.
A partire dalla sentenza n. 2242/2015 [1] le Sezioni Unite della Cassazione hanno cassato, per asserita violazione dell’art. 111 della Costituzione, diverse sentenze del Consiglio di Stato che avevano scelto di analizzare prioritariamente il ricorso incidentale e, riscontratane la fondatezza, avevano dichiarato inammissibile il ricorso principale per carenza di legittimazione della parte ricorrente, il tutto in ossequio agli orientamenti più rigorosi in termini di preliminare vaglio delle condizioni dell’azione assunti in sede nomofilattica.
La ricostruzione elaborata dalla Sezioni Unite è stata la seguente: benchè il controllo dei limiti esterni della giurisdizione non includa le scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare meri errori in iudicando o in procedendo non sindacabili dal giudice del riparto, resterebbero salvi “i casi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento (nazionali e dell’Unione) tali da ridondare nella denegata giustizia, ed in particolare, sarebbe salvo il caso di errore “in procedendo” costituito dall’applicazione di regola processuale interna incidente nel senso di negare alla parte l’accesso alla tutela giurisdizione nell’ampiezza riconosciuta da pertinenti disposizioni normative dell’Unione europea, direttamente applicabili secondo l’interpretazione elaborata dalla Corte di giustizia.”
L’orientamento della Corte di giustizia sulla specifica problematica del rapporto tra ricorso incidentale e principale si era consolidato tra il 2013 e il 2018, finendo per impattare pesantemente sul diverso e più restrittivo orientamento ancora seguito del Consiglio di Stato nello stesso periodo. La soluzione di ammettere un ulteriore grado di giudizio per rimediare al contrasto via via consolidatosi è risultata avere un indiretto avallo anche nella pronuncia dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato del 9 giugno 2016, n. 11, (resa in materia del tutto diversa), chiamata a confrontarsi con la problematica del potenziale conflitto tra un giudicato amministrativo e sopravvenute decisioni della Corte di giustizia. Tra i possibili rimedi l’adunanza plenaria ricordava, in quel contesto, appunto, l’orientamento in gestazione presso la Corte di Cassazione. La posizione del Consiglio di Stato si giustificava anche per ragioni pratiche di superamento di decisioni del plesso che avevano finito per trovarsi, per effetto della sovrapposizione cronologica degli sviluppi giurisprudenziali, in contrasto con le più recenti pronunce della Corte di giustizia.
La via della riconduzione di possibili violazioni del diritto eurounitario a vizi di giurisdizione è stata sbarrata della sentenza della Corte Costituzionale n. 6 del 18 gennaio 2018.
Il giudice delle leggi, sollecitato tra l’altro proprio dalla Cassazione con ordinanza n. 107 dell’8 aprile 2016, evidenziava come l’interpretazione “evolutiva” o “dinamica” del concetto di giurisdizione propugnata dalla Cassazione, estesa cioè non solo ai presupposti di attribuzione della giurisdizione ma anche “alle forme di tutela” in cui l’attività dei giudici speciali si estrinseca, finirebbe per “mettere in discussione la scelta di fondo dei Costituenti dell’assetto pluralistico delle giurisdizioni”; proseguiva la Corte evidenziando come la giurisprudenza costituzionale avrebbe più volte esplicitato che, nel nostro ordinamento, l’unità funzionale non implica unità organica delle giurisdizioni e che la sentenza resa in tema di riparto di giurisdizione “può vincolare il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia ma certamente non può vincolarli sotto alcun profilo al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione.” Ancora si precisava che non vi è dubbio che il giusto processo e l’effettività della tutela vadano garantite ma ciò “a cura degli organi giurisdizionali a ciò deputati dalla Costituzione e non in sede di controllo sulla giurisdizione”.
Pertanto una violazione delle norme dell’Unione Europea o della CEDU resterebbe un motivo di “illegittimità (sia pure particolarmente qualificata) estranea alla problematica della giurisdizione”. D’altro canto, ha proseguito la Corte Costituzionale, “attribuire rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio è, sul piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriero di incertezze, in quanto affidato a valutazioni contingenti e soggettive [2]”.
Ne è conseguita una serie di pronunce del giudice del riparto che, adeguandosi alla lettura dell’art. 111 fornita dalla Corte Costituzionale, hanno dichiarato inammissibili i ricorsi per cassazione proposti per sollecitare un riesame di ricorsi che erano stati ritenuti inammissibili dal giudice amministrativo [3].
Con l’ordinanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia la Corte di Cassazione ha, di fatto, scelto di riaprire il conflitto, demandandone la soluzione ad un giudice sovranazionale [4].
L’esito auspicato, disegnato nell’ordinanza di rimessione, presentava, ove portato ad estremi sviluppi, evidenti rischi di esplosione del contenzioso e stravolgimento dell’assetto del riparto di giurisdizione disegnato dalla Costituzione, di fatto assegnando alla Cassazione, per il tramite dell’effettività della tutela, il ruolo di giudice di terzo grado in ogni ambito del diritto amministrativo che intersechi materie di rilevanza eurounitaria, ossia in grande parte del contenzioso che caratterizza questa giurisdizione.
Della potenziale vis espansiva di questa impostazione sono chiaro sintomo diversi passaggi dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale in cui si legge testualmente, con riferimento all’orientamento delle sezioni unite formatosi prima dell’intervento della Corte costituzionale del 2018, che esso era: “fondato sulla decisiva considerazione che il giudice nazionale che faccia applicazione di normative nazionali (sostanziali e processuali) o di interpretazioni elaborate in ambito nazionale che risultino incompatibili con disposizioni del diritto dell’Unione applicabili nella controversia, come intrepretate dalla Corte di giustizia, esercita un potere giurisdizionale di cui è radicalmente privo, ravvisandosi un caso tipico di difetto assoluto di giurisdizione – per avere compiuto un’attività di diretta produzione normativa non consentita nemmeno al legislatore nazionale – censurabile per cassazione con motivo inerente alla giurisdizione. Diversamente dalla sentenza affetta da semplice violazione di legge in fattispecie regolate dal diritto nazionale, ove la erronea interpretazione o applicazione della legge è, di regola (tranne in casi eccezionali), pur sempre riferibile a un organo giurisdizionale che è emanazione della sovranità dello Stato, nelle controversie disciplinate dal diritto dell’Unione lo Stato ha rinunciato all’esercizio della sovranità, la quale è esercitata dall’Unione tramite i giudici nazionali, il cui potere giurisdizionale esiste esclusivamente in funzione dell’applicazione del diritto dell’Unione.”
Ancora, si legge sempre nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale: “la nozione di giurisdizione è sufficientemente ampia da fare ritenere a queste Sezioni - le quali vigilano sul “rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni” - che il ricorso per Cassazione costituisca l’estremo rimedio apprestato dall’ordinamento nazionale per evitare la formazione di qualunque giudicato contrario al diritto dell’Unione.”
Nella propria ordinanza, non potendo ignorare la sentenza dalla Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione ne ha derubricato il contenuto a “prassi giurisprudenziale” (così qualificando l’unica giurisprudenza nazionale che ha natura esplicita, quantomeno atipica, di fonte del diritto, presentando l’effetto proprio di abrogazione di norme vigenti) e ha sollecitato la Corte di giustizia ad entrare in conflitto con la giurisprudenza del giudice costituzionale italiano (di cui per altro non ha ricostruito, nell’ordinanza di rimessione, il contenuto), ricordando al giudice europeo che: “è inammissibile che norme di diritto nazionale, quand’anche di rango costituzionale, possano menomare l’unità ed efficacia del diritto dell’Unione (Corte di giustizia 8 settembre 2010, Winner Wetten Gmbh in causa C-409/06)” e che “all’applicazione del diritto comunitario non è di ostacolo l’esistenza di disposizioni nazionali contrastanti, anche se conformi a (o esecutive di) principi costituzionali”. [5]
Da ultimo la Corte estendeva il proprio quesito alla possibilità di offrire rimedio anche al caso di semplice omesso rinvio pregiudiziale obbligatorio da parte del Consiglio di Stato, fattispecie in verità distinta e ulteriore rispetto anche alla tradizionale elaborazione del concetto dinamico di giurisdizione da parte del giudice di legittimità, che era ancorata non alla mera omissione del rinvio ma quantomeno ad una obiettiva violazione di principi già elaborati dalla Corte [6].
5. La procedura davanti alla Corte di giustizia.
Nella propria richiesta di rinvio pregiudiziale la Corte di Cassazione ha invocato l’applicazione della procedura accelerata prevista dall’art. 105 del regolamento di procedura della Corte di giustizia che recita: “1. Su domanda del giudice del rinvio o, in via eccezionale, d’ufficio, quando la natura della causa richiede un suo rapido trattamento, il presidente della Corte, sentiti il giudice relatore e l’avvocato generale, può decidere di sottoporre un rinvio pregiudiziale a procedimento accelerato, in deroga alle disposizioni del presente regolamento. 2. In questo caso il presidente fissa immediatamente la data dell’udienza, che sarà comunicata agli interessati menzionati dall’articolo 23 dello statuto, contestualmente alla notifica della domanda di pronuncia pregiudiziale. 3. Gli interessati menzionati nel paragrafo precedente possono depositare, entro un termine fissato dal presidente e che non può essere inferiore a 15 giorni, memorie od osservazioni scritte. Il presidente può invitare detti interessati a limitare le loro memorie od osservazioni scritte ai punti di diritto essenziali sollevati dalla domanda di pronuncia pregiudiziale. 4. Le eventuali memorie od osservazioni scritte sono comunicate anteriormente all’udienza a tutti gli interessati menzionati dall’articolo 23 dello statuto. 5. La Corte statuisce, sentito l’avvocato generale.”
L’istanza è stata supportata assumendo che le problematiche involgessero delicati equilibri costituzionali, coinvolgessero un gran numero di vertenze pendenti presso la Corte di Cassazione e riguardassero un settore, gli appalti pubblici, fisiologicamente soggetto ed esigenze di celerità di giudizio.
La Corte di giustizia, facendo appello alla propria giurisprudenza, ha ricordato che la procedura accelerata viene ammessa esclusivamente in ipotesi eccezionali (sentenza 15 luglio 2021 Commissione contro Polonia, in causa C‑791/19, in tema di regime disciplinare dei giudici), mentre tutte e tre le ragioni poste a supporto dell’istanza sono già state ritenute inidonee a tal fine nella giurisprudenza della Corte stessa.
In particolare non è stato ritenuto sufficiente per invocare “l’eccezionale” esigenza di rapida trattazione né il fatto in sè che la questione incida sull’ordinamento giudiziario, né il fatto che riguardi un numero potenzialmente elevato di interessati (ordinanza del presidente della Corte del 18 settembre 2018, Tedeschi e Consorzio Stabile Istant Service, C‑402/18), né la sua attinenza alla materia degli appalti (ordinanza del presidente della Corte del 13 novembre 2014, Star Storage, C‑439/14).
Esclusa la procedura accelerata il presidente dalla Corte ha ritenuto che la causa, ai sensi dell’art. 53 co. 3 del regolamento di procedura, meritasse la “decisione in via prioritaria”, tenuto conto “della natura e dell’importanza delle questioni sollevate.”
Il Governo italiano ha, infine, chiesto l’applicazione dell’art. 16 co. 3 dello Statuto della Corte di giustizia che prevede che: “La Corte si riunisce in grande sezione quando lo richieda uno Stato membro o un’istituzione dell’Unione che è parte in causa”.
La Corte ha inoltre preliminarmente riformulato alcune delle questioni come prospettate dal giudice del rinvio, escludendo i richiami alle disposizioni ritenute non pertinenti; in particolare ha evidenziato che non risultava pertinente la prospettata violazione, da parte dell’assetto raggiunto dal nostro ordinamento, dell’art. 267 del TFUE in quanto tale. Esso infatti rappresenta uno strumento di cooperazione tra Corti volto a rafforzare il controllo giurisdizionale del rispetto del diritto dell’Unione, anche per il tramite dei giudici nazionali; la problematica posta dal giudice del rinvio, come ben compresa dal giudice europeo, chiamando in causa il rapporto, tutto interno allo Stato membro, tra “organo giurisdizionale supremo nazionale” e “supremo organo della giustizia amministrativa nazionale”, è stata ritenuta estranea a questioni di cooperazione tra la Corte di giustizia e i giudici nazionali, che la Corte necessariamente considera nel loro insieme.
6. Le risposte della Corte di giustizia.
Per quanto in specifico concerne l’aspetto processuale amministrativo, ossia il rapporto tra ricorso incidentale e ricorso principale, la Corte di giustizia non ha potuto che ribadire, nella sostanza, i propri precedenti, ed affermare la non conformità all’ordinamento eurounitario di una decisione che non valuti le contestazioni mosse da un concorrente di una gara di appalto la cui esclusione dalla stessa, in quanto impugnata, non possa dirsi definitiva (sul punto si veda supra § 2 e 3).
Più interessante, per l’attualità del dibattito anche all’interno del nostro ordinamento, l’analisi della decisione per i profili inerenti i necessari rimedi che lo Stato membro deve approntare a fronte di decisioni nazionali potenzialmente in contrasto con il diritto UE e la valutazione della soluzione proposta dalla Corte di Cassazione
La Corte di giustizia ha preliminarmente ricordato il noto principio secondo cui la direttiva 89/665 sancisce l’obbligo per gli Stati membri di prevedere ricorsi efficaci in materia di appalti; ciò implica che le modalità di ricorso interno in tali materie debbano conformarsi all’esigenza di un ricorso effettivo innanzi a un giudice imparziale, sancito anche dall’art. 47 della Carta, il tutto in base al principio del primato del diritto dell’Unione, non pregiudicabile neppure da norme di rango costituzionale (sentenza 22 giugno 2021 B. contro Latvijas Republikas Saeima, in causa C-439/19; sentenza 18 maggio 2021 Asociatia “Formul Judecatorilor din Romania, in causa C-83/19); ne discende il connesso obbligo di eventuale disapplicazione di norme costituzionali e superamento di orientamenti giurisprudenziali contrastanti con il preminente diritto comunitario (sentenza 5 aprile 2016 Puligienica Facility Esco s.p.a., in causa C-689/13).
Tuttavia, fermo e ribadito il principio della tutela giurisdizionale effettiva delle posizioni giuridiche soggettive di derivazione europea in quanto principio generale del diritto dell’Unione coerente con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e sancito dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (sentenza 15 luglio 2021 Commissione contro Polonia, in causa C-791/19), secondo altrettanto consolidata tradizione della Corte “spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro, in forza del principio di autonomia procedurale, stabilire le modalità processuali dei rimedi giurisdizionali, a condizione che tali modalità, nelle situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe disciplinate dal diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’Unione”.
Infatti, ricorda la Corte, “il diritto dell’Unione, in linea di principio, non osta a che gli Stati membri limitino o subordinino a condizioni i motivi che possono essere dedotti nei procedimenti per cassazione, purchè siano sati rispettati i principi di effettività ed equivalenza (sentenza 17 marzo 2016 Bensada Benallal, in causa C -161/15)”.
La Corte ha poi preso atto che i limiti del ricorso per cassazione per motivi attinenti la giurisdizione previsti nel nostro ordinamento relativamente alle sentenze del Consiglio di Stato risultano disegnati in modo simmetrico, indipendentemente dal fatto che si tratti di disposizioni di diritto nazionale o di diritto dell’Unione; ne ha inferito il rispetto del principio di equivalenza.
Quanto al principio di effettività, il diritto dell’Unione non obbliga gli Stati membri ad istituire mezzi di ricorso ad hoc, a meno che non risulti che nell’ordinamento nazionale non esista “alcun rimedio giurisdizionale che permetta, anche solo in via incidentale, di garantire il rispetto dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione (sentenza 14 maggio 2020 FMS, FZ, SA, SA junior, in causa C-924/19)”; in presenza di un rimedio giurisdizionale è stato quindi ritenuto “perfettamente ammissibile” “che lo Stato membro interessato conferisca al supremo organo della giustizia amministrativa di detto Stato la competenza a pronunciarsi in ultima istanza, tanto in fatto quanto in diritto, sulla controversia di cui trattasi e di impedire, di conseguenza, che quest’ultima possa ancora essere esaminata nel merito nell’ambito di un ricorso per cassazione dinanzi all’organo giurisdizionale supremo dello stesso Stato”.
La Corte ha così riconosciuto anche il rispetto del principio di effettività da parte dell’attuale assetto dell’ordinamento italiano.
Né tale conclusione può essere messa in discussione dall’art. 4 par. 3 del TFUE che obbliga gli Stati membri ad “adottare ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione, in quanto lo stesso non può essere interpretato nel senso di imporre l’obbligo di istituzione di nuovi rimedi giurisdizionali”.
La stessa direttiva 89/665 prescrive che la decisione di una amministrazione aggiudicatrice possa essere oggetto di un ricorso efficace e rapido accessibile “quantomeno a chiunque abbia o abbia avuto interesse ad ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione; assumendo nel caso concreto che i singoli abbiano accesso, con il ricorso al giudice amministrativo, ad un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge, il fatto che le decisioni di quest’ultimo non siano ulteriormente sindacabili innanzi al giudice supremo non rappresenta una limitazione dell’accesso al giudice che possa dirsi incompatibile con l’ordinamento comunitario”.
Da ultimo la Corte ha concluso che, nel caso di specie, essendosi verificata una violazione del diritto eurounitario all’esito della decisione del giudice amministrativo di appello, pur non imponendo il diritto dell’Unione quale rimedio la possibilità di un ulteriore ricorso innanzi all’organo giurisdizionale supremo se tale mezzo di impugnazione non è ordinariamente previsto nello Stato membro, il sistema si chiuderà o con l’obbligo dello Stato membro, compreso lo stesso supremo giudice amministrativo, di disapplicare la giurisprudenza non conforme al diritto dell’Unione o, in caso di inosservanza di tale obbligo, con la possibilità per la Commissione europea di proporre ricorso per inadempimento contro lo Stato; quanto al singolo pregiudicato, questi potrà far valere la responsabilità dello Stato, purchè siano soddisfatte le condizioni relative al carattere sufficientemente qualificato della violazione e all’esistenza di un nesso causale diretto tra tale violazione e il danno subito (sentenza 30 settembre 2003 Kobler, in causa C-224/01).
La Corte di giustizia ha posto, si spera, la parola fine al tentativo per via giudiziaria di instaurare un sindacato generalizzato dalla Corte di Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato.
Quanto infine all’omessa attivazione dell’obbligo da parte del Consiglio di Stato, in qualità di giudice di ultima istanza, di interpellare la Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE, la Corte ha rilevato che, dagli atti, non risultava che il Consiglio fosse stato sollecitato sul punto dalle parti e avesse omesso di proporre il rinvio pregiudiziale. In effetti, dalla lettura della pronuncia, non risulta una espressa contestazione di parte (che per altro, si ricorda, in primo grado era anche rimasta soccombente sul merito delle censure) volta a sollecitare un rinvio pregiudiziale, verosimilmente perché la questione non era emersa nelle forme “canoniche” del rapporto tra ricorso principale e incidentale ma, più semplicemente, in relazione alla legittimazione/interesse alla proposizione di più motivi di ricorso da parte di uno stesso soggetto.
La questione dell’omesso rinvio pregiudiziale è quindi stata ritenuta irricevibile dalla Corte nel caso di specie, in quanto priva di attinenza con l’oggetto della controversia.
Sull’esatta perimetrazione degli obblighi di rinvio pregiudiziale la giurisprudenza eurounitaria è tuttavia in questo momento particolarmente attiva; per alcuni spunti di riflessione si rinvia al paragrafo successivo.
7. Le molteplici riflessioni che la decisione della Corte di giustizia sollecita.
Delle due grandi questioni che sono state oggetto della decisione della Corte di giustizia - quella, di prospettiva interna, del riparto tra giurisdizioni e quella, di prospettiva esterna, dei rapporti tra ordinamento nazionale ed ordinamento europeo - pare che la prima, che pure ha destato tanto dibattito a livello nazionale, sia in verità la meno significativa, perché ancorata più al passato che ad una prospettiva ordinamentale moderna.
7.1 Il riparto di giurisdizione a confronto con la giurisprudenza europea.
Il sistema di doppia giurisdizione rappresenta una scelta della nostra Costituzione, storica, legittima, magari opinabile come ogni scelta, ma che ha ormai raggiunto un suo assetto ed una effettività di tutela che non è seriamente discutibile, se non per petizioni di principio.
Non era destinata a particolare successo la richiesta, rivolta ad un giudice che si rapporta fisiologicamente con diversi ordinamenti, molti dei quali strutturati con doppia giurisdizione di cui riconosce piena legittimità storica ed operativa, di veicolare tesi di presunta necessità/opportunità di unificazione del sistema delle giurisdizioni; né migliore sorte poteva avere, a fronte di un sistema che nega l’obbligatorietà financo del doppio grado di giudizio [7], il tentativo di introdurne un terzo, con buona pace della ragionevole durata dei processi.
La Corte, che bene ha inteso il quesito, non ha potuto che replicare che spetta allo Stato membro scegliere come organizzare il proprio sistema di giurisdizione, salvo il limite di effettività di tutela che i plessi giurisdizionali devono garantire; su quest’ultimo punto l’Avvocato generale presso la Corte ha osservato, nelle proprie conclusioni, che: “è pacifico che in Italia esiste un procedimento di controllo dinanzi a giudici indipendenti e che il dibattito verte non sull’istituzione di un mezzo di ricorso, bensì sul modo in cui tale mezzo di ricorso è attuato.”
Quanto al numero dei gradi di giudizio la migliore replica si legge sempre nelle conclusioni presentate dall’Avvocato generale; innanzitutto egli ha ricordato che la giurisprudenza della Corte, oltre alla limitazione dei gradi di giudizio, ammette la limitazione dei motivi di ricorso per cassazione [8], con il solo vincolo che al ricorrente sia garantito almeno un esame di merito della controversia [9]. Ha aggiunto che: “in ogni caso, se una norma processuale quale la limitazione del diritto di ricorrere in cassazione di cui trattasi nel procedimento principale dovesse essere considerata una limitazione del diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice ai sensi dell’articolo 47 della Carta, si dovrebbe ammettere che si tratta di una misura, da un lato, prevista «per legge» e, dall’altro, in grado di dissuadere la presentazione di ricorsi pretestuosi e di garantire ai singoli, nell’interesse di una buona amministrazione della giustizia, la trattazione dei loro ricorsi nel più breve termine possibile, conformemente all’articolo 47, primo e secondo comma, della Carta. Infine, la norma di cui trattasi non eccede quanto necessario per raggiungere tale obiettivo”.
Infine, sempre l’Avvocato generale, non ha mancato di osservare che, per quanto concerne l’estremo tentativo di correggere un eventuale errore giudiziario, non è certo la moltiplicazione dei gradi di giudizio che garantisce la correttezza di ogni decisione. Simile prospettiva si basa sull’indimostrato assunto dell’infallibilità del giudice di ultimo grado, quale che esso sia; la pluralità dei gradi di giudizio non può, in nessun ordinamento, garantire che ogni decisione di ultimo grado sia, sol perché tale, sempre giusta, essendo molto più prosaicamente funzionale alla “chiusura del sistema” ed alla stabilizzazione dei contenziosi e dello loro soluzioni.
Il rimedio per l’errore giudiziario, purtroppo non eliminabile in assoluto, resta, come indicato dalla Corte di giustizia, la via risarcitoria per il singolo e/o, qualora la distonia assuma caratteri di tipo sistemico da parte di uno Stato membro, la procedura per inadempimento da parte della Commissione.
7.2 I delicati equilibri tra ordinamenti nazionali ed ordinamento eurounitario.
La pronuncia in commento offre poi ben più moderni spunti di riflessione sulle problematiche, ancora da affinare, di coordinamento tra ordinamenti in un sistema multilivello, quale quello europeo, in particolare per quanto concerne i rispettivi formanti giurisprudenziali.
La Corte di giustizia ha inteso, da sempre, imporre e rafforzare il proprio ruolo a garanzia del rispetto del diritto dell’Unione in modo omogeneo su tutto il suo territorio, ciò anche a costo di obiettive tensioni con i sistemi processuali nazionali astrattamente predicati appartenere alla sovranità degli Stati membri.
I giudici territoriali sono attori dell’interpretazione comunitariamente conforme, funzione cui sono non solo legittimati ma tenuti, per l’impossibilità, pratica prima che giuridica, che la Corte di giustizia garantisca da sola l’applicazione effettiva del diritto UE su tutto il territorio dell’Unione e perché la Corte, secondo i Trattati, non definisce il caso concreto ma offre l’interpretazione ortodossa delle norme rilevanti per la sua definizione da parte del giudice nazionale.
Le direttrici di sviluppo della giurisprudenza europea sono pertanto inevitabilmente plurime, posto che il rapporto tra giudice nazionale e Corte di giustizia è di complementarietà, non di alternatività. La stessa Corte di giustizia riconosce di non avere il monopolio assoluto dell’interpretazione ma solo quello dell’interpretazione definitiva, sicché la polifonia ermeneutica è, entro certi limiti, fisiologica. [10]
Il coordinamento di questo delicato equilibrio passa proprio attraverso l’art. 267 del TFUE, ossia il rinvio pregiudiziale, strumento di “leale collaborazione” tra Stati. “Il procedimento di rinvio pregiudiziale previsto dall’articolo 267 TFUE costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai Trattati, instaura un dialogo da giudice a giudice tra la Corte e i giudici degli Stati membri che mira ad assicurare l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione, permettendo così di garantire la coerenza, la piena efficacia e l’autonomia di tale diritto nonché, in ultima istanza, il carattere peculiare dell’ordinamento istituito dai Trattati” (sentenza 6 marzo 2018 Achmea, in causa C-284/16).
In questo contesto, del tutto legittimamente, un giudice nazionale elabora ed applica la propria giurisprudenza, nel rispetto del canone dell’interpretazione conforme alla normativa europea, salvo correre il rischio di essere sconfessato da una successiva (e prevalente) lettura delle norme proposta dalla Corte di giustizia. La Corte di giustizia, per parte sua, in materia processuale procede lungo il delicato crinale di separazione tra la predicata autonomia degli ordinamenti (che inevitabilmente produrrà soluzioni variegate) e la necessaria coerenza con i “principi” di tutela unionale di ogni singolo ordinamento.
In materia di appalti occorre, inoltre, confrontarsi con la direttiva 89/665, che appronta, nello specifico settore, puntuali strumenti di tutela intestati direttamente agli operatori del mercato unico.
Il complesso meccanismo incide sull’affidamento delle parti e sulla certezza del diritto (che pure rappresentano pilastri del giusto processo secondo il modello europeo), poiché gli utenti, nel rapporto con le Corti nazionali, calibrano ragionevolmente le loro scelte sull’interpretazione da queste ultime avallata; un revirement indotto dalla Corte di giustizia, tanto più con riferimento alle norme processuali, cioè alle stesse “regole del gioco”, non potrà che avere un forte impatto sulle attese dell’utenza.
La ricerca di possibili soluzioni di equilibrio tra interessi antagonisti affiora nella stessa giurisprudenza della Corte di giustizia.
Sono interessanti, ad esempio, le decisioni rese in relazione alle esplicite richieste di giudici del rinvio pregiudiziale di, qualora la normativa o giurisprudenza nazionale in analisi fosse riscontrata incompatibile con il diritto eurounitario, limitare pro futuro gli effetti dell’obbligo di interpretazione conforme da parte del giudice nazionale, il tutto proprio in ossequio ad esigenze di certezza del diritto e tutela dell’affidamento maturato dagli interessati (sentenza 22 giugno 2021 Latvijas Republikas Saeima, in causa C-439/19).
La richiesta, in relazione ad una giurisprudenza fonte del diritto, evoca meccanismi - quali quello del prospective overruling - che sono fisiologici negli ordinamenti di common law, ben più adusi a confrontarsi con le problematiche che questa fonte può comportare in ipotesi di revirement.
Pur non predicando l’estraneità sistematica del principio al proprio ordinamento, la Corte ne ha ammesso una applicazione circoscritta, nel rispetto della sua centralità. Pertanto, la valutazione della necessità di limitare l’applicazione della decisione pro futuro deve essere lasciata al monopolio della Corte; il giudice del rinvio non può, di sua iniziativa, fare una applicazione circoscritta nel tempo dei principi elaborati dalla Corte, potendo solamente chiedere, nel contesto del rinvio pregiudiziale, proprio a quest’ultima di autorizzare questa operazione (sentenza 8 settembre 2010 Winner Wetten, in causa C-409/06), il tutto a ragionevole garanzia della parità di trattamento dei vari soggetti dell’ordinamento eurounitario rispetto agli obblighi derivanti dall’Unione (sentenza 23 ottobre 2021 Nelson e a., in causa C-581/10).
Ancora, siffatta limitazione può essere ammessa in presenza di due requisiti essenziali: la buona fede degli ambienti interessati e il rischio di gravi inconvenienti (sentenza 6 marzo 2007 Meilicke, in causa C-292/04; sentenza 22 gennaio 2015 Balzas, in causa C-401-13). Questi presupposti vengono specificati nei seguenti termini: “rischio di gravi ripercussioni economiche dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base della normativa ritenuta validamente vigente” nonchè “quando risultava che i singoli e le autorità nazionali erano stati indotti ad un comportamento non conforme al diritto dell’Unione in ragione di una oggettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni del diritto dell’Unione, incertezza alla quale avevano eventualmente contribuito gli stessi comportamenti tenuti da altri Stati Membri o dalla Commissione” (sentenza 10 maggio 2012 Santander Asset Management SGIIC SA ed altri, in cause C-338/11 e C-347/11). Non sono per contro rilevanti le conseguenze di bilancio che potrebbero derivare a carico dello Stato membro (sentenza 15 marzo 2005 Bidar, in causa C-209/03).
Astrattamente affermato il principio, la Corte di giustizia quasi mai ha riconosciuto che gli Stati avessero dato prova della sussistenza di obiettive condizioni che giustificassero una limitazione nel tempo degli effetti della sua giurisprudenza (per un caso di limitazione pro futuro degli effetti della decisione si veda la sentenza 16 luglio 1992 Léopold Legros, in causa C-163/90).
Deve tuttavia osservarsi che la Corte si è confrontata con queste istanze con riferimento principalmente ad interpretazioni di diritto sostanziale e una riflessione con diverso esito potrebbe essere sollecitata con specifico riferimento al diritto processuale, proprio per la peculiarità della sua valenza quale “regola del gioco” e per la fisiologica autonomia di cui gli Stati membri godono in materia. Non pare casuale, ad esempio, che, anche nell’ordinamento italiano, il quale, non contemplando almeno formalmente la giurisprudenza quale fonte del diritto ha maturato solo recentemente riflessioni in tema di prospective overruling, l’istituto abbia trovato ingresso proprio a partire dal diritto processuale.
Volendo provare a porsi nella prospettiva della Corte, è un fatto storico che il processo di integrazione europea ha seguito percorsi a geometrie variabili; gli Stati sono entrati nell’Unione a decine di anni di distanza gli uni dagli altri, e alcuni di essi si sono visti imporre condizioni di importanti modifiche ordinamentali proprio ai fini dell’adesione. I diversi ordinamenti si trovano dunque ad un diverso stadio del loro percorso di integrazione. Nella recente casistica della Corte risulta che alcuni Stati membri tuttora contestano in toto la possibilità della Corte di intervenire in materia di organizzazione giudiziaria, anche per l’indiretto fine di garantire l’affermazione dello Stato di diritto (sentenza 18 maggio 2021 Asociatia “Formul Judecatorilor din Romania, in causa C-83/19); né sfugge che vi siano ordinamenti nazionali che, anche per via processuale, manifestano tendenze centrifughe e strategie incompatibili con i principi fondamentali dell’Unione, che quest’ultima legittimamente contrasta per la sua stessa sopravvivenza. E’ interessate la lettura della sentenza 2 marzo 2021 A.B. e altri, in causa C-824/18, che delinea un quadro del sistema giudiziario polacco non rassicurante, nel cui contesto sembra contrastarsi, se non punirsi, l’uso del rinvio pregiudiziale da parte dei giudici.
In simili ipotesi, nessun affidamento sul persistere di sistemi processuali distonici con le esigenze dell’adesione ad un’Unione sovranazionale potrà essere avallato e risulta comprensibile una restrittiva impostazione della Corte, anche sul piano processuale; d’altro canto il rinvio pregiudiziale ha appunto il fisiologico scopo di “evitare che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme comunitarie” (sentenza 12 giugno 2008 Skatteverket contro Gourmet Classic Ltd., in causa C-458/06).
Si comprende così anche perché nei precedenti citati nella sentenza in commento, la Corte di giustizia abbia ricordato che: “l’att. 49 TUE, che prevede la possibilità per ogni Stato europeo di chiedere di diventare membro dell’Unione, precisa che quest’ultima riunisce Stati che hanno liberamente e volontariamente aderito ai valori comuni attualmente previsti dall’art. 2 TUE, che rispettano tali valori e che si impegnano a promuoverli. In particolare dall’art. 2 TUE discende che l’Unione si fonda su valori, quali lo Stato di diritto, che sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata, in particolare, dalla giustizia. Va rilevato, al riguardo, che la fiducia reciproca tra gli Stati membri e, segnatamente, i loro giudici si basa sulla premessa fondamentale secondo cui gli Stati membri condividono una serie di valori comuni sui quali l’Unione di fonda…Il rispetto da parte di uno Stato membro dei valori sanciti dall’art. 2 TUE costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei Trattati..Uno Stato membro non può modificare la propria normativa in modo da determinare una regressione della tutela del valore dello Stato di diritto.”
Tuttavia la fiducia è questione reciproca e deve essere contestualizzata.
Il quadro italiano, per quanto indubbiamente suscettibile di miglioramento, è caratterizzato da un forte e risalente attivismo dei giudici nazionali (e di quello amministrativo in particolare [11]) nel dialogo con la Corte di giustizia.
Un dialogo serrato è sintomo del fatto che una “leale collaborazione” tra Corti si è, nella sostanza, instaurata e, in tale contesto, appare improprio o, per usare un concetto caro alla giurisprudenza della Corte di giustizia, sproporzionato, liquidare come ingiustificata a priori ogni interpretazione di diritto processuale non esattamente aderente ai concomitanti sviluppi della giurisprudenza della Corte di giustizia. D’altro canto lo stesso Avvocato generale ha riconosciuto, nelle conclusioni presentate per la decisione in commento, che nell’insieme il sistema della giustizia amministrativa italiana soddisfa certamente i requisiti di effettività di tutela.
Così contestualizzato, il dibattito giurisprudenziale in materia processuale non può essere considerato per forza sintomatico di una spinta centrifuga, essendo piuttosto l’in sé del progredire di questo tipo di formante; la Corte dovrebbe e potrebbe allora affinare i propri strumenti di dialogo per non rischiare il paradosso di essere più severa con gli Stati più europeisti, che più spesso la interpellano.
Per quanto poi concerne la materia degli appalti come già ricordato, l’intervento europeo risulta rafforzato dall’adozione di specifiche direttive, quale la ben nota direttiva 89/665.
E’ pacifico che la disciplina europea dell’evidenza pubblica è stata, nella sua prima implementazione, foriera in Italia di significativi e positivi progressi dell’ordinamento nazionale, anche e proprio per il tramite della conformazione dei rimedi processuali [12].
Se si ripercorre la vicenda del rapporto tra ricorso principale e incidentale nel processo amministrativo italiano alla luce di queste considerazioni di sistema, tuttavia, pare innanzitutto di poter escludere che essa chiami in causa l’assetto fondante della tutela o la carenza di specifici rimedi.
Il dibattito sul punto non è stato posto dal giudice italiano in termini sistematicamente pretestuosi. Non era così evidente, nella sentenza Fastweb, che il principio fosse destinato ad espandersi anche alle gare con più concorrenti, in cui venivano lamentati vizi di diversa natura e/o afferenti a diverse fasi della procedura. Neppure possono individuarsi intenti complessivi o di tendenza del giudice nazionale di sottrarsi in specifico all’applicazione del diritto dell’Unione [13] o disparità di trattamento tra posizioni giuridiche soggettive di derivazione nazionale ed europea, posto che non consta, ad esempio, che il giudice amministrativo seguisse diversi criteri di ordine di analisi delle questioni per le gare soprasoglia e per quelle sottosoglia prive di interesse transfrontaliero.
Anche a voler analizzare la problematica alla luce delle puntuali indicazioni della direttiva 89/665, da un lato, nella sua disciplina sostanziale, non si rinviene alcuna regolamentazione delle condizioni dell’azione, dall’altro, in termini di principio, l’art. 1 par. 1 e 3, alla luce dei quali la Corte ha riformulato il quesito alla medesima sottoposto nel caso in analisi, stabiliscono rispettivamente: “1. Gli Stati membri prendono i provvedimenti necessari per garantire che, per quanto riguarda le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici disciplinati dalle direttive 71/305/CEE e 77/62/CEE, le decisioni prese dalle autorità aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso efficace e, in particolare, quanto più rapido possibile, secondo le condizioni previste negli articoli seguenti, in particolare l'articolo 2, paragrafo 7, in quanto tali decisioni hanno violato il diritto comunitario in materia di appalti pubblici o le norme nazionali che recepiscono tale diritto….3. Gli Stati membri garantiscono che le procedure di ricorso siano accessibili, secondo modalità che gli Stati membri possono determinare, per lo meno a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l'aggiudicazione di un determinato appalto pubblico di forniture o di lavori e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una violazione denunciata.”
A stare al tenore letterale della norma essa ha ad oggetto un appalto determinato (e non ipotetico e futuro, e come tale indeterminato nei suoi contenuti) rispetto al quale si “abbia” o “si abbia avuto” (e non “si avrà”) interesse. La disposizione, cioè, è suscettibile anche di letture in linea con un sistema che accorda tutela solo ad interessi attuali e concreti, inerenti a procedure in corso.
Ancora la stessa sentenza Fastweb richiama, tra l’altro, e come visto, il precedente Hackermüller (sentenza 19 giugno 2003, in causa C-249/01), nel quale si era affermato, sotto lo specifico profilo della legittimazione/interesse ad agire, che l’art. 1 par. 3 della direttiva 89/665 “non impedisce che le procedure di ricorso previste da detta direttiva siano accessibili alle persone che vogliono ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto pubblico soltanto se queste ultime siano state o rischino di essere lese attraverso la violazione da loro denunciata”, dando sostanzialmente per scontato che la tutela è offerta a chi chiede l’aggiudicazione di un “determinato” appalto e non certo a chi invoca la riedizione di una, necessariamente diversa, gara; ancora la Corte, dopo aver ricordato che nella direttiva 89/665 i meccanismi di tutela sono volti “a rafforzare l’effettiva applicazione delle direttive comunitarie in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici, in particolare in una fase in cui le violazioni possono ancora essere corrette” ha chiarito che essa impedisce che ad un offerente venga negato l’accesso alle procedure di ricorso per contestare la legittimità della decisione dell’autorità aggiudicatrice di non considerare la sua offerta come la migliore, per il motivo che tale offerta avrebbe dovuto essere preliminarmente esclusa da detta autorità aggiudicatrice per altre ragioni e che, pertanto, egli non è stato o non rischia di essere leso dall’illegittimità da lui denunciata.
Anche in tal caso sembra darsi in verità per assunto che la tutela sia offerta al soggetto che è risultato escluso al fine di consentirgli che “la sua offerta sia considerata come la migliore” in quella gara, e non certo al fine di consentirgli l’accesso ad una nuova e diversa procedura, con necessaria formulazione di una nuova e diversa offerta. In tale contesto nessun dubbio può avanzarsi sul fatto che il giudice amministrativo italiano, se riscontra che l’esclusione è stata indebita e il concorrente poteva e doveva partecipare al prosieguo della procedura, proceda poi alla correzione in corso della gara, consentendo al ricorrente di ottenere, appunto, la valutazione di merito della sua offerta.
Infine, sempre nella citata pronuncia della Corte di giustizia, si legge: “nell’ambito della procedura di ricorso aperta a detto offerente quest’ultimo deve essere legittimato a contestare la fondatezza del motivo di esclusione in base al quale l’autorità responsabile delle procedure di ricorso ritiene di concludere che egli non sia stato e non rischi di essere leso della decisione di cui denuncia l’illegittimità”; nessun dubbio che al concorrente escluso si consenta preliminarmente di contestare la sua esclusione, replicando all’eventuale ricorso incidentale e comunque all’eccezione di inammissibilità; la declaratoria di inammissibilità delle domande o dei motivi lo colpisce infatti solo se la sua esclusione verrà, preliminarmente, valutata legittima in esito al fisiologico contraddittorio tra le parti.
Ne consegue che non è affatto ovvia, anche alla luce della direttiva comunitaria e dei principi affermati nella sentenza Fastweb, la dequotazione, se non del concetto di legittimazione ad agire, certamente di quello dell’interesse ad agire (condizione dell’azione, per altro comune alla tradizione giuridica degli Stati membri) di fatto sviluppata dalla Corte di giustizia nei suoi successivi arresti.
La Corte ha infatti finito per porre sullo stesso piano un interesse all’aggiudicazione (o quantomeno all’avanzamento in graduatoria, o ancora l’interesse di chi veda una contratto tout court affidato senza aver mai potuto accedere alla gara o perché omessa in toto o perché corredata di condizioni escludenti improprie), interesse la cui concretezza ed attualità è fuori discussione, con un interesse, del tutto ipotetico, alla riedizione di una procedura da parte di chi vi ha partecipato, in ipotesi, senza averne i requisiti ed invoca, come extrema ratio, una riedizione del confronto concorrenziale di cui non si sa né se avrà luogo e in che termini, né se questi vi prenderà parte né, tanto meno, se ne risulterà aggiudicatario.
Se poi l’estensione di tutela poteva giustificarsi nello specifico caso Fastweb, non certo per una mancanza di accesso al giudice, ma per l’evidente difficoltà di qualunque giudice di avallare, su un piano logico prima che giuridico, che due posizioni del tutto simmetriche seguano sorti distinte nel medesimo giudizio, gli sviluppi successivi sono frutto di una forse eccessiva semplificazione degli istituti di diritto processuale.
La forzatura interpretativa potrebbe anche denunciare un tentativo, da parte del giudice europeo, di attribuire al processo in materia di appalti la funzione di astratta verifica del rispetto delle norme sovranazionali in materia (una sorta di garanzia di legittimità oggettiva delle procedure), ignorando tuttavia quella che è una caratteristica strutturale di buona parte dei sistemi di giustizia amministrativa degli Stati membri, ossia l’essere strutturati come giurisdizioni di tipo soggettivo e non oggettivo.
Alternativamente si potrebbero anche fare proprie le critiche alla giurisprudenza della Corte mosse dall’Avvocato generale Bobek nelle conclusioni presentate il 15 aprile 2021 per la causa C.561/19 Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, in cui egli osservava che il ruolo della Corte è innanzitutto quello di fornire interpretazioni omogenee del diritto Ue, e quindi rispondere a dubbi di carattere oggettivo-ordinamentale mossi dai giudici nazionali, e non quello di intervenire direttamente nella risoluzione di singole controversie individuali, entrando in valutazioni caso per caso o di tipo soggettivo. La critica non è stata accolta dalla Corte nella decisione del 6 ottobre 2021, ma resta sintomatica di un disagio che l’attivismo della Corte, con procedere un po’ disordinato, pare suscitare anche a livello europeo.
All’osservazione dell’Avvocato generale potrebbe in verità obiettarsi che, nella materia degli appalti, operano specifiche direttive che intestano prerogative proprio ai singoli operatori e quindi la distinzione tra problematiche di tipo soggettivo e dubbi di carattere oggettivo, nello specifico settore, si assottiglia; tuttavia, in questo caso, prende maggiore forza l’esigenza della compatibilità delle soluzioni adottate dalla Corte, che di norma procede come giurisdizione di tipo oggettivo, rendendo interpretazioni di norme indirizzate ad altri giudici, quando esse vengono traslate nelle giurisdizioni nazionali, fisiologicamente deputate a risolvere controversie individuali e che applicano il diritto processuale secondo impostazioni strutturalmente di tipo soggettivo.
Se i giudici nazionali, quantomeno italiani, quali giudici di prossimità, si sono rivelati i terminali più sensibili per il rapido recepimento dell’ordinamento eurounitario (a riprova dell’ormai armonica integrazione delle Corti), ciò non giustifica allora l’ambiguo tentativo di renderli oggettivamente – e non più soggettivamente – garanti del rispetto del diritto dell’Unione sotto ogni profilo, in evidente distonia con il ruolo di giudici che operano su impulso di parte.
L’astratta parificazione di interessi di consistenza nella realtà molto diversa rischia, per altro, di produrre distorsioni rispetto agli obiettivi della stessa Unione europea.
Sarebbe, ad esempio, interessante verificare in concreto quante delle imprese che hanno invocato in giudizio l’azzeramento della procedura in nome della sua futura riedizione abbiano poi ottenuto l’aggiudicazione o non abbiano piuttosto semplicemente beneficiato della permanenza nella gestione di un servizio di cui erano in quel momento titolari, magari a condizioni ormai troppo vantaggiose rispetto al mercato. In tali casi gli operatori non avevano verosimilmente interesse a farsi garanti della regolare gestione della procedura, secondo astratti principi della concorrenza, ma più probabilmente ad ostacolare l’alternanza nell’affidamento, perseguendo un risultato contrario alla disciplina europea della concorrenza.
Peggio, il concreto interesse potrebbe essere quello, ovviamente non esplicitabile, del disturbo di una procedura per mantenere la chiusura di un mercato o di una indiretta guerra commerciale, tutti obiettivi rispetto ai quali il ricorso diviene mera occasione. Per non dire che l’azzeramento della procedura in favore di un concorrente che abbia, come nel caso analizzato nella decisione in commento, presentato una offerta non ammissibile perché errata, offre a questo candidato l’opportunità di confezionarne una ex novo, addirittura provocando una nuova gara, possibilità che mai sarebbe data nell’ambito di un’unica procedura ad offerte note, perché granitica giurisprudenza eurounitaria predica che ogni e qualunque variazione dell’offerta a procedura in corso rappresenta una violazione della par condicio dei concorrenti.
In definitiva, se il sistema è organizzato per seguire impulsi di parte, esso sarà caratterizzato, legittimamente, solo da logiche di parte; il fatto che la Corte di giustizia, nello sforzo di massimizzare l’effettività del diritto UE, assuma in teoria che le parti siano anche tutori dell’ordinamento nel suo complesso, quando ciò non corrisponde alla realtà del contenzioso, non indurrà certo queste ultime a sopportare non indifferenti (quanto legittimi nella giurisprudenza della Corte [14] costi per farsi tutori della legalità astratta ma produrrà probabilmente distorsioni pratiche.
A fronte di questi rischi la verifica processuale, se non della legittimazione, dell’attualità dell’interesse ad agire, non è un ingiustificato ostacolo alla tutela ma un importante filtro di garanzia di buon funzionamento del sistema e un disincentivo ad azioni emulative. Per altro, se un problema di effettività di tutela sussiste per la giustizia italiana, non è certo, come visto, quello di accesso al giudice, anche europeo, ma, se mai, quello della rapidità ed efficienza della risposta della giustizia, che viene pregiudicata dall’eventuale moltiplicazione di contenziosi artificiali.
Nell’affinamento del dialogo tra Corti sarebbe allora importante, da parte del giudice nazionale, migliorare le modalità con cui vengono veicolate le problematiche innanzi alla Corte giustizia (quest’ultima ha talvolta espressamente richiamato il giudice italiano al rispetto delle regole di procedura relative alla precisione e chiarezza con cui le questioni pregiudiziali vengono proposte, come nella citata sentenza del 19 aprile 2018, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi), anche rendendo più esplicite e non dando per scontate le ragioni di contesto delle proprie scelte; è poi rilevante offrire una descrizione del sistema normativo il più possibile oggettiva (non giova alla leale collaborazione tra Corti rappresentare la giurisprudenza costituzionale italiana come una “prassi”); neppure sarebbe inutile dotarsi di analisi statistiche dei contenziosi, che rappresentano uno strumento che, a livello sovranazionale, ottiene considerazione, oltre a porre attenzione a tutte le tecniche che possono essere invocate, quale ad esempio la limitazione pro futuro dell’eventuale decisione negativa.
Sul fronte della Corte di giustizia si può auspicare un’evoluzione che tenga conto del progredire dell’integrazione europea oltre che dell’emersione, anche dinnanzi alla stessa Corte, di esigenze di contenere il contenzioso, nonchè di contraddizioni intrinseche.
I rischi di moltiplicazione esponenziale dei rinvii pregiudiziali a fronte di un diritto UE sempre più pervasivo [15] e l’insopprimibilità dell’attività interpretativa di ogni giudice, che non deve essere indotto a soluzioni “difensive” una volta stabilita la sua legittimazione a tale compito, e il suo inserimento in un sistema coerente con i principi UE, sono stati ben evidenziati nella sentenza non definitiva del Consiglio di Stato, sez. IV, 14 settembre 2021, n. 6290 con cui, sempre in sede di rinvio pregiudiziale, si è nuovamente sollecitata la Corte ad una aggiornata riflessione sugli effetti, anche potenzialmente distorsivi, che il rigore dei noti quanto risalenti criteri Cilfit compendiati nella cosiddetta “dottrina dell’acte clair" (sentenza 6 ottobre 1982, in causa C-283/81) in tema di presupposti dell’obbligo di rinvio pregiudiziale possono indurre in un contesto fortemente evoluto.
In senso critico del sistema si è espresso, come già detto, l’Avvocato generale nelle conclusioni presentate il 15 aprile 2021 per la causa C-561/19, Consorzio italian Management in cui si legge testualmente: “ritengo che l’uniformità ex sentenza Cilfit quanto alla corretta applicazione del diritto dell’Unione in ciascun caso di specie sia un’utopia”.
Restando alla problematica processuale qui di interesse, ossia la legittimità di filtri processuali ancorati se non alla legittimazione quantomeno all’interesse ad agire, anche in materia di appalti, la stessa Corte non censura i meccanismi che disciplinano l’azione in modo funzionale al regolare svolgimento del giudizio ed alla certezza del diritto; basti pensare alla predicata legittimità delle decadenze, purchè non tali da rendere impossibile l’azione, all’affermazione per cui cade l’obbligo del giudice di ultimo grado di proporre rinvio pregiudiziale quando la questione di diritto eurounitario non sia stata tempestivamente e ritualmente introdotta nel giudizio nazionale (sentenza 6 ottobre 2021 Consorzio Italian Management, in causa C-561/19), con salvaguardia delle preclusioni infraprocessuali e disincentivo delle istanze “a catena” o, ancora, ai più recenti orientamenti in tema di giudicato (sentenza 4 marzo 2020 Telecom Italia s.p.a., in causa C-34/19), certamente funzionali a garantire la stabilizzazione del contenzioso.
Infine la Corte di giustizia, nella pronuncia in commento, ha indicato come possibile chiusura del sistema l’azione risarcitoria in favore del singolo e, nel menzionarla, ha ricordato i propri precedenti del 30 settembre 2003 Köbler, in causa C‑224/01, 24 ottobre 2018 XC e a., in causa C‑234/17, nonché 4 marzo 2020 Telecom Italia, in causa C‑34/19. La sentenza Köbler ha chiarito che la responsabilità dello Stato per una decisione di un organo giurisdizionale deve essere valutata tenendo conto della specificità della funzione giurisdizionale stessa, nonché delle legittime esigenze della certezza del diritto, sempre che la norma comunitaria sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli e sussista un nesso causale diretto tra questa violazione e il danno subito dalle parti lese.
La sentenza ha ribadito che “il principio della responsabilità dello Stato inerente all’ordinamento giuridico comunitario richiede un tale risarcimento, ma non la revisione della decisione giurisdizionale che ha causato il danno”.
Premesso che la sentenza è quindi allineata con l’orientamento per cui l’errore giudiziario non si contrasta con una moltiplicazione all’infinito dei gradi di giudizio, anche tralasciando la non indifferente problematica delle esigenze di certezza del diritto correlate ai revirement giurisprudenziali ed alla giurisprudenza in fieri, la risarcibilità secondo il canone europeo (che in materia di appalti rappresenta, in linea di principio, un succedaneo rispetto alla reintegrazione in forma specifica) presuppone che la parte possa lamentare un nesso di causalità diretta con il danno.
Non sembra così ovvia la sussistenza di un nesso di causalità diretta tra una illegittimità commessa nell’ambito di una procedura e la, del tutto eventuale, partecipazione ad altra gara di cui non si possono conoscere né presupposti né esiti e nemmeno la reale volontà di partecipazione dello stesso concorrente, il che espone al paradosso che il ricorrente che si ritiene vantare un interesse all’azzeramento della gara in nome dell’effettività della tutela difficilmente potrebbe ottenere un risarcimento (ossia un minus di tutela) non riuscendo a dimostrare di avere subito una lesione diretta di un suo interesse.
La complessa elaborazione del giusto equilibrio tra armonizzazione dei sistemi processuali, quando strutturalmente coerenti con lo dello Stato di diritto, e rispetto delle loro caratteristiche fondamentali ai fini della risoluzione di controversie individuali appare ampiamente in fieri innanzi alla Corte di giustizia.
Il giudice amministrativo italiano è partecipe attivo di questo affascinante dibattito.
[1] L’orientamento è stato più volte ribadito: ex pluribus Cass. SU 31226/2017; SU 30301/2017; SU 953/2017; SU 14042/2016; SU 3915/2016; ancor prima dell’intervento della Corte Costituzionale in materia, tuttavia, altre pronunce delle Sezioni Unite si erano espresse in senso opposto, ex pluribus Cass. SU 13976/2017; SU 21617/2017; SU n. 8117/2017
[2] L’insopprimibile difficoltà di distinguere una fisiologica attività ermeneutica del giudice ed una sua “inammissibile creazione normativa” tale da esorbitare dai suoi poteri, là dove di fatto si censura l’applicazione della disciplina sostanziale della materia, è stata da tempo stigmatizzata dallo stesso giudice del riparto (si veda Cass. SU n. 27341/2014, resa in occasione di una richiesta di sindacato su decisione del Consiglio di Stato che aveva valutato la nomina di una autorità portuale facendo, secondo la tesi della parte ricorrente, un’interpretazione della disciplina applicabile innovativa al punto di invadere la sfera del legislatore, tesi rigettata dalla Cassazione).
[3] Ex pluribus Cass. SU 32773/2018; 32622/2018; 13243/2019; 27842/19; 29085/2019; 6460/2020; 7456/2020; 7839/2020; 11125/2020; 18592/2020; 24103/2020; 26920/2020.
[4] A pochi giorni di distanza dalla pubblicazione dell’ordinanza, per altro, altra pronuncia delle SU, la n. 24107/2020, ha, se pure facendo formalmente uso della tecnica del distinguishing, ribadito la scelta di astenersi dall’intervenire sulle pronunce del Consiglio di Stato per ragioni di violazione del diritto UE o di omesso rinvio pregiudiziale.
[5] Nella dottrina italiana l’iniziativa ha suscitato numerose critiche; si vedano tra molti il commenti: A. Travi “I motivi inerenti la giurisdizione e il diritto dell’Unione europea in una recente ordinanza delle sezioni unite”, in Foro it., 2020, I, 3391; M. Santise L’eccesso di potere giurisdizionale delle sezioni unite, in www.giustizia-amministrativa.it, nei cui testi si richiama ampia bibliografia.
[6] La diversa e nuova prospettiva del quesito, che presentava potenziale impatto sugli stessi meccanismi di fisiologico sviluppo di una giurisprudenza in fieri ed in assenza di orientamenti eurounitari già affermati, viene lucidamente analizzata in M. Lipari L’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia: i rimedi previsti dal diritto dell’Unione europea, l’inammissibilità del ricorso in cassazione e la revocazione ordinaria, in www.giustizia-amministrativa.it
[7] Ex pluribus Corte di Giustizia Grande Sezione sentenza 19 giugno 2018 Sadikou Gnandi, in causa C-181/16
[8] Corte di giustizia sentenza 17 marzo 2016 Bensada Benallal, in causa C -161/15
[9] Corte di giustizia sentenza 5 settembre 2018 Lombardi, in causa C-338/18
[10] Parere n. 1/2017 della Corte di giustizia reso in seduta plenaria in data 30 aprile 2018
[11] Si evince dalla relazione annuale sull’attività giudiziaria 2019 della Corte di giustizia (disponibile al seguente link: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2020-08/20201762_qdap20001itn_pdf.pdf.) che, al 2019, l’Italia ha proposto 1583 rinvii pregiudiziali di cui 4 proposti dalla Corte Costituzionale, 170 proposti dalla Corte di Cassazione, 204 dal Consiglio di Stato e i restanti 1205 dagli altri organi giurisdizionali; dalla medesima relazione si evince che l’Italia, a livello UE, nel periodo 2015-2019 è seconda dopo la Germania per numero di rinvii pregiudiziali promossi.
[12] Sul punto basti ricordare l’introduzione della tutela cautelare ante causam, la declaratoria di inefficacia del contratto e lo stesso risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, che dal sistema europeo hanno tratto determinante impulso; si tratta di rimedi che rappresentano tecniche di tutela avanzata, sviluppatesi secondo una direttrice di sostanziale piena coincidenza dell’interesse delle parti quali attori del mercato e, per il loro tramite, del sistema europeo della libera concorrenza e degli appalti; a tali tecniche di tutela tanto il legislatore che i giudici nazionali sono stati ampiamente sensibili.
[13] L’affermazione è tanto più vera in un ordinamento, quale quello italiano, che, con una impostazione diametralmente opposta a quella che sembra emergere per l’ordinamento polacco, all’art. 2 co. 3 e 3 bis della l. n. 177/1988 qualifica colpa grave del magistrato “la violazione manifesta del diritto dell’Unione europea” ed individua la mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale o il contrasto con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia quali parametri di “determinazione dei casi di violazione manifesta del diritto dell’Unione europea” ai fini della valutazione della responsabilità del giudice. In questa evidente divergenza di sistemi, presente all’interno dell’Unione, non sarebbe inutile che la Corte, nel selezionare i precedenti da invocare, tenesse anche conto dello specifico contesto ordinamentale in relazione al quale sono stati formulati.
[14] Corte di giustizia 6 ottobre 2015 in causa C-61/14.
[15] Sempre dalla relazione annuale 2019 della Corte di giustizia sull’attività giudiziaria (https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2020-08/20201762_qdap20001itn_pdf.pdf ) si evince che i rinvii pregiudiziali rappresentano più del 60% dell’attività della Corte e sono in crescita vertiginosa, con allungamento dei tempi delle decisioni.