Decreto di archiviazione del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, 21 marzo 2021
IL CASO E LA DECISIONE DEL GIP
Il GIP del Tribunale di Milano ha dovuto decidere sulla richiesta di archiviazione nei confronti di un soggetto indagato ai sensi dell'art. 580 c.p., per istigazione al suicidio di un ragazzo di 14 anni.
La vittima era stata trovata senza vita per soffocamento provocato da una corda legata a una traversa del letto a castello posto nella sua cameretta, e l'indagine volta a ricostruire le motivazioni del gesto estremo si erano concentrate sulla visualizzazione da parte del ragazzo, poche ore prima del rinvenimento del corpo, di un video sul portale YouTube dal titolo "5 Challenge Pericolosissime che i ragazzi fanno per internet".
In tale video erano descritte alcune pratiche estremamente pericolose messe in atto da giovanissimi al fine di riprendersi e poi postare i video in rete, tra cui una denominata "sfida del blackout", consistente nella volontaria adozione di tecniche di soffocamento, finalizzata a provocare transitoria perdita di coscienza, con successivo risveglio in stato di "ebbrezza".
L'astratta ipotesi accusatoria, confluita successivamente in una richiesta di archiviazione a cui la persona offesa (congiunti della vittima) non si è opposta, era che i titolari dei canali resi disponibili da YouTube, sui quali erano stati caricati il video "5 Challenge...." e il video con la "sfida del blackout", avessero incoraggiato l'emulazione della pratica pericolosa.
In particolare, il quattordicenne, di cui era stata accertata la pregressa assenza di disturbi di natura psichica o depressiva, o di uno stato di disagio in epoca prossima al fatto, dopo avere visionato i suddetti video, aveva provato ad eseguire su sé stesso la tecnica di soffocamento, rimanendo così vittima della sua azione pericolosa.
Il GIP, dopo avere premesso che il reato di cui all'art. 580 c.p. individua tre distinte condotte (determinazione, rafforzamento ed agevolazione del suicidio), ha innanzitutto escluso che nella condotta delle persone sottoposte ad indagini potesse individuarsi riprova dell'elemento soggettivo consistente nella volontà (dolo generico) di far insorgere, rafforzare o agevolare il proposito suicidiario nella platea degli utenti del web, potenziali destinatari del video.
Al contrario, era emerso che i video in questione non apparivano finalizzati ad incentivare realmente la loro emulazione, in quanto esplicitamente qualificanti le immagini riportare come cose pericolosissime, che in quanto tali non avrebbero dovuto essere imitate, e avevano altresì diffuso la rappresentazione visiva di un giovane in ospedale in gravi condizioni, volta proprio ad evidenziare l'esistenza di una consistente, concreta e reale probabilità che alla pratica pericolosa esposta potessero conseguire effetti pregiudizievoli sugli imitatori.
D’altra parte, il GIP ha escluso anche, e in radice, che il gesto estremo del ragazzo deceduto potesse qualificarsi come suicidio, mancandone la volontà del fatto, ciò che condiziona la stessa configurabilità del delitto di cui all’art. 580 c.p. (il quale presuppone, per l’appunto, che vi sia un suicidio, seppure agevolato, e non un tragico incidente, come nel caso di specie).
Sotto altro profilo, il Giudice adito non ha ritenuto sussistenti neanche gli estremi del reato di omicidio colposo – con eventuale riqualificazione del fatto -, in quanto ha escluso la ricorrenza di una colpa nei soggetti che avevano favorito la diffusione dei video, o comunque un nesso di causalità tra una condotta colposa e l’evento morte.
In particolare, il canale YouTube creato dall’indagato – sul quale era stato postato il video “incriminato” – era imperniato sulla riproduzione di contenuti di genere horror o raccapricciante, pur disincentivando espressamente, come nel caso di specie, l’imitazione da parte degli utenti.
Volendo dunque dare per appurata l’assenza di un profilo di negligenza o imprudenza da parte del gestore del canale o di chi aveva materialmente postato il video della pratica pericolosa, il GIP di Milano si è spinto a verificare se fossero residuati dei profili di culpa in vigilando da parte del sito ospitante tale video, ovvero da parte della società YouTube LLC.
Pur non prevedendo i processi aziendali di tale società un monitoraggio preventivo dei contenuti (e questo a prescindere dalla remunerazione o meno in favore di chi li realizza, tramite le inserzioni pubblicitarie), e pur essendo stato segnalato precedentemente al fatto il video in questione per violazione di regole della community, il Giudice procedente ha ritenuto che l’inerzia della società YouTube LLC – che ha infine rimosso il video soltanto dopo la morte del quattordicenne, e a distanza di circa tre anni dal caricamento in rete – non fosse penalmente censurabile, anche in relazione alla rilevanza, al numero e alla posizione (visibile) dei commenti negativi inseriti sul sito dai ragazzi che avevano visionato il video stesso.
In altri termini, il GIP ha escluso la sussistenza del reato di omicidio colposo, in capo a chi ha consentito la pubblicazione e la mancata rimozione di quel video, difettando una prova processualmente raggiungibile di un nesso di prevedibilità, e non potendosi affermare che, anche usando l'ordinaria diligenza, si sarebbe potuta prevedere, a distanza di anni dalla realizzazione e dalla divulgazione del video, la verificazione della tragica morte del giovane.
E tuttavia, si direbbe, resta il dubbio che il mero fatto di pubblicare un video di altri adolescenti che provano esperimenti pericolosi su sé stessi implichi la prevedibilità di creare su di un adolescente un effetto emulativo.
D’altra parte, non si capisce perché il video “incriminato” sia stato immediatamente rimosso da YouTube soltanto dopo la morte del ragazzo, e nonostante non fosse stato ritenuto precedentemente pericoloso, quasi come se la pericolosità di uno strumento di istigazione sia percepibile soltanto a posteriori e a tragedie avvenute.
I REATI DI CUI ALL’ART. 579 E ART. 580 C.P.
Nell’ambito dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale, accanto ai reati di omicidio volontario, omicidio colposo e lesioni, completano il sistema di tutela ipotizzato dal legislatore del 1930 due fattispecie ad hoc, in quanto pensate per sbarrare il più possibile la strada alla decisione individuale di porre fine alla propria vita.
Posto che si è ritenuto di equiparare legalmente all’omicidio volontario l’omicidio a cui ha consentito una persona minore degli anni diciotto, una persona inferma di mente, che si trova in condizioni di deficienza psichica o il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno (art. 579, comma 3 c.p.), ogni altra ipotesi di omicidio del consenziente o di aiuto al suicidio è stata ritenuta degna di punizione penale, tra l’altro con una pena decisamente severa (da sei a quindici anni o da cinque a dodici anni).
Il legislatore del 1930 ha dunque ritenuto, anche in relazione alla concezione del rapporto Stato-individuo all’epoca dominante, di impedire ogni forma di cooperazione all’abdicazione volontaria alla propria vita, evitando peraltro di punire il tentato suicidio.
L’autodeterminazione individuale, spinta alle sue estreme conseguenze – sotto forma di una volontà autolesionistica che neppure lo Stato più invadente poteva impedire -, ha dovuto però fare i conti, dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana, con le forti spinte di “tolleranza” provenienti dalla pietas per soggetti che, pur volendo porre fine ad una esistenza fonte di sofferenze e privazioni, erano restati prigionieri dei progressi della scienza medica e intrappolati in un corpo che non permetteva loro neppure la possibilità in autonomia di farla finita.
L’evoluzione della tecnologia, inoltre, e soprattutto l’avvento di internet – come constatato nel caso esaminato dal GIP di Milano – ha ridefinito i confini della nozione di atti autolesionistici etero-imposti, in presenza di contenuti propugnati sulla rete da qualche “cattivo maestro”.
In modo specifico, il diritto alla vita si è oggi contrapposto a una sorta di diritto a morire, con la ricerca di un punto di necessario bilanciamento tra le pieghe della Costituzione, così come interpretata dai Giudici delle leggi, in presenza di un Parlamento incapace di normare compiutamente – per mancanza di volontà e pressioni esterne – un passaggio esistenziale così delicato.
Opposte concezioni filosofiche e religiose della vita si sono scontrate e contrapposte fino a dimenticare che avrebbe dovuto contare, in una vicenda esistenziale individuale, soprattutto il valore della volontà e della disperazione custoditi all’interno dell’animo del condannato a vivere a tutti i costi.
In questo contesto, la Corte costituzionale è dovuta intervenire incisivamente due volte, una con riferimento al delitto di cui all’art. 580 c.p. e un’altra con riferimento al delitto di cui all’art. 579 c.p..
Con riferimento all’ipotesi di aiuto al suicidio, la Corte costituzionale ha preso atto dell’orientamento giurisprudenziale (per la verità espresso da un unico e risalente precedente) secondo cui il reato in questione punisce chiunque agevola, in qualsiasi modo, tale suicidio, e dunque anche chi, come nel caso Cappato, offra un minimo aiuto materiale (accompagnamento in auto alla clinica dove eseguire il suicidio assistito), in quanto le condotte di agevolazione, incriminate dalla norma penale in via alternativa rispetto a quelle di istigazione, devono ritenersi punibili a prescindere dalle loro ricadute sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, e la nozione di aiuto penalmente rilevante deve essere intesa nel senso più ampio, comprendendo ogni tipo di contributo materiale all’attuazione del progetto della vittima, come fornire i mezzi, offrire informazioni sul loro uso, rimuovere ostacoli o difficoltà che si frappongono alla realizzazione del proposito e via dicendo, ovvero anche omettere di intervenire, qualora si abbia l’obbligo giuridico di impedire l’evento.
La Corte delle leggi ha poi dovuto affrontare la questione della diversa epoca in cui è stato concepito il reato di aiuto al suicidio, inteso, nella visione del regime fascista, come un atto intriso di elementi di disvalore, in quanto contrario al principio di sacralità e indisponibilità della vita in correlazione agli obblighi sociali dell’individuo.
Riletta peraltro alla luce della Costituzione repubblicana, l’interpretazione rigorosa della norma penale contrasterebbe sia con il principio personalistico enunciato dall’art. 2 – che pone l’uomo e non lo Stato al centro della vita sociale – che con quello di inviolabilità della libertà personale, affermato dall’art. 13, di quali discenderebbe la libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza.
In questa evoluzione, peraltro, incide anche la valorizzazione del diritto all’autodeterminazione individuale, previsto dall’art. 32 Cost. con riguardo ai trattamenti terapeutici, così come ritenuta nei casi giurisprudenziali Welby ed Englaro e dalla recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che sancisce in modo espresso il diritto della persona capace di rifiutare qualsiasi tipo di trattamento sanitario, ancorché necessario per la propria sopravvivenza (compresi quelli di nutrizione e idratazione artificiale), nonché il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure, individuando come oggetto di tutela da parte dello Stato «la dignità nella fase finale della vita».
D’altra parte, anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha conosciuto una evoluzione, il cui approdo finale pare rappresentato dall’esplicito riconoscimento, sulla base degli artt. 2 e 8 CEDU (che riconoscono e garantiscono, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata), del diritto di ciascun individuo «di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà».
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 242 del 2019 – dopo avere inutilmente rinviato il suo giudizio di un anno per concedere al Parlamento la possibilità di intervenire in questa delicatissima materia – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della citata legge n. 219 del 2017, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Questo per i fatti successivi alla pubblicazione della sentenza della Corte nella gazzetta ufficiale della Repubblica.
Quanto ai fatti anteriori a tale pubblicazione, invece (tra cui vi era con tutta evidenza quello trattato dal giudice a quo), la non punibilità dell’aiuto al suicidio resta subordinata al fatto che l’agevolazione sia stata prestata con modalità idonee a offrire le seguenti garanzie, da considerarsi sostanzialmente equivalenti a quelle previste dalla legge del 2017:
- condizioni del richiedente assimilabili ad una patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli;
- verifica di tali condizioni in ambito medico;
- volontà dell’interessato manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto è consentito dalle sue condizioni;
- adeguate informazioni al paziente sia in ordine alle sue condizioni, sia in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua.
La sentenza della Corte costituzionale ha però lasciato fuori dal suo focus tutte le condotte che non consistano in un mero aiuto al suicidio (di un soggetto che è dunque ancora in grado di provvedere da solo all’ultimo fatale atto soppressivo) ma che implichino una forma di eutanasia per mano di un terzo, che sia o non sia un medico.
Questa tipologia di condotta rientra nelle ipotesi punibili ai sensi dell’art. 579 c.p., secondo cui chiunque cagiona la morte di un uomo maggiorenne, col consenso non estorto o non carpito con inganno di costui – e sempre che quest’ultimo non versi in uno stato di infermità o comunque di deficienza psichica -, è punito con la reclusione da sei a quindici anni.
La giurisprudenza si è soffermata ampiamente sul concetto di consenso e sul concetto di deficienza psichica rilevanti nella disposizione penale in esame.
Quanto alla liceità del consenso, questo deve essere serio, esplicito, non equivoco e perdurante sino al momento della commissione del fatto, oltre che esprimere una volontà di morire, la cui prova deve essere univoca, chiara e convincente.
Inoltre, l’errore sul consenso è irrilevante, in quanto nel reato di omicidio del consenziente il consenso è elemento costitutivo del reato, sicché ove il reo incorra in errore circa la sussistenza del consenso trova applicazione la previsione dell'art. 47 c.p., in base al quale l'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso, nel caso di specie individuabile nel delitto di omicidio volontario.
Si è in effetti detto che il consenso previsto quale scriminante dall'art. 50 c.p. non corrisponde al consenso richiesto dall'art. 579 c.p., atteso che, in questa seconda ipotesi, il consenso incide sulla tipicità del fatto e non quale mera causa di giustificazione.
Quanto all’estensione del concetto di deficienza psichica, la giurisprudenza di legittimità tende a interpretare «l’infermità psichica e la deficienza psichica» alla stregua di una minorata capacità psichica, anche con compromissione del potere di critica e minorazione della sfera volitiva ed intellettiva, che agevoli la suggestione della vittima e ne riduca i poteri di difesa contro le altrui insidie.
I promotori del referendum abrogativo parziale dell’art. 579 c.p. si sono però visti bocciare l’ammissibilità di tale referendum dalla Corte costituzionale, con la recente sentenza n. 50 del 2022.
In tale pronuncia, la Corte ha fatto leva su quei precedenti (in particolare, sentenza n. 35 del 1997 e sentenza n. 49 del 2000) in base ai quali esistono leggi ordinarie la cui mera eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione, e che tali sono le leggi volte a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona.
Questi precetti normativi, una volta venuti ad esistenza, possono essere soltanto modificati o sostituiti dal legislatore con altra disciplina, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento.
Tra tali precetti secondo la Corte vi è anche la norma penale incriminatrice dell'omicidio del consenziente, la quale riconosce alla libertà di autodeterminazione individuale una incidenza limitata, che si risolve nella mitigazione della risposta sanzionatoria, in capo all’autore del fatto di omicidio, in ragione del consenso prestato dalla vittima.
Insomma, secondo la Corte, non si tratta di una norma a contenuto costituzionalmente vincolato, in quanto è una disciplina che non deve necessariamente modularsi nel senso fatto proprio dal legislatore del 1930, per essere conforme a Costituzione, ma che non può neanche essere semplicemente abrogata, "perché non verrebbe in tal modo preservato il livello minimo di tutela richiesto dai referenti costituzionali ai quali" si salda.