IL CASO E LA DECISIONE DI PRIMO GRADO
Un soggetto sindacalmente attivo, che ha partecipato a numerose manifestazioni non autorizzate davanti ad uno stabilimento industriale, durante le quali erano stati anche commessi reati, impugnava dinanzi al Giudice amministrativo la misura di prevenzione del foglio di via obbligatorio con divieto di ritorno nel Comune dello stabilimento, per la durata di tre anni, da cui era stato colpito, a causa della citata condotta.
In fatto, durante tali manifestazioni, i partecipanti avrebbero ostacolato gli automezzi in entrata e in uscita dallo stabilimento, congestionando il traffico e creando un clima di tensione crescente con le Forze di Polizia, che in alcuni casi sarebbe sfociato in vera e propria violenza nei confronti delle stesse.
Il ricorrente in primo grado, individuato come soggetto pericoloso sulla base di una informativa di reato, aveva dedotto la violazione degli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 159/2011 e carenza di motivazione del provvedimento impugnato.
Il Tar per l’Emilia-Romagna ha però respinto le sue doglianze, precisando, preliminarmente, che “organizzare eventi di natura sindacale che si risolvono in illeciti picchetti all’ingresso di azienda o in blocchi stradale commettendo reati di violenza privata oltre che di manifestazione non autorizzata non significa esercitare il diritto di sciopero”.
E se pure l’esercizio dei diritti sindacali non può di per sé costituire un motivo per classificare l’interessato tra le persone socialmente pericolose, a fronte ad un numero così elevato di episodi, l’affermazione che il ricorrente fosse persona che mette in pericolo la tranquillità pubblica non era da considerarsi incongrua, specie se nel provvedimento vi è – come accaduto nel caso di specie - un riferimento circostanziato alle condotte che fondano un giudizio di pericolosità.
Il Giudice di primo grado riteneva inoltre coerente al contesto complessivo “la prognosi infausta circa la possibile reiterazione di condotte turbative della tranquillità pubblica” e il riferimento all’art. 27 Cost. improprio “perché nel caso in esame non vi è alcuna violazione del principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza fino a condanna passata in giudicato poiché siamo in ambito amministrativo”.
La sentenza di rigetto del TAR emiliano è stata peraltro impugnata e riformata dal Consiglio di Stato.
Misure di prevenzione e posizione espressa dal Consiglio di Stato sul caso esaminato
La giurisprudenza amministrativa, nell’ambito del variegato panorama delle misure di prevenzione, è chiamata a sindacare la legittimità di quelle questorili, ovvero del foglio di via obbligatorio e dell’avviso orale, costituenti gli interventi di prevenzione meno intensi nei confronti del soggetto “socialmente pericoloso”.
In particolare, per quanto attiene al foglio di via, il provvedimento è adottato nei confronti delle categorie di soggetti di cui all’art. 1 del d.lgs. n.159/2011, ovvero: soggetti abitualmente dediti ai traffici delittuosi, soggetti che vivono abitualmente con i proventi di attività delittuose, ovvero nei confronti di coloro che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, al sicurezza o la tranquillità pubblica.
La misura richiede l’ulteriore requisito di cui dall’art. 2 del codice antimafia, ossia la formulazione di un giudizio prognostico e predittivo da cui inferire che detti individui risultino pericolosi per la sicurezza pubblica e si trovino fuori dal luogo di residenza.
In tal caso, il Questore può rinviare i soggetti alla propria residenza, con foglio di via obbligatorio, che inibisce loro di rientrare, senza preventiva autorizzazione, o non prima del termine stabilito, nel Comune dal quale sono stati allontanati.
La giurisprudenza ha compiuto una interpretazione cd. "tassativizzante" della normativa de qua, nel senso che per la legittima applicazione della misura è richiesta la indicazione di attuali e concreti elementi di fatto, dai quali desumere la pericolosità sociale, con un giudizio individualizzante, nonché, con riferimento alla categoria di soggetti di cui alla lettere c) art. 1, le precise modalità aggressive dei beni protetti, ovvero la sicurezza e tranquillità pubblica.
Pertanto, si ritiene che il foglio di via debba essere motivato “con riferimento a concreti comportamenti del soggetto dai quali possano desumersi indici di pericolosità per la sicurezza pubblica” (Cfr. T.A.R. Umbria Perugia, sez. I, 27 maggio 2014, n. 273).
Il sindacato del giudice amministrativo sul provvedimento questorile viene spesso invocato contestando il giudizio di pericolosità nei confronti del proposto, riservato alla discrezionalità della PA.
Al riguardo, si è sviluppato un consolidato orientamento a mente del quale la sussistenza della pericolosità non richiede prove compiute della commissione di reati, ma si giustifica ex se con riguardo ad “episodi di vita che secondo la prudente valutazione della autorità di polizia, rivelino oggettivamente una apprezzabile probabilità di condotte penalmente rilevanti da parte di un soggetto rientrante in una delle categorie previste dalla legge” (Consiglio di Stato, sez. III, 27 gennaio 2012, n. 368).
Ne deriva che non occorre la prova dell’avvenuta commissione di reati, bensì una motivata indicazione degli episodi di vita, da cui oggettivamente emerga una apprezzabile probabilità di condotte penalmente rilevanti e socialmente pericolose.
Il sindacato giurisdizionale sulla valutazione prognostica si manifesta dunque nella forma del sindacato cd. estrinseco sull’esercizio della discrezionalità, rilevandosi come le norme di prevenzione riconoscono all’Amministrazione un “ampio margine di apprezzamento” nella valutazione della pericolosità sociale, condotta sulla base di elementi concreti (Consiglio di Stato, sez. III, 27 gennaio 2012, n. 368).
In definitiva, la linea di tendenza della giurisprudenza amministrativa afferma come i provvedimenti di rimpatrio per motivi di sicurezza pubblica, quale il foglio di via obbligatorio, costituiscono “manifestazione della più ampia discrezionalità amministrativa in quanto tipici atti con finalità preventiva basati su un giudizio prognostico di pericolosità sociale. Di conseguenza, gli stessi sfuggono al sindacato giurisdizionale se non sotto i profili dell'abnormità dell'iter logico, dell'incongruenza e dell’irragionevolezza della motivazione o del travisamento della realtà fattuale”.
Con minore frequenza il giudice amministrativo è chiamato a sindacare la inclusione nelle specifiche categorie di pericolosità sociale effettuata dalla autorità di polizia, ovvero la ascrizione del soggetto proposto ad una delle categorie di cui all’art. 1 del codice antimafia. Tali fattispecie costituiscono tuttavia, anche in ragione della loro peculiarità, il banco di prova della interpretazione tassativizzante della normativa di prevenzione, che ne assicura la tenuta costituzionale e convenzionale.
E’ noto, in proposito, come la pronuncia della Consulta n. 24 del 2019, emessa in seguito alla sentenza della CEDU De Tommaso c. Italia, ha sottolineato l’esigenza di rispettare, anche per il diritto della prevenzione, essenziali esigenze di tassatività sostanziale, riferite alla precisione e determinatezza degli elementi indicati dalla norma; nonché esigenze di tassatività processuale, attraverso la richiesta di un rigore probatorio quasi penalistico.
La sentenza del Consiglio di Stato in commento costituisce un’interessante applicazione della necessità di un sindacato attento sul giudizio soggettivo, ovvero sulla inclusione del proposto tra i soggetti dediti alla commissione di determinati reati, e sulla attitudine offensiva degli stessi nei confronti dei beni protetti indicati dalla norma di riferimento.
Nella vicenda esaminata in concreto dal Giudice amministrativo, il sindacato a cui il ricorrente aderiva, nel corso di diversi mesi, aveva indetto molteplici manifestazioni non autorizzate davanti ad uno stabilimento produttivo, nel corso delle quali i partecipanti avrebbero attuato un blocco di merci, ostacolando gli automezzi in entrata ed in uscita dallo stabilimento, con effetto di provocare il congestionamento del traffico. Il provvedimento aggiunge che nel corso di dette manifestazioni si sarebbe creato un clima di tensione con le forze di polizia, che in alcuni casi sarebbe sfociato in episodi di violenza nei confronti delle stesse; fatti per i quali il proposto si trova denunciato all’autorità giudiziaria penale per violenza privata in concorso e omesso avviso di riunioni pubbliche (art. 18 TULPS).
Tali gli elementi di fatto, dai quali l’autorità questorile aveva tratto la conclusione che il proposto fosse una persona dedita alla commissione di reati che mettono in pericolo la sicurezza e la tranquillità pubblica.
Nella vicenda in commento, peraltro, le manifestazioni di pericolosità sociale sono coincidenti con l’esercizio delle libertà sindacali e in particolare del diritto di sciopero. Il Consiglio di Stato, pertanto, si è interrogato sulle caratteristiche e sulle ricadute del cd. "picchettaggio", definito come “un complesso di comportamenti materiali di diversa natura, aventi come carattere comune la tendenza a rafforzare la partecipazione, la riuscita, l’efficacia di uno sciopero e più specificamente…tutte quelle attività e quei metodi posti in essere dagli scioperanti per indurre i lavoratori dissenzienti e non accedere ai luoghi di lavoro per fornire la prestazione lavorativa”.
Il Giudice di secondo grado ha affermato che il picchettaggio non può ritenersi in sé attività vietata o pericolosa, rientrando nel legittimo esercizio del diritto di sciopero, garantito dall'art. 40 della Costituzione, purché lo stesso non sia attuato con modalità violente o minacciose, tali da condizionare la libertà dei lavoratori non scioperanti, ovvero tali da mettere a repentaglio la pubblica sicurezza.
L’attività dei picchetti può dunque assumere rilevanza sotto diversi profili giuridici, dal momento che, nella pratica, essa tende ad assumere connotati tanto più energici quanto maggiore è l’asprezza del conflitto sindacale in corso.
La semplice presenza di un picchetto che tenda ad ostacolare le persone e gli automezzi in entrata o in uscita dallo stabilimento industriale o tenda a svolgere un’attività di persuasione e di sensibilizzazione sindacale, non connotata da ulteriori ed eloquenti fatti, riconducibili a specifiche condotte di violenza privata o minaccia, non può integrare ex se il reato di violenza privata; se ciò avvenisse, il potere di prevenzione si trasformerebbe in un surrettizio, indebito, strumento di repressione della libertà sindacale e del diritto di sciopero.
Viceversa, tale attività diventa illegittima qualora assuma modalità aggressive per la sicurezza altrui e per l’ordine pubblico, manifestandosi con forme che ostacolino il diritto di autodeterminazione altrui.
Con riferimento proprio alla nozione di violenza, la giurisprudenza penale più recente ha adottato una nozione restrittiva della stessa , escludendo che sia integrata qualora i manifestanti si limitino a un ostruzionismo “passivo” delle attività, senza impiegare violenza fisica o minaccia contro le persone, sia dei lavoratori sia dei fornitori; e, con specifico riguardo al delitto di resistenza a pubblico ufficiale, qualora l’opposizione all’operato delle forze dell’ordine avvenga senza l’utilizzo di condotte violente o minacciose, si ritiene l’insussistenza del reato.
La Corte di cassazione, in proposito, esclude la configurabilità del delitto in questione nei casi di mera resistenza passiva, quale l’inerzia, la mancata collaborazione con gli operanti o, più in generale, l’opposizione che comunque non si estrinsechi in forme neanche minime di violenza o intimidazione (Cass. pen., Sez. VI, sent. 13 gennaio 2015, n. 6069).
Quanto al reato di cui all’art. 18 TULPS, si afferma che la tutela riconosciuta dall’art. 40 della Costituzione al diritto di sciopero si estende a tutte le azioni, anche “collaterali rispetto all’astensione collettiva dei lavoratori, che siano strettamente connesse e siano utili in vista del perseguimento degli scopi degli scioperanti”. La tutela copre anche i casi in cui il diritto di sciopero sia esercitato “a sorpresa”, poiché la mancanza di preavviso appare addirittura connaturata all’esercizio di tale diritto, risultando spesso indispensabile per “assicurare all’iniziativa collettiva dei lavoratori una qualche efficacia nei confronti della controparte datoriale”.
Quanto al delitto di violenza privata, la giurisprudenza penale ritiene che, anche ove possano configurarsi i contorni dell’evento costrittivo descritto dall’art. 610 c.p., mediante condotte impeditive del passaggio di mezzi e personale, tale elemento non sarebbe da solo sufficiente a configurare il reato, dovendosi altresì accertare che la costrizione sia stata in concreto posta in essere mediante condotte qualificabili in termini di violenza o minaccia. Invero, la corretta delimitazione del concetto di violenza penalmente rilevante, è da tempo oggetto di contrasti interpretativi in dottrina e in giurisprudenza e si rinvengono in proposito due principali orientamenti.
Secondo un primo indirizzo restrittivo, la nozione penalistica di violenza rimanderebbe necessariamente a una vis corporis corpori data, ossia a un’esplicazione di energia fisica rivolta verso persone o cose.
L’orientamento prevalente invece interpreta tale nozione all’interno del delitto di cui all’art. 610 c.p., con una lettura della norma autosufficiente, in modo da ricomprendere nel suo perimetro ogni condotta capace di produrre l’effetto costrittivo richiesto dalla norma (Cass. pen., Sez. V, sent. 18 ottobre 2018 , n. 3710). In tal senso, si ritiene integrare reato anche l’ipotesi di picchettaggio cd. ostruzionistico, ma non violento, e si esclude la riconducibilità di tali fatti all’esercizio del diritto di sciopero ex art. 40 Costituzione, in quanto tale diritto “trova un preciso limite nella impossibilità di compromettere diritti e libertà di terzi”.
Un terzo orientamento, per così dire intermedio, stempera il rigore della predetta tesi e afferma come la nozione di violenza non possa prescindere dal considerare gli effetti prodotti da tale condotta, che per sua natura è destinata a relazionarsi con terzi destinatari; dunque determinante, più che l’esercizio di energia fisica sul soggetto passivo, è il verificarsi di una intromissione nell’altrui sfera fisica o psichica, mediante indebita ingerenza da parte dell’agente.
Tuttavia, l’orientamento in parola è minoritario, in quanto non collima con la giurisprudenza giuslavoristica, che riconduce nell’alveo del diritto di sciopero il solo picchettaggio “persuasivo”, vale a dire quello volto a promuovere la partecipazione all’astensione dal lavoro attraverso condotte propagandistiche (come volantinaggio o slogan), e non anche le condotte materialmente ostruttive o impeditive, che accedano e colorino con modalità aggressive l’esercizio del diritto di sciopero.
I giudici di Palazzo Spada, nel solco delle più recenti coordinate ermeneutiche della giurisprudenza penalistica, hanno escluso che il picchettaggio commesso nel caso in commento potesse costituire un comportamento in senso proprio violento, in particolare nei confronti delle forze dell’ordine.
L’assunto è stato corroborato da una attenta analisi probatoria, volta a dare una lettura tassativizzante della fattispecie di pericolosità sociale generica, avendo riguardo alle risultanze istruttorie ed in particolare alla carenza di elementi forniti dalla Questura, che si era rifiutata di ostendere gli atti presupposti, opponendo esigenze di segreto istruttorio.
Il Consiglio di Stato ha escluso pertanto la possibilità di ravvisare la necessaria tassatività sostanziale e processuale, che deve presiedere l’applicazione delle misure di prevenzione, ovvero elementi concreti di fatto che indichino una reale ed individualizzata carica di pericolosità sociale del proposto, secondo il criterio del “più probabile che non”.
La pronuncia, con riguardo al picchettaggio, ha affermato che “il semplice ostacolo al passaggio di automezzi in entrata o in uscita dallo stabilimento industriale, non connotata da elementi fattuali che consentano di rintracciare specifici ed individuali condotte di violenza o minaccia da parte di un determinato soggetto, non può integrare da sola sintomo di pericolosità sociale e carico di questo, se non si vuole trasformare il diritto della prevenzione… in un surrettizio, indebito strumento di repressione della libertà sindacale e del diritto di sciopero e in ultima analisi in una misura antidemocratica”.
La sentenza di secondo grado
de qua, in conclusione, aggiunge un preciso tassello sia a tutela della libertà sindacale e delle connesse forme lecite di manifestazione del diritto di sciopero, sia a presidio della democraticizzazione del diritto della prevenzione, che deve trovare il proprio fondamento in elementi di fatto concreti e specifici, senza addossare al singolo responsabilità per fatto altrui.