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Il buco nero della legalità

a cura di Roberto Lombardi • 14 agosto 2024

Secondo la corrispondente voce dell'enciclopedia Treccani “per legalità si intende il principio che obbliga gli organi dello Stato a esercitare i loro poteri nel rispetto della legge. (...) Fin dall’antichità classica, è stato elaborato un criterio preciso per distinguere il governante buono da quello cattivo, il governante corretto – come si dice – da quello corrotto. Secondo questo criterio, corrotto è il governante che esercita i propri poteri capricciosamente, secondo l’estro del momento, senza cioè che nessuna regola disciplini la sua attività. Per converso, il governante buono è colui che svolge i suoi compiti nel rispetto di norme fisse e prestabilite, che per loro natura non consentono alcun arbitrio (..)”.

In altri termini, la legalità è il rimedio contro l’arbitrio.

Anche nel gergo comune di tutti i giorni si sente spesso dire che un'attività è legale o illegale, restando intuitivo ai più, perfino oggi, il limite entro il quale non ci si può spingere.

Più in generale, la legalità si può descrivere come una grande coperta che deve ricoprire tutte le scelte non solo degli individui ma anche dell'agere pubblico, ivi comprese le scelte politiche.

Perfino gli atti più discrezionali, più liberi da ogni vincolo precostituito, devono rispettare alcune regole di metodo e di procedura, devono adattarsi ed "entrare" nella grande coperta della legalità.

E quando non c'è nessun tipo di regola a disciplinare il potere, esiste pur sempre il limite dello sviamento, dell'eccesso, dell'abuso del potere medesimo, a impedire che la libera volontà di chi agisce si trasformi in arbitrio.

Questo limite, quando è il legislatore a usare il suo potere, si chiama ragionevolezza.

Il nostro Paese ha spesso vissuto di strappi alla legalità, generalmente motivati con esigenze straordinarie e imprevedibili.

Si sta facendo però ultimamente strada un sotterraneo ma costante rifiuto del sistema precostituito - tradizionalmente basato su regole e limiti -, che nasconde, dietro alla bandiera un po’ logora della libertà, l’intento di non dovere rispondere a nessun altro potere di controllo (in primis alla magistratura) delle proprie scelte politiche e amministrative, con l’inevitabile conseguenza di sottrarre al giudizio e di attrarre nell’opacità anche comportamenti fraudolenti o contigui al crimine.

Si dice che l’approvazione finale di queste scelte spetta soltanto al popolo e/o ai loro rappresentanti, ma non si analizza a dovere la gravità dei danni al tessuto sociale e alla sua coesione che possono provocare i continui strappi all’ordinamento.

E invero, l'allargamento delle maglie della legalità, la deformazione di questa calda coperta che garantisce a ciascuno di noi una piccola grande chance di controllo sull'esercizio del potere pubblico e privato, affinché non divenga "assoluto", porta con sé delle conseguenze disastrose sul comportamento e sul sentire collettivo, che forse neanche i “temporanei” padroni della cosa pubblica hanno messo in conto.

Salvo non volere riservare - ma qui saremmo al crimine deliberato - la soluzione dei problemi conseguenti allo slabbramento delle regole fondamentali del nostro vivere comune (scioperi, manifestazioni, disordine sociale, odio verso il “diverso”) ad una successiva prova di forza e repressione.

D'altra parte, se i vertici burocratici del Paese si liberano sfacciatamente delle regole che ne limitano l'abuso, perché mai tutte le altre "ruote del carro" dovrebbero essere da meno?

Recentemente, l’attuale maggioranza politica ha dato due discutibili esempi di difesa della legalità.

La prima vicenda è ancora una volta legata alla questione delle proroghe delle “concessioni balneari”.

Dopo un lungo braccio di ferro tra Parlamento e Giudici amministrativi, “rei” di volere rispettare i principi di concorrenza stabiliti dall’Unione europea (vedi nota apparsa su questo sito un anno fa), con le sentenze nn. 4479, 4480 e 4481 pubblicate il 20 maggio 2024, il Consiglio di Stato ha analizzato le novità normative nel frattempo intervenute, confermando nella sostanza l’assunto dell’Adunanza Plenaria, che con le sentenze nn. 17 e 18 del 2021 aveva statuito l’illegittimità delle proroghe automatiche e la cessazione delle concessioni illegittimamente prorogate al 31 dicembre 2023, con obbligo per le amministrazioni di indire procedure selettive per il loro affidamento.

E’ stato ribadito che tutte le proroghe delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative sono illegittime e che le stesse devono essere disapplicate dalle amministrazioni ad ogni livello, anche comunale; dovendosi poi considerare la risorsa certamente scarsa - in assenza di risultati, ancorché parziali e provvisori, che dimostrino in modo serio e attendibile, tanto a livello nazionale che a livello locale, il contrario, secondo i criteri obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionati, indicati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, e in forza di una valutazione che deve essere anzitutto necessariamente qualitativa della risorsa stessa - i giudici di Palazzo Spada hanno affermato che deve essere disapplicato anche l’art. 10-quater, comma 2, del d.l. n. 198 del 2023, nella parte in cui ha previsto che un apposito “Tavolo” avrebbe dovuto definire i criteri tecnici per la sussistenza della scarsità della risorsa naturale disponibile, tenendo conto anche della “rilevanza economica transfrontaliera”.

Tale elemento (la rilevanza transfrontaliera) non può rivestire infatti alcun “peso” ai fini della valutazione della scarsità della risorsa, dato che, secondo la costante giurisprudenza della Corte europea, il capo III della Dir. 2006/123/CE – compreso, dunque, anche il suo articolo 12 – si applica anche a situazioni puramente nazionali.

Secondo il Consiglio di Stato dunque, a differenza di quanto ha dato mostra di "pensare" il nostro Legislatore, si può ritenere compatibile con il diritto dell’Unione la sola proroga “tecnica” – funzionale allo svolgimento della gara – prevista dall’art. 3, commi 1 e 3, della l. n. 118 del 2022 nella sua originaria formulazione, che consente alle autorità amministrative competenti di prolungare la durata della concessione, con atto motivato, per il tempo strettamente necessario alla conclusione della procedura competitiva e, comunque, non oltre il termine del 31 dicembre 2024.

D’altra parte, tale proroga è compatibile con i principi europei solo quando le autorità amministrative comunali abbiano già indetto la procedura selettiva o comunque abbiano deliberato di indirla in tempi brevissimi, emanando atti di indirizzo in tal senso e avviando senza indugio l’iter per la predisposizione dei bandi.

In definitiva, è stato ribadito, seppure ad esito di importanti e puntuali ricostruzioni del dato normativo di derivazione unionale, un concetto giuridico molto semplice: la concessione di un bene pubblico che attribuisce vantaggi economici al privato è legittima solo se l’atto di proroga e il titolo concessorio originario sono stati assunti sulla base di procedure selettive trasparenti e comparative.

E, tuttavia, qualche esponente di spicco dell’attuale maggioranza politica che sostiene il Governo non l’ha presa molto bene, arrivando addirittura ad ipotizzare che il Consiglio di Stato, con le sue ultime pronunce, abbia travalicato i poteri della giustizia amministrativa, finendo con l’invadere la sfera legislativa propria del Parlamento.

E’ dunque partita una richiesta formale all’Ufficio di Presidenza della Camera affinché sia sollevato conflitto di attribuzione presso la Corte costituzionale, che già nel recente passato, peraltro, si era dovuta occupare di una questione similare – stavolta eccepita da singoli parlamentari -, concludendo per l’inammissibilità del proposto ricorso [1].

Va in ogni caso detto che, nel frattempo, la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 109 depositata il 24 giugno 2024 - che ha bocciato la legge con cui la Regione Sicilia aveva esteso il termine per la domanda di proroga delle concessioni balneari attualmente in essere sul suo territorio -, ha aderito pienamente alla ricostruzione giuridica dei Giudici amministrativi, evidenziando che si è al cospetto del protrarsi ingiustificato di una violazione dei principi del diritto UE in materia di concorrenza causata da una sostanziale “chiusura del mercato di riferimento” a danno degli operatori economici estranei all’attuale gestione del demanio marittimo. [2]

Chissà se riuscirà, a questo punto, l’intervento del più autorevole e incisivo organo giurisdizionale del nostro ordinamento a chiudere definitivamente la vicenda e a scoraggiare altre improvvide iniziative di Governo e Parlamento a difesa di un’illegalità ormai conclamata.

Per il momento, il “colpo di mano” studiato dai parlamentari della maggioranza ha subito un brusco rallentamento - si mirava a fermare il caos delle concessioni prima della stagione estiva, cioè il riordino della materia secondo i criteri di legalità richiesti dall’Unione europea -, in quanto serviranno ulteriori approfondimenti prima di affidare una proposta “precisa” al Presidente della Camera. 

Magari non farebbe male anche un veloce ripasso del diritto amministrativo, eurounitario e costituzionale.

Nel frattempo, ha terminato “felicemente” la sua corsa il disegno di legge del Ministro Nordio che prevede, tra l’altro, l’abolizione dell’abuso di ufficio.

Come un treno senza guida che ha preso velocità folle su un binario morto, la guerra ideologica a un reato-spia ritenuto da molti autorevoli penalisti come indispensabile per combattere e arginare illegalità e corruzione si è tramutata in una specifica proposta parlamentare di origine governativa che ha bruciato in modo inesorabile tutte le tappe del suo iter.

Contemporaneamente, l'Unione Europea, nel report della Commissione UE sullo stato di diritto, ci ha ricordato che l’abrogazione del reato di abuso di ufficio potrebbe avere implicazioni negative per l’individuazione e l’investigazione di frodi e corruzioni.

Ma, come già evidenziato in altro contributo apparso su questo sito, il Governo italiano è stato irremovibile nel perseguire, dati alla mano, l'eliminazione di un reato considerato non solo inutile, perché quasi mai giunge a condanna (un po'come un attaccante che non segna), ma anzi addirittura dannoso, in quanto la sua sola esistenza spaventa i "poveri" amministratori pubblici (in particolare i sindaci), che nella giungla di leggi che regolano l'esercizio del loro potere rischiano di sbagliare la norma da applicare.

Anche se, a dirla tutta, nel vecchio art. 323 del codice penale c'era già la chiave interpretativa tipizzata del senso complessivo dell'obbligo di condotta proveniente dalla relativa fattispecie penale: astenersi quando è necessario astenersi ovvero quando è coinvolto, nella definizione di un affare pubblico che può cagionare personale vantaggio o svantaggio, un interesse proprio o di un prossimo congiunto.

Ed era talmente inutile la previsione del reato di abuso di ufficio che il legislatore si è affrettato ad inserire, prima che il Presidente Mattarella firmasse il disegno di legge Nordio così come approvato dal Parlamento, e in un decreto-legge con oggetto obliquo – misure urgenti in materia penitenziaria e di giustizia -, un nuovo reato che ha molte assonanze con il vecchio (e ormai prossimo all’estinzione) art. 323 del codice penale [3].

Si è deciso infatti di punire con una sanzione che va da sei mesi a tre anni di reclusione il peculato per distrazione - per l'occasione ribattezzato "Indebita destinazione di denaro o cose mobili" - ovvero la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che "avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, li destina ad un suo diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità e intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri un danno ingiusto".

Perché questa improvvisa scelta, dal momento che lo stesso legislatore ha contemporaneamente rinunciato a perseguire penalmente ogni tipo di abuso del pubblico ufficiale che non costituisca un reato più grave (quali corruzione e concussione), con chiara scelta di politica giudiziaria?

D’altra parte, facendo un passo indietro con la memoria (che in Italia è sempre molto corta) bisogna ricordare che il reato di peculato per distrazione esisteva già, e fu formalmente soppresso nel maggio del 1990.

Altri tempi. A quell’epoca – prima della soppressione – la formulazione della condotta di peculato per distrazione era molto lineare: nello stesso art. 314 del codice penale conviveva infatti, insieme al peculato semplice, anche la fattispecie della “distrazione a profitto proprio o di altri” del denaro o della cosa mobile posseduta dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio per ragioni di ufficio.

E, dopo lo stralcio dall’art. 314 dell’ipotesi di peculato per distrazione, la giurisprudenza ravvisò in ogni caso continuità normativa tra tale condotta e quella punita dal reato di abuso di ufficio, così come contestualmente modificato, ricomprendendovi anche la "distrazione" dell'uso di beni immobili (fattispecie di illecito di pari gravità rispetto a quello della distrazione del denaro, e che invece non risulterebbe più punibile alla luce delle ultimissime modifiche normative), e l'uso "distorto" del bene pur se funzionale alla realizzazione, oltre che di indebiti interessi privati, anche di interessi pubblici obiettivamente esistenti.

Viene dunque oggi reintrodotta, dopo trent’anni di modifiche e di piccole e grandi “sevizie” alla tipizzazione dei reati contro la pubblica amministrazione,  una fattispecie ibrida e monca, che deve necessariamente tenere conto anche del mutamento formalistico e garantista che ha segnato nel frattempo la definizione dell’abrogando abuso di ufficio.

Ne è derivata una formulazione ambigua e arzigogolata, frutto di sovrapposizioni terminologiche, in cui una fattispecie in verità molto semplice (la condotta del funzionario che maneggia denaro pubblico e ne cambia la destinazione per avvantaggiare economicamente o se stesso o un altro soggetto non avente diritto) viene accompagnata da quegli stessi “paletti” (lo specifico uso del denaro deve essere previsto da un atto avente forza di legge “univoco” e deve essere sorretto da dolo intenzionale) che avevano già reso “inutile”, con il tempo, la contestazione del vecchio abuso di ufficio.

Riassumendo. Siamo nel mirino della Commissione dell’Unione europea per l’eccesso di corruzione che ammorba il Paese e cancelliamo il reato di abuso di ufficio, con la conseguenza, tra le altre – alcune delle quali ben individuate dal prof. Gian Luigi Gatta [4] -, che un funzionario pubblico che fa “passare” una delibera o un’ammissione concorsuale con cui procura a se stesso o all’amico di turno un personale vantaggio economico senza astenersi (comportamento molto grave e “parente stretto” di fatti corruttivi), non deve più risponderne davanti al giudice penale. Senza parlare della sopravvenuta non punibilità dell'odiosissimo abuso di danno: si pensi, ad esempio, alla fattispecie della negazione del bene della vita all'avente diritto per motivi di inimicizia personale.

Se poi la legittimità della delibera o dell’atto si consolida per mancata contestazione dinanzi a un Tribunale non si vede davvero quale argine resti per bloccare il dilagare della mala gestio nella pubblica amministrazione.

Per evitare una violazione di obblighi di incriminazione previsti dal diritto UE, però, il Governo introduce per decreto-legge (in ossequio ad una odiosa prassi degli ultimi anni) una nuova fattispecie incriminatrice che verosimilmente non produrrà risultati dissimili, in termini di ridottissimo contrasto alla criminalità dei colletti bianchi ma di persistente potenziale “spauracchio” per il funzionario onesto che deve firmare l’atto, da quelli che hanno infine portato all’abolizione del reato di abuso di ufficio.

Nel complesso ne deriva una complessiva sensazione di indebolimento del sistema di prevenzione e repressione degli illeciti, in un Paese che già vive di forti sperequazioni causate anche, tra l'altro, da un mix di inefficienze burocratiche e di consolidati blocchi di potere che tendono all’autoconservazione. 

Qualcuno adesso proverà a suggerire ai vecchi, nostalgici fautori della legalità che nel mondo moderno dell'amministrazione il principio del risultato prevale su tutto, e trova compensazione su piani diversi da quelli del rispetto formale della legge.

Al di là dei facili estremismi ideologici - e della spesso fuorviante contrapposizione tra sostanzialismo e formalismo - non appare un paradosso opporre a questo modo di pensare il richiamo alla teoria dei buchi neri, immaginando la legalità come una stella ad altissima densità la cui luce, dopo il collasso, rimane intrappolata e non più visibile in superficie, con tutto ciò che ne consegue in termini di adattamento comportamentale dei singoli individui e della società nel suo insieme. 








[1] Corte cost, ordinanza n. 154 del 2022.

[2] Il Governo, espressione della stessa maggioranza che ha inserito nel decreto mille-proroghe per il 2023 l'art. 10-quater con la legge di conversione n. 14 del 2023, ha poi impugnato, con ricorso notificato il 29 aprile dello stesso anno, non la norma della Regione Sicilia che aveva stabilito, nel 2018, di estendere la validità delle concessioni fino al 31 dicembre 2033 su domanda degli interessati (norma ormai inoppugnabile in via principale per intervenuto decorso dei termini), ma la disposizione tramite cui la scadenza entro cui chiedere la proroga era stata ulteriormente prorogata fino al 30 aprile 2023. Tale norma, come detto, è stata ritenuta costituzionalmente illegittima, "per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alle previsioni interposte dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE".

[3] Art. 314-bis del codice penale, così come introdotto dal d.l. n. 92 del 2024.

[4] Illuminante e molto approfondito è il suo contributo apparso sulla rivista online Sistema Penale, al cui link si rimanda per l'integrale lettura: https://www.sistemapenale.it/it/documenti/morte-dellabuso-dufficio-recupero-in-zona-cesarini-del-peculato-per-distrazione-art-314-bis-cp-e-obblighi-non-pienamente-soddisfatti-di-attuazione-della-direttiva-ue-2017-1371  

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