PREMESSA
Il “diritto al silenzio” – fondato sull’art. 24 della Costituzione, sull’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e sugli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) – è assicurato a colui che si rifiuta di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali potrebbe emergere la sua responsabilità per un illecito punito con una “sanzione amministrativa di natura punitiva”.
Si conclude con questa "massima" una complessa vicenda – che ha visto come organo rimettente la Corte di Cassazione e un rinvio pregiudiziale disposto dalla Corte costituzionale alla Corte di giustizia dell’Unione europea –, e che è sfociata infine in una pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria - TUF), nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si rifiuti di fornire alla CONSOB risposte che possano far emergere una responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo (Corte Costituzionale n. 84 del 2021).
La pronuncia è rilevante perché, per la prima volta, la Corte costituzionale ha riconosciuto il “diritto al silenzio” - il diritto di non essere costretto, sotto minaccia di una sanzione, a fornire dichiarazioni contro se stesso - nel procedimento amministrativo da cui può emergere una responsabilità per un illecito sanzionato con una misura afflittiva.
In sostanza, prosegue il percorso giurisprudenziale che tramite l’applicazione di meccanismi garantisti sta portando all’omogeneizzazione dei regimi sanzionatori punitivi.
IL FATTO E L'ITER GIUDIZIARIO
La vicenda ha preso avvio da una sanzione amministrativa pecuniaria di cinquanta mila euro irrogata dalla CONSOB, ai sensi dell’art. 187-quienquiesdecies TUF, a un individuo che, quale parte di un procedimento amministrativo per abuso di informazioni privilegiate, aveva più volte differito immotivatamente la data di un’audizione alla quale era stato convocato in qualità di persona informata dei fatti e perché, successivamente, si era rifiutato di rispondere alle domande. L’interessato, soccombente in appello, era ricorso per la cassazione della sentenza deducendo plurimi motivi di illegittimità fra cui che l’ingente sanzione ricevuta era incompatibile col principio nemo tenetur se detegere anche perché le dichiarazioni rese nel corso di quell’audizione potevano essere trasmesse al Pubblico ministero qualora fossero stati ravvisati gli estremi di una condotta penalmente rilevante.
a) L’ordinanza della Cassazione n. 3831 del 2018 e la non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale e di compatibilità con il diritto dell’Unione.
Con ordinanza del 16 febbraio 2018, n. 3831, la Corte di Cassazione ha osservato che la direttiva 2003/6/CE relativa all’abuso di informazioni privilegiate - in attuazione della quale l’art. 187-quinquiesdecies fu introdotto nel TUF - pone un generale obbligo di collaborazione con l’autorità di vigilanza la cui violazione deve essere sanzionata dallo Stato membro, e che tale obbligo è sancito anche dal regolamento UE n. 596/2014, sugli abusi di mercato, che ha abrogato la direttiva 2003/6/CE.
La dedotta questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies TUF è stata valutata rilevante e non manifestamente infondata con riferimento ai parametri interni degli artt. 24, 111 e 117 della Costituzione in relazione all’articolo 6 CEDU (perché il diritto di non collaborare alla propria incolpazione deve ritenersi un corollario del diritto di difesa e perché la sanzione prevista, pur qualificata dalla legge come amministrativa, è tuttavia connotata da una gravità tale da doversi alla stessa riconoscere carattere sostanzialmente penale in base ai criteri elaborati dalla Corte EDU nella sentenza Engel) e all’art. 14, comma 3, lett. g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16.12.1966 e, infine, con riferimento agli artt. 11 e 117 Costituzione in relazione all’art. 47 CDFUE, poiché le norme interne regolatrici della vicenda sono state emanate in attuazione di direttive comunitarie. In definitiva, secondo la Cassazione, tutte le citate norme della Costituzione, della CEDU, del Patto internazionale sui diritti civili e politici e della CDFUE convergono nel riconoscimento - esplicito nel caso dell’art. 14 del Patto internazionale; implicito in tutti gli altri casi - del diritto della persona a non contribuire alla propria incolpazione e a non essere costretta a rendere dichiarazioni di natura confessoria (nemo tenetur se ipsum accusare). E il diritto al silenzio non può non estendersi ai procedimenti di carattere formalmente amministrativo ma funzionali all’irrogazione di sanzioni di carattere sostanzialmente punitivo.
La Corte di legittimità ha quindi accertato che ricorreva un’ipotesi di c.d. doppia pregiudizialità in quanto la disposizione sub iudice dava luogo sia a questioni di legittimità costituzionale sia, e simultaneamente, a una questione di compatibilità con il diritto dell’Unione. Ha allora richiamato la sentenza della Corte costituzionale 14 dicembre 2017, n. 269, secondo la quale in caso di violazione di un diritto della persona che infranga, allo stesso tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione sia quelle codificate dalla CDFUE, serve “un intervento erga omnes, anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale”, per cui, conseguentemente, “laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla CDFUE in ambito di rilevanza comunitaria, [deve] essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione”.
b) La doppia pregiudizialità e l’ordinanza della Corte costituzionale n. 117 del 2019.
Con ordinanza del 10 maggio 2019, n. 117, la Corte costituzionale ha innanzitutto ribadito la sua competenza a vagliare - essendo anch’essa “organo giurisdizionale” nazionale ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea - eventuali profili di contrarietà tra disposizioni di legge nazionali e norme della CDFUE, in quanto i “principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana … sicché può darsi il caso che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione”. Nondimeno, resta fermo che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria anche al termine del procedimento incidentale di legittimità costituzionale; e fermo restando, altresì, il loro dovere, ricorrendone i presupposti, di non applicare nella fattispecie concreta la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta. Il tutto, “in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia, affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico”.
Nel merito, ha affermato che l’interrogativo posto dalla Corte di Cassazione doveva essere limitato al “rifiuto di rispondere a domande dalle quali può emergere una propria responsabilità”, poiché il diritto al silenzio non può legittimare comportamenti ostruzionistici quali il rifiuto di comparire a un’audizione o un indebito ritardo nel presentarsi alla stessa, purché sia garantito - diversamente da quanto era avvenuto nel caso di specie - il diritto a non rispondere alle domande che vengono rivolte durante quell’audizione.
La Corte - dopo aver ha rammentato di non essere mai stata chiamata a valutare se e in che misura tale diritto (“appartenente al novero dei diritti inalienabili della persona umana che caratterizzano l’identità costituzionale italiana”) fosse applicabile nell’ambito di procedimenti amministrativi funzionali all’irrogazione di sanzioni di natura punitiva secondo i criteri Engel - ha poi ricordato le garanzie (riconosciute in materia penale dalla Costituzione italiana e dalla CEDU) che si estendono anche alle sanzioni amministrative che, per la loro particolare afflittività, hanno natura punitiva: - il divieto di retroattività delle modifiche sanzionatorie in peius (sentenze n. 223 del 2018, n. 68 del 2017, n. 276 del 2016, n. 104 del 2014 e n. 196 del 2010); - la sufficiente precisione del precetto sanzionato (sentenze n. 121 del 2018 e n. 78 del 1967); - la retroattività delle modifiche sanzionatorie in mitius (sentenza n. 63 del 2019).
Ha quindi preso atto che la Corte EDU riconosce un’estensione del diritto al silenzio dell’incolpato nell’ambito di procedimenti amministrativi funzionali all’irrogazione di sanzioni di natura punitiva, ma che la Corte di giustizia non si era mai occupata della questione se gli artt. 47 e 48 CDFUE impongano di riferire tale diritto anche a procedimenti amministrativi suscettibili di sfociare nell’irrogazione di sanzioni di natura punitiva.
Pertanto, con spirito di leale cooperazione tra corti nazionali ed europee nella definizione di livelli comuni di tutela dei diritti fondamentali, ha deciso di chiedere alla Corte di giustizia l’esatta interpretazione, ed eventualmente la validità, alla luce degli artt. 47 e 48 CDFUE, dell’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE (e dell’art. 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento UE n. 596/2014), nonché se le disposizioni ivi menzionate devono essere interpretate nel senso che consentono a uno Stato membro di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la sua responsabilità per un illecito punito con sanzioni penali o con sanzioni amministrative di natura punitiva.
c) La Sentenza della Corte di giustizia n. 481 del 2021.
La Corte di giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, con sentenza 2 febbraio 2021, in causa C-481/19, ha preliminarmente ricordato che ai sensi dell’art. 6, paragrafo 3, TUE, i diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali, e che nell’interpretazione dei diritti garantiti dall’art. 47, secondo comma, e dall’art. 48 della CDFUE occorre tener conto dei diritti corrispondenti garantiti dall’art. 6 della CEDU come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in quanto “soglia di protezione minima”.
Ha quindi richiamato la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in base alla quale, anche se l’art. 6 della CEDU non menziona espressamente il diritto al silenzio, tale diritto costituisce “una norma internazionale generalmente riconosciuta che si trova al centro della nozione di equo processo”; che la protezione del diritto al silenzio mira a garantire che, in una causa penale, l’accusa fondi la propria argomentazione senza ricorrere a elementi di prova ottenuti mediante costrizione o pressioni, in spregio alla volontà dell’imputato; che il diritto al silenzio non può ragionevolmente essere limitato alle confessioni di illeciti o alle osservazioni che chiamino direttamente in causa la persona interrogata, perché “comprende anche le informazioni su questioni di fatto che possano essere successivamente utilizzate a sostegno dell’accusa ed avere così un impatto sulla condanna o sulla sanzione inflitta a tale persona”.
Tanto premesso, ha sottolineato, in termini generali, che “il diritto al silenzio non può giustificare qualsiasi omessa collaborazione con le autorità competenti, qual è il caso di un rifiuto di presentarsi ad un’audizione prevista da tali autorità o di manovre dilatorie miranti a rinviare lo svolgimento dell’audizione stessa”, ma che tale diritto “deve essere rispettato anche nell’ambito di procedure di accertamento di illeciti amministrativi suscettibili di sfociare nell’inflizione di sanzioni amministrative presentanti carattere penale”.
E per valutare tale carattere penale rilevano tre criteri: il primo è dato dalla qualificazione giuridica dell’illecito nell’ordinamento interno, il secondo concerne la natura stessa dell’illecito e il terzo è relativo al grado di severità della sanzione che l’interessato rischia di subire.
Spetta al giudice del rinvio valutare, alla luce di tali criteri, se le sanzioni amministrative in discussione presentino natura penale perché perseguono una finalità repressiva e/o presentano un elevato grado di severità. Inoltre, occorre rispettare il diritto al silenzio nell’ambito di un procedimento amministrativo quando gli elementi di prova ottenuti tramite esso sono utilizzabili nell’ambito di un procedimento penale intentato nei confronti della stessa persona al fine di dimostrare la commissione di un reato.
Quanto alla questione esaminata, ha affermato che tanto l’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6 quanto l’art. 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014 si prestano a una interpretazione conforme agli artt. 47 e 48 della Carta, in virtù della quale essi non impongono che una persona fisica venga sanzionata per il suo rifiuto di fornire all’autorità competente risposte da cui potrebbe emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale. Così interpretate, le citate disposizioni del diritto derivato dell’Unione non possono veder pregiudicata la loro validità, con riferimento agli artt. 47 e 48 della Carta, per il fatto che esse non escludono espressamente l’inflizione di una sanzione per un rifiuto siffatto. Nell’ambito dell’attuazione di obblighi risultanti dalla direttiva 2003/6 o dal regolamento n. 596/2014, incombe dunque agli Stati membri assicurare che, in conformità al diritto al silenzio garantito dagli artt. 47 e 48 della Carta, l’autorità competente non possa sanzionare una persona fisica per il suo rifiuto di fornire a tale autorità risposte da cui potrebbe emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale (paragrafi 55, 56 e 57).
d) La Sentenza della Corte costituzionale n. 84 del 2021.
Da ultimo, con sentenza 30 aprile 2021, n. 84, la Corte delle leggi ha affermato che il diritto al silenzio:
- pur non godendo di espresso riconoscimento costituzionale, costituisce un “corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa” riconosciuto dall’art. 24 della Costituzione, garantendo nel procedimento penale all’imputato la possibilità di rifiutare di sottoporsi all’esame testimoniale e, più in generale, di avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande del giudice o dell’autorità competente per le indagini;
- che “singole garanzie costituzionali previste per la materia penale si estendono anche a procedimenti amministrativi funzionali all’irrogazione di sanzioni di natura punitiva secondo i criteri Engel”;
- che il procedimento amministrativo codificato nell’art. 187-quinquiesdecies del TUF è funzionale a scoprire illeciti e a individuarne i responsabili e che è suscettibile di sfociare in sanzioni amministrative di carattere punitivo. Da ciò la dichiarazione di “illegittimità costituzionale” dello stesso “nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla CONSOB risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato”.
Ma con la stessa pronuncia la Corte ha pure puntualmente precisato i limiti e la portata del diritto al silenzio:
- non può essere invocato a giustificazione di qualsiasi omessa collaborazione con le autorità competenti, qual è il caso di un rifiuto di presentarsi a un’audizione, o la messa in pratica di manovre dilatorie miranti a rinviare lo svolgimento dell’audizione stessa, e non legittima neppure l’omessa consegna di dati, documenti, registrazioni preesistenti alla richiesta dell’autorità;
- comprende “informazioni su questioni di fatto che possono essere successivamente utilizzate a sostegno dell’accusa ed avere così un impatto sulla condanna o sulla sanzione inflitta a una persona”, per cui esso “deve essere rispettato anche nell’ambito di procedure di accertamento di illeciti suscettibili di sfociare nell’inflizione di sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente penale”, alle quali o per la loro natura afflittiva, o per la loro severità, sono assimilabili molte sanzioni tributarie, che sono quindi meritevoli dell’applicazione dei principi e delle garanzie proprie delle sanzioni penali.
Tale diritto è fondato sull’art. 24 della Costituzione, sull’art. 6 della CEDU e sugli artt. 47 e 48 della CDFUE, e può essere ricavato altresì dall’art. 14, paragrafo 3, lettera g), della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP), laddove “alla nozione di reato contenuta nell’incipit del paragrafo 3 venga assegnato un significato sostanziale, corrispondente a quello gradatamente individuato dalle due Corti europee a partire dalla sentenza della Corte EDU 8 giugno 1976, Engel contro Paesi Bassi”. Tutte queste norme, nazionali e sovranazionali, si integrano, completandosi reciprocamente nell’interpretazione, nella definizione dello standard di tutela delle condizioni essenziali del diritto di difesa di fronte a un’accusa suscettibile di sfociare nell’applicazione di sanzioni a contenuto comunque punitivo, che non possono non comprendere anche il diritto a “non essere costretto a deporre contro se stesso”.