Premessa.
La tematica afferisce ai casi in cui i Giudici dispongano il "super-affido" del minore a favore del padre, esclusivamente sul rilievo che la condotta conflittuale della madre sia finalizzata all'estraneazione del minore dal padre stesso, ovvero ad allontanarlo da quest'ultimo.
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, in tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci comportamenti dell'altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità del fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l'altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena.
I Giudici di ultimo grado hanno altresì affermato che nei giudizi in cui sia stata esperita c.t.u. medicopsichiatrica (allo scopo di verificare le condizioni psico-fisiche del minore e conclusasi con un accertamento diagnostico di sindrome dell'alienazione parentale), il giudice di merito, nell'aderire alle conclusioni dell'accertamento peritale, non può, ove all'elaborato siano state mosse specifiche e precise censure, limitarsi al mero richiamo alle conclusioni del consulente, ma è tenuto - sulla base delle proprie cognizioni scientifiche, ovvero avvalendosi di idonei esperti e ricorrendo anche alla comparazione statistica per casi clinici - a verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che risulti, sullo stesso piano della validità scientifica, oggetto di plurime critiche e perplessità da parte del mondo accademico internazionale, dovendosi escludere la possibilità, in ambito giudiziario, di adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che intendono scongiurare.
In materia di affidamento dei figli minori, il principio basilare è che il giudice deve attenersi al criterio fondamentale rappresentato dall'esclusivo interesse morale e materiale della prole, privilegiando quel genitore che appaia il più idoneo a ridurre al massimo il pregiudizio derivante dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore. L'individuazione di tale genitore deve essere fatta sulla base di un giudizio prognostico circa la capacità del padre o della madre di crescere ed educare il figlio, che potrà fondarsi sulle modalità con cui il medesimo ha svolto in passato il proprio ruolo, con particolare riguardo alla sua capacità di relazione affettiva, di attenzione, di comprensione, di educazione, di disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché sull'apprezzamento della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell'ambiente che è in grado di offrire al minore.
Con la recente ordinanza del 12 maggio 2021, n. 13217, la Corte di Cassazione, pur non entrando nel merito della fondatezza scientifica della PAS (sindrome di alienazione parentale), anche qualificata dal giudice di seconda istanza come "sindrome della madre malevola", ha rilevato - in conformità dell'orientamento secondo cui non si può escludere l'affidamento condiviso su una astratta prognosi circa le capacità genitoriali di uno dei genitori, non suffragata da episodi gravi e reiterati ma fondata su una sorta di "colpa di autore" - che i fatti ascritti dalla Corte territoriale alla madre del minore non presentassero la gravità legittimante la pronuncia impugnata ("super-affido" in favore del padre), in mancanza di accertate, irrecuperabili carenze d'espressione delle capacità genitoriali, considerando altresì il profilo, palesemente trascurato dalla stessa Corte di merito, afferente alle conseguenze sulla minore del c.d. "super-affido", con particolare riferimento alla rilevante attenuazione dei rapporti con la madre in un periodo così delicato per lo sviluppo fisio-psichico della bambina.
La Cassazione alle prese con la "sindrome della madre malevola"
di Babara Vidotti
Nel diritto di famiglia la Responsabilità Genitoriale (introdotta con il D.Lgs. 28/12/2013 n. 154 con la quale ha sostituito la potestà genitoriale) è disciplinata dall’art. 316 del Codice Civile. La norma enuncia come “entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio”. In tale contesto, dunque, la responsabilità genitoriale si configura come il complesso dei poteri e doveri attribuito ai genitori, congiuntamente e paritariamente, al fine di proteggere e tutelare i figli minori.
Il Codice Civile, nella tutela del figlio, riconosce, inoltre, in capo a quest’ultimo il “diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti” (ex art. 315 bis comma 2 c.c. – Diritti e doveri del figlio).
Su tale assunto si possono inserire però una serie di stati patologici per i quali il rapporto genitore-figlio può trovare degli ostacoli, in particolare nei casi di separazione o divorzio tra la coppia genitoriale.
Sebbene la legge prescriva che, in caso di separazione o divorzio, il figlio minore abbia “il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” (ex art. 337-ter c.c.) e che nei suddetti casi i provvedimenti adottati dal Giudice devono tenere quale punto di riferimento l’esclusivo interesse morale e materiale dei figli, in alcuni contesti sorgono situazioni differenti.
Il giudicante dovrà difatti valutare primariamente la possibilità che i figli minori restino affidati ad entrambi i genitori al fine di rendere effettivo il principio di bigenitorialità stabilito dalla Legge 54 del 2006, ovvero ipotizzare un affidamento esclusivo; solo qualora si verifichino circostanze di temporanea impossibilità dovrà provvedere all’affidamento familiare o presso i Servizi Sociali. Dovrà poi stabilire in quali tempi e modalità i minori possano frequentare ciascun genitore.
All’interno di contesti di conflitto parentale implicanti risvolti psicologici anche sulla prole, si sono introdotte nel tempo varie teorie.
Una delle più discusse, anche nei più recenti casi giudiziari, è quella della PAS (Parental Alienation Syndrome o Sindrome di Alienazione Parentale) teorizzata per la prima volta dal medico statunitense Richard Gardner, il quale la definì come “un disturbo infantile che insorge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. In questo disturbo, la manifestazione primaria è la campagna di denigrazione attivata da un genitore (alienatore) contro l’altro genitore (genitore alienato) tramite il bambino, una campagna che non ha alcuna giustificazione. Tuttavia, questa non è una semplice questione di "lavaggio del cervello" o "programmazione", poiché il bambino fornisce il suo personale contributo alla campagna di denigrazione ”.
Il medico inoltre sosteneva come, in caso di presenza di abusi e/o negligenze conclamate da parte dei genitori, l’ostilità del bambino trovasse comunque una giustificazione senza dover applicare il concetto di PAS.
La tesi della PAS venne sviluppata nel 1985 ed esposta nell’omonima auto-pubblicazione “La Sindrome da Alienazione Genitoriale” (The Parental Alienation Syndrome: A Guide for Mental Health and Legal Professionals) del 1992.
Gardner teorizzava come in contesti di separazione e divorzio specialmente conflittuali, ovvero di situazioni di violenza domestica, si potesse attivare sui figli minori una dinamica psicologica disfunzionale. Egli riconduceva la presenza di tale dinamica psicologica all’individuarsi nei rapporto genitori-figlio di alcuni specifici criteri, in particolare (i) difficoltà di transazione nel momento di separazione del figlio dal genitore alienante per trascorrere un periodo di visita presso il genitore alienato; (ii) comportamento antagonistico o distruttivo durante il periodo di visita presso il genitore alienato; (iii) legame patologico o paranoide con il genitore alienante; (iv) presenza di un legame forte e sano con il genitore alienato prima dell’inizio del processo di alienazione.
A questi criteri il dott. Gardner aggiungeva otto sintomi riscontrabili nel bambino in circostanze di sindrome da alienazione parentale che assumevano i caratteri di una vera e propria forma di violenza emotiva (ad esempio la presenza di scenari presi a prestito, ossia affermazioni che non possono ragionevolmente venire dal minore direttamente; e ancora l’appoggio automatico al genitore alienante, quale presa di posizione del bambino sempre e solo a favore del genitore alienante).
Per Gardner il rapporto frutto dell’alienazione sarebbe quindi il risultato di una “programmazione” volta a costruire una realtà virtuale familiare agli occhi del figlio che non combacia con la realtà concreta.
La teoria de qua è stata oggetto di dibattito scientifico e giuridico sin dalla sua teorizzazione poiché mancante di validità e affidabilità scientifica, con la conseguenza di non essere stata quasi mai riconosciuta come disturbo mentale dalla comunità scientifica e legale internazionale.
La National District Attorneys Association americana nel 2003 già affermava come la definizione dell’alienazione parentale quale “sindrome” non poteva essere accolta in quanto i sintomi evidenziati erano il prodotto di prove aneddotiche raccolte dalla pratica del medico americano, rilevando dunque il suo mancato fondamento empirico (la teoria è stata accusata di non essere stata sottoposta a revisione paritetica di esperti).
Il problema principale, dunque, si incentrava sulla sua definizione come “sindrome”. La PAS non è mai entrata a far parte dell’elenco DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), così privandola di qualunque riconoscimento quale sindrome o malattia.
Per quanto attiene la diffusione della teoria della PAS in Italia bisogna premettere che la legislazione nazionale non contiene alcuna normativa atta a contrastare l’ “alienazione parentale”. Al contempo con l’interpello n. 2-01706 del 2012 venne posta all’attenzione della Camera dei deputati la questione relativa alla PAS e alla sua eventuale configurazione quale malattia di tipo psicopatologico.
L’allora sottosegretario per la salute riferì come la teoria di Gardner rappresentasse una sindrome non inserita in alcuna classificazione in uso (né nel ICD-10 International classification of diseases, né nel DSM-IV e nell’allora futuro DSM-V). Il sottosegretario Cardinale sostenne difatti che “la sindrome PAS non viene considerata come un disturbo mentale, ed è stata oggetto di attenzione prevalentemente in ambito forense, più che da parte della psichiatria e della psicologia clinica. Sebbene la PAS sia stata denominata arbitrariamente dai suoi proponenti con il termine “disturbo”, in linea con la comunità scientifica internazionale, l'Istituto Superiore di Sanità non ritiene che tale costrutto abbia né sufficiente sostegno empirico da dati di ricerca, né rilevanza clinica tali da poter essere considerata una patologia e, dunque, essere inclusa tra i disturbi mentali nei manuali diagnostici”.
Dello stesso avviso il Ministro della Salute che, con risposta all’interpello n. 4-02405, il 29 maggio 2020, sottolineava la mancanza di scientificità della PAS.
Una tale criticità nel ricondurre la PAS all’interno di un contesto psicologico-psichiatrico (come sindrome o come forma di abuso) ha portato all’interno del panorama giurisprudenziale italiano al verificarsi di pronunce difformi e contrastanti tra di loro.
Non deve quindi stupire se la Suprema Corte di Cassazione nel corso degli anni si è pronunciata varie volte sulla questione evidenziando di volta in volta elementi differenti e così rappresentando in modo emblematico le criticità dell’accoglimento o meno di una tale “sindrome”.
Con la sentenza 20 marzo 2013 n. 7041 la S.C. ha riconosciuto come la PAS fosse priva di fondamento scientifico affermando che il Giudice di merito deve verificare il fondamento sul piano scientifico della consulenza sulla quale fonda il proprio giudizio qualora questa presenti devianze dalla scienza medica ufficiale poiché ripudiata dalla letteratura scientifica internazionale di maggioranza (nel caso di specie il CTU sosteneva la presenza di una PAS).
Al contrario la Suprema Corte con la sentenza n. 5847/2013 ha rigettato il ricorso proposto avverso la sentenza della Corte d’Appello che aveva posto alla base della propria decisione una relazione dell’Asl che diagnosticava una sindrome da alienazione parentale dei figli, evidenziando il danno irreparabile da questi subito per la privazione del rapporto con il genitore alienato.
Con un ulteriore cambio di rotta, nel 2019 la Suprema Corte, con la sentenza n. 13274/2019, ha poi puntualizzato e confermato che “qualora un genitore denunci comportamenti dell’altro genitore di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una PAS, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia”.
Viceversa, in una recente ordinanza, Cass. civ. n. 28723 del 16 dicembre 2020, la Corte, riaffermando l’interesse superiore del minore a vedersi assicurato il rispetto del principio della bigenitorialità, anche sulla spinta dei principi enunciati dalla Corte EDU, ha rinviato al Giudice di merito, il quale non aveva tenuto conto nella propria decisione dei comportamenti della madre tesi ad emarginare il padre.
Infine, di portata ancora più recente si presenta la conclusione cui è giunta la Procura Generale presso la Corte di Cassazione, la quale sottolinea come “solo i condizionamenti accertabili su un piano scientifico a partire da comportamenti concretamente posti in essere possono costituire la ragione per confinare nell’irrilevante giuridico la volontà chiaramente e consapevolmente espressa dal minore, che il diritto vivente vuole al centro di ogni decisione che lo riguardi”.
Altresì, nella recentissima ordinanza della Suprema Corte, la n. 13217/2021 depositata in cancelleria il 12 maggio 2021 sottolineava come “in tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci comportamenti dell’altro genitore […] indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità del fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente […] (Cass., n. 6919/16)”.
Da ciò ne consegue come il giudice di merito nell’aderire alle conclusioni dell’accertamento peritale non può limitarsi al mero richiamo alle conclusioni del consulente, ma è tenuto a verificarne il fondamento, sul piano scientifico “ricorrendo anche alla comparazione statistica per casi clinici” di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che risulti, sullo stesso piano della validità scientifica, oggetto di plurime critiche e perplessità da parte del mondo accademico internazionale. A tal fine deve escludersi, secondo le parole della Corte con richiamo espresso alla Cass. n. 7041/13, la possibilità, in ambito giudiziario, di adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor più gravi.
In conclusione, le sentenze e gli orientamenti giurisprudenziali di cui sopra esprimono pienamente il contrasto di opinioni sulla teoria della PAS. La richiesta di una validazione scientifica atta a sostenere sia i mezzi di prova che le stesse consulenze tecniche in sede legale mostra con ancora maggiore forza come tutti gli Operatori del diritto, tanto Magistrati quanto Avvocati, richiedano e ricerchino in particolare nella fase processuale soluzioni validate da criteri scientifici, ma di come allo stesso tempo, ancor oggi, non si sia trovata una visione unitaria e condivisa.