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Il Giudice sovrano (dalle Spigolature, n. 28)

a cura di Sergio Conti • 5 dicembre 2024

In queste settimane è argomento d'attualità (politica e giuridica) la discussione circa la latitudine del potere del giudice rispetto a quello del legislatore e del governo e sul rapporto fra ordinamento nazionale e comunitario.

In questo ambito viene ad avere una particolare rilevanza (anche se del tutto omessa nel dibattito politico/giornalistico) la tematica, di grande rilievo dottrinale e pratico, sulla natura dell'interpretazione giuridica, alla quale sono già stati dedicati diversi numeri della rubrica "Spigolature filosofiche".

Una interessantissima - e non molto conosciuta in Italia - dottrina è quella del c.d. “originalismo”, sorta negli Stati Uniti per opera di alcuni giuristi, fra i quali Robert H. Bork.

Per una introduzione al tema, si segnala lo scritto “Il giudice sovrano” di Luca Vittorio Raiola pubblicato in data 8 giugno 2012 sul sito Magnacarta (e rinvenibile online all'indirizzo: https://fondazionemagnacarta.it/2012/06/08/il-giudice-sovrano/ ), di recensione dell'edizione italiana del libro uscito nel 2004 per i tipi dell'editore Liberilibri di Macerata.

Dall'articolo espungo e riporto – per sollecitare la curiosità del lettore - alcuni passaggi:


"I punti essenziali dell'originalismo sono i seguenti. Il dilemma della democrazia sta nel rapporto fra il potere della maggioranza e la libertà della minoranza. In questo quadro è compito della classe dei giudici proteggere energicamente i diritti degli individui, ma al contempo essere scrupolosi nel non negare il legittimo diritto di governare alla maggioranza. A questo scopo la via migliore consiste nella presa d’atto che la Costituzione è una legge, composta di parole che astringono i giudici allo stesso modo in cui astringono i legislatori, i governanti e i cittadini. Le previsioni costituzionali non soltanto proteggono diritti individuali, ma contengono anche limiti imprescindibili per il buon governo della società.

La presenza di tali limiti implica che pure l’autorità del giudice deve essere limitata.

Se così non fosse e il potere dei giudici si estendesse al di là delle aree loro assegnate da specifiche clausole della Costituzione, allora non vi sarebbe legge diversa dalla volontà del giudice e la legge sarebbe la volontà del giudice.

Una situazione del genere non sarebbe legittima in democrazia.

Se si dicesse che la Costituzione non è una legge, ma un compito che spetta alla filosofia morale completare, si consegnerebbe il potere di governare alle particolari predilezioni morali dei giudici della Corte Suprema.



Per Bork le nazioni occidentali hanno temuto a lungo di venire contagiate dalla “malattia americana”, ovvero dal fenomeno dell’appropriazione, da parte dei giudici, dell’autorità appartenente al popolo e ai suoi rappresentanti eletti. Una simile patologia si manifesta non appena i giudici si trovano in condizioni tali da ricevere o da attribuirsi il potere di calpestare le decisioni prese da altri organi dello Stato: il potere del controllo giurisdizionale di costituzionalità.



Ma chi sono i giudici attivisti? Essi sono quei giudici che emettono sentenze senza alcuna connessione plausibile con la legge che dichiarano di applicare, o che deformano e perfino contraddicono il significato di tale legge giungendo a conclusioni basate su principi neanche lontanamente contemplati da coloro che l’hanno scritta e votata.



Sull'argomento si veda anche, in maniera più approfondita, l'ampio articolo del prof. Mauro Ronco dal titolo “Originalismo. Venticinque anni di dibattito. Una recensione", pubblicato in data 23 Agosto 2008 sul sito “Alleanza Cattolica”, rinvenibile online all'indirizzo: https://alleanzacattolica.org/originalismo-venticinque-anni-di-dibattito-una-recensione/ .


Nella conclusione del saggio, al quale necessariamente si rinvia per l'approfondimento, si pone in rilievo che:


...

La recensione dell’opera Originalism: A Quarter Century of Debate vuole aprire anche in Italia un dibattito che ferve negli Stati Uniti d’America da almeno un quarto di secolo e che ha trovato in Bork, in Scalia e in Thomas i suoi protagonisti più autorevoli e conosciuti. Gli obiettivi essenziali per cui è sorta e si è strutturata la dottrina dell’”originalismo” sono integralmente condivisibili. Da un lato, la forte proclamazione che il consenso dei governati sta alla base del potere dei governi e che a tale fondamento non può sostituirsi il richiamo, da parte di una piccola élite di giudici, a valori morali vaghi e indefiniti, che pretendono di modellare la dignità umana secondo il cangiante desiderio di libertà individuali irresponsabili e illimitate. Da un altro lato, e in conseguenza della giusta messa a punto della sottoposizione anche dei giudici alla legge e alla Costituzione scritta, l’affermazione dell’essenzialità del bilanciamento dei poteri dello Stato e la rivalutazione del potere legislativo e, soprattutto, del potere di governo, che è direttamente e ineludibilmente chiamato alla sfida della promozione del bene comune dell’intera società. Da ultimo, come tema ancora più importante, la dottrina “originalista” è particolarmente apprezzabile perché ricerca una fondazione oggettiva della dignità umana e dei diritti individuali e dei gruppi sociali, tentando di superare l’individualismo anomico e l’utilitarismo sfrenato che caratterizzano la maggior parte delle dottrine contemporanee sui diritti individuali.


Vi sono certamente molti problemi aperti, che meriterebbero un’approfondita disamina. Ne cito soltanto due. Il primo riguarda il problema dell’interpretazione del diritto. Si tratta di un tema immenso, che non può essere risolto dal semplice richiamo “originalista” al testo e al suo significato originario. Il merito storico dell’”originalismo” è comunque grande, perché ha ribadito il principio fondamentale che il contesto non può sommergere e annullare il testo. Un secondo aspetto riguarda la fondazione della dignità umana e dei diritti individuali. Il richiamo alla Costituzione nel suo significato originario addita l’esigenza imprescindibile che il diritto trascenda il fatto, trovando la sua origine e piantando le proprie fondamenta nell’autorità degli Antichi. Il trascendimento del fatto episodico e il richiamo agli Antichi è cosa buona, ma non sufficiente a fornire al diritto la sua pienezza veritativa. Nel pensiero di Giambattista Vico (1668-1744) è centrale la dialettica fra il vero e il certo, fra la filosofia e la filologia, fra la ragione e l’autorità, e si tratta di una dialettica costruttiva, in cui i due termini non sono in contrasto fra loro, ma cooperano reciprocamente alla crescita intellettuale, morale e pratica dell’uomo, dal momento che il vero senza il certo rischia di smarrirsi rapidamente. Ebbene, nel suo linguaggio potrebbe dirsi che il certo — che è possibile ritrovare con maggior sicurezza nel testo degli Antichi che nella mente dei giudici illuminati — deve coniugarsi con il vero, che la metafisica e la legge morale sono definitivamente capaci di offrire alla contemplazione di coloro che cerchino realmente di diventare iurisprudentes.



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