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La gestione dei fenomeni migratori tra "buonismo" e "cattivismo": una falsa alternativa

a cura di Marco Provera, Avvocato • 6 dicembre 2024

1. In Italia il dibattito pubblico sui fenomeni migratori risulta oggi polarizzato su un singolo aspetto, certamente di rilievo ma non decisivo. Si discute infatti accanitamente sul migliore sistema di gestire l’immigrazione irregolare, concentrandosi sulle modalità che consentano di pervenire nel più breve tempo possibile ad una decisione definitiva sul riconoscimento della protezione internazionale e di rimpatriare i soggetti che non vi abbiano diritto. A nostro avviso, con l’esperimento-pilota dei centri di permanenza per il rimpatrio in Albania il governo ha deciso di passare dalla fase delle cure sintomatiche, dimostratesi largamente inefficaci, a quelle palliative, mentre le opposizioni – quelle stesse forze politiche che in altri tempi avevano posto le basi sulle quali si è sviluppata quella che vanamente denunciano come deriva securitaria – dimostrano una sconcertante povertà di idee e proposte concrete.

2. In principio fu Minniti, con l’adozione di misure sul versante interno e una parallela azione nei confronti dei poteri armati che controllavano (e tutt’ora controllano) le coste e l’entroterra libico.

La lentezza delle procedure amministrative e giudiziarie per l’accertamento del diritto alla protezione internazionale (asilo per i rifugiati politici e le vittime di persecuzioni, protezione umanitaria o speciale per vittime di guerra o catastrofi), rappresenta infatti in primo luogo un vulnus al principio che impone lo svolgimento del processo non solo equo e imparziale, ma anche in tempi ragionevoli, confinando gli aventi diritto in un limbo di incertezza che li rende particolarmente vulnerabili rispetto a situazioni di sfruttamento lavorativo e precarietà esistenziale. Ma il tema era percepito dall’opinione pubblica soprattutto come causa della dilatazione di un sistema di prima accoglienza i cui costi erano giudicati insostenibili, anche a prescindere dalla sua maggiore o minore efficacia, rispetto alla finalità di fornire al soggetto in attesa dello status definitivo di rifugiato quelle minime abilità linguistiche, necessarie per vivere nel nostro paese.

Occorre ammettere francamente che la rimodulazione delle procedure, iniziata con il D.L. n. 13/2017, non ha alleviato in modo significativo il carico di lavoro dei tribunali e neppure abbreviato la permanenza dei richiedenti asilo in quella condizione giuridica di incertezza.

Da allora le politiche nazionali ed europee sono sempre più orientate ad esternalizzare la difesa dei confini, sia pure a prezzo di accordi con poteri che di statuale hanno solo l’apparenza, o con stati retti da regimi del tutto incuranti dei diritti “inviolabili” della persona; tutti finanziati (direttamente o indirettamente) per tenere masse di disperati lontani dalla “fortezza Europa”. A dire il vero, non pare neppure che l’opinione pubblica europea sembri particolarmente interessata a sapere con quali mezzi si ottiene il risultato.

È evidente che queste politiche, intese anche a proteggere il livello dei salari restringendo l’accesso di forza lavoro dall’esterno, non risolvono il problema: è noto che gli impieghi più faticosi e meno retribuiti sono in genere rifiutati dagli italiani, mentre le qualifiche più basse e il lavoro giornaliero, specie in agricoltura e nell’edilizia, sono garantiti da manodopera straniera, impiegata in parte cospicua senza regolare contratto. Esse producono per di più effetti secondari tutt’altro che desiderabili. Da un lato concedono a controparti estere poco affidabili l’opportunità di aprire o chiudere a loro piacimento le rotte dei migranti e, quindi, conferiscono loro un abnorme potere contrattale verso i nostri governi. Dall’altro, assicurano una cospicua rendita di posizione alle reti di trafficanti (col rischio che possano radicarsi ed estendersi mediante accordi stabili con la criminalità, per così dire autoctona) e facilitano processi di accumulazione di capitali, reinvestiti in altre attività più o meno illegali.

3. Riproporre in chiave aggiornata una politica di cooperazione internazionale con i paesi di origine dei flussi migratori è ancora un tentativo di agire sull’offerta di manodopera, con effetti a lunga scadenza, che andrebbe coltivato ma che presuppone capitali da investire (e capitalisti disposti a farlo), in una cornice complessiva che vada oltre la concessione di coperture assicurative nazionali agli investitori e l’apertura di linee di credito a favore del Sud del mondo, già pesantemente indebitato verso organismi sovranazionali e singoli stati del c.d. mondo sviluppato.

Non esistono risposte semplici ad un fenomeno di tale vastità, che continua a destabilizzare gli assetti politici del Vecchio continente. Fra l’altro, non è da sottovalutare l’impatto negativo che la chiusura delle frontiere causa alla reputazione e all’immagine dell’Europa presso le opinioni pubbliche dell’altra più-che-metà del mondo: le comunità e gli individui che vivono presso di noi sono obiettivamente un veicolo di idee e rappresentazioni che fluiscono verso l’esterno, e possono essere un tramite, tanto per sostenere un soft power a servizio di una certa idea di Occidente, patria dei diritti dell’uomo e della democrazia, quanto confermare e radicare la diffidenza e la repulsione verso un neocolonialismo debole, non sostenuto né dalla forza economica, né dalla potenza militare.

E dunque? Sarebbe forse il caso di provare ad immaginare un’azione sulla domanda di manodopera che, insieme con altre misure, potrebbe quanto meno regolare il fenomeno migratorio, anziché condannarci a subirlo, dopo averlo confinato tra i fantasmi da rimuovere, o esorcizzare con misure meramente elettoralistiche.

4. Di fatto, il modo in cui i cittadini extracomunitari accedono al nostro mercato del lavoro risponde al caso, più che a una logica allocativa quale che sia: inevitabile uno spreco di capitale umano, e ciascuno di noi potrebbe addurre esempi significativi.

Ancora, chi parte – affidandosi alla buona sorte e ai canali illegali – deve innanzi tutto disporre di somme importanti; normalmente è un giovane, in grado di affrontare le fatiche e i rischi del viaggio, che attinge le risorse al patrimonio di un gruppo familiare esteso o al credito. L’impresa non è dunque per tutti e chi riesce, molto spesso è pressato da una duplice necessità: l’esigenza di riscattare i beni di famiglia, dati in pegno o ceduti per procurarsi liquidità, e inviare denaro per sostenere le esigenze quotidiane di chi rimane in patria.

Si tratta di predisporre gli strumenti giuridici e l’organizzazione amministrativa che restituiscano un minimo di dignità al lavoratore ospite, conferiscano al tempo stesso quella legittimazione a misure anche severe di contenimento dei flussi irregolari che oggi appare viziata da pratiche vessatorie e norme che le favoriscono od occultano, e portino le incerte democrazie europee fuori dal pantano della trattativa con poteri armati (o mafie, per meglio dire), insediate sull’altra sponda del Mediterraneo. Perché non è moralmente tollerabile la severità con i deboli, accoppiata con la tolleranza verso criminali in divisa o dittatori sull’altra sponda. L’esperienza più che decennale ci ha largamente dimostrato, del resto, che dibattersi nel fango non serve allo scopo.

5. È necessario compiere uno sforzo di immaginazione e delineare, innanzi tutto, un modello di reclutamento della mano d’opera fuori dai confini UE che possa incanalare i flussi migratori ed orientarli verso il canale legale. Agire sulla domanda di manodopera richiede tuttavia una serie di precondizioni. Innanzi tutto, una prassi di concertazione fra organizzazioni datoriali, sindacati e governi locali, per individuare le necessità delle imprese, coordinarle con politiche sociali, soprattutto di servizi e abitative, sulle quali far convergere il più ampio consenso di quelle fasce di popolazione che possono veder minacciata in qualche modo la propria condizione dalla concorrenza dei nuovi arrivati.

6. È necessaria inoltre una rete di accordi bilaterali con i paesi di origine, per consentire la selezione e il reclutamento del personale sul posto: è peraltro chiaro che, non essendovi in Italia un monopolio pubblico del collocamento, la intervenuta privatizzazione del mercato nazionale del lavoro crea una obiettiva difficoltà ad “esternalizzare” ai confini UE il reclutamento di lavoratori e il rilascio di permessi di soggiorno, senza le opportune modifiche normative.

Un sistema concordato con le autorità locali garantirebbe flussi valutari regolari ai paesi di origine, permettendo anche di attivare movimenti di merci e servizi fra questi e i paesi di destinazione, con reciproco vantaggio fra le rispettive economie. In un quadro complessivo di scambio, ben potrebbe trovare spazio anche la previsione di procedure e modalità di rimpatrio per chi non abbia titolo a soggiornare sul territorio nazionale, o l’abbia perduto. La notoria difficoltà di stipulare accordi in tal senso è legata a diversi fattori, fra cui non può trascurarsi l’interesse del paese di origine a beneficiare comunque delle rimesse degli emigrati, con o senza permesso di soggiorno.

7. Occorre infine elaborare tipi contrattuali nuovi, o adattare quelli esistenti nel nostro ordinamento, poiché le esigenze di protezione del lavoratore straniero non possono essere sodisfatte solo dalle norme penali che sanzionano lo sfruttamento lavorativo o il traffico di manodopera. Occorre, poi, creare gli opportuni raccordi fra il nostro sistema di previdenza e assicurazione obbligatoria e i sistemi stranieri, senza gravare eccessivamente sulle imprese.

Si tratta quindi di un’opera di notevole impegno, sia dal punto di vista della necessaria acquisizione ed elaborazione di elementi conoscitivi, sia da quello della previsione di adeguati strumenti normativi. È un compito al quale possono concorrere efficacemente i giuristi – i giuslavoristi in particolare – ma che richiede, per essere assolto, che le forze politiche sappiano accantonare le differenze ideologiche e la ricerca di nicchie e segmenti di elettorato, gli appelli emotivi ai valori immortali, nella consapevolezza che le politiche attuate sino ad oggi, al di là di accenti e narrazioni diverse ma convergenti nella sostanza, hanno prodotto risultati scarsi o nulli.


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