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Il principio dispositivo con metodo acquisitivo - Processo amministrativo e "nova" in appello

Federico Smerchinich • 10 settembre 2021

TAR per il Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 264 del 12 giugno 2019 - Cons. Stato, Sez. IV, 27 luglio 2021, n. 5560


Principio dispositivo e metodo acquisitivo nel caso deciso in appello dal Consiglio di Stato

Dal lato dell’onere probatorio, il processo civile segue il principio dispositivo (art. 2697 c.c.), richiedendo alle parti di allegare tutto quanto necessario per dimostrare la pretesa e lasciando al giudice minimi spazi di richiesta di prove d’ufficio.

Il processo amministrativo, pur essendo anch'esso in linea di principio regolato dal principio dispositivo, si distingue da quello civile perché vale altresì il metodo acquisitivo, che consente al giudice di intervenire d'ufficio al fine di richiedere alle parti quelle prove necessarie a colmare le lacune date dallo squilibrio delle posizioni processuali tra pubbliche amministrazioni e privati (artt. 63-65 c.p.a.). Tale potere autoritativo del giudice è esercitabile anche in sede di appello davanti al Consiglio di Stato, come spiegato dalla sentenza n. 5560 del 2021.

Il caso trae origine da una domanda di trasferimento presentata da un appuntato della Guardia di Finanza per essere spostato dal gruppo di Gorizia a quello di Palermo. Sulla domanda si era espresso con parere favorevole il Comando generale della Guardia di Finanza, ma la stessa non era stata accolta dal competente Ufficio del personale. 

Pertanto il militare è ricorso al TAR Friuli Venezia Giulia, chiedendo l’annullamento della nota di diniego al trasferimento. Il G.A. di primo grado ha accolto il ricorso, annullando gli atti impugnati ed ordinando all’Amministrazione di rideterminarsi sulla domanda di trasferimento del ricorrente. 

Avverso la sentenza, il Comando generale della Guardia di Finanza ha proposto appello al Consiglio di Stato, rilevando per la prima volta che l’Amministrazione ha espresso diniego al trasferimento per evitare una possibile situazione di incompatibilità ambientale tra l’appuntato e la sede di Palermo, come da parere del Comandante regionale della Sicilia depositato in appello.

Il militare, costituitosi in giudizio di appello, ha contestato l’inammissibilità della nuova eccezione dell’appellante sull’incompatibilità, in quanto non rilevabile d’ufficio e presentata per la prima volta in appello con palese violazione dell’art. 104 c. 2 c.p.a. In subordine, l’appellato ha anche sollevato una questione di legittimità costituzionale avverso gli artt. 46 c. 2 e 104 c. 2 c.p.a. per contrasto con i diritti costituzionali di difesa, qualora l’interpretazione dello stesso faccia ritenere di accogliere le eccezioni sollevate dall’Amministrazione in appello.

Il Consiglio di Stato, innanzitutto, ha rigettato le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’appellato sullo ius novorum e respinto le questioni di costituzionalità in quanto generiche e non fondate, riconoscendo al legislatore ampi margini di discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, che incontrano il solo limite della ragionevolezza e non arbitrarietà delle scelte. In tale quadro, secondo il giudice d’appello l’art. 24 Cost. prescriverebbe che non possano essere imposti oneri o modalità che rendano impossibile o particolarmente difficile l’esercizio del diritto di difesa e dell’attività processuale, ma non comporterebbe che il cittadino debba perseguire sempre la stessa tutela giurisdizionale. Ha aggiunto il Consiglio di Stato che nel caso di specie non si discute di eccezioni in senso tecnico, bensì di mere difese che possono sempre essere opposte, e che i documenti offerti per la prima volta in appello sono atti del procedimento gravato acquisibili ai sensi degli artt. 46 c. 2 e 65 c. 3 c.p.a. 

Alla luce di ciò, ritenendo fondate le argomentazioni dell’Amministrazione sull’incompatibilità tra il militare e la sede palermitana, a seguito di precedenti fatti penali coinvolgenti l’appuntato e che sconsigliavano lo spostamento di sede, ha accolto l’appello e riformato la sentenza di primo grado, confermando il provvedimento di diniego.


Il principio di diritto

A parte la vicenda processuale in senso stretto, è interessante rilevare che il Consiglio di Stato ha colto l’occasione per soffermarsi sui poteri esercitabili dal giudice amministrativo nel processo e sul significato dell’enunciato “indispensabili ai fini della decisione” presente nell’art. 104 c. 2 c.p.a. in tema di divieto di nova in appello.

Partendo dal dato normativo, gli artt. 63, 64 e 65 c.p.a. hanno recepito gli insegnamenti della giurisprudenza nell’individuare per il processo amministrativo un modello intermedio che trae spunti dal processo civile e penale ma che si discosta dagli stessi attenuando il principio dispositivo in un più sfumato principio di prova che consente al giudice amministrativo di intervenire a soccorso della parte che, senza sua colpa, non è in grado di fornire una prova piena.

Non è un caso che un tale modello ibrido trovi collocazione proprio nel processo amministrativo, ontologicamente caratterizzato da una disparità di posizioni tra la parte privata, che solitamente impugna un provvedimento autoritativo, e la pubblica amministrazione che ha creato l’atto impugnato e ne difende la legittimità.

Difatti, mentre in generale l’art. 63 c. 1 consente sempre al giudice di chiedere alle parti chiarimenti e documenti, già dalla lettura dell’art. 64 c.p.a. è possibile apprendere la volontà del legislatore di introdurre un correttivo alla innata (ed incolmabile) disparità di posizioni tra pubblico e privato. Infatti, al comma 1 della norma è specificato che le parti devono fornire le prove “nella loro disponibilità” ammettendo già l’eventualità che vi siano prove non disponibili o accessibili. Mentre al comma 3 dell’articolo è dato il potere al giudice di acquisire d’ufficio informazioni e documenti che siano nella disponibilità della pubblica amministrazione.

L’art. 65 c. 3 c.p.a. infine consente al giudice di ordinare all’Amministrazione l’esibizione di documenti e atti procedimentali non depositati ai sensi dell’art. 46 c.p.a. 

Ciò comunque non toglie che sia preciso onere della parte delimitare il thema decidendum e che l’apporto officioso del giudice sia meramente integrativo e complementare rispetto ad un perimetro decisionale già formatosi.

Ovviamente, in tale contesto deve essere valutata la diligenza della parte nel ricercare le prove, non potendo il giudice arrivare laddove per negligenza la parte non è riuscita a giungere. 

Il Consiglio di Stato precisa che quanto appena descritto vale sia nei giudizi relativi a diritti soggettivi che in quelli vertenti su interessi legittimi, con alcune precisazioni: in caso di diritti soggettivi aumenta il rigore nel valutare l’onere della prova e la possibilità del giudice di soccorrere le parti; nel caso di interessi legittimi deve verificarsi se in concreto possa parlarsi di disuguaglianza di posizioni tra le parti che possa giustificare il principio dispositivo con metodo acquisitivo ed il soccorso del giudice amministrativo. Insomma, non sempre il giudice può assumere d’ufficio determinate prove.

Il modello appena descritto deve essere coordinato con i due gradi di giudizio che regolano il processo amministrativo. Mentre, infatti, nel passato la legge n. 1034/1971 all’art. 28 creava una sorta di parallelismo tra poteri esercitabili in primo e secondo grado, concedendo gli stessi poteri cognitivi e decisionali a TAR e Consiglio di Stato, attualmente l’art. 104 c.p.a. pone un severo divieto alla proposizione di nuove domande ed eccezioni in appello (creato sulla falsariga dell’art. 345 c.p.c.).

L’art. 104 c.p.a. prevede un divieto generale e al comma 2 pone due casi principali di deroga: il collegio ritenga i nuovi mezzi di prova indispensabili per la decisione; la parte dimostri di non aver potuto proporre o produrre per causa ad essa non imputabile i nuovi mezzi probatori (ad es. prova sopravvenuta, prova incolpevolmente conosciuta dopo la conclusione del giudizio di primo grado, prova non depositata in primo grado perché intervenuta sentenza in forma semplificata).

Mentre il secondo dei due casi di deroga è di più semplice rilevamento basandosi per lo più su dati oggettivi, maggiori difficoltà sorgono con la prima ipotesi dell’art. 104 c. 2 c.p.a., che necessita di una valutazione discrezionale del collegio volta a valutare l’indispensabilità o meno della nuova prova. 

Solamente la casistica giurisprudenziale può aiutare il giudice amministrativo nelle sue considerazioni, e così il Consiglio di Stato rileva che, in negativo, il giudice di secondo grado non potrebbe consentire alle parti di superare preclusioni o decadenze maturate nel giudizio avanti al TAR. In positivo, potrebbero invece essere ammessi quei documenti nuovi che consentano di risolvere in rito la controversia, creando un parallelismo con le eccezioni sempre rilevabili d’ufficio. Importante, in tal caso, precisare che il giudice debba verificare l’impossibilità di acquisire la conoscenza di tali fatti con altri mezzi che la parte aveva l’onere di portare in giudizio. Ciò, in quanto il giudice non può rimediare ad una negligenza di parte.

In questo quadro, con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato dichiara apertamente di aderire ad un orientamento restrittivo, secondo cui nel rispetto dei principi di economia processuale e ragionevole durata del processo, le attività istruttorie che erano possibili in primo grado non possono più essere ammesse in appello.

Secondo tale tesi, il giudice di secondo grado può acquisire d’ufficio prove nuove non sempre e comunque, bensì solo quando era oggettivamente impossibile produrle in primo grado, e comunque in modo da non colmare la lacuna istruttoria imputabile alla parte. Diversamente, è ammissibile quando la lacuna è dovuta ad un’omissione del giudice di primo grado.


Conclusioni

La decisione di appello in commento dà diversi spunti di riflessione. 

Innanzitutto, può notarsi che sembra ormai acclarato che il processo amministrativo si presenti come una “partita squilibrata” in cui il giudice deve tentare di arginare le differenze di posizione tra pubblica amministrazione e privato, nonché tra disponibilità di documenti ed informazioni in possesso della prima e del secondo. 

Gli artt. 63 ss. c.p.a. concedono al giudice amministrativo quel margine di intervento necessario a gestire lo squilibrio, benché spesso tali limiti siano invalicabili (si pensi al caso di ostensione documentale con dati oscurati o con omissis da parte della P.A. che non consentono di comprendere appieno il contenuto degli atti amministrativi). Ad ogni modo il temperamento del principio dispositivo con un metodo acquisitivo permette almeno in astratto di avvicinarsi al principio costituzionale di parità delle armi in processo.

Pare anche condivisibile la spiegazione che il giudice di secondo grado offre sul tema della indispensabilità della prova in ambito di nova in appello e la scelta di interpretare restrittivamente l’art. 104 c. 2 c.p.a.

Dei dubbi, invece, riguardano il rapporto tra la vicenda oggetto della sentenza e l’argomentazione proposta dal Consiglio di Stato. Difatti, la tematica del principio dispositivo con metodo acquisitivo si origina, come più volte ripetuto, dalla necessità di colmare il gap esistente tra parti private e pubblica amministrazione. 

Tuttavia, nel caso di specie, il giudice fa riferimento a detto principio richiamando la necessità di garantire un corretto equilibrio processuale, per poi collegarsi alla tematica delle nuove prove in secondo grado ed acuire la distanza processuale tra le parti, consentendo all’Amministrazione di depositare in appello documenti ed informazioni non precedentemente acquisiti al fascicolo processuale, qualificandoli come atti del procedimento acquisibili ai sensi degli artt. 46 c. 2 e 65 c.p.a. e di fatto basando su di essi la motivazione di accoglimento dell’appello (benché poi altri documenti siano stati ritenuti inammissibili).

Leggendo la sentenza, la sensazione è che ci possa essere una contraddizione tra i principi espressi e la decisione finale. 

Infatti, mentre dal lato teorico si descrive lo spirito del principio dispositivo con metodo acquisitivo come quello di consentire al giudice di arrivare laddove il privato non può giungere a causa delle barriere poste dall’Amministrazione, dal lato pratico il Consiglio di Stato giunge alla decisione di ammettere le prove fornite dal Ministero per la prima volta in sede di appello e di porre le stesse a base della decisione di accoglimento del gravame (e ciò a detrimento del privato). 

In questa sede non si discute la scelta della sentenza, che pare corretta alla luce della dimostrata incompatibilità ambientale tra militare e sede di trasferimento, quanto piuttosto il fatto che il deposito da parte dell’Amministrazione di atti, pur procedimentali ma non oggetto del giudizio di primo grado, possa aver preso in "contropiede" la parte privata che, invece che vantaggio, ha tratto nocumento dall’applicazione del metodo acquisitivo di cui all’art. 65 c. 3 c.p.a.

D’altronde la lettura proposta dall’art. 65 c. 3 c.p.a. sembra costruita per colmare una lacuna data dalla negligenza dell’Amministrazione (mancato deposito documentale ai sensi dell’art. 46 c. 2 c.p.a.), quasi a sanzionare la stessa per non aver ottemperato (non a caso il legislatore usa il termine “ordina” ed “esibizione”) al deposito dei documenti procedimentali e che serva soprattutto per consentire al privato di rafforzare la propria posizione tramite il soccorso del giudice. 

Risulta perciò strano che nel caso di specie il giudice di secondo grado ricorra al combinato disposto degli artt. 46 e 65 c.p.a. per consentire all’Amministrazione di depositare i documenti procedimentali per la prima volta in appello.

Difatti, è lecito chiedersi se sia giusto che tali documenti possano essere tenuti all’oscuro della parte privata e depositati ex novo nel giudizio davanti al Consiglio di Stato, senza la possibilità di avere un ulteriore grado di giudizio che tenga conto di tali documenti (necessariamente già esistenti durante il giudizio di primo grado ma non depositati).

Portando alle estreme conseguenze la questione, se si rispondesse positivamente a tale interrogativo, il rischio è quello di consentire alle Amministrazioni di avere un’arma in più nella propria strategia, potendo contare sul potere acquisitivo del giudice amministrativo, e introducendo solo in appello atti comunque già esistenti prima. 

Benché ovviamente è nel potere di ogni singolo giudice amministrativo accogliere o rigettare la richiesta di nova in appello, sarebbe forse opportuno legare maggiormente l’art. 104 con gli artt. 63-65 c.p.a., ed interpretare il principio dispositivo con metodo acquisitivo (solamente) per eliminare le differenze tra le parti, e nel senso che il giudice anche nel caso dell’art. 65 c. 3 c.p.a. debba compiere una valutazione sulla diligenza dell’Amministrazione e la possibilità o meno per la stessa di produrre determinati atti procedimentali anche nel giudizio di primo grado.

Difatti, se è pur vero che nel caso di specie si è giunti alla “verità reale” sulla questione (rilevando l’incompatibilità di sede prima non emersa), non bisogna dimenticare che è nel potere delle parti costruire una “verità processuale” diversa dalla realtà fattuale, anche grazie ai limiti e alle decadenze offerte dalla normativa, la cui corretta applicazione deve essere garantita e rispettata dal giudice.


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