1. PREMESSA E LINEE GENERALI
Il principio dispositivo, nella sua latitudine applicativa, cui risponde il processo amministrativo, può essere ricostruito su distinti piani: il primo, corrispondente al momento in cui si instaura il giudizio; il secondo, alla definizione del giudizio; il terzo, invece, al momento squisitamente istruttorio. Su ciascuno dei piani è possibile osservare l’esistenza di differenti poteri in capo al giudice e alle parti, taluni che si configurano come espressione dell’applicazione di un principio dispositivo pieno, talaltri che, invece, si risolvono in attività derogatorie dello stesso. Orbene, il presente scritto intende soffermarsi proprio su questa seconda prospettiva, e in particolare su quei profili riequilibrativi del giudice rispetto alla disponibilità processuale che, in forza del principio dispositivo, spetta alla parte.
La fase iniziale sarà caratterizzata da un approccio volto a meglio comprendere l’essenza del principio dispositivo, inteso non solo e non tanto come tema di carattere strettamente processuale, ma anche come istituto che investe il modo di essere dell’interesse legittimo, vale a dire la posizione giuridica soggettiva attorno alla quale ruota il processo amministrativo, nonché la ragione d’essere della specialità della giustizia amministrativa.
Si procederà, quindi, ad analizzare i profili derogatori al principio dispositivo attraverso un particolare focus giurisprudenziale.
1.1 GIURISDIZIONE DI DIRITTO SOGGETTIVO (EVOLUZIONE)
La latitudine esistenziale ed applicativa del principio dispositivo risente, inevitabilmente, dalla dimensione, soggettiva od oggettiva, del modello processuale che si prende in considerazione. Una dicotomia, questa appena evidenziata, che emerge non solo e non tanto con riferimento alla contrapposizione tra due modelli qui ed ora esistenti e considerati, ma splende di propria luce, più che in qualsiasi altro giudizio, laddove ci si focalizzi sul modello processuale amministrativo, e ciò soprattutto qualora lo si faccia attraverso una chiave di lettura storico-comparatistica: non è nuova l’idea che, in passato, al giudizio amministrativo fosse ascritto il carattere di un giudizio particolarmente attento al rispetto e alla tutela del diritto oggettivo, ancor prima degli interessi dei singoli.
Fin dal riconoscimento della natura giurisdizionale della IV sezione del Consiglio di Stato, infatti, i commenti hanno ricondotto l’originaria struttura del processo amministrativo ad un rimedio di natura oggettiva che, come noto, si caratterizza, in astratto, per la particolare attenzione rispetto all’interesse pubblico al ripristino della legalità violata, prima che alla tutela delle posizioni giuridiche soggettive delle parti in causa; un giudizio in cui la domanda introduttiva non si sostanzia come affermazione della situazione giuridica azionata, bensì si risolve in una richiesta di provvedimento, sulla cui base il giudice si deve pronunciare non tanto al fine di accertare la titolarità degli interessi vantati dal ricorrente, piuttosto al fine di attuare l’interesse generale oggettivamente tutelato. Un giudizio, ancora, caratterizzato dall’ampiezza della cognizione del giudice, che travalica le domande di parte, alle quali è riservato un più limitato compito di impulso processuale, e investe la materia controversa nella sua oggettività. Coerentemente con ciò, l’operato del giudice amministrativo è stato in passato ricondotto alla visione di posizioni giuridiche funzionali a tutelare - in via prioritaria - l’interesse pubblico, a “discapito” dell’interesse del cittadino che, all’opposto, ha calzato le vesti di un interesse “occasionalmente protetto”, e dunque tutelabile nelle ipotesi in cui coesisteva, in un rapporto di stretta coincidenza, con l’interesse di cui l’amministrazione era portatrice. L’interesse individuale del singolo, allora, aveva il limitato ruolo di dare l’impulso processuale, e la tutela del privato, nello sfondo, trovava una importante mediazione del pubblico fine, configurato come principale centro di protezione del cittadino nei confronti dell’operato della pubblica amministrazione. Una dimensione, fra l’altro, coerente anche con l’idea, vigente in passato, di un interesse legittimo caratterizzato da una natura non sostanziale.
Ben presto, però, lo scenario del giudizio amministrativo è stato interessato da una importante evoluzione sistematica, che ha aperto le porte ad una progressiva valorizzazione della dimensione soggettiva: sin dagli anni '70 si è consolidata la concezione del processo amministrativo come giudizio di parti in cui, queste, non tendono all'affermazione del diritto oggettivo, ma a far valere i propri interessi incisi o comunque coinvolti dall'azione amministrativa. Ed è proprio l’affermazione della visione sostanziale dell’interesse legittimo che ha segnato il passaggio da un giudizio sulla legittimità dell’atto, fortemente connotato da un carattere oggettivo, ad un giudizio incentrato sul rapporto, dal carattere soggettivo, volto alla tutela degli interessi dei soggetti litiganti, il cui giudizio è azionato a protezione della situazione giuridica soggettiva riconosciuta dal diritto sostanziale.
L’interesse legittimo, infatti, non viene più considerato una mera facoltà, o ben diremo un “interesse occasionalmente protetto” e connesso alla legittimità dell’azione amministrativa, bensì emerge come interesse ad un bene della vita, situazione sostanziale riconosciuta dall’ordinamento. In tal senso, l'apertura alla risarcibilità dell'interesse legittimo a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite 22 luglio 1999, n. 500 e poi con la L. n. 205/2000, prima legge organica sul nuovo processo amministrativo, ha segnato non tanto il superamento del tradizionale giudizio impugnatorio, ma quantomeno la sua evoluzione verso un giudizio che, muovendo dal carattere sostanziale della pretesa al bene della vita, appare incentrato sull'effettiva consistenza del rapporto giuridico amministrativo. In questa direzione si colloca l'accento sulla tutela sostanziale ed effettiva, scaturente a contrario dalla previsione introdotta dalla L. 15/2005 con l'aggiunta dell'art. 21-octies, comma 2, nella L. 241/90, che determina il venir meno di una tutela solo formale impendendo l'annullamento, qualora il contenuto sostanziale dell'atto, nonostante l'illegittimità, non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
1.2 LA DIMENSIONE SOGGETTIVA NEL TESSUTO NORMATIVO
Pare condiviso, oggi, che il processo amministrativo sia caratterizzato da una dimensione soggettiva, e dunque connotato da un modello in cui lo scopo è ravvisabile nella tutela degli interessi dei soggetti litiganti, e il cui giudizio è azionato a protezione della situazione giuridica soggettiva riconosciuta dal diritto sostanziale. Un processo, appunto, “di parti”, laddove sono proprio queste a costituire l’origine e lo sviluppo dell’iter processuale.
Quanto fino ad ora detto trova solide fondamenta all’interno del tessuto positivo, e in particolare nel testo costituzionale, oltre che, a livello di rango ordinario, nel D. Lgs. 2 Luglio 2010, n. 104 (in proseguio “Codice del Processo Amministrativo”, o più semplicemente “C.p.a”). Quanto alla Costituzione, il modello amministrativo quale giudizio di diritto soggettivo orientato alla tutela di diritti soggettivi ed interessi legittimi trova specifica previsione negli artt. 24, 103 e 113. Nel dettaglio: l’art. 24, comma 1, Cost., afferma che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”; l’art. 103, comma 1, Cost., nell’esplicitare i confini dell’oggetto della giurisdizione amministrativa, dispone che i giudici amministrativi hanno la cognizione delle controversie che intercorrono tra privati e pubblica amministrazione aventi ad oggetto “interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi”; da ultimo, l’art. 113, comma 1, Cost., sottolinea che “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi”. Dal tessuto costituzionale si ricava, allora, che il ricorrente, per poter adire il giudice, deve essere titolare di una posizione giuridicamente rilevante, l’interesse legittimo o il diritto soggettivo, riconosciuta e garantita dall'ordinamento. Posizione di cui il promotore reclama tutela giurisdizionale attraverso un processo che proprio in tal senso è orientato alla sua protezione.
Come si accennava, la dimensione soggettiva trova dimora anche all’interno del Codice del Processo Amministrativo. Nell’art. 1, infatti, si afferma che il giudice amministrativo “assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”, corroborando dunque l’assunto per cui il processo amministrativo è orientato a proteggere l’interesse giuridicamente rilevante – sub specie, diritto soggettivo o interesse legittimo - del ricorrente. Non solo, ma anche gli artt. 2 e 7 del relativo testo, i quali affermano, rispettivamente, che “il processo amministrativo attua i principi della parità delle parti” e che “sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni”.
1.3 L’EFFETTIVITA’ DELLA TUTELA
Con l’introduzione del Codice del processo amministrativo, ad opera del D. Lgs. 104/2010, il giudizio appare, dunque, maggiormente incentrato sul rapporto e si pone, sin dal primo articolo, quale strumento per l'attuazione dell'effettività della tutela giurisdizionale, declinata nel successivo art. 2, nonché dei principi della parità delle parti, e del giusto processo previsto dall'art. 111, comma 1, Cost.. In questa prospettiva, rispetto al passato, è ampliato il ventaglio delle azioni proponibili davanti al giudice: oltre alla domanda di annullamento (art. 29 c.p.a.) e a quella di nullità (art. 31, comma 4, c.p.a.) si affianca l'azione avverso il silenzio, attraverso cui è richiesto l'accertamento dell'obbligo di provvedere dell'amministrazione (art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a.); l'azione di condanna, che come noto può avere ad oggetto, oltre il pagamento di somme pecuniarie a titolo di risarcimento del danno (artt. 30, comma 1, e 34, comma 1, lett. c), c.p.a.), anche ogni misura idonea a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio (art. 34, comma 1, lett. c), c.p.a.); l'azione di adempimento, avente per contenuto la condanna al rilascio di un provvedimento richiesto, nei limiti di cui all'art. 31, comma 3, c.p.a., da esercitarsi contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio (art. 34, comma 1, lett. c), c.p.a.); l'azione costitutiva di adozione di un nuovo atto, ovvero di modifica o riforma di quello impugnato, nei soli casi di giurisdizione di merito (art. 34, comma 1, lett. d), c.p.a.).
Così, come ha osservato Consiglio di Stato, sez. VI – 4/2/2021 n. 1036, “adendo la sede giurisdizionale, la parte ricorrente, in particolare, fa valere una pretesa sostanziale, avente ad oggetto la conservazione di un bene della vita già compreso nel proprio patrimonio individuale, pregiudicato dall'esercizio del potere amministrativo, ovvero l'acquisizione (o comunque la chance di acquisizione) di un bene della vita soggetto a pubblica intermediazione”. Come precisato dall'Adunanza Plenaria di questo Consiglio , inoltre, “nel nostro sistema di giurisdizione soggettiva, la verifica della legittimità dei provvedimenti amministrativi impugnati non va compiuta nell'astratto interesse generale, ma è finalizzata all'accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere, ritualmente, dalla parte attrice. Poiché il ricorso non è mera "occasione" del sindacato giurisdizionale sull'azione amministrativa, il controllo della legittimazione al ricorso assume sempre carattere pregiudiziale rispetto all'esame del merito della domanda, in coerenza con i principi della giurisdizione soggettiva e dell'impulso di parte” (Consiglio di Stato, Ad. Plen., 7 aprile 2011, n. 4).
La pronuncia giudiziaria, dunque, risulta utile laddove, nel riscontrare l'illegittimità dell'azione amministrativa, consenta la realizzazione dell'interesse sostanziale di cui è portatrice la parte ricorrente, impedendo la sottrazione o la mancata acquisizione (o chance di acquisizione) di utilità, giuridicamente rilevanti, per effetto di azioni autoritative difformi rispetto al paradigma normativo di riferimento. Qualora, invece, tale interesse sia stato già realizzato, ovvero non possa più essere soddisfatto, il giudizio non può concludersi con l'esame, nel merito, delle censure svolte nell'atto di parte, la cui fondatezza non potrebbe, comunque, arrecare alcuna utilità concreta in capo al ricorrente.
Sulla linea dell’effettività della tutela giurisdizionale, ancora, l’Adunanza Plenaria del 2011 riconosce l'ammissibilità di un'azione atipica di accertamento, che presuppone il sindacato pieno sul rapporto, questa negata in passato non solo in virtù della tradizionale qualificazione del giudizio amministrativo come giudizio sull'atto, e non sul rapporto, ma anche della configurazione dell'interesse legittimo quale posizione giuridica sostanziale non avente la stessa dignità del diritto soggettivo. In mancanza di espressa previsione codicistica, l'ammissibilità viene ricondotta all'esigenza costituzionale di una piena protezione dell'interesse legittimo come posizione sostanziale correlata ad un bene della vita, in attuazione, quindi, sia delle norme costituzionali sulla pienezza della tutela giurisdizionale (artt. 24, 103 e 113), sia della disciplina comunitaria richiamata dall'art. 1 del codice.
2. IL PRINCIPIO DISPOSITIVO NELLA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA. ALCUNI RICHIAMI ALL’ADUNANZA PLENARIA 27/4/2015 N. 5
Il riconoscimento dell’interesse legittimo come posizione giuridica non solo e non tanto autonoma, bensì paritaria e differente rispetto al diritto soggettivo ha generato terreno fertile, come visto, per l’affermazione di una dimensione soggettiva nella giurisdizione amministrativa. La giurisprudenza, con il supporto convinto della dottrina, ha sostenuto che il processo amministrativo ha natura di giurisdizione soggettiva ed è di tipo dispositivo. Il riferimento normativo è l’art. 34 Cpa per cui il giudice, in caso di accoglimento del ricorso “nei limiti della domanda”, eroga le varie forme di tutela ivi disciplinate. Trattandosi di principio generale e, non rinvenendosi “... nel processo amministrativo una sufficiente ed esaustiva declinazione regolatoria” , è stato affermato che deve intendersi compreso nella clausola di rinvio esterno divisata dall'art. 39, co. 1, c.p.a.
Si afferma, dunque, un processo amministrativo retto dal principio dispositivo nella sua duplice accezione di principio dispositivo sostanziale, inteso quale espressione del potere esclusivo della parte di disporre del suo interesse materiale sotto ogni aspetto, compresa la scelta di richiedere o meno la tutela giurisdizionale. L’Adunanza Plenaria 27/04/2015 n. 5, sul punto, osserva come “una giurisdizione esercitata d’ufficio contrasterebbe con il moderno concetto di giudice, il quale, per essere neutrale, deve limitarsi a rendere giustizia solo a chi la domanda”; si afferma, ancora, anche nella sua accezione istruttoria, sia pure con i temperamenti enucleabili dagli artt. 63 e 64 c.p.a., in relazione al processo impugnatorio, ed ispirati al c.d. sistema dispositivo con metodo acquisitivo.
Il giudice, dunque, non può andare ultra petita partium,, adottando pronunzie non richieste dal ricorrente, dal resistente e dal controinteressato. Una violazione che si risolverebbe ogni qual volta, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi identificativi dell'azione, cioè il petitum e la causa petendi, attribuendo un bene della vita diverso da quello richiesto, ovvero ponga a fondamento della propria decisione fatti o situazioni estranei alla materia del contendere, ma non anche, invece, quando procede alla qualificazione giuridica dei fatti e della domanda giudiziale, ovvero alla sua interpretazione.
Come osserva il Consiglio di Stato (adunanza plenaria 27/04/2015 n. 5), “il principio in esame è stato definito dalla dottrina come “architrave dello Stato liberale di diritto”; esso assurge a “garanzia di un giudice che non venga ad espandersi sino a farsi interprete delle esigenze della legalità al di là della domanda di giustizia, o della buona amministrazione o di un interesse pubblico indefinito. Impedisce che il giudice possa eventualmente dimenticarsi di essere solo chiamato ad esercitare una funzione anziché essere investito di una missione”. Si è già enunciato dall’adunanza plenaria (4/2015, 9/2014, 7/2013 e 4/2011) “in ordine all'impossibilità di considerare quella amministrativa una giurisdizione di diritto oggettivo e su come tale approdo sia coerente con il significato che assume il principio della domanda nel dettato dell'art. 24, co. 1, Cost. che affianca, sia pure prendendo atto per ciò solo della loro diversità, le due situazioni soggettive attive del diritto soggettivo e dell'interesse legittimo quali presupposti per l'esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale intesa come principio fondamentale costitutivo dell'ordine pubblico costituzionale (cfr. da ultimo le fondamentali conclusioni cui è pervenuta Corte cost. 22 ottobre 2014, n. 238)”. È assodato, pertanto, che il principio della domanda e quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, hanno dignità di Generalklausel nel processo civile (cfr. Sez. un., nn. 26242 e 26243 del 2014 cit.) ed in quello amministrativo (cfr. Ad. plen. n. 4 del 2015, n. 9 del 2014 e n. 4 del 2011).
Una visione, quella evidenziata, a cui “si saldano le ulteriori considerazioni sul ruolo del giudice amministrativo come giudice naturale degli interessi legittimi in virtù della diretta attribuzione costituzionale di tale competenza (art. 103 co. 1, Cost.), nonché le peculiari modalità di erogazione della tutela giurisdizionale dell'interesse legittimo attraverso il controllo necessario sull'esercizio (o il mancato esercizio) della funzione pubblica financo all'interno dell'amministrazione (art. 100, co. 1, Cost.) e, ancora, l'importanza strategica dell'iniziativa della persona che agisce in giudizio perché, sia pure nei limiti della domanda, concorre a (e rende possibile la) tutela dell'interesse pubblico mediante il ripristino della legalità violata”.
Ora, nella prospettiva sin qui enunciata, il ricorrente ha il potere di dare avvio al processo, formulando le domande, e proponendo azioni tipiche, o atipiche. Qualora scelga di promuovere un'azione tipica, il giudice, accolto il ricorso, non può determinare effetti diversi dal tipo di domanda proposta, a meno che vi sia un'espressa, diversa, richiesta che riduca o ampli gli effetti tipici dell'azione proposta, che dunque viene ad assumere caratteri, per così dire, "misti": la tipicità, nel caso di specie, è corretta con alcuni elementi che non sono propri dell'azione tipica promossa. Secondo questa configurazione, il giudice non può, sostituendosi alla parte, aggiungere o togliere effetti alla domanda proposta, e ciò anche laddove assume che, nel modo da lui deciso, il suo interesse ottenga maggiore soddisfazione, a meno che non si sia di fronte a soluzioni strumentali che non pregiudichino in alcun modo l'interesse fatto valere, ma lo implementino e ne assicurino una tutela più efficace ed effettiva. Così, ad esempio, proprio in ragione della «natura della giustizia amministrativa quale giurisdizione soggettiva» e del «principio della domanda, che regola anche il processo amministrativo», unitamente alla «regola secondo la quale nel processo amministrativo debba darsi al ricorrente vittorioso tutto quello e soltanto quello che abbia chiesto ed a cui abbia titolo» l’adunanza plenaria ha escluso la possibilità che il giudice amministrativo possa d’ufficio assegnare alla parte vittoriosa, una tutela risarcitoria anziché caducatoria, ritenendola non già più satisfattiva, ma più congrua al caso di specie . La medesima ha comunque riconosciuto la possibilità, da parte del giudice, di modulare la forma di tutela richiesta, a titolo esemplificativo, ridimensionando, con riferimento ai «motivi sollevati e riscontrati e all’interesse del ricorrente, la portata dell’annullamento, con formule ben note alla prassi giurisprudenziale, come l’annullamento parziale; nella parte in cui prevede; o non prevede; oppure nei limiti di interesse del ricorrente; e così via».
D’altra parte, come anticipato, il ricorrente può proporre un’azione atipica: ben può procedere per la dichiarazione di illegittimità dell'atto impugnato, chiedendo che produca effetti non immediati, ovvero ricorrere per l'annullamento con effetti differiti nel tempo, e ciò qualora esso ritenga tale soluzione funzionale e satisfattiva del suo interesse; in conseguenza, il giudice potrà, rispettivamente, dichiarare illegittimo l'atto, con effetti da prodursi in un momento successivo, ovvero annullare l'atto con procrastinazione della decorrenza degli effetti. Così, la giurisprudenza amministrativa ha ammesso la possibilità per il giudice di modulare gli effetti caducatori della pronuncia di annullamento di un atto amministrativo in ragione di una prospettiva di maggiore tutela, ovvero minore sacrificio, degli interessi coinvolti nel giudizio .
Un modello decisionale, quello della graduazione/modulazione degli effetti, che a seguito della sentenza del Cons. Stato, Ad Plen. n. 13 del 2017, è stato esteso dalla sole norme processuali alle norme anche sostanziali, e ciò in ossequio al modello rimediale pluralistico o, se si preferisce, al sistema atipico di azioni contemplato dal codice del processo amministrativo del 2010. Si vedano, in tal senso, le ricche argomentazioni di cui al parere della prima sezione del Cons. Stato 30 giugno 2020, n. 1233 in cui si evidenzia come la prospecitve overruling costituisca rimedio atipico, sì, ma comunque direttamente funzionale al canone di effettività della tutela giurisdizionale. Con l'unica avvertenza che a tale strumento si ricorra in modo avveduto ed accorto, ossia soltanto dopo aver attentamente ponderato gli interessi pubblici e privati cui occorre fornire tutela nel giudizio stesso. Nelle ipotesi qui contemplate, del resto, in caso di mancato ricorso a tale meccanismo gli effetti della sentenza della Plenaria si sarebbero dispiegati sin da subito, e tanto con conseguenze ben peggiori per gli operatori soccombenti, ossia con caducazione immediata di tutti i relativi rapporti concessori già oggetto di proroga legale (Massimo Santini “Save the date dalla plenaria per le gare balneari: prime note (su tasti bianchi) in Urbanistica e appalti, 2022, 1, 53 (nota a sentenza consiglio di Stato, adunanza plenaria – 9/11/2018 n. 17 e 18).
Da ultimo, pare utile richiamare la puntualizzazione della Plenaria che, richiamando la Cassazione Sez. un., nn. 26242 e 26243 del 2014 cit., osserva che laddove il principio della domanda lo consenta, da un lato, è necessario evitare una disarticolazione, tramite il processo, di una realtà sostanziale unitaria onde evitare che esso si presti a tattiche dilatorie, opportunistiche o ad un vero e proprio abuso; dall'altro, si deve accettare una concezione del processo troppo semplicisticamente definita come “pubblicistica”, ma che, ad una più attenta analisi, trae linfa applicativa proprio nel valore di “giustizia” della decisione.
Tale esigenza sarebbe ancor più avvertita nel processo amministrativo di legittimità concentrato sul controllo della legalità dell'azione amministrativa necessariamente esercitata in funzione dell'interesse pubblico: sarebbe paradossale che quanto teorizzato per il processo civile circa l'importanza della dimensione pubblica dello stesso, non trovasse piena applicazione per il processo amministrativo come disegnato, nella sua genesi storica repubblicana, dalla Costituzione. Ad avviso della Plenaria, infatti, “Il principio dispositivo non può cancellare il dato di fatto che l'interesse pubblico di cui è portatrice una delle parti in causa rimane il convitato di pietra che impronta più o meno consapevolmente svariate disposizioni; la visione del processo amministrativo nella logica "parte privata contro parte pubblica", "interesse privato contro interesse pubblico", non considera, sullo sfondo, l'interesse generale dell'intera collettività da un lato ad una corretta gestione della cosa pubblica, e dall'altro ad una corretta gestione del processo, anche per le ripercussioni finanziarie che ricadono sulla collettività; il processo in cui sia parte una pubblica amministrazione deve consentire l'accertamento di una verità processuale vicina se non coincidente con quella storica perché è interesse della collettività la legittimità dell'azione amministrativa; si comprende così, alla fine, che effettività e giusto processo significano soddisfacimento della domanda di giustizia per i realmente bisognosi, senza incoraggiamento di azioni opportunistiche (specie sul piano risarcitorio come bene messo in luce dall'ordinanza di rimessione), emulative o pretestuose”.
3. LE DEROGHE AL PRINCIPIO GENERALE
Quanto fino ad ora detto rappresenta il modello di principio, astratto, di un sistema, quello amministrativo, che tuttavia, nelle singole realtà processuali, patisce necessariamente di deroghe ed eccezioni. Si è già anticipato, in esordio al presente testo, come la stessa adunanza plenaria, nella sentenza nn. 4 e 5 del 2015 , abbia riconosciuto, nel processo amministrativo, talune e limitate influenze di diritto oggettivo. Sul punto, Enrico Follieri, in Giurisdizione italiana 2015, 10, 2192, nota alla sentenza della plenaria, richiama quei punti che, come anche indicati in parte nella sentenza sopra citata, sostanzierebbero le “contaminazioni” del modello dispositivo, così come definite dal Consiglio di Stato:
A) L'estensione della legittimazione;
- art. 21-bis della L. 287/90 sul potere dell’AGCOM di agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti delle amministrazioni pubbliche che sono adottati in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato;
- azione popolare nell'ordinamento degli enti locali (art. 9 del D. Lgs. 267/2000), irriducibile retaggio di una radice che rimonta ad antichi modelli di democrazia diretta caratteristici di taluni stati preunitari e soprattutto nel rito in materia elettorale (art. 130 c.p.a.);
- il potere dell'Autorità dei trasporti che, ai sensi dell'art. 36 comma 2 lett. m) e n) del D.L. 24/1/2012 n. 1, convertito in L. 24/3/2012 n. 27, può impugnare le delibere regionali e comunali in materia di disciplina dei taxi;
- il potere del Ministero dell'Università e della Ricerca scientifica di impugnare gli statuti adottati dalle Università (art. 2 comma 7 della L. 30/12/2010 n. 240; art. 6 L. 9/5/1989 n. 68);
- il potere del Ministero delle Finanze di impugnare, per vizi di legittimità, i regolamenti comunali in materia di entrate tributarie (art. 52 comma 4 D. Lgs. 15/12/1997 n. 446);
- i poteri, previsti dall'art. 14 T.U. intermediazione finanziaria (T.U.B.) della Banca d'Italia e della CONSOB di impugnare le delibere e gli altri atti adottati da titolari di partecipazioni di una Sim (Società di intermediazione immobiliare), una società di gestione del risparmio o di una Sicav (Società di investimento a capitale variabile) privi dei requisiti di onorabilità;
- il potere di ANAC di impugnare bandi, altri atti generali e provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi stazione appaltante, qualora ritenga che essi violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (art. 211 comma 1-bis D. Lgs. 50/2016); l'art. 211, comma 1-ter dispone che: "ANAC, se ritiene che una stazione appaltante abbia adottato un provvedimento viziato da gravi violazioni del presente codice, emette, entro sessanta giorni dalla notizia della violazione, un parere motivato nel quale indica specificamente i vizi di legittimità riscontrati. Il parere è trasmesso alla stazione appaltante; se la stazione appaltante non vi si conforma entro il termine assegnato dall'ANAC, comunque non superiore a sessanta giorni dalla trasmissione, l'ANAC può presentare ricorso, entro i successivi trenta giorni, innanzi al giudice amministrativo. Si applica l'articolo 120 del codice del processo amministrativo di cui all'allegato 1 annesso al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104".
Una visione che, a ben vedere, sembra pure essere accolta da autorevoli studiosi del processo amministrativo, i quali rilevano come, in generale, anche nell'ordinamento civile sono conosciute fattispecie nelle quali la legittimazione ad agire è attribuita a dei soggetti o in base alla legge o sulla base di una certa posizione istituzionale a tutela di interessi generali o pubblici (si pensi ai casi di azione popolare). Una parte della dottrina evidenzia, in particolare, che in questi casi non si tratta di giurisdizione “di diritto obiettivo”, ma di mera legittimazione oggettiva, che si contrappone alla legittimazione soggettiva come quella che, a differenza di quest'ultima, si esercita a tutela di interessi generali. Perciò, non è necessaria, in tali casi, perché possa validamente instaurarsi il processo amministrativo, la dimostrazione in capo al soggetto agente della titolarità di una situazione soggettiva protetta. D’altra parte, secondo altra dottrina, tali osservazioni rischiano di essere “sopravvalutate”, specie alla luce di un “problema” che, concretamente, pare non affiorare. A commento di Consiglio di Stato, sez. V – 3/11/2020 n. 6787, Maria Chiara Pollicino (giornale di diritto amm.vo 2021, 4, 509), in particolare, osserva come “Una giurisdizione oggettiva […] si qualifica tale non solo mediante l'individuazione del fine a cui è rivolta (il ripristino della legalità) ma per mezzo dell'analisi della struttura. Per ricondursi un modello processuale ad uno di giurisdizione oggettiva bisogna, infatti, valutare se la struttura processuale ricalchi o meno un processo di tipo inquisitorio, con il venir meno del principio dispositivo. Aderendo a questa impostazione, invero, anche ove si ammettesse che non esista un interesse specifico e differenziato in capo alle Autorità, non potrebbe comunque parlarsi di giurisdizione oggettiva. Infatti, dal punto di vista strutturale, il processo amministrativo, anche se attivato dalle Autorità amministrative indipendenti, come l'Anac, o altro soggetto pubblico, rimane pur sempre un processo imperniato sul principio dispositivo e, quindi, "un processo di parti". Pertanto, forse, il dibattito relativo alla straordinarietà ovvero ordinarietà della legittimazione ad agire dell'Anac sembra, in questo senso, sopravvalutato”.
B) La valutazione sostitutiva dell'interesse pubblico in sede di giudizio di ottemperanza o in sede cautelare; il giudice non può ignorare, in un processo teso a tutelare le situazioni giuridiche soggettive, gli interessi che fanno capo alle situazioni giuridiche soggettive delle parti, diverse dal ricorrente; e allora, il bilanciamento dell'interesse del ricorrente e di quello del resistente e del controinteressato in sede cautelare sono proprio espressione del processo dispositivo di parti e non manifestazione di giurisdizione oggettiva.
C) L’esistenza di regole speciali come quelle contenute negli artt. 121 e 122 c.p.a., che consentono al giudice di modulare gli effetti dell'inefficacia sui contratti di appalto (attuazione della direttiva ricorsi 2007/66/CE). Sono tutte misure dirette a soddisfare il ricorrente vittorioso nella lite e ad assegnargli il bene della vita per il quale ha promosso la controversia. E, nel caso non sia possibile attribuire al ricorrente la specifica soddisfazione dell'interesse, per elementi di fatto e di opportunità rinvenienti dalla concreta fattispecie, è comunque prevista soddisfazione per equivalente pecuniario e anche con sanzioni amministrative a carico della stazione appaltante.
D) La prioritaria assorbente considerazione di vizi di legittimità che esprimono una radicale alterazione dell'esercizio della funzione pubblica in quanto esercitate da autorità incompetente; Il giudice, comunque, è tenuto a scrutinare, in caso di accoglimento del ricorso, tutti i vizi-motivi e le correlate domande di annullamento (con le eccezioni che la stessa sentenza poi precisa) e la parte può graduare i motivi o le domande di annullamento - ancorché in modo espresso - vincolando il giudice all'esame dei profili indicati come prioritari, con conseguente assorbimento di quanto domandato in via gradata e subordinata, se venga accolta la richiesta "principale". Il giudice non può invertire la espressa graduazione fissata dal ricorrente che ha, comunque, la facoltà di farlo, ben potendo non indicare alcuna scala tra le censure e le domande di annullamento.
E) L’interesse della collettività alla legittimità dell'azione amministrativa.
In quest’ultimo caso l'interesse della collettività è il criterio alla base dell'ordine dei motivi e delle domande di annullamento che il giudice deve seguire quando la parte non indichi espressamente la graduazione. L'adunanza plenaria, nello specifico, supera la tesi del soddisfacimento del massimo interesse della parte a favore dell'interesse generale dell'intera collettività ad una legittima gestione della cosa pubblica, in ragione del particolare oggetto del giudizio impugnatorio legato al controllo sull'esercizio della funzione pubblica. E, quindi, il giudice stabilisce l'ordine di trattazione dei motivi e delle domande di annullamento “sulla base della loro consistenza oggettiva (radicalità del vizio) nonché del rapporto corrente fra le stesse sul piano logico giuridico e diacronico procedimentale”. Il modello di processo, dunque, è completamente ribaltato e diventa di giurisdizione oggettiva, quando il ricorrente non gradui motivi e domande di annullamento, perché è in funzione della legittimità dell'azione amministrativa, non a tutela dell'interesse del ricorrente. Il mancato esercizio del potere della parte di graduazione, allora, trasforma la funzione del processo.
4. LE DEROGHE PUNTUALI IN AMBITO PROCESSUALE
Il potere del titolare dell’azione può incontrare dei limiti in ragione della concomitanza di interessi pubblici che sono ritenuti prevalenti dal legislatore, in particolare il valore della celere definizione del processo (che trova un risvolto concreto nel riconoscimento dell’equa riparazione per superamento del termine di ragionevole durata del processo – L. 89/2001). Nel quadro del paradigma soggettivistico, infatti, taluni particolari interessi rischierebbero di risultare sacrificati, sicché emerge talvolta la necessità di rispondere a tali ulteriori esigenze, senza necessariamente stravolgere la struttura del processo amministrativo improntato alla tutela della posizione giuridica soggettiva.
4.1 L’ECCEZIONALITÀ DEL RINVIO DELLA TRATTAZIONE DELLA CAUSA
(Dopo l’introduzione dell’art. 73, comma 1-bis c.p.a.)
Un primo limite, anzitutto, concerne l’inesistenza di uno specifico diritto, in capo alle parti, al rinvio della trattazione della causa. Nell’ordinamento processuale amministrativo, infatti, non esiste norma o principio che riconosca un tale potere, sicché fuori dai casi tassativamente previsti, ad esempio, in tema di diritto al rinvio per usufruire dei termini difensivi, le parti, come ormai consolidato in giurisprudenza, hanno solo facoltà di illustrare le ragioni che potrebbero giustificare un’eventuale differimento della trattazione della causa, rimanendo in capo al giudice la disponibilità dell’organizzazione e dei tempi processuali, potendo esso disporre un’eventuale rinvio solo in presenza di casi eccezionali. Un orientamento che, a ben vedere, ha trovato di recente un fondamento normativo: con l'entrata in vigore della novella all'art. 73 c.p.a. recata dal D.L. n. 80 del 2021 conv. in L. n. 113 del 2021 (che ha introdotto il comma 1 bis), infatti, il differimento della trattazione della causa riposa, oggi formalmente, su ragioni eccezionali. La norma in esame dispone espressamente che “Non è possibile disporre, d'ufficio o su istanza di parte, la cancellazione della causa dal ruolo. Il rinvio della trattazione della causa è disposto solo per casi eccezionali, che sono riportati nel verbale di udienza, ovvero, se il rinvio è disposto fuori udienza, nel decreto presidenziale che dispone il rinvio”.
Si tratta, occorre qui precisarlo, di una novella particolarmente accolta con favore dal giudice amministrativo, e ciò laddove si consideri la collocazione sistematica all’interno del più ampio contesto di riforma del processo amministrativo che, come noto, è mosso da intenti volti a contrastare la formazione di arretrati, elemento che inevitabilmente influenza l’efficienza e l’affidabilità del sistema italiano. Si formalizza, così, la prevalenza della ragionevole durata del processo, in un’ottica di maggiore celerità della decisione, rispetto al potere di governo della parte, che inevitabilmente non può tradursi in un ostacolo alla stessa durata processuale.
Così, ad esempio, il T.A.R. Emilia Romagna Bologna, sez. II – 4/3/2022 n. 239 ha rigettato la domanda di rinvio di una causa avente per oggetto la determinazione del conguaglio per contributi di urbanizzazione collegato a un titolo abilitativo emesso per realizzare un complesso residenziale e commerciale in attuazione della variante a un Piano Urbanistico attuativo. Si controverteva dunque sul quantum dovuto. Ebbene, i giudici di prime cure non hanno accordato il rinvio per mancanza del requisito dell’eccezionalità. In particolare, hanno rilevato che già per 2 volte dal dicembre 2020 era stato concesso il rinvio delle udienze di trattazione e in una terza occasione era stata emessa un’ordinanza istruttoria. A sostegno della richiesta è stata invero invocata una nuova intesa urbanistica in corso di perfezionamento e tuttavia ad avviso del Collegio, malgrado l’avanzato iter del procedimento, “i tempi di rilascio e di conseguenza quelli per il vaglio delle nuove previsioni restano presunti e incerti, tanto che l’istanza di rinvio è per quasi 1 anno (fine 2022) e risulta inaccettabile”.
Il Consiglio di Stato, sez. VI – 20/7/2021 n. 5458, ancora, ha esaminato l'istanza di rinvio dell'udienza della parte appellante avverso il diniego di condono edilizio, confermato dalla sentenza di primo grado. Dopo il nuovo strumento urbanistico e la modifica della fascia di rispetto cimiteriale, la Società interessata aveva chiesto il riesame in via di autotutela d’ufficio delle domande di condono edilizio già rigettate. Risultava peraltro che il Comune, all'esito dell'istruttoria svolta, si fosse pronunciato negativamente (l’atto sfavorevole era stato impugnato con nuovo ricorso al T.A.R.). L'istanza di rinvio per attendere la definizione di un giudizio pendente, nel caso di specie, non è stata accolta. Anzitutto è stato ritenuto che “l'oggetto del giudizio avviato dinanzi al Tar concerne l'esercizio del diverso potere di autotutela invocato, per un altro verso la questione evocata (relativa alla sopravvenuta riduzione della fascia di rispetto) ai fini di causa risulta essere già stata esaminata e rigettata dalla sentenza impugnata …”. Ma soprattutto, hanno ribadito che “la richiesta di rinvio della trattazione di una causa deve trovare il suo fondamento giuridico in gravi ragioni idonee ad incidere, se non tenute in considerazione, sulle fondamentali esigenze di tutela del diritto di difesa costituzionalmente garantite, atteso che, pur non potendo dubitarsi che anche il processo amministrativo è regolato dal principio dispositivo, in esso non vengono in rilievo esclusivamente interessi privati, ma trovano composizione e soddisfazione anche gli interessi pubblici che vi sono coinvolti”. Ha concluso che “D'altra parte, rileva anche il principio della ragionevole durata del giudizio, che induce a respingere istanze volte a differire il suo esito”.
In buona sostanza, dunque, il rinvio della decisione non può conseguire a una mera scelta di parte, ma deve trovare un fondamento giuridico in gravi ragioni, che, se non fossero tenute in considerazione, andrebbero a pregiudicare interessi di pari rango, ovvero in primo luogo il diritto di difesa costituzionalmente garantito (Consiglio di Stato, sez. VI – 9/10/2018 n. 5783).
Il medesimo ragionamento è stato sviluppato da CGA Sicilia – 17/1/2022 n. 69, Consiglio di Stato, sez. VII – 15/2/2022 n. 1112 e in primo grado da T.A.R. Lombardia Milano, sez. II – 6/5/2021 n. 1139, che ha puntualizzato come ciò risponda “"all'esigenza di ordinato svolgimento della giustizia che i ricorsi, una volta fissati, siano decisi, poiché la fissazione di un ricorso preclude, con la saturazione del ruolo di udienza, la conoscenza di altra controversia" (Consiglio di Stato, sez. V, 8 aprile 1997, n. 696)”. Così anche Consiglio di Stato, sez. VI – 4/2/2021 n. 1039, che a fronte della impugnazione di una sanzione irrogata per la realizzazione di una serie di abusi edilizi in zona vincolata, ha ritenuto irrilevante ai fini di causa (cioè in merito alla legittimità della sanzione irrogata) l'invocata presunta pendenza del procedimento di elaborazione del nuovo strumento urbanistico comunale (nessun elemento e documento risultava prodotto in proposito): ciò sia in generale, a fronte della natura delle previsioni urbanistiche, aventi ordinaria validità de futuro, sia in relazione all'irrilevanza rispetto ad abusi realizzati in epoca ben anteriore alla (eventuale, ipotetica e futura) adozione delle nuove misure.
Proseguendo nella rassegna giurisprudenziale, il Consiglio di Stato, sez. IV – 14/2/2022 n. 1040 ha fatto piena applicazione del principio per rigettare l’istanza di rinvio di una controversia riguardante le procedure di VIA e AIA ex D. Lgs. 152/2006 per la modifica sostanziale di un impianto di compostaggio da FORSU in fase di realizzazione. Il giudice d’appello si è soffermato inoltre – negandola – sulla richiesta di sospensione del processo per pregiudizialità, ex art. 295 c.p.c., che presuppone la pendenza delle due cause (pregiudicante e pregiudicata) in primo grado poiché la ragione fondante di tale previsione è quella di evitare il rischio di conflitti di giudicati. Il Collegio ha anzitutto osservato che laddove esista, fra due giudizi, un rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato non è doverosa, ma può essere disposta in via facoltativa, ai sensi dell'art. 337 c.p.c. Ha poi ravvisato un rapporto di mera connessione tra i due procedimenti, che non determina anche l'esistenza di un obiettivo rapporto di pregiudizialità giuridica il quale ricorre solo quando la definizione di una controversia costituisca l'indispensabile antecedente logico-giuridico dell'altra, l'accertamento del quale debba avvenire con efficacia di giudicato (si trattava di un atto di pianificazione urbanistica distinto dall’autorizzazione regionale e non appartenente alla medesima sequenza procedimentale).
(Prima dell’introduzione dell’art. 73, comma 1-bis c.p.a.)
A ben vedere, comunque, già prima dell’introduzione della novella dell’art. 71-bis è stato riconosciuto al giudice il potere di apprezzamento e di verifica circa l'effettiva opportunità di rinviare l'udienza. Ancorché motivato dall'esigenza di acquisire i mezzi istruttori necessari per la migliore difesa in giudizio, infatti, solo in presenza di situazioni particolarissime – direttamente incidenti sul diritto di difesa delle parti – il rinvio dell'udienza è per lui doveroso, e in tale ambito si collocano, fra l'altro, i casi di impedimenti personali del difensore o della parte, nonché quelli in cui, per effetto delle produzioni documentali effettuate dall'amministrazione, occorra riconoscere alla parte che ne faccia richiesta il termine di sessanta giorni per la proposizione dei motivi aggiunti (T.A.R. Lazio Roma, sez. II-bis – 2/5/2019 n. 5551 e l’ampia giurisprudenza evocata; Consiglio di Stato, sez. III – 3/3/2021 n. 1802; Consiglio di Stato, sez. VI – 23/12/2021 n. 8527).
In alcuni casi il giudice amministrativo ha anche invocato “esigenze di economia processuale ed effettività di giudizio inducono quindi alla definizione parziale del giudizio ex artt. 33, comma 1, lett. a), cod. proc. amm. ("Il giudice pronuncia sentenza quando definisce in tutto o in parte il giudizio") e 36, comma 2, cod. proc. amm. ("Il giudice pronuncia sentenza non definitiva quando decide solo su alcune delle questioni, anche se adotta provvedimenti istruttori per l'ulteriore trattazione della causa"), riservando, invece, al prosieguo la decisione in ordine alla restante parte del gravame, facendo salva la facoltà della parte ricorrente di presentare la domanda ex art. 100 del D.L. 14 agosto 2020, n. 104” (T.A.R. Veneto, sez. I – 19/11/2020 n. 1091 su una controversia avente ad oggetto il canone di concessione di un’area appartenente al demanio marittimo).
4.2 La mancata concessione del rinvio e il diritto di difesa
Ci si è chiesti, inoltre, se dalla mancata concessione del rinvio per impugnare altri atti possa derivare una compressione del diritto di difesa. Sul punto, il Consiglio di Stato, sez. VI – 4/2/2021 n. 1036 ha precisato che “La violazione del diritto di difesa è riscontrabile qualora la controversia sia definita senza assicurare alla parte l'esercizio dei poteri o delle garanzie espressamente riconosciute dall'ordinamento processuale ai fini di difesa nell'ambito del procedimento”, aggiungendo inoltre che <<Le ipotesi sono tipiche e presuppongono la violazione di norme che prevedono poteri o garanzie processuali strumentali al pieno esercizio del diritto di difesa. Ad esempio, seguendo le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza amministrativa: a) la mancata concessione di un termine a difesa (Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2009, n. 3787); b) l'omessa comunicazione della data dell'udienza (Cons. Stato sez. V, 10 settembre 2014 n. 4616; Cons. Stato sez. V, 28 luglio 2014 n. 4019; Cons. Stato sez. IV 12 maggio 2014 n. 2416; Cons. Stato, sez. V, 27 marzo 2013, n. 1831); c) l'erronea fissazione dell'udienza durante il periodo feriale (Cons. Stato, sez. VI, 25 novembre 2013, n. 5601); d) la violazione dell'art. 73, comma 3, cod. proc. amm. per aver il giudice posto a fondamento della sua decisione una questione rilevata d'ufficio e non prospettata alle parti (ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 19 giugno 2017, n. 2974; Cons. Stato, sez. VI, 14 giugno 2017, n. 2921; Cons. Stato, sez. IV, 8 febbraio 2016 n. 478; Cons. Stato, sez. IV, 26 agosto 2015, n. 3992; Cons. Stato, sez. III, 19 marzo 2015, n. 1438); e) la definizione del giudizio in forma semplificata senza il rispetto delle garanzie processuali prescritte dall'art. 60 cod. proc. amm. (Cons. Stato, sez. VI, 9 novembre 2010, n. 7982; Cons. Stato, sez. VI, 25 novembre 2013, n. 5601); f) la sentenza pronunciata senza che fosse dichiarata l'interruzione nonostante la morte del difensore (Cons. giust. amm. sic. 10 giugno 2011, n. 409)." (Consiglio di Stato, Ad. Plen., 30 luglio 2018, n. 11)>>.
Sul punto, l'Adunanza Plenaria 30/7/2018 n. 10 ha anche chiarito che le ipotesi di lesione del contraddittorio e del diritto di difesa si differenziano tra loro quanto alla natura “genetica” o “funzionale” dell'illegittimità che lo ha causato. Così, mentre “la mancanza del contraddittorio è così essenzialmente riconducibile all'ipotesi in cui doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte: il vizio è, quindi, genetico, nel senso che a causa della mancata integrazione del contraddittorio o della erronea estromissione, una o più parti vengono in radice e sin dall'inizio private della possibilità di partecipare al giudizio-procedimento”, “la lesione del diritto di difesa fa riferimento, invece, ad un vizio (non genetico, ma) funzionale del contraddittorio, che si traduce nella menomazione dei diritti di difesa di una parte, che ha, tuttavia, preso parte al giudizio, perché nei suoi confronti il contraddittorio iniziale è stato regolarmente instaurato, ma, successivamente, nel corso delle svolgimento del giudizio, è stata privata di alcune necessarie garanzie difensive”.
Sulla base di quanto osservato, pertanto, la mancata concessione di un termine a difesa risulta idonea ad integrare una violazione del diritto di difesa qualora privi la parte ricorrente dell'esercizio di un potere processuale riconosciuto dall'ordinamento e attinente alla propria difesa nell'ambito del procedimento, come tale influente, altresì, sulla perimetrazione del thema decidendum o del thema probandum, ovvero sulla possibilità di esaminare gli atti processuali o di argomentare a sostegno delle proprie conclusioni e/o a confutazione delle altrui deduzioni.
Come statuito dal Consiglio di Stato con sentenza n. 4793 del 2019, qualora la parte ricorrente manifesti, anche in sede di udienza pubblica, l'esigenza di ampliare il thema decidendum mediante la proposizione di motivi aggiunti avverso atti sopravvenuti incidenti sul medesimo rapporto amministrativo dedotto in giudizio, salve richieste manifestamente dilatorie e idonee a concretizzare un abuso dello strumento processuale, il giudice procedente deve accogliere la richiesta, rinviando la causa ad un'udienza prossima alla scadenza dei termini di proposizione dei motivi aggiunti. Una diversa decisione si tradurrebbe nella violazione del diritto di difesa, in quanto priverebbe la parte, per effetto della decisione giudiziale di rigetto della richiesta di rinvio, di un potere processuale espressamente riconosciuto dall'ordinamento a tutela della propria posizione giuridica (ex art. 43, comma 1, c.p.a.).
La possibilità per il ricorrente di tutelare, comunque, la propria sfera giuridica proponendo un ricorso autonomo avverso i sopravvenuti provvedimenti amministrativi incidenti sul medesimo rapporto dedotto in giudizio, non costituisce, peraltro, una ragione sufficiente per rigettare l'istanza di rinvio della causa, avanzata in ragione dell'esigenza di proporre motivi aggiunti nell'ambito dello stesso processo. Salve condotte abusive e sempre che l'ordinamento non preveda diversamente (imponendo l'utilizzo di un solo rimedio per contestare gli atti sopravvenuti), deve essere, infatti, salvaguardata la possibilità per la parte di scegliere i rimedi giudiziari offerti dalla disciplina di rito. Secondo i giudici d’appello, “Nel caso di specie, invece, il Tar, rigettando l'istanza di rinvio avanzata dagli odierni appellanti e motivata dall'esigenza di censurare i sopravvenuti provvedimenti sfavorevoli, ha precluso la possibilità di proporre motivi aggiunti, con l'effetto di limitare il potere processuale riconosciuto dall'ordinamento alla parte ricorrente”. La pronuncia d’appello ha annullato la sentenza di primo grado con rinvio ex art. 105 comma 1 Cpa.
Parimenti, il Consiglio di Stato, sez. III – 25/6/2020 n. 4084 ha annullato la sentenza di primo grado con rinvio ai sensi dell'art. 105 comma 1 Cpa, ritenendo che nel giudizio si fosse effettivamente verificata una compromissione dei poteri e delle facoltà che la legge riconosce in capo alle parti in causa.
Tra questi, l'art. 72, comma 2, c.p.a., attribuisce alle parti la facoltà di discutere sinteticamente nell'udienza, a garanzia del corretto svolgimento del dibattito processuale e nel rispetto del principio di parità delle armi delle parti in causa. Nel caso di specie, tuttavia, l’istanza di rinvio dell’udienza – avanzata dalla parte al fine di consentire al proprio difensore di presenziare ed ivi svolgere oralmente le proprie argomentazioni – era stata respinta dal giudice di primo grado.
La pacifica natura di principio generale dell'ordinamento giuridico vale a conferire al diritto di difesa una pienezza ed una pretesa di assolutezza che non tollerano compressione né, tantomeno, soppressione alcuna, con la conseguenza che devono essere garantite, sempre e ad ogni livello, le condizioni migliori per consentirne l'esercizio: la qual cosa non può dirsi realizzata nel caso di specie, ove, al contrario, alla parte è stata negata in radice la possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa nelle modalità che riteneva necessarie, vale a dire integrando le argomentazioni già svolte in atti con ulteriori considerazioni da sottoporre al dibattito processuale orale dinanzi al Collegio.
A tal proposito, occorre chiarire che nessuna valutazione in ordine alla meritevolezza o alla reale necessità di svolgere difese orali può competere al giudice, né egli può scendere a sindacare nel merito le circostanze di fatto e, a maggior ragione, le scelte d'azione operate dal difensore della parte: cosicché, in un caso come quello di specie, occorreva concedere il rinvio richiesto sol perché finalizzato a garantire la presenza fisica in udienza del difensore che, avendone fatto espressamente richiesta, lo riteneva evidentemente funzionale alla miglior difesa del proprio assistito.
Più in particolare, la scelta di presenziare vista la fissazione nella medesima mattina in una certa data, ad una delle udienze piuttosto che all'altra, rientra nelle valutazioni che legittimamente il difensore compie ai fini del miglior perseguimento dei diversi mandati difensivi affidatigli, e che sfuggono pertanto al sindacato del giudice. E' in altri termini preclusa al giudice la valutazione soggettiva sul dedotto impedimento e, nel caso di specie, non poteva negarsi la natura oggettiva dello stesso.
4.3 LA DOMANDA DI CANCELLAZIONE DELLA CAUSA DAL RUOLO
Le medesime conclusioni già illustrate nel precedente paragrafo possono essere estese anche all’ulteriore deroga ravvisabile con riferimento alla domanda di cancellazione della causa dal ruolo. In particolare, il T.A.R. Puglia Lecce, sez. I – 27/7/2021 n. 1214, prestando adesione al suesposto orientamento che nega la sussistenza del diritto al rinvio della discussione o alla cancellazione della causa dal ruolo, ha disatteso l'istanza di cancellazione della causa dal ruolo, presentata in vista dell’udienza ad inizio 2021, a fronte di un ricorso risalente a 5 anni prima (era stato depositato nel 2016).
Del medesimo segno è la decisione del T.A.R. Sicilia Catania, sez. IV – 5/1/2021 n. 8, il quale ha osservato che “la cancellazione della causa non è atto dovuto che consegua alla semplice formulazione della relativa domanda. Trattasi invece di espressione del potere discrezionale del presidente del collegio, che qualora ritenga la causa matura per la decisione correttamente può ritenere di non rinviarne la trattazione, a meno che il ricorrente non eserciti il suo potere dispositivo sull'azione in toto, rinunciando ad essa definitivamente con gli istituti all'uopo predisposti: nel processo amministrativo vige sì il principio dispositivo dell'azione, ma nel giudizio vengono in rilievo, oltre agli interessi privati, anche gli interessi pubblici coinvolti nella controversia (Consiglio di Stato sez. II, 27/11/2019, n. 8100; Consiglio di Stato sez. III, 30/11/2018, n.6823)”.
4.4 L’EMISSIONE DELLA SENTENZA IN FORMA SEMPLIFICATA MALGRADO L’AVVENUTA RINUNCIA ALLA DOMANDA DI MISURA CAUTELARE
Si rinviene un’ulteriore deroga volgendo lo sguardo al tema dell’emissione della sentenza in forma semplificata, anche in presenza di rinuncia alla decisione sull’istanza cautelare. Il punto da cui partire è l’art. 60 Cpa, il quale prevede che, “in sede di decisione della domanda cautelare”, purché siano trascorsi almeno venti giorni dall'ultima notificazione del ricorso, il Collegio, accertata la completezza del contraddittorio e dell'istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con una sentenza in forma semplificata. Tutto ciò “salvo che una delle parti dichiari che intende proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di competenza ovvero regolamento di giurisdizione”.
Lo schema della sentenza in forma semplificata, in sostanza, è adottabile in via generale dal giudice collegiale dopo l’audizione delle parti - dunque nella garanzia del contraddittorio orale - quando ritenga rispettato il diritto di difesa ed esaustiva l'istruttoria. In particolare, nel rito ordinario (art. 74 Cpa) il giudice decide la causa con pronuncia in forma semplificata laddove ravvisi la manifesta fondatezza o la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso e, allorché adotta lo schema della cd. sentenza breve, la motivazione di questa “può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme”. Anche in sede cautelare la sentenza in forma semplificata rappresenta un modo ordinario di definizione del giudizio, fra l’altro già previsto espressamente quale regola in alcuni riti speciali: ad esempio quello dell'ottemperanza (art. 114, comma 3, c.p.a.), quello sul silenzio (art. 117, comma 2, c.p.a.), quello dei contratti pubblici (art. 120, comma 6, c.p.a., con deroga ai limiti di cui al primo periodo dell'art. 74 c.p.a., “di norma” già in esito all’udienza cautelare): è un modulo decisorio rapido e semplificato adoperabile tutte le volte in cui il giudice ritenga di potersi pronunciare sulla controversia, senza ulteriori approfondimenti istruttori o adempimenti processuali, in quanto di pronta soluzione.
Come ha sottolineato il Consiglio di Stato, sez. III – 20/10/2021 n. 7045, la sentenza semplificata ha una ratio, insieme, acceleratoria del giudizio e semplificatoria della motivazione, consentendo la rapida definizione, in sintonia con il generale principio di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), di quelle controversie che non presentano profili di complessità, in fatto e in diritto, tali da richiedere una motivazione articolata. Ciò in ossequio al più generale obbligo, che grava sul giudice, di "concisione" dei motivi, in fatto e in diritto, della decisione, anche con rinvio ai precedenti ai quali intende conformarsi, e in conformità al fondamentale principio di sinteticità, affermato dall'art. 3, comma 2, c.p.a., che non concerne solo gli atti di parte, ma anzitutto quelli del giudice, a cominciare dalla sentenza.
La sentenza in forma semplificata – ha statuito il giudice d’appello – può essere censurata sul piano sostanziale sulla concreta sussistenza dei presupposti, quali la completezza di istruttoria e del contradditorio (diritto di difesa) nonché l'adeguatezza della motivazione. Tuttavia, sarebbe erroneo l’assunto “secondo cui il principio dispositivo, che vige con alcuni temperamenti anche nel giudizio amministrativo, conferisca alla parte un potere di impulso o di veto immotivato e incondizionato sul regolare e, ove possibile, sollecito andamento del processo che è, sì, tutela giurisdizionale di una situazione giuridica lesa, ma anche esercizio di una funzione pubblica, quella del ius dicere, che obbedisce a precise regole e a valori di rilievo costituzionale, i quali presidiano beni che non sono o, almeno, non sono del tutto nella disponibilità della parte”.
E’ stato obiettato che al T.A.R. era precluso di trattenere la causa in decisione per emettere una sentenza breve in quanto avevano espressamente rinunciato alla domanda cautelare. Con la rinuncia all’istanza interinale il giudice sarebbe privato del potere di decidere la causa anche nel merito. Siccome l’art. 60 dispone che il Collegio può trattenere la causa nel merito “in sede di decisione della domanda cautelare”, se vi è stata rinuncia a quest’ultima nessun potere decisorio spetterebbe al giudice (su una domanda ormai venuta meno).
Secondo il Consiglio di Stato, al contrario “la rinuncia alla domanda cautelare esonera il giudice dall'obbligo di pronunciarsi su questa, ma non gli sottrae la facoltà di pronunciare con sentenza in forma semplificata sull'intera controversia, se le parti non oppongano validi motivi a questa soluzione, legati alla volontà di proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o di giurisdizione”. Le uniche cause ostative alla definizione sono quelle enunciate dalla disposizione del Cpa e cioè il difetto del contraddittorio e l’incompletezza dell'istruttoria, che spetta al Collegio decidente apprezzare, nonché la dichiarazione della parte circa la volontà di “proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di competenza, ovvero regolamento di giurisdizione”.
Ancora, sostengono i giudici d’appello che “Questo orientamento risponde al più generale principio secondo cui l'opportunità di una decisione nel merito della causa è rimessa dal legislatore al prudente apprezzamento del giudice e non già alla volontà delle parti, che possono, sì, rinunciare alla domanda cautelare, ma non già disporre come vogliono - in ragione di un malinteso senso del c.d. principio dispositivo - del funzionale e sollecito andamento del giudizio, informato ai valori del giusto processo e della ragionevole durata di questo (art. 111 Cost.). […] Questo Consiglio ha in più occasioni affermato che il rito previsto dall'art. 60 c.p.a. non ha natura consensuale (Cons. St., sez. V, 15 gennaio 2018, n. 178) e che nemmeno la mancata comparizione delle parti costituite all'udienza cautelare può impedire al Collegio di trattenere la causa in decisione per emettere sentenza in forma semplificata (Cons. St., sez. III, 7 luglio 2014, n. 3453)”.
A suo avviso, l’espressione “in sede di decisione della domanda cautelare”, contenuta nell'art. 60 c.p.a., sta solo a significare che il Collegio chiamato a decidere la domanda cautelare, in sede di camera di consiglio fissata per la discussione orale e dopo aver sentito ovviamente le parti sul punto, può decidere immediatamente e interamente nel merito la causa, se ve ne sono i presupposti, e non già che gli sia consentito farlo solo unitamente alla domanda cautelare, che dunque può essere oggetto di rinuncia dalla parte ricorrente senza che ciò precluda al giudice l'esame contestuale del merito.
Il Consiglio di Stato ha poi richiamato la ratio acceleratoria dell’art. 71, comma 5, c.p.a., il quale stabilisce che il termine di sessanta giorni per la comunicazione del decreto che fissa l'udienza di discussione di merito può essere ridotto a quarantacinque giorni, su accordo delle parti, se l'udienza di merito è fissata “in seguito di rinuncia alla definizione autonoma della domanda cautelare” (senza vietare la decisione immediata in seguito alla rinuncia).
Lo schema della sentenza semplificata ha in definitiva valenza generale, ed è impiegato dal legislatore al di fuori del giudizio cautelare sia nell’ipotesi dell'art. 74 c.p.a. che dall’art. 71-bis c.p.a., che permette una definizione del merito, in seguito ad istanza di prelievo, mediante il rito camerale e secondo presupposto identici a quelli alla trattazione della domanda cautelare (completezza del contraddittorio e dell’istruttoria e audizione delle parti costituite).
Ha concluso la sentenza che <<Il principio dispositivo del processo e il potere di rinuncia alla domanda cautelare non possono dunque essere legittimamente invocati dalla parte per impedire al giudice l'esercizio del potere/dovere di definire il giudizio in forma semplificata, ai sensi dell'art. 60 c.p.a., laddove ve ne siano tutti i presupposti di legge, con inutile dilatazione dei tempi in un giudizio che, al contrario, potrebbe essere definito con una pronuncia immediata, contenente una sintetica motivazione. […] E del resto, si deve qui osservare, la pure costante giurisprudenza di questo Consiglio afferma che è persino inammissibile la censura con la quale si denuncia la carenza dei presupposti per la definizione del giudizio di primo grado con sentenza in forma semplificata, all'esito della camera di consiglio fissata dal Tribunale per la trattazione dell'incidente cautelare, se le parti, espressamente informate dell'intenzione del Collegio giudicante di definire immediatamente nel merito la causa, nulla hanno obiettato (v., sul punto, Cons. St., sez. II, 3 giugno 2020, n. 3843), come nel caso presente, ove non risulta dal verbale di causa che il difensore degli appellanti si sia opposto alla definizione della causa in forma semplificata o abbia evidenziato la necessità di proporre motivi aggiunti>>.
Su questa scia si collocano, rispettivamente, il T.A.R. Puglia Lecce, sez. II – 19/11/2021 n. 1685, ad avviso del quale le parti non avevano opposto validi motivi alla soluzione della sentenza in forma semplificata (es. volontà di proposizione di motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o di giurisdizione); il T.A.R. Sicilia Palermo, sez. – III – 27/9/2021 n. 2692 che, tra l’altro, ha rilevato che la necessità di proporre motivi aggiunti (o ricorso incidentale, o regolamento di competenza o giurisdizione) deve essere concreta e in quel caso la parte ricorrente si era riservata di proporre una domanda futura (ricorso per motivi aggiunti), rispetto a un provvedimento finale (l'aggiudicazione definitiva di una gara) che non risultava essere stato adottato. Dunque il giudice ha deciso. Ancora, il T.A.R. Calabria Reggio Calabria – 27/7/2021 n. 631 ha ravvisato la tassatività dei motivi ostativi, individuati dall'art. 60 Cpa. Essi integrano le uniche cause ostative alla definizione della causa nel merito, e ciò comporta che “i difensori delle parti devono essere consapevoli che nella camera di consiglio che era stata fissata (e che dunque ormai sarà celebrata) per la decisione dell'istanza cautelare questa non sarà vagliata, perché rinunciata, ferma restando la possibilità che il Collegio decida invece, nel merito, la controversia", anche "alla luce dei generali principi di economia processuale e ragionevole durata del processo”; allo stesso modo il T.A.R. Veneto, sez. III – 18/2/2019 n. 225, e il T.A.R. Friuli Venezia Giulia – 4/1/2022 n. 3, secondo cui l’art. 60 Cpa attribuisce al giudice un potere esercitabile d'ufficio, previa interlocuzione con le parti, ma senza necessità di acquisirne il consenso, e ciò anche ove le stesse abbiano scelto di non comparire all'udienza in camera di consiglio presumendo il legislatore che – fatta eccezione per i casi tipici indicati – la definizione immediata del giudizio risponda, oltre che al buon funzionamento della giustizia, allo stesso interesse dei contendenti.
In senso contrario, invece, è un indirizzo minoritario della giurisprudenza. Facciamo riferimento al Consiglio di Stato, sez. III – 26/4/2019 n. 2682, secondo cui <<Ai sensi dell'art. 60, comma 1, c.p.a. (non derogato, in parte qua, dall'art. 120 c.p.a.), infatti, la definizione nel merito della controversia, mediante sentenza in forma semplificata, avviene "in sede di decisione della domanda cautelare": è quindi evidente che la sussistenza di una istanza cautelare "attiva", sulla quale cioè il giudice sia chiamato a pronunciarsi, costituisce il presupposto per l'esercizio, all'esito della relativa camera di consiglio, del potere decisorio nel merito. E' altresì indubbio che, venuto meno il suddetto presupposto (per effetto, come nella specie, della rinuncia alla domanda cautelare ad opera della parte ricorrente, con la conseguente ablazione del potere del giudice di pronunciarsi sulla stessa), viene meno anche la condizione processuale cui la norma suindicata subordina la "conversione", "in sede di decisione", del giudizio cautelare in quello di merito>>. Nella specie, invero, dopo la rinuncia il giudice di primo grado, alla camera di consiglio fissata per la trattazione dell’istanza cautelare, in luogo di prenderne atto, ha fissato una nuova camera di consiglio ai fini della decisione con sentenza in forma semplificata del giudizio; ancora, il Consiglio di Stato, sez. II – 2/12/2020 n. 7633, che ha rilevato come la rinuncia alla domanda cautelare è sempre possibile in forza del principio dispositivo che governa il processo amministrativo, come anche indirettamente riconosciuto dall'art. 71 comma 5 c.p.a. che, nel disciplinare i termini minimi di comunicazione del decreto di fissazione udienza, richiama la “rinuncia alla definizione autonoma della domanda cautelare”. Il Collegio, comunque, ha ritenuto che la richiesta presentata dalla difesa ricorrente precludesse al giudice l'applicazione dell'art. 60 c.p.a., facendo venir meno il presupposto della decisione della domanda cautelare, “sedes materiae individuata dal legislatore quale unica ed eccezionale deroga all'udienza di discussione, con la conseguenza che la decisione definitiva di una causa senza celebrazione dell'udienza di discussione costituisce una compromissione del diritto di difesa ed è motivo di annullamento della sentenza, con conseguente rinvio della causa al giudice di primo grado ai sensi dell'art. 105, comma 3, c.p.a. (Cons. Stato Sez. IV, 5 giugno 2012, n. 3317 relativa ad una ipotesi di rinuncia alla domanda cautelare)”.
Nel caso di specie, si era verificato poi un ulteriore profilo di violazione del diritto di difesa, rappresentato dalla tardiva ricezione del decreto di fissazione della camera di consiglio, a cui il difensore non ha potuto essere presente, anch'esso rilevante ai fini dell'art. 105 c.p.a. con rinvio del giudizio al giudice di primo grado.
Il giudice d’appello ha poi concluso che “In ogni caso, la definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata rappresenta una eccezione all'ordinario svolgimento del processo attraverso la celebrazione dell'udienza pubblica di discussione del merito. La natura eccezionale del rito che conduce a definire il merito all'esito della camera di consiglio cautelare (e la conseguente contrazione della possibilità delle parti di esercitare pienamente il diritto di difesa) non consente una lettura restrittiva dei limiti che il legislatore ha previsto alla utilizzabilità dell'istituto, in quanto attraverso quei limiti si tutela e si riespande il fondamentale valore, protetto dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali a tutela dei diritti fondamentali, del diritto di difesa riconosciuto alle parti del processo (Cons. Stato Sez. V, 15 gennaio 2018, n. 178)”. Si tratta di una lettura del diritto di difesa oltremodo estesa.
4.5 PRINCIPIO DI NON CONTESTAZIONE E FACOLTA’ DI DISPORRE ISTRUTTORIA DA PARTE DEL GIUDICE
4.5.1 Il principio dispositivo con metodo acquisitivo
Ulteriore profilo di deroga è rappresentato dalla vigenza, nella giustizia amministrativa, di un principio dispositivo che, sul versante probatorio, incontra il temperamento del cd.
metodo acquisitivo: a differenza del dispositivo secco, in cui la raccolta degli elementi di prova deve avvenire ad esclusiva iniziativa di parte, il principio dispositivo temperato dal metodo acquisitivo presuppone che il giudice possa pervenire d’ufficio alla conoscenza dei fatti.
A ben vedere, infatti, pur spettando alle parti l’introduzione di un principio di prova (“elementi di prova” ai sensi dell’art. 64 comma 1 Cpa), permangono in capo al giudice rilevanti poteri istruttori. Siffatto assetto trova la propria ratio nella disparità che connota la posizione delle parti nel processo amministrativo, sicché è necessario evitare che l’eventuale inerzia processuale dell’amministrazione resistente comprometta la possibilità di difesa del ricorrente il quale, spesso, non è in grado di accedere al materiale probatorio. Vi è dunque un potere istruttorio d’ufficio del giudice il quale supplisce all’inerzia delle parti, e che ha la sua ragion d’essere nell’esigenza di correggere l’istituzionale disuguaglianza tra le parti al di fuori del processo, la pubblica amministrazione che possiede il provvedimento e gli atti del procedimento, il privato che potrebbe incontrare difficoltà e subire ritardi per venirne a conoscenza.
La giurisprudenza e la dottrina, con riferimento alle parti, parlano non tanto di onere della prova, bensì di “onere del principio di prova”, e ciò nel senso che il ricorrente è tenuto semplicemente a prospettare al giudice adito una ricostruzione attendibile sotto il profilo di fatto e giuridico delle circostanze addotte, potendo il giudice acquisire d’ufficio gli elementi probatori indicati dalle parti ovvero ritenuti comunque necessari.
Un principio che, a ben vedere, si giustifica proprio in ragione della disponibilità degli elementi probatori documentali in capo alla pubblica amministrazione, ma che torna ad operare pienamente quando i fatti siano nella piena disponibilità del ricorrente, come nel caso del giudizio risarcitorio, ovvero in quello di annullamento o accertamento, vale a dire ipotesi in cui il privato, avendo partecipato al procedimento o avuto accesso agli atti, possa provare pienamente i fatti dedotti. Come ha recentemente statuito il Consiglio di Stato, sez. IV – 27/7/2021 n. 5560, infatti, “Nei giudizi su diritti soggettivi che si svolgono davanti al giudice amministrativo, la misura e l'ampiezza dell'onere della prova deve essere valutato caso per caso, avuto riguardo al dato sostanziale della disponibilità o meno delle prove in capo alle parti e, su questa base, tarare e calibrare, in modo assai rigoroso, l'esercizio istruttorio "suppletivo" condotto dal giudice”.
Ad ogni modo, il T.A.R. Campania Napoli, sez. II – 27/12/2021 n. 8256 ha chiarito che “il principio dispositivo con metodo acquisitivo non può essere inteso nel senso che la parte privata che agisce in giudizio, la quale si dolga di un atto o dell'inerzia dell'autorità, possa limitarsi alla mera contestazione dei presupposti di fatto e/o di diritto sui quali si è radicata l'azione (o inazione) amministrativa ed attendere che sia il giudice ad acquisire il materiale probatorio necessario al giudizio, dovendo essa, invece, offrire a sostegno della sua domanda adeguati riscontri probatori quantomeno rispetto agli elementi dei quali abbia una disponibilità pressoché piena, come nel caso dell'estensione del diritto dominicale e dei vincoli sulla stessa incidenti […]. […] i poteri istruttori attivabili in via ufficiosa nel processo amministrativo, lungi dal supplire alle carenze difensive in termini sia di allegazioni che di prova, devono essere orientati solo a completare il quadro istruttorio già offerto dalle parti. Ne discende che il citato principio dispositivo con metodo acquisitivo trova ragion d'essere con riferimento solo ad atti e documenti formati ovvero custoditi dall'amministrazione, per i quali, non essendovi un immediato e generalizzato accesso da parte del privato, potrebbe risultare più difficile l'assolvimento dell'onus probandi nei rigorosi termini di cui all'art. 2697 c.c.” Appare chiaro, dunque, che la natura di giurisdizione soggettiva del processo amministrativo esclude che il giudice possa esaminare fatti diversi da quelli introdotti in giudizio ad opera delle parti, sia pure operando il temperamento del cd. metodo acquisitivo a favore del giudice.
4.5.2 Il fenomeno della non contestazione
Invero, l’esercizio dei poteri istruttori da parte del giudice amministrativo è condizionato anche dal fenomeno della non contestazione che ne costituisce un ulteriore limite.
Come noto, l'art. 64 comma 2 Cpa ha introdotto nella disciplina positiva del processo amministrativo il principio di non contestazione. Il citato precetto, il quale riproduce quasi letteralmente il dettato dell'art. 115 C.p.c., così come modificato dall'art. 45 della L. n. 69/2009, stabilisce che «salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita». Per la verità, anche prima della codificazione del processo amministrativo, avvenuta con il D. Lgs. 104/2010, la prevalente giurisprudenza era propensa ad attribuire rilevanza al contegno non contestato, assunto dalle parti nel corso del giudizio (Consiglio di Stato, sez. IV – 15/5/2008 n. 2247) quale corollario logico e naturale del principio della domanda. In ogni caso, la mancata presa di posizione su fatti rappresentati da controparte costituiva comportamento processuale dal quale si potevano trarre argomenti di prova ex art. 116 cpc.
L’art. 64, comma 2, c.p.a. non chiarisce, però, quali siano le conseguenze che il difetto di contestazione comporta sui poteri istruttori esercitabili d'ufficio dal giudice, ossia sullo spazio residuo rimesso a quest’ultimo. La collocazione della disposizione porta la giurisprudenza a ritenere che i fatti non contestati confluiscano nel concetto di prova. Pertanto, una volta che la parte abbia adempiuto al suo onere di allegazione, la non contestazione specifica ad opera della controparte costituita farebbe assurgere a prova piena quanto dedotto, e non dovrebbe essere consentito al giudice di ricorrere ai suoi poteri acquisitivi per accertare quanto non oggetto di contestazione, come ordinare l'ingresso in giudizio di atti e chiarimenti su atti del procedimento incontestati, pena il sacrificio delle regole del giusto processo, della ragionevole durata dello stesso e della caratterizzazione del giudice amministrativo come terzo ed imparziale.
D’altro canto, però, il potere officioso del T.A.R. e del Consiglio di Stato deve comunque poter consentire di verificare in giudizio la completezza dell'istruttoria compiuta dall’amministrazione. A sostegno di ciò, lo stesso Cpa, prevede che, «l’amministrazione, nel termine di cui al comma 1» (ossia entro sessanta giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notifica del ricorso) «deve produrre l’eventuale provvedimento impugnato, nonché gli atti e i documenti in base ai quali l’atto è stato emanato, quelli in esso citati, e quelli che l’amministrazione ritiene utili al giudizio» (Art. 46, comma 2); qualora l’amministrazione non provveda, «il presidente, o un magistrato da lui delegato ovvero il collegio ordina, anche su istanza di parte, l’esibizione degli atti e dei documenti nel termine e nei modi opportuni (art. 65 comma 3); inoltre, «fermo restando l'onere della prova a loro carico, il giudice può chiedere alle parti anche d'ufficio chiarimenti o documenti» (art. 63 comma 1), nonché «disporre, anche d'ufficio, l'acquisizione di informazioni e documenti utili ai fini del decidere che siano nella disponibilità della pubblica amministrazione» (art. 64 comma 3). Ecco allora che, come emerge dalle norme adesso citate, il giudice deve ricercare un equilibrio tra il principio dispositivo in ambito istruttorio, l’asimmetria informativa (ove esistente) e l’inalterabile principio di parità delle parti.
4.5.3 (segue) I limiti della non contestazione
L’operatività del principio di non contestazione, intanto, va incontro ad alcuni limiti.
a) Innanzitutto, come prevede espressamente il comma 2 dell’art. 64, esso si applica unicamente nei confronti delle parti costituite, giacché solo esse sono processualmente tenute a conoscere quali fatti abbia allegato la controparte.
Così il Consiglio di Stato, sez. VI – 6/2/2019 n. 903 ha statuito che “Deve, di conseguenza, ritenersi che la mancata contestazione di un fatto allegato dal ricorrente da parte dell'Amministrazione intimata ma non costituita in giudizio non rientri nel paradigma di operatività della richiamata disposizione”. A suo avviso “[…] il rilevante effetto del principio di non contestazione, che porta a ritenere provati fatti allegati dal ricorrente senza che questi ne fornisca una dimostrazione puntuale e specifica, induce a ritenere che la mancata contestazione debba essere univocamente indice della volontà dell'altra parte di ritenerli esistenti, situazione che può configurarsi solo nell'ipotesi in cui quest'ultima sia costituita in giudizio e non abbia mosso specifiche contestazioni”. In egual maniera si sono espresse anche T.A.R. Sicilia Catania, sez. III – 9/12/2021 n. 3722 e T.A.R. Lazio Roma, sez. II-ter – 12/11/2021 n. 11706
b) L’onere di contestazione può riguardare solo un'allegazione avversaria che presenti i caratteri della precisione e della specificità, escludendosi conseguentemente che una parte debba contestare anche le affermazioni generiche o, finanche, le mere difese spiegate dalla controparte (Consiglio di Stato, sez. III – 13/5/2015 n. 2410);
c) Il principio di non contestazione non può operare in relazione a quegli elementi che occorre comunque dimostrare comprovare (ad esempio, attraverso la produzione del documento allorquando la forma scritta sia richiesta dall'ordinamento ad substantiam o ad probationem);
d) Non vale poi il principio di non contestazione per elementi diversi dai «fatti» e, quindi, esso non può essere utilizzato per ritenere «provata» una tesi o una qualificazione giuridica sol perché non contestata dalla controparte, giacché l’individuazione e l’applicazione del diritto è una prerogativa riservata al giudice (secondo il brocardo iura novit curia).
e) Infine, il giudice deve comunque tener conto di tutti gli elementi di prova acquisiti nel corso del processo e, quindi, non è vincolato al dovere decidere la base dei fatti non contestati, qualora a prescindere dall'inerzia di parte che non abbia adempiuto all’onere di contestazione i fatti non contestati risultino comunque smentiti da altre prove, in coerenza con il principio dell’acquisizione probatoria.
La non contestazione pone problemi più delicati e deve essere attentamente valutata dal giudice, specie quando non attenga alla sussistenza di un fatto storico, ma riguardi un fatto costitutivo ascrivibile alla categoria dei fatti-diritto. In particolare, in queste materie, hanno osservato le Sezioni Unite che "il semplice difetto di contestazione non impone un vincolo di meccanica conformazione, in quanto il giudice può sempre rilevare l'inesistenza della circostanza allegata da una parte anche se non contestata dall'altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto" (Corte di Cassazione, sez. unite civili – 16/2/2016 n. 2951). Del resto, se le prove devono essere valutate dal giudice secondo il suo prudente apprezzamento (art. 116, c.p.c.), a fortiori ciò vale per la valutazione della mancata contestazione (Corte di Cassazione, sez. II civile – ordinanza 30/12/2021 n. 42035) .
4.5.4 La mancata costituzione in giudizio e l’operatività della non contestazione
Si è evidenziato, inoltre, che la mancata costituzione, sempre considerata di per sé sola, non può rappresentare un comportamento valutabile, ex art. 64 comma 4 Cpa per trarne argomenti di prova in danno della parte non costituita.
La contumacia del convenuto, di per sé sola considerata, non può assumere alcun significato probatorio in favore della domanda dell'attore, poiché, al pari del silenzio nel campo negoziale, non equivale ad alcuna manifestazione di volontà favorevole alla pretesa di controparte, ma lascia del tutto inalterato il substrato di contrapposizione su cui si articoli il contraddittorio (Corte d’Appello di Roma, sez. VI – 27/4/2021 r.g. 8418/2019). E' stato, pure affermato (cfr. Corte di Cassazione, sez. VI.2 civile – 29/8/2014 n. 18426) che la disciplina della contumacia non attribuisce a questo istituto alcun significato sul piano probatorio, salva previsione espressa, con la conseguenza che si deve escludere non solo che essa sollevi la controparte dall'onere della prova, ma anche che rappresenti un comportamento valutabile, ai sensi dell'articolo 116, primo comma, c.p.c., per trarne argomenti di prova in danno del contumace.
La contumacia esprime, in definitiva, un silenzio non soggetto a valutazione, non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall'altra parte, né altera la ripartizione degli oneri probatori tra le parti.
In senso diverso, una parte della giurisprudenza di primo grado (T.A.R. Toscana, sez. I – 7/3/2018 n. 342; T.A.R. Molise – 9/12/2020 n. 358; T.A.R. Lazio Roma, sez. I-quater – 8/5/2018 n. 5074) la quale ha ritenuto, anche in caso di mancata costituzione, di fare applicazione del principio di non contestazione di cui all’art. 64 comma 4 Cpa “… dovendosi ragionevolmente dedurre che, rispetto a quanto dedotto in ricorso e riscontrato dal Collegio giudicante, l'amministrazione non avesse alcuna difesa utile da opporre”.
Altra giurisprudenza recente ha invece affermato che “nel processo amministrativo lo strumento previsto dall'art. 116 c.p.c. (circa gli argomenti di prova che il giudice può desumere dal contegno delle parti), riprodotto dall'art. 64, comma 4, c.p.a., può essere utilizzato in assenza di costituzione della P.A. soltanto ove questa sia stata compulsata dal giudice amministrativo, mediante ordinanza istruttoria, a prendere posizione sui fatti di causa (C.d.S., Sez. VI, n. 6086/2019, cit.)”: è stato ritenuto che il mancato riscontro determini l'applicabilità, altresì, del principio di non contestazione ex art. 64, comma 2, c.p.a. T.A.R. Campania Napoli, sez. V – 17/7/2020 n. 3183; si veda anche T.A.R. Veneto, sez. II – 16/10/2019 n. 1094
5. CONCLUSIONI
La declinazione del principio dispositivo nel processo amministrativo risente della regola per cui “il processo amministrativo è un processo di parte, ma non un processo delle parti”.
Sicuramente spetta all’attore (ricorrente) l’input iniziale ed è titolare di poteri sull’andamento fino al momento in cui la causa passa in decisione (trattazione pubblica della causa). Tuttavia la disponibilità della lite non può spingersi fino al governo pieno del processo e delle sue dinamiche, avendo il giudice il ruolo di garante del corretto svolgimento del giudizio.
Una volta incardinato il rapporto giuridico processuale con l’atto introduttivo, il suo sviluppo fuoriesce dalla totale padronanza delle parti e dell’attore in particolare, ed è viceversa modulabile dal giudice nel doveroso contemperamento del principio dispositivo con altri interessi pubblici compresenti (come il canone di ragionevole durata del processo).
Il giudice allora diventa fondamentale in quanto non si limita al ruolo di arbitro-spettatore passivo – “che fischia poco e lascia giocare”, per usare un gergo sportivo – ma diviene un regolatore attivo, in grado di coniugare valori e principi e di trovare una soluzione alle frizioni che affiorano tra i contendenti.