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Il sindacato del giudice amministrativo sugli atti del Consiglio Superiore della magistratura

Nicola Fenicia • 22 febbraio 2021

T.A.R. Lazio, sez. I, 16 febbraio 2021, n. 1866


IL CASO

Con la sentenza in commento il T.A.R. del Lazio ha annullato la deliberazione del Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura del 4 marzo 2020, con la quale, in esito al giudizio comparativo effettuato con un altro candidato, è stato nominato il nuovo Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma. 

Tale sentenza, oggetto d’interesse anche da parte della cronaca giornalistica, porta alla ribalta il tema del sindacato sulla discrezionalità che caratterizza gli atti inerenti al conferimento di incarichi direttivi da parte degli organi di autogoverno delle magistrature, e di quella ordinaria in particolare. 

Si tratta di questione non nuova, se si pensa che già agli inizi degli anni “60 si dibatteva in dottrina e in giurisprudenza in ordine alla stessa assoggettabilità degli atti del CSM al sindacato giurisdizionale amministrativo.

Il dubbio nasceva dalla considerazione della natura peculiare del CSM: organo di rilevanza costituzionale, presieduto dal Capo dello Stato in qualità di potere "neutro" e di garante della Costituzione; organo estraneo all’apparato amministrativo, cioè non organicamente inquadrato nel potere esecutivo, ed avente la funzione di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, funzione così delicata da esigere la sua sottrazione ad ogni interferenza, non solo del potere esecutivo, ma anche del potere giurisdizionale. 

Tuttavia, ha poi prevalso la considerazione della qualità di organo della pubblica amministrazione rivestita dal CSM, e della funzione sostanzialmente amministrativa dallo stesso svolta, con atti incidenti sulla carriera del magistrati (trasferimenti, stato giuridico-economico, conferimenti di incarichi…). 

E, d’altro canto, non poteva essere disconosciuto l’aspetto dell’indipendenza interna dei magistrati, cioè della tutela dell’autonomia e dell’indipendenza del singolo magistrato anche rispetto agli atti dell’organo di autogoverno, profilo evincibile dall’art. 107, 1° comma, della Costituzione, secondo cui: ”I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall'ordinamento giudiziario o con il loro consenso”. 

Oggi, quantomeno a partire dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 44 del 1968, è indubbio che gli atti del CSM che incidono sullo stato dei magistrati siano provvedimenti amministrativi sottoposti al sindacato del giudice amministrativo, quale giudice deputato alla tutela degli interessi legittimi, e che anche nei confronti di tali atti sia necessario assicurare la garanzia generale di tutela giurisdizionale posta dall'art. 24 della Costituzione. 

Il problema attuale è invece quello dell’estensione del sindacato giurisdizionale. 

Le delibere del CSM in tema di conferimento di funzioni direttive - al di là di elementi specifici, quali ad esempio, esperienza nel settore di riferimento (civile o penale, etc.) precedente esperienza direttiva o organizzativa, anzianità di servizio, sono espressione dell’esercizio di un’ampia discrezionalità, dovendosi scegliere il magistrato più adatto “per attitudini e merito”, a ricoprire un determinato incarico. Si tratta quindi di atti, quanto a grado di discrezionalità, quantomeno al confine con quelli di “alta amministrazione”. 

Si veda, per il riconoscimento di tale qualifica, Consiglio di Stato, Sezione IV, 10 luglio 2007, n. 3893: “La natura giuridica di atto di alta amministrazione da riconoscere alla delibera per il conferimento dell'ufficio di primo presidente della corte di cassazione, attraverso la quale il consiglio superiore della magistratura esercita un elevatissimo potere discrezionale che non si esaurisce nel mero riscontro da parte dei singoli candidati dei requisiti prescritti dalla legge, limita e attenua, ma non esclude, il sindacato giurisdizionale sull'esercizio di detto potere discrezionale, circoscrivendolo all'accertamento estrinseco della sua legittimità, cioè al riscontro dell'esistenza dei presupposti e alla congruità della motivazione nonché all'esistenza del nesso logico di consequenzialità fra presupposti e conclusioni

Il giudizio effettuato dal CSM è un giudizio sintetico e unitario, cioè non analiticamente rivolto a giustificare la prevalenza di ogni singolo parametro, ed è di tipo comparativo. 

Le ragioni alla base della scelta di un candidato piuttosto che dell’altro, devono essere comprensibili e devono fondarsi su elementi di fatto certi e frutto di adeguata istruttoria. La motivazione della delibera deve dunque essere congrua rispetto agli elementi utilizzati e completa, dovendo essere presi in considerazione tutti gli elementi valutativi richiesti dalla disciplina normativa.

Secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale confermato dalla sentenza in commento “nel conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, il CSM gode di un apprezzamento che è sindacabile in sede di legittimità solo se inficiato da irragionevolezza, omissione o traviamento dei fatti, arbitrarietà o difetto di motivazione (Cons. Stato, Sez. V, 7.1.20, n. 71; 27.6.18, n. 3944; 11.12.17, n. 5828; 16.10.17, n. 4786); resta dunque preclusa al sindacato giurisdizionale solo la valutazione dell’”opportunità o convenienza” dell’atto dell’organo di governo autonomo, assegnando la legge, infatti, al CSM un margine di apprezzamento particolarmente ampio ed il sindacato deve restare parametrico della valutazione degli elementi di fatto compiuta dall’amministrazione. Ma, al contempo, si deve assicurare la puntuale ed effettiva verifica del corretto e completo apprezzamento dei presupposti di fatto costituenti il quadro conoscitivo posto a base della valutazione, la coerenza tra gli elementi valutati e le conclusioni a cui è pervenuta la deliberazione, la logicità della valutazione, l’effettività della comparazione tra i candidati, e dunque, in definitiva, la sufficienza della motivazione (Cons. Stato, Sez. V, 18.6.18, n. 3716 e 11.2.16, n. 607). 

Se i provvedimenti del CSM non richiedono una motivazione particolarmente diffusa, il loro percorso formativo deve tuttavia esternare l’essenziale apprezzamento tecnico e questo va reso quanto più possibile manifesto, sì che le ragioni della scelta risultino sufficientemente conoscibili e valutabili da chiunque, anzitutto dai magistrati coinvolti.

In questa prospettiva, risulta essenziale la motivazione sulle attitudini, con i relativi indicatori dei vari candidati, perché si deve dar conto delle ragioni che giustificano una valutazione di maggiore capacità professionale e che conducono a preferire un candidato rispetto agli altri (Cons. Stato, Sez. V, 19.5.20, n. 3171).


ASPETTI PROBLEMATICI E RIFLESSIONI

Nel caso esaminato dal T.A.R. del Lazio con la sentenza in commento, e come spesso accade, il confronto è avvenuto fra magistrati praticamente di pari valore e di pari esperienza, dunque dal profilo professionale quasi equivalente. 

Cionondimeno, anche in questi casi la scelta finale non può sfuggire all’obbligo di motivazione, che non può ritenersi per tali ragioni attenuato, rinvenendosi, anzi, proprio in tali evenienze, l’esigenza che il profilo decisivo della prevalenza dell’uno rispetto all’altro candidato venga positivamente evidenziato e sia adeguatamente percepibile.

D’altro canto, non può sottacersi che, almeno nel caso della nomina di una così alta carica come quella del capo della Procura di Roma, il Consiglio Superiore della Magistratura eserciti un potere discrezionale di eccezionale ampiezza, che non può realisticamente esaurirsi nel mero riscontro da parte dei singoli candidati dei requisiti prescritti dalla legge, ma che importa articolate, delicate e talvolta addirittura sfumate valutazioni sulla stessa personalità dei candidati, sulle loro capacità organizzative, sul loro prestigio (e sul prestigio che eventualmente hanno già conferito agli uffici precedentemente ricoperti e che astrattamente sono in grado di assicurare a quello da ricoprire), ed ancora sulla opportunità o meno di nominare un magistrato che possa assicurare “continuità politico-giudiziaria” nella gestione della Procura rispetto al suo predecessore. 

E’ indiscutibile che, in disparte dalle ragioni di politica associativa interna alla magistratura, che ovviamente non dovrebbero in alcun modo orientare tali valutazioni, si tratta di elementi che difficilmente possono essere esplicitati in una motivazione e che però, legittimamente e fisiologicamente, contribuiscono a determinare la scelta finale e che potrebbero e forse dovrebbero limitare il sindacato giurisdizionale, pena un travalicamento della sfera del merito amministrativo costituzionalmente attribuita al CSM. 

Ebbene, nel caso affrontato dal T.A.R. del Lazio, il profilo fondamentale che, in maniera esplicita, ha determinato la decisione finale del CSM, è stato quello della conoscenza specifica, da parte del candidato prescelto, della criminalità del territorio di riferimento, ovvero della specificità del territorio e della malavita romana, definita come un “unicum” in Italia perché facente capo a situazioni spesso ambigue in uno sfondo caratterizzato da sedi istituzionali di vario tipo, da ambasciate, dalla Città del Vaticano e dalla presenza delle mafie tradizionali e da “nuove mafie”.

A tal proposito, si legge nella motivazione della sentenza che “se è stata la raffinata conoscenza delle mafie tradizionali che ha consentito al controinteressato di cogliere e sviluppare processualmente l’originalità della situazione peculiare di Roma, non si comprende come tale capacità non poteva essere riconosciuta anche al ricorrente, che certamente – per quanto affermato nella stessa motivazione – poteva vantare una robustissima conoscenza delle mafie tradizionali (tra tutte “Cosa Nostra”)”.

In particolare, secondo il Giudice amministrativo di primo grado, “non è dato comprendere perché, se per il controinteressato la raffinata conoscenza delle mafie tradizionali (in specie “Cosa Nostra” e “'ndrangheta”) gli ha consentito di cogliere e sviluppare sul piano processuale gli elementi di continuità e di originalità della situazione laziale e di quella peculiare della città di Roma” la riconosciuta conoscenza “eccezionale” dell’attività di Cosa Nostra da parte dell’altro concorrente alla carica non avrebbe potuto consentire anche a lui di “cogliere e sviluppare” , come Procuratore, e presumibilmente in poco tempo, “l’originalità della realtà criminale laziale. Se fosse il criterio – non del radicamento territoriale – ma della “originalità territoriale”, soprattutto per quando riguarda grandi realtà metropolitane, a guidare quindi la scelta del CSM, ne conseguirebbe vantaggio soltanto chi, anche solo per pochi anni, abbia avuto modo di sviluppare “in loco” le sue esperienze investigative, e tale vantaggio sarebbe quasi incolmabile a parità di “curriculum” attitudinale e “di merito”; ciò però non è previsto né nel d.lgs. n. 160/06 né nel richiamato T.U. E’ chiaro, infatti, che ogni realtà metropolitana può “vantare” una peculiare struttura criminale in relazione allo sfondo di riferimento (ad esempio, a Milano può invocarsi a tali fini la presenza di grandi gruppi industriali, a Genova quella di una realtà portuale e così via) sicché ogni magistrato già con incarichi semidirettivi in tale realtà potrebbe avvantaggiarsi nell’attribuzione di un incarico direttivo nel medesimo contesto, violando così il riconosciuto carattere “nazionale” della procedura di affidamento di incarichi direttivi e semidirettivi. In sostanza, l’apprezzamento in concreto del “merito” e delle “attitudini organizzative e dirigenziali” deve essere fatta, per gli uffici di grandi dimensioni, alla stregua dei risultati organizzativi e gestionali già conseguiti e non sulla base della conoscenza della realtà criminale specifica che caratterizza lo sfondo geografico di riferimento”. 

Prescindendo dall’analisi del variegato quadro normativo di riferimento, costituito soprattutto da circolari, criteri, norme interne, quel che sembra emergere ad una prima lettura è che la sentenza si muove proprio sulla sottile linea di demarcazione con l'ambito del merito valutativo istituzionalmente riservato al CSM. Pare infatti non agevole far transitare sul piano della legittimità l’aver valutato il profilo attitudinale dei candidati anche sulla base della conoscenza della realtà criminale specifica che caratterizza il territorio della Procura oggetto di incarico, che può essere un criterio, magari atipico e opinabile, ma non del tutto irragionevole di valorizzazione delle capacità attitudinali a rivestire quel particolare tipo di incarico.

Il caso esaminato rende comunque lampante quanto sia complesso e delicato giudicare sugli atti degli organi di autogoverno, e come al Giudice amministrativo, al quale sono assegnati poteri incisivi, spetti fare esercizio, con equilibrio e saggezza, di self-restraint, nella valutazione, con riferimento al caso concreto, della discrezionalità riconosciuta al CSM. 

Non si può fare a meno di considerare, poi, di come si tratti di una vicenda tutta tra magistrati, a partire dai componenti del CSM, che valutano altri magistrati, per finire ai giudici del T.A.R. e del Consiglio di Stato, che successivamente giudicano degli atti del CSM. 

Il cortocircuito è ancora più evidente e la situazione è ancora più delicata quando si tratta di sindacare, attraverso quella che viene denominata “giurisdizione domestica”, gli atti dell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa; ma finché non venga istituito un Tribunale ad hoc, ammesso che la soluzione sia percorribile, deve avere prevalenza l’esigenza di garantire al singolo magistrato il proprio diritto di difesa e la propria indipendenza interna.



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