Corte costituzionale, sentenza del 7 giugno 2022, n. 140
L’art. 66, comma 1, del d.P.R. n. 131 del 1986 (testo unico sull’imposta di registro) stabilisce che i cancellieri e i segretari degli organi giurisdizionali possono rilasciare originali, copie ed estratti degli atti soggetti a registrazione solo dopo che gli stessi atti siano stati registrati e indicando (con apposita attestazione da loro sottoscritta) gli estremi della registrazione compreso l’ammontare dell’imposta. Il successivo comma 2 dell’art. 66 prevede alcune deroghe a tale divieto le quali, tuttavia, valgono solo per gli “atti tassativamente enunciati”, come ha avuto occasione di precisare la Corte costituzionale (sentenza n. 198 del 2010). Nell’elenco delle deroghe non è (rectius, non era) contemplato il rilascio della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale funzionale all’instaurazione del giudizio di ottemperanza.
Della legittimità costituzionale di tale disposizione ha dubitato il Consiglio di Stato (sez. IV, ord. 2 marzo 2021, n. 1765) rilevando:
- quanto alla rilevanza della questione, che il passaggio in giudicato è un presupposto indefettibile per agire in sede di ottemperanza, ai sensi dell’art. 112, comma 2, lett. c), del codice del processo amministrativo, e che la mancata prova dell’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza azionata mediante ricorso per ottemperanza rende inammissibile il medesimo ricorso, non essendo sufficiente un’autocertificazione del ricorrente o del suo difensore; - in diritto, che tale procedura precludeva la possibilità di agire in sede di ottemperanza per l’attuazione delle pronunce del giudice, limitando irragionevolmente il diritto alla tutela giurisdizionale con conseguente lesione degli artt. 3 e 24 della Costituzione.
È quindi intervenuta la Corte costituzionale con la pronuncia qui segnalata, particolarmente interessante perché ricostruisce storicamente il “delicato tema del rapporto tra oneri fiscali e diritto alla tutela giurisdizionale”:
- è stata così rammentata la prima sentenza rilevante in materia, la n. 21 del 1961 sul solve et repete, che ha eliminato dall’ordinamento una regola che rifletteva una concezione autoritaria del rapporto tributario in quanto ancora fondata sulla nozione precostituzionale di dovere di soggezione, per cui l’atto impositivo andava prima eseguito e solo dopo, eventualmente, contestato;
- poi le sentenze che hanno espunto dall’ordinamento residui normativi fondati sulla medesima logica del solve et repete:
1) n. 79 del 1961, sull’illegittimità costituzionale di norme che, pur ritenute applicative del principio già dichiarato incostituzionale del solve et repete, avevano nel sistema una propria vita giuridica, quali l’art. 140 del r.d. n. 3269 del 1923, l’art. 52, secondo periodo del secondo comma, della l. n. 762 del 1940, l’art. 24, terzo comma, della l. n. 1424 del 1940;
2) n. 75 del 1962, sull’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma terzo, del r.d.l. n. 186 del 1942 perché conteneva un’ulteriore e più grave espressione della regola del solve et repete, in quanto disponeva che essa venisse osservata persino per la proposizione dei ricorsi innanzi alle commissioni tributarie;
3) n. 89 del 1962, sull’illegittimità costituzionale dell’art. 18, secondo comma, del r.d.l. n. 334 del 1939, concernente l’imposta di fabbricazione degli oli minerali, e dell’art. 97 del r.d. n. 3270 del 1923, concernente l’imposta di successione, secondo i quali l’onere del pagamento costituiva presupposto imprescindibile per l’esperimento dell’azione giudiziaria promossa per la tutela del diritto del contribuente ad accertare l’illegittimità di quei tributi;
4) n. 80 del 1966, sull’illegittimità costituzionale dell’art. 117 del r.d. n. 3269 del 1923, che precludeva ai funzionari delle cancellerie, prima della relativa registrazione, di rilasciare copia della sentenza di primo grado a colui che intendeva appellarla;
5) n. 100 del 1964, sull’illegittimità costituzionale dell’art. 77 del r.d. n. 3270 del 1923 nella parte in cui subordinava l’esperimento dell’azione giudiziaria alla dimostrazione dell’avvenuto pagamento dell’imposta, nonché degli artt. 79 e 80 della stessa legge in quanto sanzionavano, con l’obbligo di corrispondere l’importo delle tasse e soprattasse, l’inosservanza dell’onere previsto per l’esercizio dell’azione giudiziaria.
Pressoché contestualmente la Corte affermava anche che “nell’ordinamento giuridico posto in essere dalla Costituzione repubblicana i diritti individuali dei cittadini sono armonicamente coordinati con quelli della collettività”, e che “il diritto di adire gli organi giurisdizionali, sancito nell’art. 24, primo comma, deve essere contemperato con l’interesse generale alla riscossione dei tributi, che pure è affermato nell’art. 53, primo comma, della Costituzione” (sentenze n. 61 del 1970 e n. 111 del 1971).
La Corte costituzionale ha poi ricordato che il problema è stato in gran parte risolto dal Legislatore, il quale con l’art. 7 della legge delega n. 825 del 1971 ha dettato il principio direttivo di eliminare “ogni impedimento fiscale al diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”. In tal modo, “l’ordinamento si è indirizzato verso un nuovo e più proporzionato bilanciamento tra i valori costituzionali che vengono in rilievo nella previsione di oneri fiscali condizionanti l’accesso alla tutela giurisdizionale”.
Proprio in tema di imposta di registro, la Corte aveva già dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 2 dell’art. 66 del d.P.R. n. 131 del 1986 nella parte in cui non consentiva al cancelliere il rilascio della copia esecutiva alla parte vittoriosa per procedere all’esecuzione forzata nei confronti della parte soccombente, se non dopo il pagamento dell’imposta di registro. Sul punto aveva osservato che con l’art. 65 del d.P.R. n. 131 del 1986 il Legislatore aveva soppresso il divieto di utilizzare in giudizio atti non registrati prevedendo, all’opposto, l’obbligo del cancelliere di inviarli all’ufficio del registro. “Il Legislatore della riforma ha pertanto ritenuto che la situazione di inadempimento dell’obbligazione relativa all’imposta di registro, emergente in occasione del processo di cognizione, non può avere l’effetto di precluderne lo svolgimento e la conclusione. È chiaro il giudizio di valore così espresso, per cui, nel bilanciamento tra l’interesse fiscale alla riscossione dell’imposta e quello all’attuazione della tutela giurisdizionale, il primo è ritenuto sufficientemente garantito dall’obbligo imposto al cancelliere di informare l’ufficio finanziario dell’esistenza dell’atto non registrato, ponendolo così in grado di procedere alla riscossione”. E tale bilanciamento fra l’interesse all’effettività della tutela giurisdizionale e quello alla riscossione dei tributi doveva essere praticato per entrambi i tipi di processo: se l’inadempimento dell’obbligazione tributaria non precludeva lo svolgimento del processo di cognizione fino all’emanazione della sentenza (o di altro provvedimento esecutivo) e determinava solo la comunicazione da parte del cancelliere all’ufficio del registro degli atti non registrati, tanto doveva essere applicato, a pena di irragionevolezza, anche per la sentenza (o il provvedimento esecutivo) cui doveva essere data attuazione mediante l’esercizio della tutela giurisdizionale in via esecutiva (sentenza n. 522 del 2002).
Nel solco di tale decisione la Corte ha in seguito dichiarato l’illegittimità costituzionale della medesima disposizione normativa, sempre il comma 2 dell’art. 66 del d.P.R. n. 131 del 1986, nella parte in cui non si applicava al rilascio di copia dell’atto conclusivo (sentenza o verbale di conciliazione) della causa di opposizione allo stato passivo fallimentare, ai fini della variazione di quest’ultimo (sentenza n. 198 del 2010).
È alla luce di tali premesse che con la sentenza in esame, la n. 140 del 2022, la Corte ha affermato che “il diritto alla tutela giurisdizionale non può essere sacrificato in nome di esigenze di tutela dell’interesse fiscale”. Quest’ultimo, sebbene costituisca un interesse particolarmente tutelato dall’art. 53, primo comma, della Costituzione, attiene a momenti della dinamica impositiva nei quali è ancora in fase di definizione ciò a cui corrisponde il dovere tributario. E, del resto, nella vigente legislazione la cosiddetta riscossione frazionata in pendenza di giudizio non è mai impeditiva della tutela giurisdizionale. Conformemente, tale criterio di bilanciamento è riflesso nella già ricordata scelta del Legislatore delegante di informare l’ordinamento intorno al principio per cui gli impedimenti al diritto di agire in giudizio, oltre a non essere consentiti con riguardo all’interesse fiscale, non sono strettamente necessari neanche al fine di tutelare il dovere tributario, traducendosi in forme di controllo fiscale eccessive essendo possibili altre modalità comunque idonee a tutelarne l’adempimento.
E con specifico riferimento al divieto di rilasciare, prima della relativa registrazione con l’indicazione dell’ammontare dell’imposta, il provvedimento giurisdizionale recante in calce la certificazione di passaggio in giudicato al fine di instaurare un giudizio di ottemperanza innanzi al giudice amministrativo, la Corte ha dichiarato che ciò impediva di fatto l’accesso al giudizio di ottemperanza che è volto a “dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale tutelato dall’art. 24 Cost.”. E - a fronte dell’obiezione che il giudizio di ottemperanza non è l’unico rimedio per attuare le decisioni nei confronti della pubblica amministrazione, potendo la parte vittoriosa procedere all’esecuzione forzata civile - ha precisato che “il rapporto tra i due rimedi non si pone in termini di mera alternatività, perché il giudizio di ottemperanza è diretto a completare la tutela conseguibile nell’ambito del procedimento di esecuzione forzata, essendo connotato da potenzialità sostitutive e intromissive nell’azione amministrativa non comparabili con i poteri del giudice dell’esecuzione nel processo civile”, per esempio “l’accesso a tecniche di esecuzione incisive, quali sono la possibilità d’irrogazione di penalità di mora e la nomina di un commissario ad acta che, nella persistente inerzia dell’amministrazione dello Stato, proceda al reperimento materiale delle risorse necessarie al pagamento”.
La Corte delle leggi ha poi soggiunto che la limitazione contestata non è strettamente necessaria e proporzionata rispetto alle esigenze di tutela dell’adempimento del dovere tributario. Difatti, la normativa sull’imposta di registro, al fine di garantire una tempestiva collaborazione con gli uffici finanziari nell’accertamento dei rapporti imponibili e nella percezione delle imposte dovute, prevede obblighi collaterali, la cui inosservanza è sanzionata in via amministrativa, a carico di cancellieri e segretari degli organi giurisdizionali. Questi, infatti, sono tenuti sia a richiedere la registrazione delle sentenze, dei decreti e degli altri atti alla cui formazione hanno partecipato nell’esercizio delle loro funzioni (art. 10, comma 1, lettera c, del d.P.R. n. 131 del 1986), sia a iscrivere gli atti soggetti a registrazione in un apposito repertorio e a presentarlo poi, ogni quadrimestre, all’ufficio finanziario (artt. 67, comma 1, e 68, comma 1, del d.P.R. n. 131 del 1986). All’amministrazione finanziaria, pertanto, è assicurata la conoscenza dell’atto soggetto a registrazione e, per tal via, la possibilità di procedere alla liquidazione e alla riscossione dell’imposta.
In definitiva, poiché l’adempimento del dovere tributario risulta già adeguatamente tutelato, senza che sia necessario disporre “un ostacolo alla tutela giurisdizionale, che risulta obiettivamente eccessivo e quindi sproporzionato”, la Corte ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 66, comma 2, del d.P.R. n. 131 del 1986 nella parte in cui non prevede che la disposizione di cui al comma 1 non si applichi al rilascio della copia della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale, i quali debbano essere utilizzati per proporre l’azione di ottemperanza dinanzi al giudice amministrativo”.