Con decreto ministeriale del 26 marzo 2021 è stata nominata la “Commissione per elaborare proposte di interventi per la riforma dell’ordinamento giudiziario”, presieduta dal prof. Luciani.
Al termine dei lavori la Commissione ha approvato un articolato normativo allegato alla relazione finale. Poiché, ai sensi dell’art. 1 del decreto ministeriale istitutivo, la Commissione, nell’elaborare le sue proposte, doveva tenere conto del d.d.l. AC 2681, recante “Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura”, l’articolato normativo da essa “suggerito” è stato strutturato in forma di complesso di emendamenti al menzionato disegno di legge.
In particolare, la Commissione ha definito il perimetro del proprio lavoro tenendo conto delle esigenze di:
a) “superare i profili problematici del funzionamento del Consiglio superiore della magistratura” e di affrontare “i più generali temi riguardanti l’ordinamento giudiziario nel suo complesso e l’organizzazione degli uffici”;
b) “procedere all’individuazione di possibili misure organizzative e proposte normative finalizzate, in particolare, ad incidere sull’efficienza dell’amministrazione della giustizia e sull’imparzialità dell’esercizio della giurisdizione”;
c) coordinare le ipotesi di riforma con il “più ampio programma di interventi riguardante il sistema giudiziario e ordinamentale in coerenza con le Country Specific Recommendations adottate dal Consiglio dell’Unione Europea il 9 luglio 2019 e il 20 maggio 2020”;
d) considerare quanto previsto dal disegno di legge AC 2681, esaminandone e valutandone le proposte, anche in ragione degli “esiti dell’indagine conoscitiva espletata in sede parlamentare”, degli “emendamenti presentati” e del parere del Consiglio Superiore della Magistratura su detto disegno di legge;
e) essere coerenti “con il calendario del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, funzionale al conseguimento delle risorse del Next Generation Eu”.
Il momento nel quale la Commissione è stata chiamare a operare era molto delicato, tra gli adempimenti che nell’ambito del Recovery Plan riguardano il settore della giustizia, e la necessità di porre rimedio alle storture che hanno dato origine alle note e non esaltanti vicende che hanno recentemente riguardato la magistratura ordinaria.
In effetti, la nuova riforma ordinamentale della magistratura voluta dal Ministro Bonafede, nell’ambito del primo governo della odierna legislatura (nato dall’alleanza politica tra Lega e Movimento 5 Stelle), era scaturita, come spesso accade in Italia, da uno scandalo che aveva scosso dalle fondamenta il sistema su cui aveva l’ambizione di incidere.
L’affaire Palamara - il caso del Giudice rimosso dalla magistratura ordinaria perché accusato di avere tramato e cercato di influenzare le decisioni del CSM in materia di nomine -, è tuttavia più semplice e più complicato da capire di quanto possa apparire dall’esterno.
E’ più semplice da comprendere, se soltanto si pensa agli effetti prodotti nel tempo dalla “riforma Castelli” del 2005, una riforma che ha eliminato la rilevanza dell’anzianità di servizio come criterio di valutazione per l’accesso alla dirigenza giudiziaria, parzialmente gerarchizzato le Procure e di fatto indebolito il sistema del “potere diffuso” del Giudice immaginato dalla Costituzione.
E’ più arduo da identificare, se si fa riferimento alla complessità dell’indole umana e alla necessità per il magistrato di tenere una condotta che è di gran lunga superiore allo standard morale medio, specie in un Paese come il nostro, che, secondo il report di Transparency International dell’anno 2019, è al 51esimo posto nel mondo per “indice di percezione della corruzione”, a pari merito con il Ruanda.
La Corte Costituzionale ha da tempo chiarito che le specifiche prerogative assicurate ai magistrati dagli artt. 101 e seguenti della Costituzione comportano l'imposizione di speciali doveri, che vanno rispettati non solo con riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento, al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza e imparzialità.
Di conseguenza, non dovrebbero mai essere considerate mero esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, costituendo invece violazioni dei doveri di correttezza ed equilibrio propri del magistrato, condotte volte a screditare o valorizzare colleghi, “anche al fine” di tentare di interferire con l'attività del Consiglio superiore della Magistratura.
In particolare, non è pensabile che un magistrato possa operare da politico “puro” per indirizzare, tramite conoscenze e intrecci personali, le nomine o l’attività dell’organo di autogoverno nel senso da lui voluto, anche se per assurdo il fine di tali condotte non sia illecito o volto ad ottenere un personale tornaconto; capita molto spesso, infatti, che l’interessato sia spinto anche solo da motivi di mera gestione e conservazione del potere.
Questo punto è peraltro fondamentale, perché è posto ad un incrocio ideale tra livello di condotta che si può pretendere da un magistrato e modalità di rappresentanza delle toghe nel CSM.
Come si fa ad impedire in modo oggettivo e preventivo a un magistrato in servizio e ben integrato nel sistema delle “correnti”, il cui alto livello di correttezza individuale esigibile sia nel frattempo scemato, di incidere sul corretto funzionamento dell’organo di autogoverno?
Il disegno di legge recante delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario – allo stato ancora in discussione, dopo più di una anno, presso la competente Commissione parlamentare – non aveva intrapreso la strada più coraggiosa e forse risolutiva per spezzare a monte il legame tra rapporti impropri di colleganza (non improntati cioè a correttezza) e influenza delle “correnti” associative sulle nomine: l’individuazione dei componenti togati del CSM mediante sorteggio “selettivo”.
Una decisione di tal fatta avrebbe avuto il sostanziale effetto di sterilizzare la gestione della politica associativa come costruzione di un ponte per gestire potere anche all’interno dell’organo di autogoverno.
Qualsiasi magistrato, in possesso di una specifica anzianità e di un determinato bagaglio di esperienze professionali, potrebbe essere nominato al Consiglio Superiore della Magistratura.
Nessuna campagna elettorale, nessuna azione di proselitismo interno, nessun favore da dovere ricambiare, nessuna gestione del potere.
La strada intrapresa dal Governo è stata però inizialmente un’altra, e cioè quella di stabilire paletti rigidi per la scelta dei futuri capi degli Uffici giudiziari.
Sotto un primo profilo, le funzioni direttive e semidirettive avrebbero dovuto essere conferite, nel disegno immaginato dal Ministro Bonafede, ad esito di un vero e proprio procedimento amministrativo avviato e istruito secondo l’ordine temporale con cui i posti si rendano vacanti, previa audizione dei candidati, dei rappresentanti dell’avvocatura, dei magistrati e dirigenti amministrativi assegnati all’ufficio giudiziario di provenienza dei candidati.
Sotto un secondo versante, era stato deciso di puntare all’acquisizione di una maggiore “esperienza” e “capacità” da parte dei futuri Presidenti e Procuratori, con riferimento alle valutazioni di professionalità richieste, ai requisiti attitudinali individuati, e al conseguimento di un’idoneità ad esito di specifici corsi tenuti presso la Scuola superiore della magistratura.
Al riguardo, la “Commissione Luciani” ha proposto le seguenti modifiche di merito del disegno di legge:
- prevedere, per assicurare la funzionalità delle procedure selettive, la facoltà di “ragionevoli e giustificate” (quindi motivate) deroghe al principio generale dell’ordine temporale delle procedure stesse;
- stabilire un più flessibile adattamento dei corsi tenuti dalla Scuola superiore della magistratura alle esigenze che questa, di volta in volta, riterrà meritevoli d’essere perseguite;
- escludere il ricorso a criteri ponderali allo scopo di tenere conto dell’esigenza di una valutazione complessiva dei candidati;
- bilanciare l’esigenza di un’adeguata predeterminazione tramite fonte primaria dei criteri di valutazione dei candidati a funzioni direttive o semidirettive con quella di lasciare un margine di ragionevole discrezionalità all’attuazione da parte del CSM, nell’esercizio di un’autonomia che viene definita espressamente come “normativa”, di modo che il CSM affidi gli incarichi direttivi e semi-direttivi sulla base di indicatori, generali e specifici, individuati dal legislatore delegato, ma senza un’eccessiva compressione della sua autonomia;
- valutare le esperienze pregresse con specifico riferimento ai risultati conseguiti, alle capacità relazionali dei candidati, nonché alle loro competenze ordinamentali, con individuazione, per coloro che hanno maturato esperienze fuori dal ruolo organico della magistratura, di parametri capaci di far apprezzare l’acquisizione di competenze coerenti con l’incarico a cui il magistrato ambisce.
La Commissione Giustizia incardinata presso la Camera dei Deputati è tuttavia allo stato “paralizzata” nella trattazione degli emendamenti al disegno di legge in materia di riforma della magistratura, in attesa delle ulteriori proposte emendative dell’attuale Governo, su cui sta lavorando il team della Ministra Cartabia.
Tuttavia, non mancano le voci critiche rispetto alla intenzione dell'Esecutivo di proporre come legge elettorale per il Consiglio superiore della magistratura un sistema con sette collegi binominali.
Secondo taluni, se tale soluzione venisse accolta, la nuova legge elettorale finirebbe con il favorire un sistema maggioritario, che se è utile a garantire maggioranze stabili nei sistemi politici, non si attaglierebbe invece alla magistratura, che è per definizione composta da magistrati che devono essere autonomi e indipendenti. Si prospetta pertanto l’ipotesi alternativa di puntare sul cosiddetto “sorteggio temperato”.
Resta il nodo di fondo. Si tenta di imbrigliare l’influenza delle “correnti” nelle decisioni sugli incarichi direttivi e semi-direttivi tramite la modifica dei sistemi elettorali e l’elaborazione di più stringenti criteri di valutazione, ma residuerà necessariamente un margine di valutazione opinabile e di merito riservato al CSM.
Ad oggi, le delibere del CSM in tema di conferimento di funzioni direttive - al di là di elementi specifici, quali ad esempio, esperienza nel settore di riferimento (civile o penale, etc.) precedente esperienza direttiva o organizzativa, anzianità di servizio -, sono espressione dell’esercizio di un’ampia discrezionalità, dovendosi scegliere il magistrato più adatto “per attitudini e merito”, a ricoprire un determinato incarico. Si tratta quindi di atti, quanto a grado di discrezionalità, almeno al confine con quelli di “alta amministrazione”.
Il giudizio effettuato dal CSM è un giudizio sintetico e unitario, cioè non analiticamente rivolto a giustificare la prevalenza di ogni singolo parametro, ed è di tipo comparativo.
In particolare, secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale del Giudice amministrativo – a cui è affidato il controllo delle delibere in materia di incarichi interni adottate dal CSM -, nel conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi, il Consiglio Superiore gode di un apprezzamento che è sindacabile in sede di legittimità solo se inficiato da irragionevolezza, omissione o traviamento dei fatti, arbitrarietà o difetto di motivazione, restando dunque preclusa al sindacato giurisdizionale la valutazione dell’ ”opportunità o convenienza” dell’atto dell’organo di autogoverno.
Paradossalmente, però, restando intatta la possibilità del Giudice amministrativo di verificare, in sede giudiziale, la puntuale ed effettiva verifica del corretto e completo apprezzamento dei presupposti di fatto costituenti il quadro conoscitivo posto a base della valutazione, la coerenza tra gli elementi valutati e le conclusioni a cui è pervenuta la deliberazione, la logicità della valutazione, l’effettività della comparazione tra i candidati, e dunque, in definitiva, la sufficienza della motivazione, la valutazione di merito espressa dal CSM resta sempre esposta, al di là delle stringenti indicazioni normative a cui è vincolata, ad un diverso apprezzamento da parte del suo “controllore” giurisdizionale.
E per gli incarichi direttivi nella Magistratura amministrativa?
Qui la questione sembra apparentemente più semplice, perché il conferimento dell’incarico direttivo presuppone la nomina del candidato più anziano che abbia previamente superato il giudizio di idoneità, e tale giudizio si incentra sulla verifica della insussistenza di elementi da cui desumere una “non attitudine” all’incarico da conferire, svolgendosi per merito assoluto e non comparativo tra i vari partecipanti all’interpello.
Invero, il regolamento interno per il funzionamento del Consiglio di Presidenza prevede, all’art. 29, che il CPGA fissi “criteri oggettivi e predeterminati per la valutazione sull’idoneità dei magistrati allo svolgimento di funzioni direttive, tenendo conto in ogni caso dell’attitudine all’ufficio direttivo e dell’anzianità di servizio”.
In attuazione della disposizione regolamentare, è stata adottata dall’organo di autogoverno la delibera del 22 ottobre del 2010, il cui articolo 1, comma 2 prevede che il giudizio di idoneità sia compiuto “per merito assoluto secondo l’ordine di ruolo”, in base ai criteri di cui al successivo articolo 3.
Tale disposizione stabilisce a sua volta, per i profili di interesse, che la nomina a Presidente di TAR venga disposta in favore del magistrato in possesso della maggiore anzianità computabile secondo la normativa vigente, “una volta verificata la sua attitudine all’ufficio direttivo da assegnare”. Il giudizio attitudinale tiene conto: dell’attività svolta dal magistrato e, in caso di svolgimento di funzioni di presidenza di collegio, della eventuale mancanza di capacità organizzativa (art. 2, comma 2, lett. a); dell’assenza di ritardi consistenti non giustificati o reiterati nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali (lett. b); dell’assenza di significative violazioni degli obblighi previsti dalle delibere in materia di assegnazione degli affari e carichi di lavoro (lett. c).
D’altra parte, è innegabile, come recentemente chiarito dal Consiglio di Stato (1), che il conferimento di un ufficio direttivo richiede sempre la sottoposizione al giudizio attitudinale, in quanto la normativa primaria non consente di arrestare la valutazione al mero computo dell’anzianità, come unico criterio di attribuzione automatica delle funzioni direttive.
L’art. 21 della legge 27 aprile 1982 n. 186 stabilisce infatti che “I consiglieri di Stato e i consiglieri di tribunale amministrativo regionale, al compimento di otto anni di anzianità nelle rispettive qualifiche, conseguono la nomina alle qualifiche di cui al n. 2) del precedente art. 14, nei limiti dei posti disponibili, previo giudizio di idoneità espresso dal consiglio di presidenza sulla base di criteri predeterminati che tengano conto in ogni caso dell’attitudine all’ufficio direttivo e dell’anzianità di servizio”.
Seguendo questa regola, non si può prescindere dal giudizio attitudinale neanche quando il candidato sia già titolare di un ufficio direttivo.
Gli elementi di cui tenere conto ai fini di tale giudizio non sono poi esclusivamente quelli insorti fino alla scadenza del termine per partecipare all’interpello, in quanto l’art. 2, comma 5 della delibera 22 ottobre 2010 pone un limite temporale soltanto per la verifica del “possesso dei requisiti” richiesti per la partecipazione e non anche per la verifica dell’attitudine ad assumere l’incarico direttivo.
Anche nel caso degli incarichi direttivi dei magistrati amministrativi, il sindacato del Giudice dovrebbe arrestarsi alla verifica della sussistenza di profili di travisamento dei fatti o di un’illogicità palese nella valutazione discrezionale esercitata dall’organo di autogoverno, in coerenza con i criteri individuati dalla richiamata delibera consiliare del 22 ottobre 2010.
In particolare, tra gli elementi oggetto di valutazione, il CPGA può utilizzare legittimamente anche quelli desumibili da un procedimento disciplinare a carico del candidato all’incarico direttivo, e perfino se questo procedimento disciplinare si sia poi concluso con l’archiviazione.
Può infatti succedere che la condotta “non ortodossa” del magistrato non superi la soglia di lesività della funzionalità dell’ufficio, e dunque non venga ritenuta disciplinarmente punibile in concreto, ma ciò non toglie che nel corso del giudizio di idoneità possa essere data rilevanza alla circostanza che quella stessa condotta abbia realizzato, nella sua consistenza oggettiva, un elemento negativo di valutazione attitudinale.
Si pensi ad esempio alla mancata presenza ad un certo numero di udienze da parte di un presidente di Tar monosezionale, che comporti un aggravio di lavoro per il consigliere anziano. Tale elemento fattuale, pur non costituendo un illecito disciplinare punibile, potrebbe – e lo è stato in concreto - essere ritenuto rilevante in termini di “significative violazioni di obblighi in materia di assegnazione di affari e carichi di lavoro”, criterio espressamente indicato dal sopra riportato art. 2, comma 2, lett. c) della delibera del 22 ottobre 2010.
Così, ulteriori circostanze oggettive – come ad esempio la presenza di dati statistici da cui emerge che il Tar presieduto da un candidato ad altro incarico presidenziale ha avuto un significativo e non giustificato aumento delle pendenze – possono concorrere, pur in assenza di una specifica istruttoria sul punto, ad un giudizio con esito di inidoneità, specie se l’Ufficio per cui è stato indetto interpello costituisca un Ufficio con caratteristiche tali, in termini di ampiezza e contenzioso, da non potere “tollerare” una presenza saltuaria e non continuativa del suo Presidente.
Certo, viene da chiedersi come possano coesistere un’inidoneità funzionale a ricoprire un determinato incarico in uno specifico Tribunale e una contestuale idoneità funzionale a ricoprire quello stesso incarico in un altro Tribunale.
E se è vero che la rinnovazione del giudizio di idoneità – a prescindere dal fatto che l’incarico per cui si concorre è equivalente a quello già espletato - è una regola coerente con il fondamentale principio di buon andamento dell’azione amministrativa, non si capisce perché la “bocciatura” sancita dall’organo di “vigilanza” in ordine alle capacità direttive ed organizzative dimostrate dal magistrato nel pregresso esercizio delle funzioni presidenziali non debba poi far scaturire un ulteriore procedimento volto alla rimozione tout court di quel magistrato dall’esercizio delle funzioni direttive.
Ma è proprio l’estremizzazione logica delle conseguenze di decisioni assunte o da assumere nell’ambito dell’autogoverno che spesso è stata e viene evitata, allo scopo di conservare appeal nei confronti dei colleghi elettori e per un malinteso senso di solidarietà tra pari, che però rischia di creare figli e figliastri, sulla base delle simpatie del momento. Ed ecco allora che più che indicare possibili linee di reazione immediata a questioni poste all’attenzione della pubblica opinione, la politica dovrebbe identificare le esigenze di più lungo respiro, identificando i problemi strutturali del funzionamento dell’ordinamento giudiziario e più in generale dell’autogoverno della magistratura che trascendono la contingenza, e la cui soluzione appare indispensabile per coniugare i fondamentali valori dell’indipendenza, dell’imparzialità, dell’autonomia e dell’efficienza della magistratura stessa.
In questa ottica, stabilire un quadro normativo primario coerente ed efficace può contribuire di molto alla tenuta di pratiche virtuose da parte degli attori del sistema giustizia.
(1) Consiglio di Stato, sentenza n. 8742 del 31 dicembre 2021