Tribunale sez. I - Genova, sentenza del 20/11/2023, n. 4547
IL CASO E LA DECISIONE
Un pregiudicato veniva fermato e controllato mentre era al volante della sua auto, con a bordo altri soggetti rispetto ai quali il sistema avrebbe poi evidenziato alcuni precedenti di polizia.
Il controllo visivo dell'abitacolo faceva riscontrare agli agenti, nell'immediatezza del controllo, la presenza di una pipa artigianale per l'uso di stupefacenti e di un coltello a serramanico.
La successiva perquisizione personale e della vettura faceva inoltre rinvenire un altro coltello a serramanico, una busta contenente 29 grimaldelli di varie misure, un calibro elettronico con matricola abrasa per pietre preziose e una pietra dall'apparente alto valore economico.
Edotto il conducente dell'autovettura della necessità di ulteriori verifiche da effettuare in Questura, la reazione era in un primo tempo di offerta della pietra probabilmente preziosa per consentirgli di sfuggire al controllo, e successivamente, al diniego da parte degli agenti, una violenta aggressione con tentativo di fuga; riportato alla calma, il soggetto fermato non offriva alcuna spiegazione plausibile sul porto fuori dall'abitazione dei due coltelli a serramanico (oltre a una fiocina da sub) e degli oggetti atti allo scasso.
Dopo l'arresto in flagranza di reato per i due reati di istigazione alla corruzione (offerta della pietra verosimilmente preziosa) e di resistenza a pubblico ufficiale (azione fisica esercitata per contrastare e ostacolare il compimento dell'atto di ufficio da parte dei due agenti di pubblica sicurezza), il successivo giudizio direttissimo si concludeva con una condanna complessiva, nonostante la contestata recidiva reiterata e specifica, che è stata "mitigata" dal Giudice in un anno, 9 mesi e 10 giorni di reclusione per i delitti sopra descritti, e in 2 mesi e 20 giorni di arresto per le contravvenzioni (art. 4 della L. n. 110/1975 quanto al porto d'arma bianca e art. 707 c.p. per il possesso ingiustificato di strumenti atti ad aprire e scardinare serrature, essendo già stato condannato per delitti determinati da motivi di lucro).
In particolare, quanto al reato di istigazione alla corruzione, il Giudice di primo grado ha ritenuto provata l'offerta non accettata dagli agenti della "pietra", al fine di non soggiacere ai controlli di pubblica sicurezza, e dunque alle conseguenza delle proprie azioni delittuose; è stato richiamato sul punto l'orientamento giurisprudenziale secondo cui l'idoneità dell'offerta corruttiva deve essere valutata con giudizio "ex ante", e la condotta può ritenersi inoffensiva solo se manchi l'idoneità potenziale dell'offerta stessa a conseguire lo scopo perseguito dall'autore, purché essa non sia del tutto "irrisoria".
Nel caso di specie, pur essendo, al momento del giudizio, ignota la reale natura della pietra offerta dal reo alle forze dell'ordine, il fatto stesso che gli agenti intervenuti l'abbiano qualificata come "verosimilmente preziosa", e che siano addivenuti a tale valutazione anche per la presenza del calibro accanto ad essa per la misurazione proprio di oggetti preziosi, ha configurato l'idoneità ex ante dell'offerta a costituire il conseguimento di un possibile vantaggio per gli agenti stessi, nel caso in cui avessero decidere di "chiudere un occhio".
NATURA DEL REATO E CONSEGUENZE DELLA CORNICE EDITTALE. CENNI IN MATERIA DI TROJAN
L'art. 322 c.p. disciplina l'ipotesi di istigazione alla corruzione, ritagliandola sulla fattispecie-base della corruzione semplice, propria e impropria.
Si delineano così due condotte penalmente sanzionabili, una in cui l'offerta o la promessa di denaro od altra utilità non dovuti ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio avviene per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, l'altra, in cui tale offerta o promessa viene effettuata per indurre il "funzionario" ad omettere o a ritardare un atto del suo ufficio, ovvero a fare un atto contrario ai suoi doveri.
Presupposto di applicabilità, in ambo i casi, è che l'offerta o la promessa non vengano accettate.
Sul versante opposto, commette istigazione alla corruzione anche il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che "sollecita" la promessa o la dazione di denaro o altra utilità.
In questa secondo tipologia della fattispecie (istigazione alla corruzione commessa dal soggetto "qualificato"), la posizione di parità o di non parità dei soggetti coinvolti giustifica, in linea di principio, la diversità tra i reati di concussione/induzione e istigazione alla corruzione.
In particolare, la tentata concussione (o induzione) si configura quando alla posizione statica di preminenza, di influenza o di autorità che il pubblico ufficiale può vantare rispetto al privato – con correlativa soggezione connaturata al rapporto privato-pubblica amministrazione –, si affianca una costrizione o induzione qualificata, ovvero vista nel suo aspetto dinamico, in quanto posta in essere dal pubblico agente con l’abuso della sua qualità o dei suoi poteri, nella prospettiva di determinare il privato alla successiva promessa o dazione indebita.
Se alla posizione statica non si affianca quella dinamica, e l’iniziativa parte dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, si configura l’ipotesi di istigazione alla corruzione di cui all’art. 322 comma 4 c.p., la quale si differenzia, a sua volta ancora, dalla tentata corruzione, perché è richiesto il contegno positivo di una sola delle parti e non una violazione incompleta degli obblighi di legge da parte di entrambi i concorrenti necessari del reato di corruzione.
Con riferimento alla pena edittale, l'art. 322 c.p. prevede che l'istigazione alla corruzione impropria - sia quella di iniziativa privata che quella che parte dal soggetto "qualificato" - è punita con la pena prevista dall'art. 318 c.p., ridotta di un terzo, ovvero da due a cinque anni e quattro mesi di reclusione; l'istigazione alla corruzione propria - anche in questo caso, qualunque sia il soggetto da cui parta - è punita con la pena prevista dall'art. 319 c.p., sempre ridotta di un terzo, ovvero da quattro a sei anni e otto mesi di reclusione.
Si tratta in ogni caso, come è facile constatare, di una cornice edittale molto severa, che comporta delle conseguenze di non poco conto, specie se a commettere il reato di istigazione alla corruzione impropria è un soggetto "recidivante" (recidiva reiterata e specifica pe reati contro la persona), come nel caso affrontato dal Tribunale di Genova.
Posta la concessione delle attenuanti generiche per lo stato di precaria salute e per la complessiva situazione familiare, sociale e culturale, il Giudice ha peraltro ritenuto di potere escludere la concreta rilevanza nel caso di specie della recidiva contestata, in considerazione dell'epoca di commissione dei delitti e della loro natura, circostanze che non avrebbero connotato negativamente le condotte giudicate all'attualità.
Tenuto inoltre conto del contesto spazio-temporale di commissione dei reati, è stata ravvisata l'esistenza di un medesimo disegno criminoso sotteso alla perpetrazione dei delitti, con conseguente applicazione dell'art. 81 c.p., ma non dell'ultimo comma di esso - che prevede un aumento di almeno un terzo in caso di recidiva - non avendo ritenuto concretamente applicabile la recidiva contestata.
Ciò ha consentito al Giudice di primo grado di applicare "una pena non eccedente i limiti di ragionevolezza", quando invece, a volere essere più rigorosi (esclusione delle circostanze attenuanti generiche e rilevanza della recidiva) la pena finale, esclusa la riduzione per il rito, avrebbe comportato una pena finale non inferiore a sei anni di reclusione, per un fatto che di per sé era effettivamente di moderata gravità.
D'altra parte, la cornice edittale del reato di istigazione alla corruzione (anche impropria) è tale da consentire strumenti investigativi di un certo rilievo. Si pensi ad esempio al captatore informatico, anche meglio conosciuto come "trojan horse"; si tratta di un malware ad accesso remoto che, inoculato in un device, ne permette il pieno controllo, anche tramite attivazione del microfono e acquisizione di file presenti nelle memorie del dispositivo elettronico.
Lo strumento è stato introdotto nell’ordinamento italiano con la legge n. 103 del 23 giugno 2017, come caso di intercettazione tra presenti (artt. 266 e ss. c.p.p.) con una disciplina normativa che ha subìto nel tempo diverse modifiche, alcune più restrittive e altre più "espansive".
Tra le seconde, vi è stato l'allargamento dei reati per i quali è possibile utilizzare il captatore informatico nel luoghi di privata dimora anche quando non se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa; tali reati sono oggi, oltre a quelli di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater del codice di procedura penale, anche i delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni: è dunque da ricomprendere tra i delitti per i quali l'uso del captatore informatico all'interno dei luoghi di privata dimora è sempre ammissibile, previa indicazione delle ragioni che ne giustificano l'utilizzo, anche il reato di istigazione alla corruzione.
Si tratta anzi di una fattispecie "spia" in teoria molto utile in caso di corruttele ramificate, che risente anch'essa oggi, dopo le ultime modifiche di agosto 2023, dell'ulteriore limitazione introdotta dei poteri di autorizzazione del GIP, il quale, oltre alla verifica dell'indispensabilità dell'intercettazione ai fini della prosecuzione delle indagini, deve esporre "con autonoma valutazione" le specifiche ragioni che rendono necessaria "in concreto" l'uso del "trojan" per lo svolgimento delle indagini stesse.
D'altra parte, nel caso dei delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater del codice di procedura penale, e dei delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, non è necessario indicare i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l'attivazione del microfono.
Sotto questo profilo, occorre ricordare che il captatore informatico, diversamente da quanto avviene nelle intercettazioni telefoniche, non registra le conversazioni nella loro interezza ma è "guidato" da remoto dall’operatore di polizia giudiziaria il quale, attivandolo, gli chiederà, tra le altre cose, di registrare le conversazioni tra presenti; si tratta infatti di uno strumento che nasce per dare supporto alle intercettazioni telefoniche e non per sostituirle, in quanto va attivato, in linea di principio, soltanto qualora si abbia contezza di incontri ravvicinati tra l’intercettato ed altri soggetti, le cui conversazioni non verrebbero captate con le intercettazioni telefoniche.
Infine, quanto all'utilizzabilità del materiale probatorio acquisito con il "trojan", i risultati delle intercettazioni possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, qualora risultino indispensabili per l'accertamento dei delitti indicati dall'articolo 266, comma 2-bis del codice di procedura penale, ivi inclusi, dunque, ancora una volta, i delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.