Blog Layout

La “guerra” di competenze tra Stato e Regioni

dalla Redazione • 19 gennaio 2021

Il caos istituzionale tra livelli di competenza è stato soltanto uno dei frutti avvelenati dell’irrompere sulla scena del coronavirus, ma di certo non il meno irrilevante, per le concrete ricadute sulle scelte quotidiane delle persone.

Recentemente, si è riproposta con forza la questione di “chi decide cosa”, tra Stato e Regioni, stavolta in materia di istruzione pubblica.

Il Presidente del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, nell’esercizio dei suoi poteri di organo monocratico, ha esaminato, in sede cautelare, la legittimità dell’ordinanza con cui il Presidente della Regione Lombardia, in data 8 gennaio 2021, ha disposto, per tutto il territorio regionale, il ricorso alla didattica a distanza per il 100% della popolazione studentesca degli istituti scolastici secondari di secondo grado e degli istituti formativi professionali di secondo grado, fatte salve alcune marginali eccezioni.

Tale esame è stato preceduto da una approfondita ricognizione del quadro normativo in cui è stata emessa l’ordinanza regionale, quadro così riassumibile: dal 7 gennaio al 10 gennaio 2021 la didattica ha trovato disciplina nel DPCM 3 dicembre 2020, che la prescriveva in presenza per il 75% degli studenti; dall’11 gennaio 2021 al 16 gennaio 2021, la didattica è stata disciplinata dal d.l. n. 1/2021, che imponeva di garantire l’attività in presenza almeno al 50 per cento della popolazione studentesca delle istituzioni secondarie; nel periodo successivo al 15 gennaio, cessata l’efficacia del DPCM 3 dicembre 2021 e trattandosi di un periodo non disciplinato dal d.l. n. 1/2021, trova nuovamente applicazione il meccanismo introdotto dai d.l. n. 19/2020 e n. 33/2020, in forza del quale, nelle more dell’adozione di un nuovo DPCM – che è stato puntualmente adottato nel penultimo giorno utile - si riattiva la competenza regionale, per l’adozione di misure più restrittive di quelle dettate direttamente dai d.l. n. 19 e 33/2020.

Un vero e proprio rompicapo. Peccato che l’esito, in questo come in altri casi similari – in virtù dell’impossibilità/incapacità di tenere a bada la curva epidemiologica – sia soltanto uno: zona rossa per la Lombardia e di nuovo tutti gli studenti adolescenti a casa. Con tanti saluti alla pure accurata ricostruzione di competenze operata dal Tribunale.

Ma non è certo la prima volta che negli ultimi dodici mesi Regioni e Governo centrale hanno portato davanti a un Giudice i loro “litigi” istituzionali.

Torniamo sugli episodi giudiziari più significativi e sui relativi, a volte bizzarri, risvolti pratici.

Si è cominciato il 27 febbraio 2020 – agli albori di quella che l’OMS ancora non aveva qualificato come pandemia – con il decreto del Presidente del TAR Marche, poi confermato dal collegio giudicante in sede cautelare, che aveva sospeso l’ordinanza della Regione Marche n. 1 del 25 febbraio 2020, recante «misure in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19».

Tale ordinanza – si direbbe in modo lungimirante, con il senno di poi - aveva disposto, nella Regione Marche, e fino al 4 marzo 2020, la sospensione di tutte le manifestazioni pubbliche e dei servizi educativi dell’infanzia, delle scuole di ogni ordine e grado, nonché della frequenza delle attività scolastiche, universitarie (lezioni, esami di profitto e sedute di lauree) e di alta formazione professionale, oltre che la sospensione dell’apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura e delle biblioteche.

Ma, all’epoca, il Governo – eravamo ancora nell’era degli aperitivi di partito e del “Milano non si ferma” - ha ritenuto di dovere impugnare questa ordinanza regionale, tacciandola di “eccesso di prudenza”, che, nel linguaggio del Tribunale, si è tradotto nella contestazione dell’assenza del presupposto individuato dall’art. 1, comma 1, del d.l. n. 6 del 2020, vale a dire che nella zona di interesse non risultava, al momento dell’adozione del provvedimento regionale, “positiva almeno una persona”.

Peccato che poi, immediatamente dopo la sospensione dell’ordinanza, nella stessa Regione Marche sono cominciati a fioccare contagi e decessi, e il Governo centrale ha disposto per tutto il territorio nazionale, con il d.P.C.M. del 4 marzo 2020, proprio quella sospensione delle attività didattiche di ogni ordine e grado che aveva duramente criticato – con apposita azione giudiziaria - soltanto una settimana prima.

Sul finire del primo “lockdown”, cambiate radicalmente le prospettive “prudenziali”, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha impugnato un’altra ordinanza regionale, stavolta della Regione Calabria, nella parte in cui era stato disposto che, sin dalla data di adozione dell’ordinanza, sarebbe stata consentita, nel territorio della Regione Calabria, la ripresa dell’attività di ristorazione, non solo con consegna a domicilio e con asporto, ma anche mediante servizio al tavolo, purché all’aperto e nel rispetto di determinate precauzioni di carattere igienico sanitario.

Con sentenza pubblicata il 9 maggio 2020, il TAR Calabria ha bocciato la misura di “apertura” della sua Regione, per violazione dell’art. 2, comma 1 del d.l. n. 19 del 2020, articolo che attribuiva (e attribuisce) al Presidente del Consiglio dei Ministri il potere di stabilire, con d.P.C.M., tra le altre, anche la misura della limitazione o sospensione delle attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti, nonché di consumo sul posto di alimenti e bevande, compresi bar e ristoranti, lasciando alle Regioni soltanto la possibilità di adottare misure di efficacia locale «nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale», e unicamente a condizione che si fosse trattato di interventi destinati a operare nelle more dell’adozione di un nuovo d.P.C.M. e di misure «ulteriormente restrittive» delle attività sociali e produttive esercitabili nella Regione, giustificate da «situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario» proprie della Regione interessata.

In altri termini, la Regione Calabria non avrebbe potuto “alleggerire” il peso delle misure imposte da Roma ma soltanto “aggravarlo”. Dura lex sed lex, verrebbe da dire. Peccato che, dopo dieci giorni, sia stato lo stesso Governo centrale a “consentire” le attività dei servizi di ristorazione, rimettendo alle Regioni l’accertamento di “compatibilità epidemiologica” e “compatibilità protocollare” del rischio.

Arriva l’estate, le Regioni riprendono il controllo della loro sfera di autonomia e il Governo spinge per il “ritorno” a settembre a scuola.

Ma ecco che il Ministero della Pubblica Istruzione è subito costretto a impugnare un decreto della Regione Piemonte che affianca all’obbligo di misurazione della temperatura corporea degli alunni da parte dei genitori la possibilità di misurazione della stessa anche da parte dell’istituto scolastico.

Il Tribunale stavolta respinge la richiesta di sospensione del provvedimento regionale, rilevando che il provvedimento regionale impugnato integrava e non sovvertiva il contenuto della disciplina statale - in quanto i d.P.C.M. dell’epoca non prevedevano alcuna forma di controllo dell’effettivo avvenuto adempimento, da parte delle famiglie, dell’obbligo di misurare la temperatura corporea -, e il rilievo della temperatura corporea da parte dei genitori e da parte della scuola nei casi necessari (assenza di autocertificazione, sintomi, etc.), rappresentava una misura in grado di ridurre la circolazione del coronavirus.

Sappiamo poi come è andata a finire la vicenda del “ritorno a scuola in sicurezza”. 

Nello stesso giorno, però, in cui il TAR Piemonte bacchettava il Governo, un altro Tribunale censurava, stavolta a favore della Presidenza del Consiglio dei Ministri, le misure “straordinarie” introdotte dalla Regione Sardegna.

Era il 17 settembre 2020 – sembra ormai un secolo fa -, e il TAR competente sospendeva, con decisione monocratica poi confermata in sede collegiale, l’ordinanza del Presidente della Regione Autonoma della Sardegna n. 43 dell’11 settembre 2020, con cui era stata prevista, per tutti coloro che, anche in assenza di sintomi della malattia, intendessero fare ingresso nel territorio regionale (con esclusione di alcuni specifici soggetti), la presentazione, all’atto dell’imbarco, dell’esito di un test (sierologico o molecolare o antigenico rapido), effettuato nelle 48 ore precedenti, in mancanza del quale sarebbe scattato l’obbligo di effettuarlo, a mezzo di tampone, entro 48 ore dall’ingresso nel territorio regionale, in strutture pubbliche o private accreditate presenti nella regione, con “l’isolamento domiciliare”, fino all’esito negativo degli stessi esami.

Il Giudice accoglieva in questo caso le rimostranze del Governo centrale, rilevando che la specifica questione degli spostamenti fra Regioni fosse disciplinata espressamente dal decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, convertito con modificazioni dalla legge 14 luglio 2020, n. 74, che, all’art. 1, commi 3 e 4, stabiliva (e stabilisce) che a decorrere dal 3 giugno 2020, gli spostamenti interregionali e da e per l’estero avrebbero potuto essere limitati solo con provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 2 del decreto-legge n. 19 del 2020, così riservando allo strumento del d.P.C.M., previsto dall’art. 2 del decreto legge n. 19 del 2020, eventuali interventi limitativi della circolazione delle persone sia tra le varie regioni italiane che da e verso l’estero. 

Poco male. L’estate “pazza delle discoteche” era ormai finita e sarebbe bastato aspettare fino al 19 dicembre successivo perché il Governo ripristinasse in via (allo stato) permanente il divieto di spostamento tra Regioni. 

Una menzione d’onore in questo singolare panorama giuridico e normativo spetta poi all’ordinanza del 6 dicembre 2020 del Presidente della Regione Abruzzo, che decide di non aspettare l’ordinanza del Ministero della Salute e di far tornare la sua Regione “arancione” prima del tempo.

Qui il Governo centrale si produce in una vera e propria prova di forza, perché fa sospendere il provvedimento regionale 48 ore prima che lo stesso Ministero della Salute cambi il colore della Regione Abruzzo da rosso ad arancione, esattamente come aveva deciso il Presidente di Regione.

Questione di principio? Forse sì. Il TAR Abruzzo stabilisce la competenza esclusiva del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, a provvedere alla classificazione delle Regioni e Province autonome sulla base di scenari differenti e diversi livelli di rischio, e la legittimità della classificazione prevista dal d.P.C.M. 3 dicembre 2020, derivante dalle risultanze di un complesso sistema di 21 indicatori che misurano non solo l’indice di trasmissione del contagio, ma anche altri elementi (tra i quali, ad esempio, la capacità di risposta del sistema sanitario regionale).

In sostanza, le Regioni possono autonomamente adottare provvedimenti derogatori ma solo in senso più restrittivo e in presenza di specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario. Concetto ormai consolidato.

Ultima, ma solo cronologicamente, nello sciagurato 2020, è stata la decisione del TAR della Valle d’Aosta, che ha respinto con decreto presidenziale pubblicato il 18 dicembre la richiesta di sospensione dell’ordinanza regionale con cui è stata data attuazione, peraltro con limitazioni più stringenti della normativa in vigore nella Regione, alla L.r. n. 11 del 2020. 

In questo caso, però, lo scontro si è spostato alla Corte costituzionale, perché il provvedimento è per l’appunto attuativo di una legge regionale, la n. 11 del 2020 della Regione Valle d’Aosta, che stabilisce maggiori “aperture” rispetto a quanto voluto dal decisore nazionale. 

Ed ecco che, con ordinanza n. 4 del 2021, la Corte costituzionale, su impulso di un ricorso proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri, ha prontamente sospeso la citata legge regionale, inquadrando la materia del contendere nella “profilassi internazionale”, su cui lo Stato ha competenza esclusiva, e rilevando che la sovrapposizione regionale a tale competenza, con misure di minore rigore, potrebbe determinare un aggravamento del rischio su base locale, idoneo a compromettere in modo irreparabile la salute delle persone.

E non è finita certamente qui.

Tante norme, tante sentenze, tante competenze.

Ma il coronavirus non è rimasto disorientato, come pure qualcuno sardonicamente auspicava. Il cittadino, invece, forse sì.


Share by: