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Libertà di manifestazione del pensiero sui social network. Profili problematici visti con gli occhiali di Santi Romano.

Francesco Tallaro • 19 gennaio 2021

È noto a tutti che i più importanti gestori di social network hanno deciso di disabilitare, temporaneamente o definitivamente, i profili dell’ex presidente degli Stati Uniti, Donald J., Trump.

In particolare, gli si imputa di aver fomentato, anche mediante l’uso delle piattaforme social, la rivolta avvenuta a Washington D.C. il 6 gennaio 2021 e, in tal modo, di aver violato quelle regole di condotta (variamente chiamate standard della community, community guidelines, oppure semplicemente regole) che gli utenti sono tenuti a rispettare in forza dei termini di servizio (e cioè delle condizioni contrattuali) cui hanno aderito nel momento della loro iscrizione alle piattaforme social.

Tale evento, il cui impatto politico è dirompente, ha dato ampio risalto al dibattito, invero da tempo già in corso ([1]), sul bilanciamento tra la libertà costituzionale di manifestare le proprie opinioni e la necessità di contrastare i c.d. hate speech (cioè le incitazioni all’odio) su un mezzo così pervasivo come i social network, in un contesto in cui i gestori delle piattaforme social hanno un ampio potere regolatorio che si riverbera nella capacità di incidere profondamente sul dibattito pubblico e sull’ordinato svolgimento della vita degli Stati democratici.

In attesa di leggere più approfonditi contributi della dottrina giuridica americana, i grandi quotidiani anglosassoni hanno ospitato i pareri di importanti giuristi, i quali hanno sottolineato come nell’ordinamento statunitense la disattivazione degli account di Trump sia perfettamente legale. Essa è conforme ai termini di servizio e non è vietata da alcuna legge.

Ma, soprattutto, si tratta di una vicenda che si pone al di fuori della sfera di applicazione sia del primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che vieta al Congresso di approvare leggi che limitino la libertà di parola e di stampa; sia del quattordicesimo emendamento, che estende tale divieto ai singoli Stati e alle amministrazioni locali ([2]).

Ovviamente, non sono sfuggiti i pericoli che possono derivare dal potere dei giganti tecnologici di escludere qualcuno dalla partecipazione ai social network ([3]).

Le c.d. Big Tech, cioè le società che gestiscono i più importanti social network, sono infatti soggetti privati, cui è riconosciuto dall’ordinamento statunitense il diritto di utilizzare gli ingenti mezzi di cui dispongono per propugnare le proprie idee politiche ([4]), sicché le loro decisioni non sono necessariamente neutrali.

Dunque, se oggi l’inibizione ha colpito un preminente uomo politico per la sua condotta ritenuta eversiva dell’ordinamento democratico americano, in futuro l’inibizione potrebbe riguardare uomini pubblici ed opinion leader che, lungi dall’incitare alla rivolta armata contro le istituzioni democratiche, semplicemente siano fautori di politiche invise ai giganti tecnologici e ai multimilionari che li controllano.

Tale possibilità, peraltro, si profila in un contesto di decisioni non trasparenti, a fronte delle quali non esistono al momento, salvo quanto si dirà dopo con riferimento a Facebook, efficaci rimedi ‘interni’ ai social network per contestare una decisione non conforme ai termini di servizio.

Non è poi da sottovalutare il fatto che la disabilitazione dei profili non opera solo sulle manifestazioni di pensiero che siano in contrasto con le regole di condotta della piattaforma. Piuttosto, essa, da un lato, comporta la rimozione di tutti i contenuti pubblicati in passato sull’account, che diventano non raggiungibili in una sorta di damnatio memoriae digitale; dall’altro lato, inibisce anche per il futuro la comunicazione sulla piattaforma digitale, sanzione censoria piuttosto grave se si pensa che, benché esista attualmente una pluralità di strumenti di divulgazione del pensiero, i c.d. social (si pensi non solo a Facebook e Twitter, ma anche a YouTube) sono essenziali per ottenere un elevato livello di penetrazione nel pubblico digitale.

È chiaro, allora, che i gestori dei social network, che nell’età in cui viviamo costituiscono lo snodo principale delle infrastrutture di comunicazione, rivestono un innegabile ruolo pubblico, potendo incidere fortemente sulla vita democratica degli Stati col consentire o meno agli attori della lotta politica l’accesso alle loro piattaforme.

Dunque, se da un lato vi è un crescente consenso sull’idea che le piattaforme digitali e i loro gestori non possano continuare ad essere ritenuti esenti da responsabilità, quanto meno sociali, per alcuni effetti, indubbiamente nefasti, prodotti dall’era social (diffusione di false informazioni e teorie cospirazioniste, polarizzazione estrema e decadimento culturale del dibattito pubblico, agevolazione dei gruppi eversivi dell’ordinamento democratico) e sulla necessità che sia approntato un sistema di interventi attivi di repressione di tali fenomeni negativi; dall’altro lato, si pone il problema della concentrazione del potere, ormai non solo economico, ma anche di controllo dei c.d. big data e, soprattutto, anche politico, nelle mani di quello che è, nella sostanza, un oligopolio digitale. 

Si tratta di tematiche sulle quali saranno presto chiamate a pronunciarsi anche le Corti statunitensi. Intanto, però, il giurista italiano può esaminare i primi approcci della giurisprudenza domestica alla tematica.

È infatti accaduto che nel settembre del 2019 Facebook abbia provveduto a disabilitare gli account riconducibili alle organizzazioni politiche Forza Nuova e Casa Pound. Le due vicende sono solo in parte sovrapponibili. Infatti, i contenuti pubblicati dalle pagine riconducibili a Forza Nuova avevano natura direttamente discriminatoria; al contrario, la pagina di Casa Pound è stata disabilitata perché relativa a soggetto politico che promuove la discriminazione.

In ogni caso, entrambi i provvedimenti di Facebook sono stati portati all’attenzione del Tribunale di Roma, cui è stata chiesta l’emissione di un provvedimento cautelare ai sensi dell’art. 700 c.p.c., al fine di ottenere la riabilitazione delle pagine.

Gli esiti, però, sono stati contrapposti ([5]). E il segno diverso delle decisioni è piuttosto paradigmatico dell’esistenza di vari angoli prospettici di approccio alla problematica: quello che privilegia la correttezza dei contenuti, con l’intento di filtrare i messaggi violenti, di incitamento all’odio e alla discriminazione; e quello che privilegia maggiormente l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero e il pluralismo delle opzioni politiche disponibili ([6]).

Tornando agli esiti dei giudizi cautelari, i gestori delle pagine collegate a Forza Nuova si sono visti respingere il ricorso con ordinanza della Sezione per i diritti della persona e l’immigrazione del 23 febbraio 2019.

Sul piano del diritto, il giudice ha dapprima ricostruito il sistema delle fonti interne e internazionali, che elèvano a rango di principio il divieto di tenere condotte discriminatorie. Quindi, ha ricordato che molte delle c.d. Big Tech, tra cui Facebook, hanno sottoscritto, insieme alla Commissione europea, il Codice di condotta per contrastare l'illecito incitamento all'odio online, con cui hanno assunto una serie di impegni, anche se non giuridicamente vincolanti: predisporre regole e orientamenti per la comunità degli utenti volte a precisare che sono vietate la promozione dell'istigazione alla violenza e a comportamenti improntati all'odio; rimuovere o disabilitare l’accesso a tali contenuti; esaminare rapidamente le segnalazioni di contenuti che promuovano l’istigazione alla violenza e ai comportamenti improntati all'odio.

Le condizioni contrattuali imposte da Facebook agli utenti, costituite dal complesso dei termini del servizio e degli standard della community, i quali consentono la rimozione dei contenuti di natura discriminatoria e la disabilitazione degli account da cui essi provengono, sono dunque coerenti con la cornice normativa nazionale e internazionale.

Ciò posto, sul piano fattuale il Tribunale ha accertato che molti contenuti pubblicati dalle pagine disabilitate avevano natura discriminatoria o comunque incitavano alla discriminazione, e dunque non solo si ponevano in contrasto con le regole interne alla piattaforma social, ma erano addirittura qualificabili come illeciti.

Il sillogismo è dunque sfociato nella valutazione di legittimità della decisione assunta da Facebook.

Al contrario, la Sezione Imprese del medesimo Tribunale, con ordinanza del 12 dicembre 2019 ([7]), confermata poi da collegio in sede di reclamo con ordinanza del 26 maggio 2020, ha accolto il ricorso dei gestori della pagina di Casa Pound.

In quella sede, il giudice, evidenziato il ruolo centrale svolto dal Facebook nel mondo della comunicazione, ha affermato che il rapporto tra il gestore del social network e l'utente non è assimilabile al rapporto tra due soggetti privati qualsiasi, visto che una delle parti, appunto Facebook, ricopre una speciale posizione, in forza della quale essa deve strettamente attenersi al rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali finché non si dimostri la loro violazione da parte dell'utente ([8]).  

Nell’ordinanza con cui è stato respinto il reclamo, si è inoltre precisato che è preclusa all’autonomia privata la limitazione a carico di uno dei contraenti dell’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti, attuata ricollegando al loro esercizio conseguenze negative sul piano contrattuale.

Nel caso di specie, l'esclusione dalla piattaforma di Casa Pound, associazione attiva nel panorama politico italiano sin dal 2009, è stata ritenuta in contrasto con il diritto al pluralismo politico, eliminando o fortemente comprimendo la possibilità per essa di esprimere i propri messaggi politici. Dunque, il Tribunale di Roma ha disposto la riattivazione della pagina.

Non può sorprendere che le opinioni dei giudici divergano nell’affrontare una tematica così nuova.

Si badi: l’oggetto del sindacato giurisdizionale non consiste semplicemente nel determinare se una o più manifestazioni del pensiero abbiano ecceduto i limiti delineati dall’ordinamento, tanto da configurare un illecito o addirittura un reato. Se così fosse, la decisione sarebbe guidata dal testo della legge e da un prezioso strumentario interpretativo elaborato da decenni di giurisprudenza.

Piuttosto, si tratta, come già anticipato, di verificare se il naturale e necessario potere di regolamentazione dell’uso delle piattaforme social possa spingersi sino a conformare la manifestazione del pensiero e a censurare gli autori delle condotte devianti.

Evidentemente, solo una profonda riflessione da parte di giuristi e degli scienziati della politica e il lento lavorio della giurisprudenza potranno individuare un punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze.

Nondimeno, a parere di chi scrive l’approccio alla problematica può avvenire mediante un’efficace, benché risalente a oltre un secolo addietro, chiave di lettura, e cioè gli studi di Santi Romano sull’ordinamento giuridico ([9]).

Va ricordato che per l’Autore l’ordinamento giuridico non si esaurisce nelle norme giuridiche, di cui è invece un antecedente ontologico, ma si sostanzia in un’istituzione funzionante e concreta, cioè un corpo sociale. Ciò chiarito, è elemento essenziale del pensiero del Romano la pluralità degli ordinamenti giuridici, che interagiscono variamente tra di loro.

Lo Stato, l’ordinamento internazionale, la Chiesa cattolica, l’organizzazione imprenditoriale, la famiglia, i gruppi criminali rappresentano plasticamente l’idea della pluralità ordinamentale. Ognuno di questi corpi è dotato di un’organizzazione effettiva, dalla quale scaturisce un insieme di norme. Un ordinamento può ricomprenderne un altro, cui è sovraordinato e a cui può assicurare un margine più o meno ampio di autonomia (si pensi al rapporto Stato/organizzazione imprenditoriale o al rapporto Stato/famiglia); oppure vi può essere un coordinamento tra due ordinamenti (si pensi al coordinamento concordatario dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica; o al complesso rapporto tra Stati e ordinamento internazionale); e, ovviamente, vi può essere contrapposizione tra i due ordinamenti (lo Stato che proibisce e punisce l’organizzazione criminale).

Ecco, non vi è dubbio che i social network possano essere ricostruiti in termini di ordinamento giuridico: vi è una struttura organizzata, cui aderiscono folle multinazionali di soggetti e la cui vita è organizzata da un complesso di regole.

Ovviamente, si tratta di corpi sociali non strutturati su una base democratica: l’organizzazione appartiene a soggetti privati che pongono, modificano, abrogano le regole di condotta sostanzialmente ad libitum. E, d’altra parte, la democraticità non è elemento essenziale degli ordinamenti giuridici.

Si tratta, però, di ordinamenti giuridici sicuramente dotati del requisito dell’effettività, nell’ambito dei quali si stanno addirittura sviluppando gli embrioni di funzioni che caratterizzano gli ordinamenti più complessi, come gli Stati.

È noto, infatti, che Facebook ha istituito un Independent Oversight Board, cioè un comitato di supervisione, chiamato ad esprimersi in maniera vincolante, su ricorso dell’utente, nei casi controversi di gestione dei contenuti prodotti dagli utenti ([10]).

Altrettanto di pubblico dominio è il progetto, sempre riferibile a Facebook, di creare una criptovaluta, denominata Diem, con la quale si potranno eseguire transazioni commerciali e si potrà avere accesso a servizi bancari e finanziari ([11]).

Dunque, i giudici che vengono chiamati a decidere le controversie, insorte tra gli utenti dei social network e i gestori di tali piattaforme in ordine alla gestione delle modalità di manifestazione del pensiero, debbono indossare gli occhiali di Santi Romano.

Così scorgeranno nella controversia portata d’innanzi a loro non solo uno scontro tra le diverse ragioni di soggetti privati, ma anche un momento di verifica del rapporti tra due ordinamenti giuridici. Ordinamenti molto diversi tra di loro (l’uno cui è necessario far parte, l’altro ad adesione volontaria; l’uno territoriale, l’altro virtuale e perciò transnazionale), ma entrambi reali ed effettivi.

Avendo chiara questa dimensione, i giudici degli Stati democratici potranno consapevolmente discernere in quale misura le regole di un ordinamento giuridico scaturito dall’attività imprenditoriale di un soggetto privato debba conformarsi ai princìpi costituzionali degli Stati democratici, avendo peraltro ben presente che il punto problematico cruciale che si profila all’orizzonte è quello dell’effettività delle decisioni giurisdizionali.


[1] Si veda, O. Pollicino, G. De Gregorio, Hate speech: una prospettiva di diritto comparrato, in Giornale Dir. Amministrativo, 2019, 421; con particolare prospettiva verso la responsabilità del provider per i contenuti illeciti nell’ordinamento italiano, si rimanda, invece, a L. Diotallevi, Internet e social network tra «fisiologia» costituzionale e «patologia» applicativa, in Giur. Merito, 2012, 2508B; F. Camilletti, Alcune considerazioni sui profili giuridici dei social network, in Contratti, 2017, 451..

[2] Va però segnalato che sta emergendo una teoria che qualifica i social network come fori pubblici e applica loro la state action doctrine, vale da dire quella teoria che, a partire dal noto caso Marsh v. Alabama, 326 U.S. 501 (1946), ritiene che, in determinate ipotesi, un soggetto privatosia tenuto a garantire le libertà sancite dal Primo Emendamento alla stregua di una qualunque istituzione pubblica. Si veda K. Klonic, The New Governors: The People, Rules, and Processes Governing Online Speech, in Harvard Law Review, 2018, 1599

[3] Si vedano, in particolare, E. Volokh, Trump Was Kicked Off Twitter. Who’s Next?, in New York Times dell’11 gennaio 2021; e Z. Teachout, We’re better off without Trump on Twitter. And worse off with Twitter in charge, in Washington Post del 14 gennaio 2021

[4] In questo senso si pronunciata la Suprema Corte nella sentenza Citizens United v. Federal Election Commission, 558 U. S. ____ (2010).

[5] Si cui si rinvia, per un approfondimento a B. Mazzolari, La censura su piattaforme digitali private: il caso Casa Pound c. Facebook, in Il Diritto dell'Informazione e dell'Informatica, 2020, 109, che esamina più ampiamente il fenomeno della censura sui social network

[6] Lo sottolinea B. Mazzolari, Hate speech e comportamenti d'odio in rete: il caso Forza Nuova c. Facebook, in Il Diritto dell'Informazione e dell'Informatica, 2020, pag. 581

[7] Criticamente annotata da A. Quarta, Disattivazione della pagina Facebook. Il caso Casapound tra diritto dei contratti e bilanciamento dei diritti, in Danno e Resp., 2020, 487A, che ritiene errata la ricostruzione civilistica del contratto di servizio.

[8] P. Villaschi, Facebook come la RAI?: note a margine dell’ordinanza del Tribunale di Roma del 12.12.2019 sul caso CasaPound c. Facebook, in Osservatorio costituzionale, 2/2020, critica però la mancanza di solide basi teoriche al riconoscimento di una dimensione pubblica ai social network.

[9] S. Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1918; ristampato nel 2018 da Quodlibet.

[10] Tutte le informazioni su tale organo sono disponibili sulla pagina https://oversightboard.com/ .

[11] Al seguente link è possibile leggere il c.d. libro bianco della criptovaluta: https://www.diem.com/en-us/white-paper/ .


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