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La responsabilità diretta dei magistrati

a cura di Paolo Nasini • 1 agosto 2021

1. Premessa

Sono stati presentati sei quesiti referendari aventi ad oggetto la “giustizia”, promossi dal Partito Radicale e da Matteo Salvini e la Lega, ma con l’impegno, nella raccolta delle firme, anche di Forza Italia, Nuovo PSI, UDC, PSI: i quesiti concernono i temi dell’elezione del Csm, della responsabilità diretta dei magistrati, dell’equa valutazione degli stessi, della separazione delle carriere, dei limiti agli abusi della custodia cautelare, dell’abolizione della legge Severino.

Con il presente lavoro si intende esaminare il quesito n. 2 relativo alla c.d. “responsabilità diretta dei magistrati”.

L’iniziativa referendaria, con riferimento, in particolare, al quesito in questione, non pare tanto finalizzata al miglioramento della “macchina giudiziaria”, quanto, piuttosto, a dar soddisfazione a quella, sempre soffocata (fortunatamente), spinta “punitiva” nei confronti della magistratura: si tratta di un istinto che agita non solo buona parte del mondo politico, ma anche della popolazione che del continuo clima ostile nei confronti della magistratura viene nutrita attraverso i mezzi di informazione.

Si tratta di spinte semplicistiche “verso il basso” incuranti del contesto ordinamentale e dei principi costituzionali che rendono particolare e speciale il ruolo della magistratura, la cui attività, se certamente non può andare esente da una disciplina della responsabilità civile che tuteli adeguatamente coloro che sono ingiustamente danneggiati dalla stessa, dall’altro lato, presenta dei connotati talmente rilevanti da essere contemplati da specifiche norme costituzionali che impongono al legislatore di garantirne il rispetto nel bilanciamento sotteso all’approvazione delle norme giuridiche che disciplinano la suddetta responsabilità.


2. Il contesto normativo. 

L’art. 28 della Costituzione prevede la diretta responsabilità dei funzionari e dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, secondo le leggi penali, civili e amministrative, per gli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.

Con riferimento ai magistrati, d’altronde, la norma suddetta viene a dover essere “bilanciata” con i valori del Titolo IV della seconda Parte della Costituzione, nella misura in cui tra i principi fondamentali che governano la magistratura vi sono quello della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), quello dell’indipendenza della magistratura (art. 104, primo comma, e 108, secondo comma, Cost.) e quello della terzietà ed imparzialità del giudice (art. 111, secondo comma, Cost.).

La legge 13 aprile 1988, n. 117 [1] (c.d. legge Vassalli), approvata a seguito del referendum 8-9 novembre 1987, ha riformato in modo compiuto la previgente disciplina della responsabilità civile dei magistrati [2], tentando un adeguato contemperamento del principio di responsabilità civile dei giudici, in linea con quanto previsto dall’art. 28 Cost., con l’altro fondamentale principio della salvaguardia dell’indipendenza e autonomia della funzione giurisdizionale. 

Questo bilanciamento si reggeva su tre pilastri: azione solo di rivalsa e non già diretta; sussidiarietà di quest’ultima e quindi anche della prima; filtro di ammissibilità.

La normativa così approntata ha suscitato, d’altronde, negli anni, critiche [3] che hanno portato anche alle sollecitazioni della Corte di Giustizia Europea e ad una procedura di infrazione da parte della Commissione Europea [4]: ciò ha condotto alla c.d. riforma Orlando, di cui alla l. n. 18 del 27 febbraio 2015, entrata in vigore il 19 marzo 2015, che è, in particolare, intervenuta ampliando le fattispecie di colpa grave [5], eliminando il filtro di ammissibilità della domanda [6] e modificando, in parte, la disciplina della rivalsa dello Stato verso il magistrato responsabile. Inoltre, ha ampliato i casi di risarcimento del danno non patrimoniale     [7].

La normativa attualmente vigente, per espressa previsione dell’art. 1, si applica a tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l'attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni [8], anche ai magistrati che esercitano le proprie funzioni in organi collegiali.

L’art. 2, quindi, attribuisce, a colui il quale subisce un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia, il diritto di agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali [9].

Al riguardo, la colpa grave [10] è costituita dalla violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea, dal travisamento del fatto o delle prove, ovvero dall'affermazione di un fatto la cui esistenza é incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o dalla negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero dall'emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione [11].

Il comma 3 bis [12], poi, ha previsto che, fermo restando il giudizio di responsabilità contabile di cui al d.l. 23 ottobre 1996, n. 543, conv. con modif., da l. 20 dicembre 1996, n. 639, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell'inescusabilità e della gravità dell'inosservanza. In caso di violazione manifesta del diritto dell'Unione europea si deve tener conto anche della mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 267, par. 3, TFUE, nonché del contrasto dell'atto o del provvedimento con l'interpretazione espressa dalla CGUE.

Al di fuori di quanto sopra, e salvi i casi di dolo, nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove[13]

Il diniego di giustizia, invece, è costituito dal rifiuto, dall'omissione o dal ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell'atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria. Se il termine non è previsto, debbono in ogni caso decorrere inutilmente trenta giorni dalla data del deposito in cancelleria dell'istanza volta ad ottenere il provvedimento[14].

Ai sensi dell’art. 4, l'azione di risarcimento del danno contro lo Stato deve essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri [15].

L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato, d’altronde, può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e, comunque, quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno [16].

Una delle novità importanti della l. n. 18 del 2015, come detto, è stata l’abrogazione dell’art. 5 che prevedeva il c.d. “filtro”[17].

L’art. 6, nel disciplinare l’intervento in causa del magistrato, il cui comportamento, atto o provvedimento rileva in giudizio, precisa che egli non può essere chiamato in causa, ma può intervenire in ogni fase e grado del procedimento, ai sensi di quanto disposto dell’art. 105, comma 2, c.p.c., e, a tal fine, il presidente del Tribunale deve dargli comunicazione del procedimento almeno quindici giorni prima della data fissata per la prima udienza.

Il comma 2 precisa che la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro lo Stato non fa stato nel giudizio di rivalsa se il magistrato non è intervenuto volontariamente in giudizio e non fa stato nemmeno nel procedimento disciplinare [18].

L’azione di rivalsa [19], da parte dello Stato, in caso di condanna è disciplinata dall’art. 7 [20], ai sensi del quale il Presidente del Consiglio dei ministri, entro due anni dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale, ha l'obbligo di esercitare l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato nel caso di diniego di giustizia, ovvero nei casi in cui la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove, di cui all'art. 2, commi 2, 3 e 3 bis, sono stati determinati da dolo o negligenza inescusabile.

In nessun caso la transazione è opponibile al magistrato nel giudizio di rivalsa o nel giudizio disciplinare.

La misura della rivalsa, d’altronde, non può superare una somma pari alla metà di un’annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità. Tale limitazione di esposizione non si applica al fatto commesso con dolo. 

Il doppio binario della responsabilità del magistrato comporta che lo stesso, per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento, è esposto all’azione disciplinare che, ai sensi dell’art. 9, comma 1 [21], il Procuratore generale presso la Corte di cassazione per i magistrati ordinari o il titolare dell'azione disciplinare negli altri casi, devono esercitare, salvo che non sia stata già proposta, e ferma restando la facoltà del Ministro della giustizia di cui all’art. 107, comma 2, Cost. 

Il comma 3 della norma, al riguardo, prevede che <<la disposizione di cui all'articolo 2, che circoscrive la rilevanza della colpa ai casi di colpa grave ivi previsti, non si applica nel giudizio disciplinare>>.

Nel caso, poi, in cui il magistrato, nell'esercizio delle sue funzioni, abbia commesso un fatto costituente reato, dal quale sia derivato un danno a un soggetto, quest’ultimo, ai sensi dell’art. 13, ha diritto al risarcimento nei confronti sia direttamente del magistrato, sia dello Stato. In tal caso, l'azione civile per il risarcimento del danno e il suo esercizio anche nei confronti dello Stato come responsabile civile sono regolati dalle norme ordinarie. Lo Stato, condannato al risarcimento nei confronti del danneggiato, esperisce l’azione, non di rivalsa, ma di regresso, nei confronti del magistrato, secondo le norme ordinarie relative alla responsabilità dei pubblici dipendenti [22].

L’art. 14, poi, è bene sottolinearlo, prevede espressamente che le disposizioni del d.p.r. 117 del 1988 non pregiudicano il diritto alla riparazione a favore delle vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione.



3. Le conseguenze delle modifiche apportate dalla legge Orlando

La legge Orlando [23] ha modificato la precedente legge Vassalli eliminando quegli elementi (il filtro di inammissibilità, la limitazione risarcitoria del danno non patrimoniale, la più ridotta portata della colpa grave) che impedivano di garantire l’effettività della tutela risarcitoria del danneggiato, pur tentando il bilanciamento di tale esigenza con la fondamentale salvaguardia delle prerogative di autonomia e indipendenza che caratterizzano la funzione giurisdizionale e che la distinguono in modo essenziale da qualsiasi altro “pubblico ufficio” di cui all’art. 28 Cost. 

D’altronde, la riformulazione dell’art. 2 della legge Vassalli, fa sorgere, almeno in teoria, il pericolo di un pervasivo sindacato sul provvedimento giurisdizionale e sull’attività valutativa, in fatto e diritto, del giudice, alla luce della rilevante eliminazione del requisito della «negligenza inescusabile» che, nella originaria formulazione della norma in esame, doveva connotare la colpa grave del magistrato [24]

Il legislatore, al riguardo, per ragioni di coerenza “interna” è andato persino oltre le sollecitazioni provenienti dalla Corte di Giustizia, prevedendo la violazione manifesta del diritto interno e facendo riferimento al travisamento del fatto o delle prove, con limitazione della clausola di salvaguardia al di là dei confini dell’illecito «eurounitario». 

D’altra parte, per scongiurare il rischio di una complessa sovrapposizione di giudizi sulla medesima questione di fatto e di diritto, che consenta di mantenere inalterata l’autonomia, anche di giudizio, di tutti i Giudici, sia di primo grado che di legittimità (in un sistema di impugnazioni di tipo «piramidale»), la violazione del diritto nazionale (così come l’errata valutazione in fatto) che può determinare una responsabilità civile a carico del magistrato deve essere “manifesta” e cioè deve avere una evidenza tale da non richiedere una attività interpretativa, quest’ultima essendo opinabile per definizione. 

Il giudice del processo promosso contro lo Stato deve accertare, infatti, se l’errore sia connotato da colpa grave, si concreti, cioè, in una violazione manifesta della legge, ma per fare ciò sovrappone una propria interpretazione a quella del giudice della cui responsabilità si parla, così incidendo sul “proprium” dell’attività giurisdizionale e, quindi, sull’oggetto dell’indipendenza e autonomia del giudice, caratterizzata anche dalla possibilità di “mutare” indirizzo interpretativo anche nei confronti di orientamenti condivisi dalla Cassazione, proprio al fine di promuovere “un cambiamento di rotta”. 

Al contrario, ammettere una responsabilità a fronte di una non macroscopica errata valutazione in diritto (ammesso che si possa concepire) o mancata o errata considerazione di un elemento di fatto o di prova, ma per una – ritenuta – non corretta valutazione degli stessi, finisce per rendere una attività ontologicamente opinabile ex ante, ingiustificatamente vincolata a valle alla luce della, parimenti opinabile, valutazione data da altro organo giurisdizionale. 

Occorrerebbe, quindi, che l’evidenza dell’errore sia elevata al punto tale da apparire concretamente ingiustificabile, quindi, manifestamente carente, erronea o distorta. 

Sotto altro profilo, l’eliminazione del c.d. “filtro” di ammissibilità della domanda risarcitoria cui all’art. 5, al fine di semplificare il processo e assicurare maggiore effettività alla tutela riparatoria accordata al danneggiato [25], ha certamente fatto venire meno un altro elemento importante che connotava in modo peculiare la disciplina della responsabilità civile del magistrato, al fine di correttamente bilanciare tanto il principio di cui all’art. 28 Cost., quanto quelli di autonomia e indipendenza della magistratura. 

La legge Orlando, in tal senso, pur ampliando significativamente la tutela del danneggiato, ha, dall’altra parte, controbilanciato le modifiche apportate mantenendo significativamente inalterata la previsione, che aveva caratterizzato la legge Vassalli, del divieto di azione diretta nei confronti del magistrato, e della limitazione dell’azione di rivalsa dello Stato.


4. Il quesito referendario: profili di compatibilità costituzionale

Il quesito referendario in esame così recita: «volete voi che sia abrogata la Legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 2, comma 1, limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 4, comma 2, limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 6, comma 1, limitatamente alle parole “non può essere chiamato in causa ma”; art. 16, comma 4, limitatamente alle parole “in sede di rivalsa,”; art. 16, comma 5, limitatamente alle parole “di rivalsa ai sensi dell’articolo 8”?».

Esso, quindi, ha ad oggetto, specificamente, il divieto di azione c.d. “diretta” che, come sopra detto, non è stato “toccato” dalla legge Orlando e che caratterizza lo speciale regime della responsabilità del magistrato nell’ordinamento italiano [26].

Il tentativo di riportare alla luce l’istituto della responsabilità diretta [27] non è nuovo, in passato essendo stato oggetto di vari disegni di legge [28]

Ad oggi l’unico caso di responsabilità diretta ammesso è quello previsto dall’art. 13, comma 1, l. n. 117/1988, qualora il danno causato dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni consegua a un fatto che costituisce reato.

La mancata modifica, da parte della legge Orlando, di tale – fondamentale – regola della responsabilità civile del magistrato, se, da un lato, trova la propria giustificazione nella più volte richiamata necessità di bilanciamento dei principi costituzionali in gioco, dall’altro lato, non sconta alcuna contrarietà con i principi e le direttrici interpretativo-applicative comunitarie, in conseguenza dei quali, come detto, la disciplina modificativa è stata approntata. 

Infatti, se, per un verso, la CGUE ha sanzionato lo Stato italiano per le limitazioni poste dalla normativa interna alla responsabilità civile non del magistrato-persona fisica, ma dello Stato, per altro verso, la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 2010 ha precisato che «soltanto lo Stato, ove abbia dovuto concedere una riparazione, può richiedere l’accertamento di una responsabilità civile del giudice attraverso un’azione innanzi ad un Tribunale» (punto 67) e che «i giudici non devono essere personalmente responsabili se una decisione è riformata in tutto o in parte a seguito di impugnazione» (punto 70).

Sotto altro profilo, poi, questo meccanismo consente di contemperare l'esigenza di garantire il ristoro patrimoniale degli errori giudiziari con la tutela dell'autonomia e dell'indipendenza del magistrato, che non sarebbe parimenti garantita dall'eventualità di citare direttamente lo stesso in giudizio, esponendolo al rischio di ritorsioni e di azioni intimidatorie tese a impedire il sereno svolgimento della funzione giudiziaria e l'introduzione, di fatto, di un ulteriore meccanismo di impugnazione diretto a contestare la decisione al di fuori delle forme previste.

La Corte Costituzionale ha avuto modo di sottolineare come nella disciplina della responsabilità civile dei magistrati sono consentite scelte «plurime» ma non «illimitate», «in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità», «specie in considerazione dei disposti appositamente dettati per la Magistratura (art. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzion [29]

Una modifica del divieto di azione diretta nei confronti del magistrato potrebbe essere foriera di condizionamenti diretti ed indiretti nei confronti del giudice, tanto da rappresentare un attentato ai principi di indipendenza ed autonomia che caratterizzano l’esercizio della funzione giurisdizionale e alla correlata esigenza di salvaguardare l’imparzialità del magistrato: l’azione risarcitoria, infatti, potrebbe rappresentare un indebito strumento di pressione nei confronti del giudice, tale da «indurlo ad una giurisprudenza difensiva ispirata a conformismo giudiziario», ovvero si può dare il pericolo di azioni di responsabilità – velleitarie ed infondate – proposte al solo scopo di presentare istanza di ricusazione nei confronti del magistrato coinvolto nell’azione civile, e liberarsi in tal modo di magistrati scomodi, o temuti, o sgraditi [30]

In tal senso, quindi, alla garanzia del diritto di difesa (art. 24 Cost.), del principio del giusto processo (art. 111 Cost.), e, quindi, dell’effettività della tutela dei loro diritti nella singola controversia, agli utenti del servizio giustizia, deve corrispondere, attraverso una ragionevole disciplina della responsabilità dei magistrati, una particolare attenzione alla necessità di salvaguardare la particolarità della funzione giurisdizionale: tale bilanciamento impone, da un lato, come detto, di circoscrivere la responsabilità da “errato giudizio” ai casi manifesti ed evidenti, e, dall’altro lato, di preservare la delicatezza dell’attività giurisdizionale da pericoli di influenza esterna che in nessun modo rispondano e siano funzionali alla salvaguardia dell’esigenza di tutela degli utenti del servizio giustizia.

Se si considera, quindi, l’ampliamento di tutela operato dalla legge Orlando e sopra ricordato, si può cogliere come, ormai, la “coperta” del bilanciamento sia oggettivamente troppo corta per essere modificata, tanto più se l’intenzione è quella di incidere su un elemento cardine quale quello del divieto di azione diretta. 

È fondamentale, al riguardo, al fine di escludere qualunque compatibilità costituzionale di una modifica che comporti l’introduzione dell’azione diretta nei confronti del magistrato, riassumere i passaggi “chiave” del ragionamento della Corte Costituzionale nella sentenza 12 luglio 2017, n. 164, ove, nel dichiarare in parte inammissibili e in parte infondate le questioni sottopostele, ha, in particolare, “salvato” la modifica operata dalla legge Orlando avente ad oggetto l’eliminazione del c.d. “filtro di ammissibilità”. 

In particolare, la Corte ha avuto modo di rilevare, per quanto in questa sede di interesse, che: 

- i principi comunitari che hanno influito sull’approvazione stessa della legge Orlando [31] hanno mutato il quadro normativo di riferimento in tema di responsabilità civile dello Stato e del giudice, avendo il legislatore del 2015 ritenuto che, per un verso, l'azione di responsabilità nei confronti dello Stato per i danni conseguenti ad un provvedimento giudiziario non si collocasse in una condizione di equivalenza rispetto alle azioni risarcitorie nei confronti dello Stato in altre materie che non prevedono un "filtro" come quello previsto dalla legge Vassalli e, per altro verso, che l'esperienza applicativa della legge n. 117 del 1988, arrestando le azioni di danno contro lo Stato in larghissima misura nella fase della delibazione preliminare, non avesse garantito l'effettività del risarcimento per il cittadino danneggiato;

- al riguardo, una modifica della disciplina non poteva essere limitata alle sole violazioni del diritto europeo, se non al prezzo di determinare una irragionevole disparità di trattamento rispetto alle violazioni delle norme del diritto nazionale che fossero all'origine, anch'esse, di danno per il cittadino; 

- in materia, d’altronde, occorre perseguire il delicato bilanciamento tra due interessi contrapposti: da un lato, il diritto del soggetto ingiustamente danneggiato da un provvedimento giudiziario ad ottenere il ristoro del pregiudizio patito, posto che «una legge che negasse al cittadino danneggiato dal giudice qualunque pretesa verso l'Amministrazione statale sarebbe contraria a giustizia» [32]; dall'altro, la salvaguardia delle funzioni giudiziarie da possibili condizionamenti, a tutela dell'indipendenza e dell'imparzialità della magistratura, «in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113 Cost.), a tutela della sua indipendenza e dell'autonomia delle sue funzioni» [33]

- la legge Orlando avrebbe operato tale bilanciamento tramite una più netta divaricazione tra la responsabilità civile dello Stato nei confronti del danneggiato e la responsabilità civile del singolo magistrato, puntando, quindi, a superare la piena coincidenza oggettiva e soggettiva degli àmbiti di responsabilità dello Stato e del magistrato, ampliando, cioè, il perimetro della prima a prescindere dai confini, più ristretti, della seconda, così stemperando il meccanico ed automatico effetto dell'accertamento della responsabilità dello Stato sul magistrato nel giudizio di rivalsa; 

- in questo senso, quindi, l’eliminazione del “filtro di ammissibilità” non supera i limiti di ragionevolezza, in quanto non è costituzionalmente necessario che, per bilanciare i contrapposti interessi di cui si è detto, sia prevista una delibazione preliminare dell'ammissibilità della domanda contro lo Stato, quale strumento indefettibile di protezione dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura; 

- tale esigenza, infatti, la quale deve trovare comunque tutela, può essere soddisfatta dal legislatore per altra via, come avvenuto con la legge Orlando, per un verso proprio mediante il mantenimento del divieto dell'azione diretta contro il magistrato e con la netta separazione dei due ambiti di responsabilità, dello Stato e del giudice; per altro verso, con la previsione di presupposti autonomi e più restrittivi per la responsabilità del singolo magistrato, attivabile, in via di rivalsa, solo se e dopo che lo Stato sia rimasto soccombente nel giudizio di danno; per un altro verso ancora, tramite il mantenimento di un limite della misura della rivalsa; 

- proprio il mantenimento di tali elementi di “salvaguardia” consente di depotenziare il pericolo che l'abolizione del meccanismo processuale del filtro determini un pregiudizio alla «serenità del giudice», come pure la temuta deriva verso una «giurisprudenza difensiva», ipotesi, questa, che evidentemente oblitera l'elevato magistero proprio di ogni funzione giurisdizionale.

Quindi, secondo la Corte, l’esigenza di bilanciare il diritto del soggetto ingiustamente danneggiato da un provvedimento giudiziario ad ottenere il ristoro del pregiudizio subìto, con la tutela delle funzioni giudiziarie da possibili condizionamenti, può dirsi salvaguardata dalla legge di riforma n. 18 del 2015, solo in quanto e proprio perché è stato mantenuto il divieto dell’azione diretta contro il magistrato e una disciplina limitativa della azione di rivalsa. 

Di qui, l’inevitabile conseguenza logica per cui la finalità unicamente punitiva che anima la modifica suggerita dal quesito referendario (non essendo la possibilità di aggredire direttamente il patrimonio del magistrato per l’interessato certamente più satisfattiva della solvibilità dello Stato), determinando un netto sbilanciamento dell’equilibrio operato dalla legge Orlando, finirebbe per comportare un pressoché inevitabile contrasto con i principi costituzionali più sopra ricordati. 


5. Riflessioni conclusive. 

E’ notorio come le misure generalizzate, a “taglio lineare” (prendendo in prestito una terminologia economica), non consentono di apportare reali benefici ad una realtà, come quella della magistratura italiana, resa particolarmente complessa dall’insufficienza degli interventi legislativi in materia, che non hanno offerto una soluzione idonea ai difetti che – indubbiamente – la affliggono e che incidono sulla stessa qualità del lavoro della stragrande maggioranza dei giudici, che altro non vogliono che poter svolgere al meglio e serenamente il proprio lavoro. 

Qualora, poi, tali misure consistano in un tentativo, più o meno surrettizio, di punire e sanzionare in via preventiva e generalizzata coloro che svolgono una fondamentale funzione pubblica costituzionalmente tutelata, l’effetto “boomerang” di tali “innovazioni” può essere massimo. 

In questo senso, i problemi di deficit di qualità, produttività e attenzione del magistrato, non si combattono attraverso riforme generali che incidono, in modo generalizzato e irrazionale, sulla qualità e serenità dell’attività giurisdizionale, e che possono determinare pericolose strumentalizzazioni, ma attraverso interventi puntuali che consentano realmente di monitorare i deficit suddetti e di porvi rimedio sia in modo costruttivo – cioè garantendo la funzionalità dell’ufficio -, sia attraverso la certezza ed effettività della sanzione, punendo chi fa meno e peggio, all’interno della magistratura stessa, ponendo a carico dei titolari di uffici direttivi e semidirettivi (da nominare a rotazione, o comunque con criteri “fissi”, non attraverso valutazioni strumentalizzabili degli organi di Autogoverno) obblighi di vigilanza a loro volta adeguatamente sanzionati in caso di omissione [34].

Ci si permetta un parallelismo ardito.

Il tradizionale grembiule della scuola elementare, lungi dall'essere un orpello simil-militaresco che annulla le individualità dei singoli, può garantire di fatto l’uguaglianza, anche formale, annullando le differenze anche solo di natura economico-familiare, e impedire che qualcuno possa, con arroganza, far valere a danno di altri una sua presunta superiorità, in modo tale che emerga in pieno l’ ”essere” del singolo, dato dalla propria capacità di essere un bravo alunno. 

Mutatis mutandis, se proprio si vuole fare qualcosa di concreto per cambiare la mentalità e l’organizzazione della magistratura, eliminandone in modo chirurgico le storture e non praticando dei tagli lineari più dannosi che utili e buoni solo a fini di propaganda politica, si potrebbe tentare di “mettere il grembiule” alla magistratura, eliminando tutte le fonti di differenziazione che non siano quelle della produttività e della qualità del lavoro, e, quindi, da un lato, eliminando gli incarichi extragiudiziari (a parte quelli endogiurisdizionali, come la partecipazione al CSM, ai Consigli giudiziari, alle commissioni di concorso per la magistratura ecc), in particolare tutti gli incarichi presso Ministeri e altri Enti o Amministrazioni, e, dall’altro lato, reintroducendo in maniera forte l’idea che la presidenza di sezione e del Tribunale non è un privilegio o un avanzamento di carriera, perché il Giudice resta sempre un Giudice, ma è, al contrario, un “munus”, che non dà prerogative, ma aggiunge fardelli a carico di chi lo assume. 

Solo così si può sperare di iniziare a raggiungere una giustizia nella giustizia, con riflessi “giusti” nei confronti dei cittadini che alla magistratura si rivolgono per averne, non attraverso riforme che, come quella che conseguirebbe al quesito che precede, finirebbero per lasciare sostanzialmente inalterato l’assetto delle disuguaglianze e delle storture del sistema rischiando, per contro, di peggiorare la qualità e la serenità del lavoro di chi, e come detto, sono la maggior parte, il magistrato lo sa fare bene, producendo molto e con qualità, in silenzio e senza ulteriori orpelli.


[1]
 Recante “Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”. 

[2] Abrogando quella prevista dagli artt. 55, 56 e 74 c.p.c. In forza dell’art. 55, il giudice era responsabile per l’attività funzionale «soltanto» in due casi: 1) quando «è imputabile di dolo, frode o concussione»; 2) «quando, senza giusto motivo, si rifiuta, omette o ritarda di provvedere sulle domande o istanze delle parti e, in generale, di compiere un atto del suo ministero» (cosiddetta responsabilità per «denegata giustizia» o per «diniego di giustizia»). Ai sensi dell’art. 55, comma 2, le «ipotesi previste nel numero 2» del comma 1 potevano «aversi per avverate solo quando la parte ha depositato in cancelleria istanza al giudice per ottenere il provvedimento o l’atto, e sono decorsi inutilmente dieci giorni dal deposito» (cosiddetta «messa in mora» o «diffida ad adempiere»). L’art. 56, comma 1, disponeva che «la domanda per la dichiarazione di responsabilità del giudice non può essere proposta senza l’autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia». L’art. 74 stabiliva che le «norme sulla responsabilità del giudice […] si applicano anche ai magistrati del pubblico ministero che intervengono nel processo civile, quando nell’esercizio delle loro funzioni sono imputabili di dolo, frode o concussione».

[3] In particolare, si lamentava la sostanziale inapplicazione della responsabilità dei magistrati.

[4] Ci si riferisce ai principi affermati dalla Corte di Lussemburgo, riguardo all'obbligo degli Stati membri di riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario commesse da organi giurisdizionali nazionali (anche di ultimo grado), principi con i quali alcune delle limitazioni previste dalla legge n. 117 del 1988 sono state ritenute incompatibili (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa), tanto da dar luogo all'apertura di una procedura di infrazione, decisa in senso sfavorevole per il nostro Paese  da CGUE, sentenza 24 novembre 2011, in causa C-379/10, Commissione europea contro Repubblica italiana, in Giur. cost., 2011, 4717, con nota di A. PACE, Le ricadute sull’ordinamento italiano della sentenza della Corte di Giustizia dell’UE 24 novembre 2011 sulla responsabilità dello Stato-giudice: la Corte, accogliendo il ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione Europea nei confronti dell’Italia, ha affermato che l’art. 2, l. 117 del 1988 – limitando ai casi di dolo o colpa grave la responsabilità del magistrato ed escludendola qualora la violazione del diritto dell’Unione risulti da attività di interpretazione di norme di diritto o di valutazione dei fatti e delle prove da parte del giudice – contrasta con il principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di un proprio organo giurisdizionale di ultimo grado, con conseguente infrazione dell’Italia agli obblighi su di essa incombenti in considerazione di tale principio. In precedenza, il medesimo principio era stato affermato da CGUE 13 giugno 2006, C-173/03, Traghetti del mediterraneo, in Riv. dir. int. priv. e proc., 2006, 1115; CGUE 30 settembre 2003, C-224/01, Köbler, in Riv. dir. int. priv. e proc., 2004, 230. A partire da tale ultima pronuncia la CGUE ha sottolineato che «[...] è nell'ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato, fermo restando che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento».

[5] Il legislatore del 2015 nell’eliminare il riferimento generico alla “negligenza inescusabile” ha reso la disposizione dell’art. 2 più articolata, esplicitandone i contenuti, anche attraverso l’introduzione del comma 3 bis. La legge Orlando, nonostante il mantenimento della clausola c.d. di “salvaguardia” di cui al comma 2 dell’art. 2, ha, di fatto, ridotto lo spazio applicativo di tale clausola, ponendo, in modo esplicito, a carico del magistrato anche ipotesi di potenziale responsabilità per l’attività “interpretativa delle norme” e “valutativa dei fatti e delle prove”.

[6] Ritenuto una delle principali cause di inoperatività della legge Vassalli.

[7] Per i primi commenti alla riforma, cfr. V.M. Caferra, Il processo al processo. La responsabilità dei magistrati, Bari, 2015, spec. 113 ss.; F.P. Luiso, La responsabilità dei magistrati: qualche osservazione dopo che il Senato ha approvato la riforma, in www.judicium.it; I. FERRANTI, Prime riflessioni sulla riforma della legge 13 aprile 1988, n. 117, in Giustiziacivile.com, Articolo, 9 aprile 2015; F. CORTESE-S. PENASA, Brevi note introduttive alla riforma della disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati, in Resp. civ. e prev., 2015, 1026; Aa.Vv., Riforma della responsabilità civile, in Questione giustizia, 2015, n. 3, 157 ss., in particolare i saggi di: E. MACCORA, Introduzione. La nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati: il dibattito culturale dalla legge Vassalli alla legge n. 18 del 2015. Le prospettive future, ivi, 157 ss.; F. BIONDI, Sulla responsabilità civile dello Stato e dei magistrati. Considerazioni a margine della legge n. 18 del 2015, ivi, 165 ss.; E. SCODITTI, La nuova responsabilità per colpa grave ed i compiti dell’interprete, ivi, 175 ss.; G. AMOROSO, Riforma della responsabilità civile dei magistrati e dubbi di legittimità costituzionale dell’eliminazione del filtro di ammissibilità dell’azione risarcitoria, ivi, 181 ss.; F. Dal Canto, La legge n. 18/2015 sulla responsabilità civile dello Stato per fatto del magistrato: tra buone idee e soluzioni approssimative, ivi, 187 ss.; E. CESQUI, Il rapporto tra responsabilità disciplinare e responsabilità civile, non è solo questione procedurale. La legge sulla responsabilità civile alla prova dei fatti, un orizzonte incerto, ivi, 197 ss.; F. VERDE, La responsabilità del magistrato, Bari, 2015; AA.VV., La nuova responsabilità civile dei magistrati (l. 27 febbraio 2015, n.18), in Foro it., 2015, V, 281 ss., in particolare, i saggi di: G. GRASSO, Note introduttive, ivi, 281 ss.; V. VIGORITI, La responsabilità civile del giudice: timori esagerati, entusiasmi eccessivi, ivi, 287 ss.; C.M. BARONE, La legge sulla responsabilità civile dei magistrati e la sua (pressochè inesistente) applicazione, ivi, 291 ss.; G. CAMPANELLI, L’incidenza delle pronunce della Corte di giustizia sulla riforma della responsabilità civile dei magistrati, ivi, 299 ss.; G. GRASSO, La responsabilità civile dei magistrati nei documenti internazionali e negli ordinamenti di Francia, Spagna, Germania e Regno Unito, ivi, 309 ss.; E. SCODITTI, Le nuove fattispecie di «colpa grave», ivi, 317 ss.; G. SCARSELLI, L’eliminazione del filtro di ammissibilità nel giudizio di responsabilità civile dei magistrati, ivi, 326 ss.; G. CIANI, Responsabilità civile e responsabilità disciplinare, ivi, 330 ss.; A. TRAVI, La responsabilità civile e i giudici amministrativi, ivi, 338 ss.; G. D’AURIA, «L’altra responsabilità» dei magistrati, ivi, 340 ss.; R. ROMBOLI, Una riforma necessaria o una riforma punitiva?, ivi, 346 ss.; A. CILENTO, La nuova disciplina della responsabilità civile dei magistrati (l. 27 febbraio 2015, n. 18, in G.U. n. 52 del 4 aprile 2015), in Nuove leggi civ. comm., 2015, 675 ss.

[8] Nonché agli estranei che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria.

[9] L’art. 2, comma 1, lett. a), l. 27 febbraio 2015, n. 18 ha eliminato l’inciso “che derivino da privazione della libertà personale” che limitava testualmente la risarcibilità dei danni non patrimoniali.

[10] Ai sensi del comma 3 dell’art. 2. 

[11] Al riguardo, il comma 3 è stato modificato dalla l. n. 18 del 2015.

[12] Introdotto dalla l. n. 18 del 2015.

[13] Art. 2, comma 2.

[14] Il termine di trenta giorni può essere prorogato, prima della sua scadenza, dal dirigente dell'ufficio con decreto motivato non oltre i tre mesi dalla data di deposito dell'istanza. Per la redazione di sentenze di particolare complessità, il dirigente dell'ufficio, con ulteriore decreto motivato adottato prima della scadenza, può aumentare fino ad altri tre mesi il termine di cui sopra. Quando l'omissione o il ritardo senza giustificato motivo concernono la libertà personale dell'imputato, il termine di cui al comma 1 è ridotto a cinque giorni, improrogabili, a decorrere dal deposito dell'istanza o coincide con il giorno in cui si è verificata una situazione o è decorso un termine che rendano incompatibile la permanenza della misura restrittiva della libertà personale.

[15] Competente è il Tribunale del capoluogo del distretto della Corte d'Appello, da determinarsi a norma dell'art. 11 c.p.p. e dell'art. 1 delle disp. att. c.p.p.

[16] La domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro tre anni, decorrenti dal momento in cui l'azione è esperibile. L'azione può essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tal termine non si è concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale il fatto stesso si è verificato: in tal caso, l'azione deve essere promossa entro tre anni dalla scadenza del termine entro il quale il magistrato avrebbe dovuto provvedere sull'istanza. In nessun caso il termine decorre nei confronti della parte che, a causa del segreto istruttorio, non abbia avuto conoscenza del fatto.

[17] Il Tribunale, sentite le parti, doveva deliberare in camera di consiglio sull'ammissibilità della domanda di risarcimento: a tale fine, il giudice istruttore, alla prima udienza, rimetteva le parti dinanzi al collegio il quale doveva provvedere entro quaranta giorni dal provvedimento di rimessione del giudice istruttore. La domanda era considerata inammissibile in caso di mancato rispetto dei termini o in mancanza dei presupposti di cui agli articoli 2, 3 e 4 ovvero quando doveva ritenersi manifestamente infondata. L'inammissibilità veniva dichiarata con decreto motivato, ed era impugnabile con i modi e le forme di cui all'art. 739 c.p.c., innanzi alla corte d'appello che pronunciava anch'essa in camera di consiglio con decreto motivato entro quaranta giorni dalla proposizione del reclamo. Contro il decreto di inammissibilità della Corte d'appello poteva essere proposto ricorso per Cassazione, che doveva essere notificato all'altra parte entro trenta giorni dalla notificazione del decreto da effettuarsi senza indugio a cura della cancelleria e comunque non oltre dieci giorni. Il ricorso veniva depositato nella cancelleria della stessa Corte d'appello nei successivi dieci giorni e l'altra parte doveva costituirsi nei dieci giorni successivi depositando memoria e fascicolo presso la cancelleria. La Corte, dopo la costituzione delle parti o dopo la scadenza dei termini per il deposito, trasmetteva gli atti senza indugio e, comunque, non oltre dieci giorni alla Corte di Cassazione che decideva entro sessanta giorni dal ricevimento degli atti stessi. La Corte di Cassazione, in caso di annullamento del provvedimento di inammissibilità della Corte d'appello, dichiarava ammissibile la domanda. Scaduto il quarantesimo giorno la parte poteva presentare, rispettivamente al Tribunale o alla Corte d'appello o, scaduto il sessantesimo giorno, alla Corte di Cassazione, secondo le rispettive competenze, l'istanza di cui all'art. 3. Il Tribunale che dichiarava ammissibile la domanda disponeva la prosecuzione del processo. La Corte d'appello o la Corte di Cassazione che in sede di impugnazione dichiaravano ammissibile la domanda rimettevano per la prosecuzione del processo gli atti ad altra sezione del tribunale e, ove questa non fosse costituita, al Tribunale che decideva in composizione interamente diversa. Nell'eventuale giudizio di appello non potevano far parte della corte i magistrati che avevano fatto parte del collegio che aveva pronunziato l'inammissibilità. Se la domanda era dichiarata ammissibile, il Tribunale ordinava la trasmissione di copia degli atti ai titolari dell'azione disciplinare; per gli estranei che partecipavano all'esercizio di funzioni giudiziarie la copia degli atti era trasmessa agli organi ai quali competeva l'eventuale sospensione o revoca della loro nomina. 

[18] D’altronde, il magistrato non può nemmeno essere assunto come teste né nel giudizio di ammissibilità, né nel giudizio contro lo Stato.

[19] Deve essere proposta davanti al Tribunale del capoluogo del distretto della Corte d'appello, da determinarsi a norma dell'art. 11 c.p.p. e dell'art. 1 disp. att. c.p.p.

[20] Come sostituito dalla l. n. 18 del 2015.

[21] Come modificato dalla l. n. 18 del 2015.

[22] In forza del comma 2 bis, dell’art. 13, come introdotto dalla l. n. 18 del 2015, il mancato esercizio dell'azione di regresso, di cui al comma 2, comporta responsabilità contabile. 

[23] Nella Relazione di accompagnamento al disegno di legge n. 1626 (in Atti Senato n. 1626 – XVII Legislatura), Riforma della disciplina della responsabilità civile dei magistrati, presentato al Senato dal Governo in data 24 settembre 2014, si è posto, in particolare, l’accento sull’«esigenza di un riequilibrio delle posizioni politico-istituzionali coinvolte e del superamento definitivo di un conflitto ancora in corso»

[24]In tal senso, la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile ricorre(va) «allorquando nel corso dell’attività giurisdizionale si sia concretizzata una violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma stessa ovvero una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico o l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o ancora lo sconfinamento dell’interpretazione nel diritto libero» (Cass. 26 maggio 2011, n. 11593).

[25] Relazione al d.d.l. n. 1626, cit., 6. Il filtro era considerato, come una tutela eccessiva per il magistrato rispetto al pericolo di azioni «temerarie» e «ricattatorie», tale comunque da dilatare a dismisura i tempi del processo.

[26] Negli ordinamenti di common law il giudice gode di immunità assoluta: negli Stati Uniti, in Canada e nel Regno Unito, Israele, il giudice non può essere mai chiamato a rispondere per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni. In Francia, Belgio, Germania vigono forme di responsabilità indiretta, con limitata possibilità di rivalsa dello Stato: in Francia è prevista una responsabilità civile dei giudici per i loro comportamenti caratterizzati da colpa propria (connessi o meno con l’espletamento del servizio), ma non vi è alcuna azione diretta nei confronti del magistrato; in Germania quando il giudice viola un proprio dovere d’ufficio nei confronti di un terzo la responsabilità ricade sullo Stato, il quale ha un diritto di rivalsa nei confronti del giudice; in Belgio la responsabilità civile incombe sullo Stato, con diritto di rivalsa che scatta, però, solo in caso di dolo o di frode del giudice. Nei Paesi Bassi la responsabilità civile fa capo sempre e soltanto allo Stato e non è previsto alcun diritto di rivalsa nei confronti del magistrato che ha sbagliato.

In Spagna la responsabilità dello Stato concorre invece con quella civile diretta del magistrato, ma è comunque previsto il filtro di un apposito Tribunale per verificare la sussistenza dei presupposti soggettivi del dolo o della colpa grave.

[27] Previsto dalla precedente normativa di cui agli artt. 55, 56 e 74 c.p.c., come sopra ricordato, nota n. 2, ancorché temperato dal particolare filtro previsto dall’art. 56 c.p.c.

[28] Si vedano, tra gli altri, i progetti di legge Borea (A.S., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 1427); Cento e altri (A.C., XIV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 2979); Alberti Casellati (A.S., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 156); Tommassini (A.S., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 284); Forlani (A.C., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 766); Turco e altri (A.C., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 3340); Lussana e altri (A.C., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 1429); Brigandì e altri (A.C., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 1956); Perduca e Poretti (A.S., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 1889); Versace (A.C., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 3285); Laboccetta (A.C., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 3300); Lauro e altri (A.S., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 2390); Garagnani (A.C., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 4069); Bernardini (A.C., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 4148).

[29] C. Cost., n. 18 del 1989.

[30] V.M. CAFERRA, Il processo, cit., 125 ss., 128. 

[31] Si veda nota n. 4. 

[32] Corte Cost. n. 2 del 1968. 

[33] Corte Cost. n. 26 del 1987.

[34] Molti sono gli aspetti sui quali sarebbe opportuno un intervento legislativo e che avrebbero riflessi immediati sull’efficienza del sistema e sul ripristino dell’immagine della magistratura tutta: tra questi certamente, va sottolineata la necessità di incidere drasticamente sulla “corsa agli uffici direttivi e semidirettivi” attraverso, nel primo caso, la fissazione di rigidi parametri di valutazione in modo da ridurre al minimo per non dire annullare la discrezionalità dei Consigli (CSM, CPGA ecc); nel secondo caso, la previsione di una rotazione totale temporanea tra i magistrati della sezione che abbiano maturato un certo minimo di anzianità in ruolo (non di sede) e non abbiano subito una valutazione di demerito. Sotto altro profilo, occorrerebbe, e ciò vale per tutti i plessi di magistratura, limitare ai soli insegnamenti universitari a tempo determinato la possibilità di incarichi extragiudiziari, perché il giudice deve fare solo il Giudice e non il consulente giuridico, l’insegnamento invece essendo una necessaria trasmissione di conoscenza ed esperienza agli studenti, al fine, da un lato, di garantire loro un “contatto” con quel mondo del lavoro cui idealmente aspirano e, dall’altro lato, di cogliere un diverso approccio alle problematiche giuridiche che differenzia chi esercita l’attività giurisdizionale da chi invece svolge attività didattica o la professione forense. Basterebbero queste piccole, ma enormi limitazioni, se considerate su scala globale, per ridimensionare le diseguaglianze concrete tra giudici, così da contribuire a far venire meno qualunque tipo di “merce di scambio” da barattare in seno alle logiche correntizie, azzerando, correlativamente, le “faide interne”.




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