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Referendum sulla giustizia

dalla Redazione • 1 agosto 2021

Sono attualmente “in pista” diversi progetti di modifiche normative afferenti all’impianto complessivo della magistratura, così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi.

I punti di partenza ideali dei singoli progetti sono tutti variamente legati o a un cattivo funzionamento della giustizia in Italia o a una cattiva prova di sé dei magistrati.

Ma la credibilità delle forze politiche che in un modo o nell’altro provano a intestarsi le modifiche ordinamentali è seriamente minata dal sospetto di un interesse di parte nel raggiungimento di determinati obiettivi, variamente orientato a una limitazione del potere giurisdizionale, a un “garantismo” alla cieca e a una sterilizzazione degli effetti delle iniziative giudiziarie sugli equilibri politici, più che a un miglioramento dell’efficienza del sistema giustizia.   

Nel caos politico-istituzionale che è seguito alle ultime elezioni per il Parlamento e alla pandemia, si sono odiernamente intrecciati diversi disegni di riforma, alcuni di matrice governativa e un altro di ispirazione referendaria, che seguono strade separate, anche se in apparenza unitariamente ispirate, per restituire un ruolo di prestigio e di funzionalità alla magistratura.

Occupiamoci più da vicino dei quesiti referendari presentati dalla Lega e dai Radicali il 2 luglio 2021, cercando nel contempo di trovare dei punti di contatto, se vi sono, con la cosiddetta riforma Cartabia e con la riforma ordinamentale della magistratura.

Il primo e il terzo quesito “aggrediscono” la supposta logica corporativa che condizionerebbe la scelta dei componenti togati del CSM e le valutazioni di professionalità dei magistrati.

Il secondo e quarto quesito investono direttamente lo “status” del magistrato, mirando da un lato a stabilire l’immodificabilità in corsa della carriera del magistrato ordinario – chi comincia a svolgere funzioni di P.M. non potrà mai svolgere le funzione di Giudice, e viceversa -, e dall’altro a parificare il magistrato ad ogni altro funzionario pubblico, sotto il profilo della diretta e immediata responsabilità per i danni causati nell’esercizio delle proprie funzioni.

Il quinto quesito referendario vuole diminuire le ipotesi di esigenze di prevenzione sociale (le cosiddette “esigenze cautelari”) previste dal codice di procedura penale, e che devono necessariamente ricorrere per disporre misure cautelari. 

Il sesto quesito chiede, infine, l’abrogazione sic et simpliciter della cosiddetta legge Severino, ovvero del decreto legislativo che ha stabilito disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi.

Ma procediamo con ordine.


1.Scelta dei componenti togati del CSM e valutazioni di professionalità dei magistrati (quesiti n. 1 e n. 3)

Con il primo quesito si propone una modifica del procedimento di elezione del singolo magistrato a componente dell’Organo di autogoverno – ovvero la partecipazione al consesso a cui spettano secondo Costituzione le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati -, tramite soppressione dell’obbligo di presentare, unitamente alla propria candidatura, una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta.

L’effetto diretto è la possibilità per chiunque aspiri ad essere eletto al CSM di proporre la propria candidatura individuale senza dovere già dimostrare una base di consenso (ovvero la lista dei “magistrati presentatori”), il che è in sé astrattamente coerente con una maggiore autonomia e indipendenza nella corsa al CSM del magistrato stesso; l’effetto indiretto, che poi è quello dichiaratamente perseguito dai promotori del referendum, è quello di cercare di depotenziare il ruolo delle correnti nella scelta dei rappresentanti dei magistrati che compongono il CSM.

L’idea è che se non si deve presentare una lista di sostenitori già in partenza, non si dovrà essere necessariamente fedeli a una corrente per essere competitivi.

L’assunto prova troppo, se si pensa che il consenso per essere eletto occorre comunque averlo, e che anche una candidatura “indipendente” dalle correnti deve potere contare su una base elettorale solida, poco importa se formatasi precedentemente o successivamente alla presentazione della candidatura stessa.

In altri termini, forse potrà correre “da solo” un candidato molto autorevole e già noto ai magistrati – magari per iniziative interne, indagini o processi importanti -, ma tutti gli altri dovranno necessariamente avere il sostegno, per essere eletti, di quelle formidabili fonti di consenso, a volte “acritico”, che sono le correnti.

L’obiettivo sarebbe dunque da ritenersi neanche parzialmente raggiunto, in caso di abrogazione della norma. 

La verità è che soltanto il sorteggio può spezzare il cordone ombelicale tra elettori ed eletto – e dare un serio colpo di grazia alle correnti -, ma per tutta una serie di motivi resta un’ipotesi che non viene presa in considerazione, allo stato (si veda al riguardo l'atto della Camera n. 2681 in materia di "Deleghe al Governo per la riforma dell'ordinamento giudiziario e per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura", che ha optato per una diversa scelta di riforma).

Con il terzo quesito si propone una modifica delle competenze spettanti ad avvocati e professori universitari in materie giuridiche all’interno dei Consigli giudiziari – che sono quegli organismi territoriali, istituiti presso ogni Corte di Appello, a cui spetta, tra l’altro, il parere motivato sulla valutazione pluriennale di professionalità dei magistrati -, cancellando la loro attuale esclusione dalle discussioni e deliberazioni che riguardano il suddetto parere.

In altre parole, il giudizio di merito sull’attività svolta nel quadriennio dal magistrato ordinario, ai fini della sua progressione in carriera, non spetterebbe più soltanto ad altri magistrati – che compongono per due terzi il Consiglio Giudiziario – ma vedrebbe il coinvolgimento anche di soggetti esterni alla magistratura.

Il raggiungimento del risultato che il quesito ha di mira – depotenziamento dell'autovalutazione all'interno della magistratura -, seppure coerente con la necessità di aprire una breccia nella supposta autoreferenzialità di essa, sembra peraltro in contrasto con l’articolo 105 della Costituzione, che riserva al CSM le promozioni dei magistrati.

Attualmente, il Consiglio giudiziario adotta un parere obbligatorio che di fatto vincola, ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. n. 160 del 2005, la decisione finale del CSM.

Ma, mentre la presenza nel CSM di soggetti estranei alla magistratura è prevista dalla Costituzione e legittima tale organo, nella sua composizione mista, a deliberare sulle promozioni dei magistrati, la presenza di soggetti estranei alla magistratura non legittimati dalla Costituzione nell’iter della valutazione sulle promozioni dei magistrati – e sulla base di una legge ordinaria – sembra minare il principio di autonomia e indipendenza da ogni altro potere della magistratura previsto dall’art. 104 della Costituzione.


2. Impossibilità di passaggio durante la carriera da una funzione all’altra e responsabilità diretta per i danni causati nell’esercizio delle funzioni (quesiti n. 2 e 4)

Con il quarto quesito i promotori del referendum intendono espungere dall’ordinamento tutte quelle norme che consentono, seppure con particolari cautele e limiti, il passaggio dalle funzioni requirenti (pubblico ministero) alle funzioni giudicanti (giudice civile e penale) – e viceversa – durante la carriera del magistrato.

Si dice che il magistrato dovrà scegliere all’inizio della carriera la funzione giudicante o requirente, per poi mantenere quel ruolo durante tutta la vita professionale.

L’abrogazione delle disposizioni elencate dal quesito referendario farebbe sì che al magistrato che sia stato destinato, all’atto dell’assunzione in servizio, a una funzione – P.M. o giudice -, sia precluso definitivamente di chiedere il passaggio all’altra.

L’effetto di tale abrogazione implica indubbiamente una rilevante distorsione rispetto all’unicità di concorso che caratterizza l’ingresso in magistratura.

Si pensi soltanto che la scelta della sede e della funzione, dopo un periodo di tirocinio in cui il neo-magistrato “sperimenta” tutte le funzioni, non dipende nella grande maggioranza dei casi da una effettiva volontà di volere fare il lavoro di giudice piuttosto che quello di pubblico ministero, ma dalla necessità di recarsi in un luogo, tra i tanti sparsi su tutta la Penisola, che non sia eccessivamente lontano da quello in cui è già radicata la vita personale e familiare del neo-assunto.

In altri termini, un magistrato in tirocinio che preferirebbe fare il giudice ma che vuole o deve restare vicino ai propri affetti, in prima battuta potrebbe essere costretto a scegliere di svolgere la meno gradita funzione di pubblico ministero, seppure con la riserva mentale di cambiare le funzioni assunte non appena possibile, magari in conseguenza di una maggiore anzianità di servizio conseguita.

In egual modo, privare l’interessato della possibilità di un cambio di funzioni nel corso della carriera significa depotenziare la professionalità del magistrato, che può soltanto “arricchirsi”, come per ogni altra professione, a seguito della “sperimentazione” di tutti i risvolti pratici e giuridici di un lavoro che resta di fatto unitario nella sua componente culturale e tecnica.

L’attuale normativa segna un punto di corretto equilibrio tra tali esigenze e il pericolo di contiguità tra il pubblico ministero e il giudice (penale), fermo restando che non vi è materia di antagonismo tra poteri, trattandosi di soggetti che sono comunque al servizio dell’interesse pubblico nell’ambito del potere giudiziario.

Il d.lgs. n. 160 del 2006, infatti, dispone, in linea generale, che il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa Regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di Corte di Appello che ha competenza, per i reati commessi dai magistrati, sul distretto in cui il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni.

E’ previsto inoltre che tale passaggio può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del Consiglio giudiziario.

L’effetto dell’abrogazione richiesta sarebbe inoltre di dubbia costituzionalità, in quanto non si interviene contestualmente sulle modalità di accesso alla magistratura: resterebbe un unico concorso di magistratura che consente di accedere sia alle funzioni giudicanti che a quelle requirenti, a cui seguirebbe una scelta definitiva del vincitore di concorso nell’ambito delle sedi individuate dal CSM, con illegittima compressione dei diritti di quei neo-magistrati “costretti” a scegliere sulla base delle sole sedi disponibili al momento della prima scelta.

Al riguardo, vale la pena di ricordare che l’art. 106 Cost. stabilisce che le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso e l’art. 107 co. 3 Cost. prevede che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni. A Costituzione invariata, pertanto, ed essendo unico il concorso, chi accede alla magistratura ha il diritto di svolgere entrambe le funzioni. Le disposizioni attualmente vigenti – oggetto del quesito referendario – hanno solo la funzione di porre le condizioni per l’esercizio di un diritto costituzionalmente fondato.

Quanto all’esame del secondo quesito (responsabilità diretta dei magistrati) si rinvia, per la complessità del tema, all'approfondimento specifico rinvenibile, sul sito, al seguente link: https://www.primogrado.com/la-responsabilita-diretta-dei-magistrati


3. Riduzione delle ipotesi in cui possono essere disposte le misure cautelari e soppressione della legge Severino (quesiti n. 5 e 6)

Secondo i promotori dei referendum (quesito n. 5), vi sarebbe in Italia un gravissimo abuso della custodia cautelare. Per limitare tale (presunto) abuso, si propone di ridurre la possibilità per il Giudice di disporre (qualsiasi) misura cautelare (e non solo la custodia, che corrisponde alla traduzione in carcere o agli arresti domiciliari), quando vi è il pericolo che l’indagato possa commettere reati della stessa specie.

Più in particolare, si consentirebbe la possibilità di disporre misure cautelari (dall’obbligo di presentazione alla Polizia giudiziaria alla custodia preventiva in carcere), oltre che in caso di pericolo di fuga e di possibile inquinamento probatorio, soltanto nei casi in cui sussista “il concreto e attuale pericolo” che l’indagato “commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l'ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”. 

In pratica, il corruttore seriale e l’estorsore seriale tramite minaccia, tanto per fare un paio di esempi di facile comprensione, non potrebbero mai essere sottoposti a nessuna misura cautelare, se si tratta di soggetti socialmente “validi”, come spesso accade in caso di delitti dei colletti bianchi.

Se non vi è pericolo di inquinamento probatorio (che è già di per sé soggetto a limiti molto stringenti) o pericolo di fuga (difficile da ipotizzarsi per una certa tipologia di individui ben inseriti in società), niente misure preventive, perfino a fronte di clamorose violazioni di legge e “ruberie” nei confronti della collettività.

Invero, sembra che nel bilanciamento fra il diritto di libertà dell’indagato/imputato prima della condanna definitiva e le esigenze di sicurezza sociale sulle quali si fondano le esigenze cautelari, l’intervento proposto provoca un pesante squilibrio in danno delle seconde.

Viene cancellata con un tratto di penna ogni cautela nei confronti di soggetti che spesso e volentieri, anche per le loro connivenza con la criminalità organizzata, sono molto più pericolosi per la società dell’extracomunitario che – non avendo magari nessun radicamento con il territorio nazionale -, ricade sempre, ricorrendone i presupposti di legge, nell’ipotesi del “pericolo di fuga”, anche qualora commetta delitti di scarso impatto sociale. 

Viene altresì cancellata la possibilità di disporre misure cautelari nei confronti di coloro per i quali sussistono gravi indizi di avere commesso il delitto di finanziamento illecito dei partiti, mentre ad esempio la cessione di sostanze stupefacenti, anche di rilevante entità, purché non accompagnata dalla partecipazione ad associazioni per delinquere volte al traffico della droga, con la modifica referendaria diventerebbe un reato per cui l’arresto in flagranza (cioè con l’intervento diretto della polizia giudiziaria durante lo scambio) potrebbe essere paradossalmente seguito dalla immediata rimessione in libertà dell’arrestato.

Va bene la sfiducia in giudici e P.M., ma forse nel dubbio resta meglio affidare a loro – e in ultima analisi alla Cassazione in sede di controllo de libertate – il bilanciamento in concreto delle esigenze di protezione della società, caso per caso.

Ciliegina sulla torta, i promotori del referendum propongono la soppressione integrale del cosiddetto decreto Severino (decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235), cioè delle norme pensate in funzione del contrasto alla corruzione e del rafforzamento della trasparenza della e nella pubblica amministrazione (quesito n. 6).

Si dice che le norme da abrogare avrebbero valore retroattivo e prevederebbero ingiustamente, anche a nomina avvenuta regolarmente, la sospensione di una carica comunale, regionale e parlamentare anche solo se il soggetto in questione venga condannato in primo grado per determinati reati contro la pubblica amministrazione.

Ma la ratio della sospensione sta proprio nell’evitare fenomeni di degenerazione della cosa pubblica con la permanenza nella carica di amministratori che hanno subito una condanna per fatti anche gravi, condanna che, se è vero che non è definitiva, ha comunque già subito il vaglio del dibattimento, dinanzi ad un Giudice terzo, e all’interno di un processo che è tendenzialmente garantista.

E’ un errore poi qualificare come retroattiva una norma che stabilisce semplicemente che chi non può essere candidato perché raggiunto da una determinata condanna per reati contro la pubblica amministrazione, non può per gli stessi motivi restare al suo posto.

In caso contrario, si perverrebbe all’assurdo per cui basta “anticipare” la condanna con l’elezione, in relazione a fatti magari commessi molto tempo prima, per sfuggire poi definitivamente ad ogni tipo di “sanzione”, così incentivando fenomeni di candidature “strategiche” di soggetti in odore di condanna.

E’ paradossale, infine, e fa un po’ sorridere, che i promotori del referendum sostengano che con il verrebbe cancellato l’automatismo del decreto Severino (condanna uguale sospensione) e si restituirebbe ai Giudici la facoltà di decidere se, di volta in volta, in caso di condanna, occorra applicare o meno anche l’interdizione dai pubblici uffici.

Ma non si era detto che i sei quesiti referendari hanno l’obiettivo di ridimensionare l’arbitrio e lo strapotere della magistratura italiana?

Se a tutto ciò si aggiunge che la recente riforma Cartabia - in approvazione in questi giorni in Parlamento - ha risolto il problema della eccessiva durata dei processi rendendo di fatto impossibile per la stragrande maggioranza di essi di pervenire a conclusione, il quadro complessivo che uscirebbe dalle possibili modifiche ordinamentali e normative della magistratura, per come si stanno delineando, è davvero desolante.

Per dirla con il CSM, potrebbero essere drammatiche le ricadute pratiche della norma sulla improcedibilità contenuta nella riforma del processo penale e della prescrizione, in ragione della rilevante situazione di criticità di molte Corti di Appello italiane, che non reggerebbero all'impatto con termini di definizione del giudizio di secondo grado brevissimi e irrealistici con l'attuale sistema processuale.

Si parla di migliaia di procedimenti che vanno ad estinguersi, con buona pace dei diritti delle vittime e del senso di fiducia - già basso - dei cittadini nella giustizia.

Senza dimenticare che la riforma Cartabia prevede anche una norma che affida al Parlamento il compito di adottare i criteri generali di priorità di esercizio dell'azione penale, con un potenziale e pericoloso sconfinamento, o quantomeno sovrapposizione, tra poteri. 

Parafrasando il detto secondo cui occorre stare attenti a non buttare via il bambino con l'acqua sporca, in questo caso il pericolo reale è di cestinare la giustizia insieme alla cattiva giustizia.

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