Aleggia nelle aule dei Tribunali della Giustizia ordinaria e amministrativa una vicenda giudiziaria che impone una riflessione sulla tenuta del sistema nel suo complesso.
E’ una vicenda in cui si incasellano uno dopo l’altro errori del Legislatore, inefficienza dell’Amministrazione e strettoie giurisdizionali che hanno il sapore di una beffa estrema per il malcapitato utente del Servizio Giustizia.
Si tratta della fattispecie connessa a un beneficio economico annuale concesso agli insegnanti in funzione della loro attività, ovvero la cosiddetta carta del docente introdotta dall’art. 1, comma 121 della L. n. 107 del 2015.
Secondo la norma istitutiva, la Carta elettronica del docente (così definita puntualmente dal Legislatore, in un’epoca storica di rigetto del cartaceo, in cui tutto deve essere fruibile “elettronicamente”) viene concepita con lo scopo di sostenere la formazione continua degli insegnanti e di “valorizzarne le competenze professionali”.
Parliamo di 500 euro una tantum per ciascun anno scolastico, che possono essere spesi dal beneficiario per usufruire dei seguenti beni e servizi:
- acquisto di libri, di testi e di pubblicazioni o riviste comunque utili all'aggiornamento professionale;
- acquisto di hardware e software;
- iscrizione a corsi per attività di aggiornamento e di qualificazione delle competenze professionali, svolti da enti accreditati "presso il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca";
- iscrizione a corsi di laurea, di laurea magistrale, specialistica o a ciclo unico, inerenti al profilo professionale, ovvero a corsi post lauream o a master universitari inerenti al profilo professionale;
- rappresentazioni teatrali e cinematografiche;
- ingresso a musei, mostre ed eventi culturali e spettacoli dal vivo;
- “iniziative coerenti con le attività individuate nell'ambito del piano triennale dell'offerta formativa delle scuole e del Piano nazionale di formazione”.
Precisato che la somma annuale con cui viene ricaricata la Carta in questione non costituisce retribuzione accessoria né reddito imponibile, il Legislatore del 2015, pur evidentemente orgoglioso di avere introdotto una novità di così ampio respiro nel panorama dell’insegnamento (si fa per dire), è poi scivolato – volontariamente o meno, questo è difficile stabilirlo – sulla classica buccia di banana.
In questa sua parte, infatti, la riforma di matrice renziana, autodefinitasi pomposamente “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione” – e condensatasi in un solo articolo di legge comprensivo di 212 commi -, invece di limitarsi a prevedere l’introduzione indistinta per tutti i docenti della somma annuale, ha delegato a un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca e con il Ministro dell'economia e delle finanze, la definizione dei criteri e le modalità di assegnazione e utilizzo della Carta.
In attuazione di quanto previsto da tale innovativa disposizione, è stato adottato il DPCM del 23 settembre 2015, poi sostituito dal DPCM del 28 settembre 2016, con cui sono stati identificati nei beneficiari della carta i docenti di ruolo a tempo indeterminato delle istituzioni scolastiche statali, ivi compresi quelli a tempo pieno, a tempo parziale, in periodo di formazione e prova, e quelli in posizione di comando distacco o fuori ruolo.
Sono stati pertanto esclusi dal beneficio gli insegnati “a contratto”, cioè quei non pochi docenti che svolgono anno per anno la loro attività, a mezzo assunzione a tempo determinato, e che così permettono, colmando i vuoti di organico, ai singoli istituti di potere regolarmente funzionare.
Tuttavia, tali docenti, sostenendo – a ragione - di svolgere mansioni identiche a quelle proprie dei docenti assunti a tempo indeterminato, hanno prontamente ipotizzato la violazione del divieto di discriminazione tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato.
E’ cominciato così un contenzioso seriale dinanzi al Giudice ordinario, che ha visto l’inevitabile soccombenza del Ministero dell’Istruzione e del Merito.
D’altra parte, le regole dettate dagli artt. 63 e 64 del Ccnl di riferimento pongono a carico dell’amministrazione l’obbligo di fornire a tutto il personale docente, senza alcuna distinzione, “strumenti, risorse e opportunità che garantiscano la formazione in servizio”.
E’ stato dunque logico e abbastanza scontato, per il Tribunale del lavoro, affermare che l’esclusione da tali strumenti e da tali risorse della Carta del docente, così come operata dall’art. 1, comma 121 della L. n. 107 del 2015 nei confronti dei docenti non di ruolo, è da considerarsi non conforme alla disciplina eurounitaria dalla Corte di Giustizia UE, la quale ha nel frattempo ritenuto che le clausole 4, punto 1, e 6 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato devono essere interpretate come ostative a una normativa nazionale che riservi al solo personale docente a tempo indeterminato del Ministero, e non al personale docente a tempo determinato di tale Ministero, il beneficio costituito da un vantaggio finanziario e dalla possibilità di valorizzare le competenze professionali del docenti, mediante la relativa carta elettronica.
La misura in questione è stata infatti ritenuta rientrare tra le “condizioni di impiego”, in quanto l’importo dovuto è versato al fine di sostenere la formazione continua degli insegnanti, formazione continua che è obbligatoria tanto per il personale a tempo indeterminato quanto per quello impiegato a tempo determinato presso il Ministero.
Né sussistevano o sussistono, secondo i vari Giudici aditi sul territorio nazionale, ragioni oggettive tali da giustificare la disparità di trattamento tra docenti di ruolo e non di ruolo, non essendo stati ravvisati, nel caso di specie, elementi precisi e concreti, distintivi del rapporto di impiego in parola - nel particolare contesto in cui si iscrive e sulla base di criteri oggettivi e trasparenti -, che permettessero la verifica della rispondenza di una tale disparità a una reale necessità, e l’idoneità di essa a conseguire l’obiettivo perseguito.
D’altra parte, è evidente che la scelta governativa ha previsto un sistema binario di formazione (docenti di ruolo e docenti non di ruolo) che pare collidere anche con vari precetti costituzionali (artt. 3, 35 e 97 Cost.), nel momento in cui introduce sia una discriminazione a danno dei docenti non di ruolo sia la lesione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione.
Tale ultimo principio, invero, coinciderebbe con l'esigenza del sistema scolastico di far sì che sia l'intero personale docente in servizio a potere conseguire un livello adeguato di aggiornamenti professionale e di formazione, affinché sia garantita la necessaria qualità dell'insegnamento complessivo fornito agli studenti.
Né reggerebbe l'assunto contrario secondo cui la Carta del docente sarebbe uno strumento per compensare l'asserita maggiore gravosità dell'obbligo formativo a carico dei docenti di ruolo, quando la Carta stessa viene erogata anche ai docenti part-time, ai docenti di ruolo in prova e persino ai docenti fuori ruolo, categorie tutte che, per evidenti motivi, potrebbero non garantire in astratto lo stesso impegno didattico dei docenti assunto a tempo determinato ma pieno.
In definitiva, il Ministero dell’Istruzione e del Merito è stato condannato a restituire l’importo non concesso nel corso degli anni ai docenti assunti a termine, e al pagamento delle spese di lite.
Parola fine sulla vicenda? Neanche per sogno.
Il Ministero condannato è semplicemente rimasto inerte, a fronte delle migliaia di sentenze sfavorevoli emesse in tutta Italia, e non ha corrisposto ai poveri lavoratori neanche un euro, costringendoli a una “penosa” coda dell’iter giudiziario intrapreso: il giudizio per ottemperanza dinanzi al Giudice amministrativo.
Il contenzioso è dunque proseguito in altro ambito giurisdizionale, ma la sostanza è rimasta sempre la stessa: c’era una discriminazione da sanare e un importo non assegnato da restituire con gli arretrati, fortunatamente per il Ministero senza interessi, dal momento che ai sensi dell’art. 2 del DPCM del 28 novembre del 2016 l’importo è chiaramente indicato al valore nominale, senza ulteriori maggiorazioni.
E questo nemmeno ove tale importo venga utilizzato non nell’anno di erogazione, ma in un anno successivo.
Tuttavia, l’amministrazione ha continuato a restare inerte, anche una volta instaurato un ulteriore contenzioso – quello, appunto, di ottemperanza – che l'avrebbe vista senza alcun dubbio nuovamente soccombente.
Con il risultato che sono cominciate a fioccare le sentenze di condanna anche da parte dei Tribunali amministrativi regionali aditi, con ulteriore condanna alle spese di lite e nomina infine di un Commissario ad acta affinché si sostituisca, ove necessario, al debitore inadempiente.
Non è davvero dato sapere il perché di una condotta così poco conforme al principio di buon andamento della pubblica amministrazione, né se ci saranno ulteriori rivoli giudiziari dinanzi alla Corte dei Conti per danno erariale.
Quel che è certo è che i poveri docenti “precari” hanno dovuto sudare le proverbiali sette camicie per ottenere una somma che forse non avrebbe cambiato loro la vita ma che li avrebbe senz’altro fatti sentire “parte” dello stesso progetto educativo.
Così come è altrettanto evidente che la resistenza ad oltranza dei soggetti deputati al pagamento non ha portato ad altro che a un esborso economico di denaro pubblico probabilmente ben superiore rispetto a quello che sarebbe derivato dalla semplice attribuzione dei benefici della carta del docente a tutti gli insegnanti.
Anche perché, oltre alla soccombenza in tantissimi giudizi di primo grado, sia dinanzi al Giudice ordinario che dinanzi al Giudice amministrativo – con tutto ciò che ne consegue in tema di spese di lite da restituire a controparte –, ha avuto avvio l’ulteriore telenovela della condanna al pagamento delle penalità di mora o astreintes, ovvero di quelle somme di denaro “dovute dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato”, ex art. 114, comma 4 lett. e) del codice del processo amministrativo.
Nell'applicazione di tale norma, invero, i Giudici dei TAR sono mediamente molto comprensivi con l’amministrazione – che condannano alla corresponsione delle astrenteis solo in casi limite, sfruttando la clausola del “salvo che ciò sia manifestamente iniquo” -, ma l’ultima tendenza, una volta che il difensore del "povero" docente discriminato lo chieda, è di non fare più sconti al Ministero non pagante, e di identificare il danno ulteriore subìto dal creditore con gli interessi legali sulla somma attesa, in qualche caso senza ulteriore ritardo (e quindi dal giorno della notificazione della sentenza), in qualche altro caso soltanto dopo l’ultimo inadempimento ancora possibile (dopo cioè altri 60 o 120 giorni dalla sentenza senza che sia avvenuto il pagamento ordinato).
E’ una vicenda davvero paradossale – oltre che indecente per un’amministrazione occidentale del terzo millennio -, in cui probabilmente perfino l’espressione “oltre il danno la beffa” tende ad essere insufficiente e forse un po’ anacronistica.