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Limiti dell'autotutela non doverosa

a cura di Roberto Lombardi • 5 settembre 2022

TAR per il Veneto, sentenza n. 1116 depositata il 29 giugno 2022


IL CASO E LA SOLUZIONE

Un’impresa individuale colpita da una cartella di pagamento scaturita dall'applicazione di un prelievo supplementare sulle consegne di latte vaccino eccedenti i QRI assegnati, ha chiesto all’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura (AG.E.A.) di disporre l’annullamento in autotutela, ex art. 21-nonies, L. n. 241/1990, di tale cartella di pagamento, oltre che dei provvedimenti ad essa presupposti.

Nell’occasione, e a fondamento della sua richiesta, l’interessato aveva evidenziato che gli atti contestati sarebbero stati applicativi di una disposizione interna (art. 1, comma 8, del d.l. n. 43/1999, convertito in L. n. 118/1999) da considerarsi illegittima secondo il diritto dell’Unione Europea.

Non avendo AGEA adottato alcun provvedimento di secondo grado, né tanto meno dato avvio al procedimento in autotutela, l’impresa ha dunque chiesto al Giudice amministrativo di accertare e dichiarare l’illegittimità del silenzio-rifiuto serbato dall’intimata Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura sulla sua istanza proposta nel novembre 2021, avente per l’appunto ad oggetto la richiesta di sospensione e annullamento in autotutela della cartella di pagamento ritenuta illegittima.

Secondo la ricorrente, le sentenze con cui il Consiglio di Stato aveva respinto gli appelli proposti dall’interessato contro gli atti d’irrogazione del prelievo per le annate dal 1995-96 al 1998-99 sarebbero state oggettivamente contrastanti con norme di diritto comunitario derivato di fonte regolamentare direttamente applicabile ex art. 288, comma 2, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, in quanto il Giudice di ultima istanza non avrebbe rilevato d’ufficio il vizio della procedura di compensazione nazionale che inficiava ab origine i provvedimenti impugnati.

D’altra parte, successivamente al passaggio in giudicato delle suddette decisioni, la CGUE, con sentenza del 27.06.2019, resa nella causa C-348/18, aveva statuito un principio, con riferimento all’articolo 2, paragrafo 1, secondo comma, del Regolamento (CEE) n. 3950/92 del Consiglio, del 28 dicembre 1992 (norma istitutiva di un prelievo supplementare nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari), in tesi contrastante con la norma applicativa interna stabilita dal legislatore italiano, che aveva autorizzato la riassegnazione dei quantitativi di riferimento inutilizzati alla fine del periodo sulla base di criteri stabiliti autonomamente dallo Stato membro e non in modo rigorosamente proporzionale rispetto ai quantitativi di riferimento a disposizione di ciascun produttore.

Il TAR Veneto ha respinto il ricorso, dopo avere evidenziato la correttezza dell’assunto di base del ricorrente, secondo cui, a seguito della citata sentenza della Corte di Giustizia sulla questione controversa (criteri di riassegnazione delle quote latte inutilizzate), la giurisprudenza amministrativa, sia di primo che di secondo grado, ne aveva applicato i principi alle controversie ancora in corso, provvedendo quindi, laddove non vi fossero diverse ragioni per respingere o dichiarare inammissibili i ricorsi, ad annullare gli atti di prelievo emessi durante la vigenza della normativa ritenuta contrastante con il diritto eurounitario.

Tuttavia, il Giudice di primo grado non ha spinto alle estreme conseguenze la correttezza di tale assunto, fino cioè a farne derivare l’obbligo per l’amministrazione di superare anche la forza di un giudicato “sfavorevole”, e di avviare e concludere il procedimento amministrativo di secondo grado attivato dall’interessato, con annullamento finale in autotutela di tutti gli atti risultati illegittimi.

Invero, secondo il TAR Veneto, nel caso di specie non era possibile affermare la sussistenza di un’ipotesi di c.d. autotutela doverosa in capo alla P.A, neanche applicando i principi espressi dalla Corte di Giustizia UE in materia di cedevolezza del giudicato rispetto al rispetto della normativa unionale *.

In particolare, i giudici veneti hanno ricordato che i principi di cooperazione ex art. 10 TCE (oggi art. 4, paragrafo 3, TUE), di primauté ed effettività del diritto comunitario e di “equivalenza”, sono sempre stati bilanciati dalla CGUE con quelli di “autonomia procedurale” degli Stati membri e di certezza del diritto, di modo che il diritto comunitario non esige che un organo amministrativo sia, in linea di massima, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito carattere definitivo alla scadenza di termini ragionevoli di ricorso o in seguito all'esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, anche al fine di evitare che atti amministrativi produttivi di effetti giuridici vengano rimessi in discussione all'infinito.

E seppure spetta a tutte le autorità degli Stati membri garantire il rispetto delle norme di diritto comunitario nell'ambito delle loro competenze - norme il cui significato e portata è chiarito e precisato tramite l’esercizio di attività interpretativa dalla Corte di giustizia - l’obbligo dell’organo amministrativo, investito di una richiesta in tal senso, di riesaminare una decisione amministrativa definitiva per tener conto dell'interpretazione della disposizione pertinente nel frattempo accolta dalla Corte, sussiste soltanto a determinate condizioni.

In particolare, dopo avere impugnato i provvedimenti “originari” di applicazione del c.d. prelievo supplementare, coltivato i relativi giudizi anche in appello e provveduto a presentare alla P.A. una prima istanza di autotutela in data 5 luglio 2019, subito dopo l’adozione da parte della CGUE della sentenza del 27 giugno 2019, resa nella causa C-348/18, sopra citata, a fronte di tale ultima istanza e del successivo silenzio serbato dall’Amministrazione, l’interessato non aveva esperito gli strumenti di tutela forniti dall’ordinamento interno entro il termine – da considerarsi ragionevole – previsto dalle norme processuali vigenti.

Infatti, il ricorrente avrebbe potuto e dovuto esperire subito, nel termine annuale di cui all’art. 31 c.p.a., l’azione avverso il silenzio ai sensi dell’art. 117 c.p.a..

Ugualmente, avrebbe potuto e dovuto impugnare, entro il ragionevole termine di 60 giorni, la cartella di pagamento in relazione alla quale ha poi chiesto all’amministrazione competente l’esercizio del potere di autotutela, così consentendo all’autorità giudiziaria chiamata a valutare la persistenza del diritto di credito azionato dalla P.A., di riesaminare la vincolatività del giudicato alla luce della sopravvenuta decisione della CGUE.

L’omesso tempestivo esperimento di tali forme di tutela, unitamente all’insussistenza specifica, secondo il diritto interno, di un’ipotesi di autotutela doverosa, non hanno dunque consentito, secondo il TAR Veneto, l’applicazione nel caso esaminato dei principi affermati dalle sentenze Kühne & Heitz e Kempter, in tema di obbligo in capo alla P.A. di procedere al riesame della relativa situazione giuridica.

Il ricorso è stato pertanto respinto.


Giudicato, sentenze della Corte di Giustizia e autotutela 

La pronuncia in commento si caratterizza per un ulteriore interessante approfondimento sui presupposti che devono sussistere per ritenere non ostativa alla disapplicazione della normativa interna contrastante o incompatibile con il diritto eurounitario l’esistenza di un giudicato, di modo da consentire o imporre un riesame agli organi giudiziari o amministrativi dello Stato membro.

Tre sono i paletti interpretativi fissati dal Giudice di primo grado.

Innanzitutto, e quale punto di partenza del ragionamento svolto, deve trattarsi di controversie nelle quali venga in gioco un problema di applicazione c.d. “verticale” del diritto comunitario, in quanto ad essere contrapposti non siano gli interessi di due privati (controversie “orizzontali”), ma di due soggetti che, non solo, sono parti di un rapporto “squilibrato” ex se (nel quale la P.A. agisce quale “autorità”, esercitando un potere pubblico unilateralmente e in modo imperativo), ma uno dei quali (l’amministrazione) è anche organo di quello Stato membro che è tenuto, in forza della vincolatività dei Trattati, a dare attuazione puntuale al diritto eurounitario.

In seconda battuta, affinché sussista la possibilità di “superare” il giudicato, occorre che il provvedimento amministrativo o giudiziale non più contestabile secondo gli ordinari e straordinari strumenti di impugnazione previsti dall’ordinamento di uno Stato membro, risulti fondato su (o comunque risulti aver fatto applicazione di) una normativa interna contrastante con il diritto eurounitario, così come interpretato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nell’ambito di una sentenza emessa successivamente alla formazione del giudicato medesimo.

In terzo luogo, essendo la certezza del diritto – quale forza cogente del giudicato -, e l’autonomia procedurale di ogni Stato membro due valori cardine che possono essere derogati solo in funzione di una attuazione effettiva e piena del diritto comunitario, è necessario che il privato abbia diligentemente fatto tutto quanto in suo potere per ottenere tutela attraverso gli strumenti messi a disposizione dall’ordinamento, con specifico riguardo alla tutela giudiziaria, ovvero che, pur in difetto della suddetta diligenza, le previsioni di diritto interno, così come interpretate dalla giurisprudenza dello Stato in questione, limitino il potere discrezionale della P.A. in sede di autotutela anche per le fattispecie similari di diritto interno, in ossequio al rispetto del principio di equivalenza.

A questo riguardo, le disposizioni di diritto interno che disciplinano il potere di intervento in autotutela della P.A., così come interpretato dalla giurisprudenza prevalente, non contemplano espresse previsioni di autotutela doverosa (ex art. 21 quinquies e art. 21 nonies della L. n. 241 del 1990).

Né il potere di autotutela è coercibile dall'esterno attraverso l'istituto del silenzio-inadempimento ai sensi dell'art. 117 c.p.a., salvo i casi normativamente e tassativamente stabiliti di autotutela doverosa e casi particolari legati ad esigenze conclamate di giustizia (così Cons. Stato, sez. VI, 06 aprile 2022, n. 2564).

Tali ultimi casi sono definibili come ipotesi con “tratti di peculiarità che giustificano la non operatività del principio generale della insussistenza di un obbligo di provvedere sulla domanda di ritiro in autotutela di un precedente provvedimento adottato dall'amministrazione”.

Secondo il TAR Veneto, peraltro, nella fattispecie esaminata non si era ravvisabile alcuna delle ipotesi “derogatorie” sopra indicate, in quanto, da un lato, la violazione del diritto comunitario “certificata” da una sentenza della CGUE successiva all’adozione di un provvedimento non più impugnabile o di una sentenza del giudice nazionale passata in giudicato non costituisce un’ipotesi tipica di autotutela doverosa, e, dall’altro, l’eventuale errore da parte del giudice di ultima istanza in ordine all’interpretazione e applicazione del diritto comunitario, e all’applicazione di una normativa nazionale con esso contrastante, non costituisce un “fattore eccezionale”, cui riconnettere “esigenze conclamate di giustizia”, tanto da imporre, nel caso di specie, alla P.A. di provvedere, ancor più in considerazione del ricordato difetto di diligenza da parte del ricorrente nell’esperire tempestivamente gli strumenti di tutela messi a disposizione dall’ordinamento.

Il ragionamento è lineare ma ancora bisognoso di un ulteriore tassello per essere fino in fondo convincente.

Invero, la premessa è che la Corte di Giustizia UE, nell'esercizio della competenza attribuitale dai trattati, chiarisce e precisa, quando ve ne sia bisogno, il significato e la portata della norma unionale, quale deve o avrebbe dovuto essere intesa e applicata dal momento della sua entrata in vigore, con valore dunque non costitutivo bensì puramente dichiarativo, e la conseguenza che una norma di diritto comunitario così interpretata dev’essere applicata da un organo amministrativo nell’ambito delle sue competenze anche a rapporti giuridici sorti e costituiti prima del momento in cui è sopravvenuta la sentenza in cui la Corte si pronuncia sulla richiesta di interpretazione.

Deriva da tale premessa che, in linea di principio, la pregressa erroneità dell’interpretazione fornita dalle autorità interne rispetto al diritto eurounitario da applicare dovrebbe essere successivamente corretta sempre, per non incorrere in palesi violazioni della legalità UE e per non generare situazioni discriminatorie (come sta accadendo anche nella materia esaminata dalla sentenza in commento), in cui la minore durata dei procedimenti contenziosi o il diverso iter cronologico sono andati a discapito di soggetti che erano nella stessa posizione di altri soggetti che hanno invece beneficiato della pendenza del loro contenzioso al momento della pronuncia dichiarativa della Corte di Giustizia.

In particolare, tolti i casi in cui la parte non ha agito a tutela della propria situazione soggettiva (dando così luogo a un’inerzia colpevole), lo sbarramento del giudicato formatosi sulla singola controversia - ma basato su un'errata interpretazione del diritto unionale cogente - non dovrebbe penalizzare la posizione dell’interessato, una volta accertata ex post l’inesattezza della statuizione del Giudice nazionale in merito alla ritenuta compatibilità tra norma interna e norma eurounitaria.

Soccorrono al riguardo i principi stabiliti dalla sentenza Kühne & Heitz della Corte di Giustizia UE, secondo cui sussiste l’obbligo dell’organo amministrativo, che sia stato investito di una richiesta di riesame di una decisione amministrativa definitiva, di tener conto dell'interpretazione della disposizione pertinente nel frattempo accolta dalla Corte, anche se soltanto alle seguenti specifiche condizioni:

a) qualora l’organo amministrativo disponga, secondo il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione;

b) se la decisione in questione sia divenuta definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima istanza;

c) se tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un'interpretazione errata del diritto comunitario, adottata senza che la Corte fosse adita in via pregiudiziale alle condizioni previste all'art. 234, n. 3, del trattato CE;

d) se l'interessato si sia rivolto all'organo amministrativo immediatamente dopo essere stato informato della detta giurisprudenza.

Nel caso esaminato dal TAR Veneto, il punctum dolens è costituito dalla assenza, secondo il Giudice adito, di un obbligo normativo interno che costringa nel caso di specie l’amministrazione a tornare sui propri passi.

E se questo è astrattamente vero, non è altrettanto certo in concreto che la conclamata violazione del diritto unionale non costituisca un “fattore eccezionale” tale da ricondurre l’ipotesi de qua in quella di autotutela doverosa - per vero magmatica - di creazione giurisprudenziale.

Probabilmente, però, la soluzione adottata dal TAR Veneto tende a "tenere insieme" il sistema, perché non nega la possibilità per l’interessato di ottenere la realizzazione – seppure tardiva – della sua fondata pretesa giuridica, ma la lega strettamente, dovendosi superare un paletto così spesso come è quello costituito dalla presenza di un giudicato sfavorevole, ad un onere di diligenza rafforzato, che si traduce nella necessità di tempestiva impugnazione di tutti gli atti impugnabili, ivi compresa la contestazione nei termini processuali dell’inerzia dell’amministrazione sull'istanza di autotutela.

Ad ogni modo, come ha recentemente riaffermato la Corte di Giustizia *, ciò non significa privare il soggetto leso di ogni tutela, in quanto resta inteso che i singoli cittadini, che ritengono di aver subito un pregiudizio ingiusto in conseguenza di una violazione del diritto UE, possono comunque far valere la responsabilità dello Stato membro, di modo che il risarcimento del danno da responsabilità degli organi interni (legislativi, giurisdizionali ed esecutivi) di detto Stato per errata applicazione e/o interpretazione della norma unionale rappresenterebbe, a chiusura del sistema, l’ultima spiaggia nel caso in cui il dictum sulla compatibilità comunitaria della norma interna, formulato da un giudice nazionale le cui sentenze non sono più impugnabili, sia successivamente smentito dalla puntuale interpretazione fornita in merito dalla Corte di Giustizia.


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