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Mobbing, inerzia pubblica e giudizio amministrativo

Federico Smerchinich • 6 giugno 2024

TAR Toscana, Sez. IV, 18.03.2024, n. 303


IL CASO E LA DECISIONE

Il tema portato all’attenzione del TAR riguarda l’accertamento del diritto del ricorrente ad ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti, in ambito lavorativo universitario, in conseguenza di possibili condotte discriminatorie e vessatorie riconducibili al mobbing.

Il ricorrente è un chirurgo universitario che vanta un particolare curriculum specialistico, e ha contestato all’Università presso la quale lavorava di avere opposto resistenza a bandire un posto per il ruolo di professore di prima fascia, nonostante la carenza di organico e la disponibilità di bilancio.

In particolare, il ricorrente ha sostenuto che il Consiglio di Dipartimento avrebbe previsto già dal 2014 nella programmazione di Ateneo l’istituzione di una cattedra da professore ordinario di prima fascia nella sua disciplina, senza mai bandire il concorso fino al suo pensionamento, avvenuto nel 2021. 

Tali fatti gli avrebbero arrecato danni alla salute psicofisica.

Da parte sua, l’Università si è difesa sostenendo di avere, in passato, bandito un concorso al quale il ricorrente non avrebbe partecipato, e che la situazione finanziaria non permetteva di assumere nuovi docenti in qualifiche superiori.

Il TAR, prima di decidere, ha ricostruito la tematica del mobbing, partendo dall’assunto che trattasi di fattispecie priva di definizione normativa, i cui principi ed elementi costitutivi sono di derivazione giurisprudenziale. In particolare, il mobbing sarebbe caratterizzato da una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata o protratta nel tempo, che si riverbera sul dipendente con comportamenti volutamente ostili, reiterati e sistematici in un disegno generale volto a vessare e perseguitare il dipendente stesso, tanto da creargli un danno alla salute psicofisica.

Secondo l’insegnamento giurisprudenziale, la condotta del mobbing avrebbe degli indici rivelatori costituiti dalla molteplicità di comportamenti illeciti o anche se leciti diretti in maniera sistematica a vessare il dipendente; dall’evento lesivo; dal nesso eziologico tra condotta del datore di lavoro o superiore gerarchico ed evento lesivo del dipendente; dalla prova dell’elemento soggettivo nell’intento persecutorio verso il dipendente.

In questo contesto, è il dipendente, che subisce la condotta, a dover dimostrare la sistematicità e reiterazione delle condotte, allegando nell’ambito del processo amministrativo gli elementi concreti in base ai quali il giudice possa verificare la sussistenza di un disegno unitario volto alla vessazione e alla prevaricazione. Una prova tutt’altro che semplice.

Nel caso di specie, il TAR ha ravvisato la carenza di tale allegazione e l’impossibilità di ritenere presenti ed accertati gli elementi richiesti dalla giurisprudenza per integrare il mobbing.

Guardando più nello specifico alla tipologia di censure sollevate, con riferimento al vizio sintomatico di uno sviamento di potere ai danni dell'interessato, il ricorrente avrebbe contestato all’Università solamente la condotta di tipo omissivo, consistente nella non istituzione della cattedra da professore di prima fascia. Istituzione che, a parere del TAR, non era comunque obbligatoria, rientrando nella sfera di discrezionalità amministrativa. Né il ricorrente avrebbe potuto vantare alcuna pretesa giuridica rispetto a detta istituzione.

Di conseguenza, il TAR non ha ravvisato gli elementi di un disegno unitario e sistematico volto a vessare e perseguitare il ricorrente, né alcun inadempimento lesivo da parte dell’Ateneo. Tanto più che il ricorrente non avrebbe neanche dimostrato di aver attivato gli strumenti procedimentali volti a contestare l’omissione dell’Università nelle sedi opportune.

Il TAR, perciò, ha rigettato il ricorso per carenza di prove, e non ha rilevato alcun comportamento addebitale all’Università che potesse essere ritenuto violativo delle clausole generali di correttezza e buona fede, tanto più considerando che non vi era alcun obbligo per l’Ateneo di bandire il posto da professore di prima fascia a cui il ricorrente ambiva.


RILIEVO DEGLI INADEMPIMENTI E PROVA DEL MOBBING

Nell’ambito universitario è, purtroppo, usuale assistere a situazioni di stallo carrieristico prodotte più o meno intenzionalmente dagli Atenei e che, in via derivata e per motivi disparati, rischiano di ostacolare la crescita professionale e la carriera dei professori.

Queste situazioni sono rilevabili nell’ambito dei concorsi selettivi [1] o delle procedure valutative, così come nell’attribuzione degli incarichi didattici, o nella programmazione dei posti di professore, e vengono contestate davanti al TAR attraverso la classica azione di annullamento degli atti illegittimi.

Proprio la programmazione universitaria costituisce un momento fondamentale della pianificazione delle attività universitarie, rilevando i bisogni e le esigenze dell’Ateneo, così come gli obiettivi. Tuttavia, la prassi dimostra che questa attività di programmazione non è sempre governata da logiche di buona amministrazione, venendo in rilievo anche fattori di tipo diverso.

E, così, i professori attendono che vengano programmati posti a cui aspirare, per poi partecipare ai relativi bandi, i quali potrebbero avere la forma valutativa, cioè aperti ai professori abilitati solo dell’Ateneo, o selettiva, ovvero aperti anche ai professori esterni. Tuttavia, l’aspettativa dei professori non sempre viene soddisfatta, e può capitare che certi programmi universitari di assunzione non vengano rispettati e alcuni posti non siano messi a bando.

A questo punto, però, bisognerebbe domandarsi che portata hanno queste programmazioni qualora non siano seguite da bandi e rimangano inadempiute, considerando che un’azione giudiziaria pare difficilmente esperibile in tali casi di omissione dell'atto. In altre parole, sarebbe da chiedersi se le programmazioni siano atti di indirizzo vincolanti o semplici previsioni di intenti non cogenti. Una risposta a queste domande consentirebbe di individuare i rimedi attuabili da chi non è soddisfatto dal mancato adempimento della programmazione e, soprattutto, quale situazione giuridica viene in rilievo, se di diritto o interesse legittimo, ai fini della sindacabilità.

Nella sentenza in commento, si affronta proprio questa tematica: un professore, non soddisfatto della mancata pubblicazione di un bando per la qualifica superiore nella sua specializzazione benché messo a programma, una volta pensionato, ha agito per mobbing contro l’Università, per aver perso la chance di partecipare ad ottenere il posto della qualifica superiore, e per aver subito condotte vessatorie e discriminatorie dall’Ateneo volte ad ostacolarlo.

Come visto, il TAR ha respinto il ricorso volto ad accertare un’ipotesi di mobbing, rimedio scelto dal ricorrente per risolvere la situazione ottenendo un risarcimento per equivalente. 

Il TAR ha ritenuto che non fossero stati forniti dall'interessato gli elementi probatori necessari a dimostrare il mobbing. 

D'altra parte, il mobbing stesso, istituto formatosi nell’ambito giuslavoristico per porre rimedio alle situazioni vessatorie e discriminatorie causate dai datori di lavoro ai dipendenti in maniera sistematica e continuativa, rappresenta una figura dai contorni non facilmente determinabili e dimostrabili, soprattutto nei casi di condotte che solo indirettamente cagionano un effetto negativo sulla sfera giuridica dei dipendenti.

In tal senso, potrebbe condividersi la soluzione del TAR, soprattutto nella parte in cui afferma che il professore non può dolersi a posteriori di situazioni createsi senza che lo stesso professore abbia attivati rimedi in via preventiva per opporsi alla mancata attuazione della programmazione, mentre ancora era in attività. Ulteriormente condivisibile è la tesi del TAR secondo cui non vi sarebbe alcun nesso eziologico tra la mancata pubblicazione del posto a concorso ed il danno che il ricorrente sostiene di aver subito.

Potrebbe, invece, sollevare maggiore dibattito l’affermazione perentoria del TAR secondo cui non vi sarebbe alcun obbligo per l’Università di dare attuazione alla programmazione approvata. Difatti, la programmazione votata dal consiglio di dipartimento potrebbe essere intesa come un semplice atto di indirizzo che non determina obblighi per l’Amministrazione, ma anche come una scelta che vincola l’apparato amministrativo. Se si scegliesse la tesi dell’atto di indirizzo, parrebbe corretto affermare, come fa il TAR, che non vi siano obblighi per l’Amministrazione di dare attuazione alla programmazione. 

Tuttavia, se si scegliesse la tesi della programmazione come vincolo, forse, il mancato adempimento della programmazione dovrebbe essere trattato come un’ipotesi di inottemperanza ad un autovincolo amministrativo e, per tale motivo, potrebbe essere attaccabile quanto meno con l’azione processuale avverso il silenzio inadempimento. 

Questa seconda tesi, forse, risponde maggiormente agli scopi della programmazione universitaria, consentendo anche ai professori di avere un rimedio pratico per agire contro l’inerzia degli Atenei. Ragionandosi a contrario, se cioè si ammettesse che la programmazione universitaria non sia vincolante e non sia contestabile, si rischierebbe di deresponsabilizzare l’Ateneo dalle proprie scelte. 

Ad ogni modo, il TAR, chiamato a decidere solo sulla questione del mobbing, non ha ravvisato un obbligo per l’Università di portare a compimento la programmazione, ritenendo che la stessa fosse espressione di discrezionalità. Né in ogni caso l’azione avverso l’eventuale inadempimento è stata proposta dal ricorrente, né ora né a suo tempo, quando ancora era un dipendente. 

Sotto altro profilo, la proposizione dell’azione nei termini del mobbing davanti al giudice amministrativo consente di rilevare l’ampiezza della giurisdizione del TAR e del sindacato del G.A. che si spinge sino a valutare situazioni che, generalmente, si è abituati a sviscerare nei tribunali ordinari. Posto che il legame stringente tra omesso corretto esercizio del potere amministrativo e lesione diretta e concreta apre in ogni caso le porte dei TAR anche con riferimento a valutazioni inerenti il mobbing, è evidente che per accertare tale ulteriore situazione occorra esperire un'autonoma azione, che non sfugge - la sentenza in commento ne è la dimostrazione - all'assolvimento dell’onere della prova e alla dimostrazione della schematicità dell’intento vessatorio e discriminatorio al giudice del TAR.

Difatti, la singola omissione nell’esercizio del potere rischia di essere vista come evento atomistico non in grado di integrare gli elementi del mobbing individuati dalla giurisprudenza, ma al più come un inadempimento contestabile nei casi previsti dalla legge. Sarà perciò onere del dipendente porre l’attenzione necessaria durante tutto il corso del procedimento amministrativo, al fine di evidenziare e contestare ogni singolo atto contrario al buon andamento dell'agere pubblico, di modo da far emergere infine lo schema vessatorio in grado di provocare la lesione della posizione giuridica soggettiva sottostante (in termini di danno biologico, morale, esistenziale e all’immagine professionale).

Vista la difficoltà di tale onere probatorio di parte, però, anche a livello giurisprudenziale si potrebbe rendere più facile perseguire tali condotte indirettamente vessatorie, o magari consentire al Giudice amministrativo, in determinate circostanze, di assumere di ufficio determinate prove sulla condotta dell’amministrazione, attraverso un’applicazione estensiva del principio dispositivo attenuato.



 
[1] V. TAR Liguria, Sez. I, 4.12.2023, n. 957 e 15.09.2022, n. 777.

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