La nostra Costituzione impone una rigida gerarchia tra le fonti normative, cioè tra quelle fonti (leggi, regolamenti, decreti) da cui originano le regole che ogni giorno tutti i consociati devono rispettare.
Il sistema democratico moderno – ben rappresentato dai principi stabiliti dalla nostra Carta fondamentale – è un sistema di pesi e contrappesi che non tollera eccessivi sbilanciamenti, né da una parte né dall’altra, e che esige in ogni caso l’esistenza di un preciso ordine gerarchico per stabilire quale comando prevalga sugli altri con valore cogente, in modo tale, cioè, da imporsi sulla vita della collettività ed orientarne legittimamente i comportamenti.
Il sistema – ogni sistema di società regolamentata - è tuttavia congegnato per potersi imporre in via immediata sulle libertà individuali del cittadino, anche se espressione di regole illegittime.
In altri termini, un obbligo esistente e proveniente da un’autorità pubblica, seppure basato su un potere che non avrebbe dovuto essere esercitato in quel modo o che addirittura non avrebbe potuto essere esercitato in assoluto, deve essere rispettato dal cittadino fino a quando un Giudice non lo sospenderà e/o dirà che era illegittimo.
L’alternativa, e cioè la possibilità di contestazione immediata della norma, porterebbe ad un clima di costante disordine sociale e di sostanziale fragilità (e rovesciabilità) del sistema.
Se però non esiste il Giudice, o se il Giudice non è terzo e indipendente (e quindi è concretamente influenzabile dallo stesso organo che ha adottato la norma cogente), il comando o il divieto, magari legittimi e frutto di un potere esercitato correttamente, dovendo essere immediatamente rispettati, e non potendo in seguito essere contestati efficacemente in giudizio, diventano coercizione assoluta di uno Stato non (più) democratico.
In linea astratta, secondo la nostra Costituzione, è il Parlamento nazionale che deve stabilire le regole fondamentali da rispettare, qualora incidano, restringendoli, sui diritti individuali delle persone, o quanto meno su quelli direttamente tutelati dalla Costituzione stessa (i cosiddetti diritti inviolabili e di libertà). E ciò, perché il Parlamento, nel nostro sistema democratico, è l’unico soggetto istituzionale dotato di rappresentatività, cioè eletto dal popolo.
Al Governo (potere esecutivo), in questi casi, è lasciato un margine di discrezionalità nella scelta delle norme di dettaglio e di esecuzione, con la possibilità di “scavalcare” il Parlamento, esercitandone i poteri, temporaneamente e in caso di necessità e di urgenza, soltanto tramite lo strumento del decreto-legge.
Ci sono poi le Regioni, dotate di spazi più o meno ampi di libertà normativa, a seconda della materia in cui esercitano i loro poteri; ad esempio, e per restare in tema, le Regioni possono adottare norme cogenti sul proprio territorio in materia di tutela della salute, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata allo Stato.
Nell’ultimo periodo, qualcuno ha affermato che la tutela della salute e la conseguente regolamentazione del servizio sanitario sarebbero un affare “esclusivo” delle Regioni.
Non è così, in quanto l’art. 117, comma 3 della Costituzione inserisce espressamente, tra le materie di legislazione concorrente Stato-Regioni, proprio la “tutela della salute”.
L’intera prospettiva appena illustrata si rovescia però in tempi di emergenza nazionale, come sono quelli che oggi stiamo vivendo a causa della diffusione del virus SARS-CoV-2.
Il tema riguarda essenzialmente il rapporto causa-effetto tra stato delle conoscenze scientifiche e approccio normativo di regole e divieti, e la possibilità di affrontare un’emergenza reale con rimedi il più possibile proporzionati e rispettosi delle libertà individuali ed economiche.
Con rimedi cioè che non trascurino eccessivamente i rischi sociali, psicologici e anche sanitari di una restrizione eccessiva delle libertà costituzionalmente garantite, in nome della tutela della salute pubblica e individuale.
In realtà, è impossibile mettere a fuoco correttamente la questione emergenziale – in relazione alle ricadute delle scelte dell’esecutivo sul nostro ordinamento giuridico – senza capire che ci si trova, innanzitutto, dinanzi ad una situazione di emergenza per il sistema sanitario.
Dopo i primi mesi di confusione nella comprensione da parte della comunità medico-scientifica delle caratteristiche di aggressività della nuova malattia conseguente al contagio da coronavirus, è opinione diffusa e condivisa che la sindrome derivante dal virus SARS-CoV-2 abbia una letalità relativamente bassa (media europea inferiore al 3% dei contagiati) e concentrata prevalentemente sulla fascia di popolazione più fragile (anziani oltre gli 80 anni e soggetti con importanti e pregresse patologie), e che la stessa possa essere adeguatamente affrontata, ordinariamente, con un efficace tracciamento dei contagi e una precoce attività di diagnosi dei casi clinicamente rilevanti.
Ecco allora che in un sistema ideale, con una medicina territoriale efficiente, forti risorse in termini di personale e dotazioni e presidi ospedalieri capillari, ricchi di posti letto e di terapie intensive, la lotta al coronavirus sarebbe affrontata dalle strutture pubbliche come la lotta a una malattia molto contagiosa ma non invincibile, con restrizioni significative sulle libertà economiche, civili e sociali soltanto in caso di estrema necessità, qualora cioè la progressione numerica dei contagi renda impossibile la cura contestuale e immediata di tutti i casi a rischio.
Ma se, come avvenuto nel nostro Paese e in molte altre parti del mondo, arretra in modo significativo la linea della difesa e protezione sanitaria – con un sistema che va immediatamente in sofferenza, non appena venga superato un numero di contagi “sintomatici” relativamente basso, in rapporto alla diffusione dell’infezione e della popolazione complessiva -, il decisore politico è inevitabilmente costretto ad una scelta: o la salute pubblica e individuale o le altre libertà costituzionali.
L’esercizio di alcune di tali libertà diviene addirittura potenzialmente dannoso, in una situazione di stress sanitario gestibile soltanto con il quasi azzeramento delle situazioni di possibile contagio.
E questo per un semplice motivo: godere di molti dei propri diritti più elementari implica situazioni di aggregazione con altre persone, ma l’aggregazione è un formidabile veicolo di contagio.
La reazione del nostro ordinamento giuridico è consistita così, in assenza di alternative strutturali e operative credibili, nella produzione di norme emergenziali che hanno operato parallelamente su due versanti: “congelamento” o limitazione dei diritti costituzionali e parziale modifica della ordinaria gerarchia tra fonti del diritto.
Per capire fino in fondo la dinamica in discorso basta un rapido esame del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (il famigerato DPCM) del 3 novembre 2020 (le cui regole sono poi confluite, unitamente alle ulteriori prescrizioni e limitazioni “natalizie”, nel successivo DPCM del 3 dicembre 2020).
Si tratta di un atto formalmente amministrativo – espressione cioè del potere esecutivo - dalla struttura molto snella, privo di particolari controlli, adottato sotto la diretta responsabilità di due soli firmatari, il Ministro proponente (Ministro della Salute), e il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Tale atto stabilisce però una serie impressionante di divieti e imposizioni che incidono direttamente sulla vita dei cittadini, e in particolare sul diritto di circolazione, sulla libertà personale, sul diritto di riunione e sulla libertà di iniziativa economica privata degli stessi.
Qual è la fonte di legittimazione di questo atto, in un sistema che, come visto, esige che sia il Parlamento (tramite lo strumento della legge) a limitare le libertà costituzionalmente garantite?
Il DPCM del 3 novembre 2020 richiama il decreto-legge n. 125 del 7 ottobre 2020, il quale - a sua volta - ha integrato il decreto legge n. 19 del 2020 con riferimento alle misure di contenimento da attuare sul territorio nazionale, introducendo la nuova misura dell’obbligo di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie, con possibilità di prevederne l'obbligatorietà dell'utilizzo nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all'aperto.
Altre misure sono state imposte dal d.l. n. 33 del 16 maggio 2020, a sua volta richiamato dal DPCM in discorso.
In pratica, il DPCM del 3 novembre concretizza nel tempo e nello spazio, entro i limiti stabiliti dalle norme primarie di riferimento (in particolare, nel caso di specie, dall’art. 1, commi 1 e 2 del decreto-legge n. 19 del 2020), le sospensioni e le restrizioni delle libertà costituzionali dei cittadini.
La legge, in altri termini, non disciplina le concrete restrizioni imposte (che restano prerogativa del DPCM), ma individua le possibili restrizioni da imporre, stabilendo un termine ultimo entro il quale possono essere imposte (31 gennaio 2021), la previsione di esse per singoli periodi, cumulabili, ciascuno di durata non superiore a trenta giorni (poi aumentati a cinquanta giorni dal d.l. n. 158 del 2020), e il criterio di scelta delle misure stesse, ovvero “adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso” (art. 1, comma 2 del d.l. n. 19 del 2020).
Nel metodo, dunque, ecco il parziale capovolgimento dell’ordine gerarchico tra fonti normative: l’atto formalmente amministrativo sceglie il precetto da applicare per limitare la libertà costituzionale, e la legge si limita ad autorizzarne la limitazione o addirittura la sospensione per un determinato periodo di tempo.
E ancora. E’ il DPCM e non la legge ad abilitare un altro atto formalmente amministrativo (ordinanza del Ministero della Salute) a individuare le Regioni che si collocano in scenari tali da far scattare limitazioni alla circolazione fortissimi (divieto di spostamento dal proprio Comune: zona arancione) o addirittura il confinamento (divieto di spostamento all’interno del proprio Comune: zona rossa).
Ma, nella sostanza, la legge può limitarsi ad operare un tale affievolimento delle garanzie di libertà dei cittadini, senza stabilire essa stessa con precisione quali siano le deroghe effettive alle libertà costituzionali?
Distinguiamo tra i diritti.
Libertà personale. Secondo l’art. 13 della Costituzione è inviolabile, e può essere “ristretta” soltanto con atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. Ma cosa rientra nella libertà personale? La quarantena e il confinamento possono essere imposti senza un provvedimento dell’autorità giudiziaria e/o sulla base di valutazioni effettuate dall’esecutivo e non dalla legge?
Libertà di circolazione. Secondo l’art. 16 della Costituzione “ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza”.
E’ compatibile con la previsione dell’art. 16 la limitazione della circolazione (e del relativo soggiorno) in misura differenziata, all’interno dello Stato, a seconda della Regione di residenza o di domicilio?
Libertà di iniziativa economica privata. L’art. 41, ai commi 1 e 2 della Costituzione, stabilisce che l’iniziativa economica privata è libera, ma che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà o alla dignità umana.
Tutti i divieti e le chiusure disposte dal DPCM del 3 novembre 2020 – e dai precedenti e successivi decreti -, soprattutto per quanto riguarda le cosiddette fasce arancioni e rosse, ipotizzano che la mera apertura di bar, ristoranti, impianti sportivi, cinema, teatri ed altro costituisca danno per la sicurezza della salute collettiva e individuale (in connessione con un ipotizzato più alto rischio di contagio).
Ma siamo proprio sicuri che lo Stato può soffocare tout court la libertà di iniziativa economica privata, per giunta con un atto del potere esecutivo? O la Costituzione ha ritenuto legittima soltanto la possibilità di imporre regole e prescrizioni, sulla base della legge (art. 41, comma 3), per evitare uno svolgimento delle attività economiche in contrasto con altri valori fondamentali della comunità? Sono adeguate e proporzionali misure che inibiscono interamente alcune attività, senza corrispondere alle stesse un adeguato indennizzo, e ne consentono altre, seppure con prescrizioni?
Sono tutte domande che tendono forse a restare confinate in una prospettiva soltanto teorica. Nella concreta realtà di quanto ordinariamente accade, difficilmente un Giudice chiamato a decidere oggi, in via cautelare, sulla legittimità di tali misure, le sospenderà, poiché riterrà, nella normalità dei casi, prevalente l’interesse pubblico su quello privato.
Lo stato di emergenza verrà riassorbito presto (si spera) nel flusso ordinario dei consueti processi democratici, dove le libertà fondamentali non possono subire compressioni violente e generalizzate. Ma quando ciò accadrà, le eventuali decisioni giudiziarie di merito favorevoli ai privati illegittimamente danneggiati dalle misure straordinarie adottate per contrastare la pandemia arriveranno in alcuni casi troppo tardi per potersi definire veramente giuste, e potrebbero rivelarsi soltanto delle vittorie simboliche e ispirate a “battaglie” di principio, come quella dell’avvocato campano che ha chiesto il risarcimento di un euro per i danni subiti da un’ordinanza regionale illegittima.
Se invece lo stato di emergenza perdurerà a tempo indeterminato, la deformazione della nostra Carta costituzionale diventerà anch’essa stabile e tollerata, con conseguenze ad oggi non immaginabili, se non facendo un pericoloso salto indietro nella storia.