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Profili di responsabilità ambientale e di imputazione soggettiva del danno

Luisa Monti e Giuseppe Li Vecchi, funzionari in servizio preso il TAR Toscana • mag 20, 2024

PREMESSA

a cura della Redazione


Nell'ambito della disciplina ambientale di cui al d.lgs. n. 152 del 2006 (cosiddetto "codice dell'ambiente") due norme cardine - che hanno peraltro dato luogo a un ricco contenzioso giudiziario - sono quelle di cui all'art. 242 e di cui all'art. 192.

La prima disposizione (art. 242) disciplina le procedure operative e amministrative per la bonifica di siti contaminati; secondo i principi fondamentali di questa norma, al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, o nel caso del rischio di aggravamento di una situazione di contaminazione "storica", il "responsabile dell'inquinamento", attuate le necessarie misure di prevenzione, svolge, nelle zone interessate dalla contaminazione, un'indagine preliminare sui parametri oggetto dell'inquinamento: ove accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia stato superato, provvede al ripristino della zona contaminata, mentre, nel caso contrario (avvenuto superamento delle CSC anche per un solo parametro) presenta prima il c.d. piano di caratterizzazione e poi, eventualmente, il progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza, operativa o permanente, e, ove necessario, le ulteriori misure di riparazione e di ripristino ambientale.

L'art. 192 disciplina invece, nell'ambito specifico delle norme in materia di gestione dei rifiuti, i due divieti fondamentali (di abbandono e deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo, oltre che di immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee), alla cui violazione consegue l'obbligo di procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi, il tutto in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali la violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa.

Due recenti sentenze del Giudice di primo grado hanno sviluppato alcuni interessanti aspetti delle normative sopra richiamate, soffermandosi, in particolare, da un lato, sulla responsabilità oggettiva in caso di attività pericolose, e, dall'altro, sul danno ambientale da attività non pericolosa.

Le due vicende nascono da situazione afferenti a siti diversamente interessati da attività potenzialmente nocive dell'ambiente, quali possono essere quelle riferibili all'esercizio di una discarica e ai lavori in un cantiere.

In entrambi i casi, le responsabilità soggettive - anche in rapporto alle qualificazioni normative sottostanti - si sono "confuse"" tra di loro in maniera tale da rendere necessario l'accertamento giudiziale.

Di seguito si approfondisce la vicenda veneta nata un'ex discarica, mentre su altra nota di questo sito viene approfondita la vicenda toscana* afferente alle sostanze inquinanti contenute nel materiale utilizzato nel cantiere aperto in un'area edificabile.


DANNO AMBIENTALE, responsabilità oggettiva e attività c.d. pericolose

a cura di Luisa Monti e Giuseppe Li Vecchi


Il T.a.r. Veneto, con la sentenza n. 458 del 2024, si è occupato di alcune questioni concernenti il criterio di imputazione soggettiva del danno ambientale. 

La vicenda oggetto della sentenza origina dalla gestione di una ex-discarica situata nel territorio dei Comuni di Spresiano e Villorba. 

In passato, nell’area ove era situata la discarica, il Comune di Villorba e altri soggetti autorizzati avevano conferito rifiuti urbani. Tale situazione si era protratta fino al 1997, allorquando la Provincia di Treviso, con due decreti, aveva dato avvio alla fase successiva al deposito dei rifiuti, prescrivendo anche appositi rilevamenti per verificare il grado di inquinamento dell’area.

Tale fase - c.d. post mortem della discarca - venne affidata a tre diversi soggetti societari. 

Nel frattempo, nella stessa area della discarica, era stato progettato di realizzare la Superstrada Pedemontana Veneta. A tal fine erano stati effettuati alcuni controlli ambientali, da parte della società incaricata di realizzare l’infrastruttura, dai quali erano emerse irregolarità dovute al rilascio dall’ex discarica di quantitativi di percolato.

A seguito di queste prime segnalazioni, nel 2020, la Regione Veneto aveva incaricato le società a cui era stato affidato l'incarico di gestire l'ultima fase della discarica, di realizzare ulteriori accertamenti per verificare più dettagliatamente lo stato dei luoghi. Da tali controlli risultavano superati alcuni dei limiti previsti alla tabella 2 dell’All. 5 alla Parte IV del D.lgs. n. 152 del 2006 (codice dell’ambiente).

A fronte di tali risultanze, nel parere reso nel marzo 2021, l’Agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale del Veneto (A.R.P.A.V.) aveva dichiarato che il quadro idrochimico fosse "compatibile con la presenza nelle acque sotterranee di contaminazione organica con tutta probabilità derivante dalle percolazioni della discarica”. L’A.R.P.A.V. non aveva poi escluso completamente l’origine di tale inquinamento da altre fonti (per esempio perdite fognarie), ma aveva aggiunto essere “remota” un tal tipo di derivazione. 

Dopo tale parere sono proseguiti i controlli e, conseguentemente, la Provincia di Treviso ha avviato  il procedimento per l’individuazione del “responsabile dell’inquinamento” ai sensi dell’art. 242 del codice dell’ambiente. La Provincia, coerentemente a quanto ricavato dall’istruttoria, con il provvedimento del 7 marzo 2022, ha considerato la discarica di Villorba quale causa dell’inquinamento della falda e ha individuato come responsabili il Comune di Villorba  e i tre enti a cui era stata affidata la gestione post-mortem. Si sarebbe trattato quindi, secondo la Provincia, di un danno ambientale causato dalle condotte (sia attive che omissive) di diversi soggetti. 

La Provincia, ai sensi dell’articolo 242, co. 3, del codice dell’ambiente, ha ordinato a tali operatori la presentazione del piano di caratterizzazione. Avendo una delle società coinvolte ottemperato a tale primo adempimento, la Provincia, ex art. 242, co. 4 ha intimato alla suddetta società di presentare il documento di analisi del rischio o, in mancanza delle condizioni per l’applicazione della analisi di rischio, il progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza. 

Contro questi due provvedimenti della Provincia, la società "colpita" dall'ultimo ordine ha presentato il ricorso principale e i motivi aggiunti lamentando la violazione degli articoli 242, 244 del D.lgs. 152 del 2006 e del principio “chi inquina paga” sancito dall’art. 191, c. 2, del T.F.U.E. A giudizio della ricorrente non vi sarebbe certezza che l’inquinamento della falda acquifera derivasse dalla discarica, e, a maggior ragione, dalla sua attività esclusivamente di gestione della fase post operativa, eseguita nel pieno rispetto della normativa di settore. La ricorrente ha anche sollevato un’eccezione d’incompetenza della Provincia ad adottare provvedimenti in materia di bonifiche ambientali.

Il Giudice adito ha affrontato tutte le varie questioni sollevate.

In primo luogo, ha risolto la questione della possibile incompetenza della Provincia ad assumere i provvedimenti impugnati, soffermandosi sulla intricata questione di gerarchia delle fonti e di successione delle leggi nel tempo, e trovando la soluzione al problema nell’articolo 22 della Legge n. 104 del 2023. Da tale disposizione si possono ricavare più norme: la prima riconosce alle Regioni la possibilità di conferire, con legge, alle Province (oltre che agli altri enti locali previsti nell’articolo 114 Cost.) le funzioni amministrative di cui agli articoli 194, c. 6, lett. a), 208, 242 e 242 bis del D.lgs. 152 del 2006; la seconda norma sana invece le precedenti leggi regionali che hanno già attribuito tale delega agli enti locali (ed è il caso della Regione Veneto, art. 18 della Legge regionale n. 20 del 2007). 

Andando poi al "cuore" del ricorso e della relativa sentenza, il Collegio, in primo luogo, ha chiarito la nozione di “causa” rilevante ai fini dell’individuazione del “responsabile dell’inquinamento” e indicato che essa va intesa in un senso abbastanza ampio di “aumento del rischio”, ovvero “di contribuzione al rischio del verificarsi dell’inquinamento”. In secondo luogo, il Tribunale aderisce all’indirizzo prevalente nella giurisprudenza europea e nazionale per il quale il nesso eziologico fra una presunta causa inquinante e l’evento dannoso deve essere dimostrato, non in termini di certezza, ma secondo il criterio “del più probabile che non” – (si vedano, ex multis, C.G.U.E., C.-534/13, C.G.U.E., C-188/07 e da ultimo Cons. St., Sez. IV, 2023, n. 10964). 

Il Collegio, argomentando in ordine all’infondatezza di uno dei motivi del ricorso, ha sostenuto che con ragionevole probabilità l’inquinamento della matrice ambientale derivava dalla discarica e che viceversa, come già rilevato da A.R.P.A.V., ulteriori cause di inquinamento erano da considerare come remote. Da ciò è conseguito che l'ordine all’Amministrazione di porre in essere ulteriori accertamenti, rispetto a quelli già numerosi comunque realizzati, sarebbe stato in contrasto con il principio “del più probabile che non”, poiché in tal modo si sarebbe spostata la dimostrazione del nesso eziologico verso il criterio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, che in ambito amministrativo non è richiesto. 

Venendo adesso al profilo che in questa sede maggiormente interessa, la ricorrente ha addotto che non le sarebbe stato imputabile alcun comportamento doloso o colposo. Sul punto va preliminarmente osservato che gli articoli 242 e 244 del D.lgs. 152 del 2006 individuano il soggetto “responsabile dell’inquinamento”, obbligandolo a riparare il danno prodotto, ma non specificano il titolo di imputazione oggettiva o soggettiva.

A tal proposito, per risolvere la questione, si deve partire dall’equiparazione fra l’avvio delle attività di bonifica e il risarcimento in forma specifica del danno ambientale (in questo ambito si deve considerare, per evidenti ragioni, assolutamente preferibile il risarcimento in forma specifica anziché quello per equivalente).

L’equiparazione non è però da intendere come perfetta sovrapponibilità fra le forme di tutela, potendo residuare un danno risarcibile anche dopo l’opera di bonifica (l’articolo 303, comma 1, lett. i, del D.lgs. n. 152 del 2006, considerava l’avvio delle attività di bonifica quale causa di esonero dalla responsabilità risarcitoria ed è stato abrogato poiché contrastante con l’articolo 4 della Direttiva europea 35 del 2004). Ad ogni modo, considerata la forte correlazione fra queste due forme di tutela, consegue che il criterio di imputazione soggettiva debba essere uniforme. 

La Direttiva europea 35 del 2004 stabilisce un duplice criterio di attribuzione della responsabilità:

- nell’articolo 3, paragrafo 1, lett. a), prevede che per il danno ambientale causato dalle attività pericolose elencate nell’allegato III un tipo di responsabilità oggettiva. Fra queste attività rientrano quelle di gestione dei rifiuti e della discarica;

- nell’articolo 3, paragrafo 1, lett. b), considera necessario per il danno ambientale causato dalle attività diverse da quelle considerate pericolose una forma di responsabilità soggettiva, fondata quindi sul dolo o almeno sulla colpa.

Inoltre, sempre la medesima Direttiva, nell’articolo 8, paragrafo 3, prevede delle forme di esonero anche per le ipotesi di danno cagionato da attività pericolose.

Esse sono il fatto del terzo (che elide quindi il rapporto di causalità) e l’ordine dell’autorità (che assume carattere di scriminante). Il paragrafo 4 del medesimo articolo poi consente agli Stati membri di prevedere deroghe a tale forma di responsabilità oggettiva, che siano coerenti con la ratio delle eccezioni previste dalla normativa europea stessa (per esempio che il danno derivi dall’impiego di un prodotto considerato non pericoloso per l’ambiente nel momento in cui fu utilizzato). L’onere di dimostrare l’esistenza di tali circostanze escludenti grava sul soggetto interessato, il quale deve dare una dimostrazione rigorosa del loro accadimento (si veda C.G.U.E., C.-378/08).

Il legislatore nazionale, dopo una prima procedura di infrazione, si è adeguato alla disciplina europea con l’articolo 298 bis della parte sesta del D.lgs. 152 del 2006. Esso prevede una duplice forme di responsabilità per il danno ambientale:

- la prima di natura oggettiva per lo svolgimento delle attività professionali pericolose elencate nell’allegato 5 della parte sesta del D.lgs. 152 del 2006;

- la seconda di natura soggettiva (dolo o colpa) per l’esercizio delle attività diverse da quelle enumerate nell’allegato 5. 

L’elencazione delle attività considerate iuris et de iure pericolose, in conseguenze della forma di responsabilità oggettiva che comportano, è da intendere come tassativa. 

L’articolo 311, co. 2, del codice dell’ambiente, obbliga poi gli operatori, nel caso di danno ambientale cagionato dalle attività elencate nell’allegato 5 della parte sesta del medesimo codice, a porre in essere determinate misure di prevenzione entro un termine congruo. Il medesimo comma prescrive infine che “ai medesimi obblighi è tenuto chiunque altro cagioni un danno ambientale con dolo o colpa”.

Ancora, l’articolo 308, co. 4, del codice dell’ambiente, prevede delle forme di esonero da tale responsabilità oggettiva, la cui dimostrazione rigorosa spetta al soggetto interessato in sede procedimentale. Tali forme di esonero, conformemente alla normativa europea, si verificano quando il danno: 

a) “è stato causato da un terzo e si è verificato nonostante l'esistenza di misure di sicurezza astrattamente idonee”;

b) “è conseguenza dell'osservanza di un ordine o istruzione obbligatori impartiti da una autorità pubblica, diversi da quelli impartiti a seguito di un'emissione o di un incidente imputabili all'operatore…”.

Si tratta quindi, almeno per le attività professionali considerate pericolose, di una forma di responsabilità oggettiva, che però, in modo condivisibile, non presenta carattere assoluto, ma prevede delle forme di esonero connesse ad alcune circostanze escludenti qualsivoglia forma di responsabilità del soggetto professionale.

Pertanto, dalla integrazione degli articoli 242, 244, 298 bis, 308 e 311 del D.lgs. n. 152 del 2006 si ricava un quadro abbastanza nitido: nel caso di danno ambientale cagionato dallo svolgimento di un’attività pericolosa, l’Amministrazione dovrà individuare il fatto causante, il danno, il nesso causale secondo il criterio “del più probabile che non”, il responsabile e non anche l’elemento soggettivo del dolo o della colpa. Il soggetto individuato come “responsabile dell’inquinamento” potrà esimersi da tale responsabilità solo provando, durante il procedimento amministrativo, le circostanze di cui all’articolo 308, cc. 4-5.

Dopo tale accurata ricostruzione da parte del Collegio, è apparsa sufficientemente chiara la posizione della ricorrente quale “responsabile” del danno ambientale. Essa, infatti, esercita un’attività – gestione post-operativa di una discarica – considerata pericolosa alla luce dell’allegato 5, parte sesta, del codice dell’ambiente.

Inoltre, dagli articoli 12, co. 3, e 13, cc. 1, 2, 6 e 6 bis, del D.lgs. 36 del 2003 si ricava la sussistenza di precisi obblighi di controllo e di vigilanza in capo al gestore, la cui responsabilità non è attenuata durante la fase di ‘quiescenza’ della discarica.

La società in questione è stata quindi considerata corresponsabile, insieme agli operatori che nel corso del tempo hanno utilizzato la discarica, del danno ambientale cagionato dalle infiltrazioni di percolato nella falda acquifera. La stessa istruttoria compiuta dalla P.A., essendo caratterizzata da discrezionalità tecnica, è sindacabile solo nel caso di manifesta erroneità o illogicità, ma come è emerso dalla descrizione del caso e dai ripetuti accertamenti non appare assolutamente colpita da tali tipi di vizi. 

Quanto al motivo d’impugnazione relativo al tipo di responsabilità solidale accertato nel caso di specie, il Collegio ha affermato che in caso di danno ambientale – ove vengono lesi interessi di rango costituzionale di primaria importanza, quali il diritto alla salute e alla salubrità dell’ambiente – appare doveroso procedere quanto prima alla riparazione di tale evento e alla mitigazione delle conseguenze dannose, non potendosi attendere la conclusione di complesse indagini volte ad accertare il contributo causale di ciascuno dei corresponsabili. La regola in tali casi è dunque quella della responsabilità solidale, salvo poi la possibilità, ex art. 253, co. 4, del D.lgs. 152 del 2006, di agire in rivalsa verso gli altri soggetti considerati corresponsabili (sul punto cfr. Cons. St., Sez. IV, 2021, n. 172).

Infine, la circostanza che solo la società ricorrente avesse presentato, ex art. 242, cc. 3-4, il piano di caratterizzazione, non escludeva la possibilità di quest’ultima di agire in regresso verso gli altri operatori responsabili del danno ambientale. 




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