Alcuni Sindaci e Presidenti di Regione si sono scagliati contro la dichiarazione dello stato di emergenza che l'attuale Governo ha effettuato con riferimento all'arrivo incontrollato di migranti nel nostro Paese.
Il trascorso 11 di aprile, in effetti, il Consiglio dei Ministri ha deliberato la contestata dichiarazione di stato di emergenza, per sei mesi, “in conseguenza dell'eccezionale incremento dei flussi di persone migranti in ingresso sul territorio nazionale attraverso le rotte migratorie del Mediterraneo” (così l’ordinanza immediatamente successiva emessa dal Capo del Dipartimento della Protezione civile).
Tradotto: con gli strumenti ordinari non è possibile arginare una migrazione che sembra avere quasi, nella definizione usata dall’esecutivo (“eccezionale”), un carattere epocale.
Dal comunicato stampa del Governo si evince che il Consiglio dei ministri ha esaminato i dati attuali in materia di flussi migratori presentati dal Ministro dell’interno, e ha concentrato la sua attenzione sulle “situazioni di gravissimo sovraffollamento nei centri di prima accoglienza e, in particolare, presso l’hotspot di Lampedusa”.
In previsione dunque di un ulteriore incremento delle partenze nei prossimi mesi, il Consiglio dei Ministri ha dedotto “la necessità di provvedere con urgenza all’attuazione di misure straordinarie per decongestionare l’hotspot di Lampedusa e per realizzare nuove strutture, adeguate sia alle esigenze di accoglienza sia a quelle di riconoscimento e rimpatrio dei migranti che non hanno i requisiti per la permanenza sul territorio nazionale”.
Per tali ragioni, è stata deliberata la dichiarazione dello stato di emergenza “sull’intero territorio nazionale”, con stanziamento, “nelle more della valutazione delle effettive esigenze finanziarie, per l’attuazione degli interventi maggiormente urgenti”, di 5.000.000 di euro, a valere sul Fondo per le emergenze nazionali.
Ne è seguita, come anticipato, l’ordinanza del 16 aprile 2023 del Capo del Dipartimento della Protezione civile, con cui, una volta ravvisata la necessità di procedere all'utilizzo di poteri straordinari e all’adozione di provvedimenti di carattere anch’esso straordinario finalizzati al superamento dell'emergenza – mediante, in primo luogo, il “potenziamento della capacità operativa propria del Ministero dell'interno, nell'ambito della materia dell'immigrazione” -, è stato nominato il Commissario delegato, il quale si avvarrà di una struttura di supporto da costituire con proprio provvedimento, e potrà derogare ampiamente alle norme sul procedimento amministrativo e sul codice dei contratti pubblici, allo scopo di coordinare le attività volte all'ampliamento della capacità del sistema di accoglienza, e allo scopo di coordinare, nelle more di tale ampliamento, l'attività per l'accoglienza delle persone migranti in strutture provvisorie, anche in deroga alle norme vigenti in materia, ivi compresa l’assicurazione di un servizio continuativo di trasporto marittimo e aereo per trasferire i migranti stessi dagli hotspot ai centri e strutture di accoglienza provvisoria siti altrove.
Il tutto, peraltro (ovvero l’esercizio dei poteri del Commissario delegato), soltanto limitatamente ai territori delle Regioni Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Basilicata, Calabria, Sardegna, Sicilia e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, e quindi non sull’intero territorio nazionale, come invece preannunciato nel comunicato stampa del Consiglio dei Ministri.
Come mai una tale limitazione territoriale? Secondo l’interpretazione maliziosa di qualcuno, per evitare – visto l’insorgere di alcuni Presidenti di Regione contro la dichiarazione dello stato di emergenza – un contenzioso (con il rischio di annullamento degli atti del Commissario in sede giurisdizionale), promosso dai soggetti istituzionali contrari all’accentramento derogatorio dei poteri.
D’altra parte, se non fosse stata coinvolta la protezione civile (materia "di legislazione concorrente", ai sensi dell'art. 117 Cost.), le Regioni avrebbero avuto poco a che vedere con la faccenda in questione, dal momento che le politiche migratorie e di asilo sono di competenza esclusiva dello Stato, con devoluzione dell’amministrazione ordinaria alle Prefetture, per il livello periferico, e al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno, per il livello centrale.
Dal punto di vista politico, tutto è in realtà cominciato qualche tempo prima, dopo la tragedia di Cutro, in cui hanno perso, tra morti accertati e dispersi, un centinaio di persone (tra cui sicuramente 34 minori).
Il clima politico-istituzionale si è surriscaldato per le accuse di negligenza agli apparati ministeriali competenti per il soccorso, e il Governo ha deciso di intervenire in modo "deciso" nella spinosa materia dell'immigrazione, con un decreto-legge.
In questo decreto sono stati previsti, tra l’altro, misure di programmazione dei flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri, misure per la semplificazione e accelerazione delle procedure di rilascio del nulla osta al lavoro, l’aumento del periodo di validità del permesso di soggiorno e un nuovo reato (“Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”).
Ma la modifica più importante è quella tesa a cancellare la cosiddetta "protezione speciale".
Già con il decreto-legge sono stati soppressi il terzo e quarto periodo del comma 1.1 dell’art. 19 del decreto legislativo n. 286 del 1998, n. 286, che prevedevano l’inespellibilità di “una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l'allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare”.
In più, con la proposta di conversione approvata in Senato e poi recepita dalla Camera [1], nelle ipotesi di rigetto della domanda di protezione internazionale, la Commissione territoriale non trasmette più gli atti al Questore per il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale comprensivo anche dei motivi connessi ai legami “privati“ e familiari (il permesso umanitario in senso stretto), semplicemente perché…è stata soppressa la stessa fattispecie omnicomprensiva prima prevista dal testo unico sull’immigrazione, e la correlativa possibilità per il Questore di rilasciarlo, in presenza dei relativi presupposti.
Residua soltanto la possibilità che la Commissione territoriale, nel caso di non accoglimento della domanda di protezione internazionale, e sussistendo i presupposti di cui all’art. 32, comma 3 del d.lgs. n. 25 del 2008 (che adesso sono soltanto la possibile persecuzione o il fondato motivo di trattamenti inumani nello Stato di eventuale destinazione), trasmetta gli atti al Questore per il rilascio di uno speciale permesso di soggiorno biennale rinnovabile, ma non più convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
Così come da oggi in poi non sono più convertibili agli stessi fini – oltre che caratterizzati da presupposti più “stringenti” – il permesso di soggiorno per calamità e quello per cure mediche. [2]
Ma di cosa si parla esattamente? In termini generali, la protezione speciale consiste nella possibilità di rilasciare un particolare titolo di soggiorno al cittadino straniero, nei casi in cui non sia stata accolta la sua domanda di protezione internazionale, e al contempo sussista nei suoi confronti un divieto di espulsione o di respingimento, e sempre che lo straniero stesso possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione ovvero rischi di essere rinviato verso altro Stato che non lo protegga dalla suddetta persecuzione, oppure qualora esistano fondati motivi di rischio di sottoposizione a tortura.
È un permesso che è stato introdotto dopo la soppressione, ad opera del d.l. n.113 del 2018, del più blando permesso di soggiorno per motivi umanitari, e che si è affiancato ad un'altra serie di "casi di protezione speciale", quali quelli di protezione sociale (art. 18 del d.lgs. n. 286/1998), quello per le vittime di violenza domestica (art. 18-bis), quello determinato dal particolare sfruttamento lavorativo (art. 22, comma 12-quater), il permesso per cure mediche (art. 19, comma 2, lett. D-bis), per contingente ed eccezionale calamità naturale (art. 20-bis) e per atti di particolare valore civile (art. 42-bis).
D'altra parte, la protezione per motivi umanitari non trova la sua fonte diretta in atti dell'Unione europea ma è un istituto riconducibile a previsioni dell'ordinamento interno italiano. Il diritto dell'UE, infatti, prevede la possibilità - non l'obbligo - per gli Stati membri di ampliare l'ambito delle forme di protezione tipiche (status di rifugiato e protezione sussidiaria) sino ad estenderlo ai motivi "umanitari", "caritatevoli" o "di altra natura", rilasciando un permesso di soggiorno autonomo o altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un Paese terzo il cui soggiorno sia irregolare.
Pertanto, mentre lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria sono accordati, in osservanza di obblighi europei ed internazionali, per proteggere la persona da atti di persecuzione (rifugiato), o per evitare che questa possa subire un grave danno nel caso di ritorno nel Paese di origine (protezione sussidiaria), la protezione umanitaria è rimessa, invece, in larga misura, alla discrezionalità dei singoli Stati, per rispondere ad esigenze umanitarie, caritatevoli o di altra natura.
Ma perché lo stato di emergenza? E perché contemporaneamente eliminare la protezione speciale degli immigrati?
Quanto al primo interrogativo, è necessario un piccolo preliminare excursus sul significato di stato di emergenza.
Il termine emergenza richiama, nella sua accezione più intuitiva, una circostanza imprevista, eccezionale, o anche una particolare situazione critica, che richiede un intervento immediato.
Lo stato di emergenza è qualcosa di diverso dallo "stato di eccezione" e dallo stato di guerra.
Si distingue dall’auto-sospensione dell’ordine giuridico vigente di schmittiana memoria, ma anche dalla condizione di fatto attributiva in modo anomalo di tutti i “poteri necessari” al Governo, che è propria di un conflitto armato (art. 78 della Costituzione).
Nel nostro ordinamento lo stato di emergenza non è stato previsto né regolato dalla Carta fondamentale, verosimilmente per evitare che da una definizione sfuggente, indeterminata e rimessa alle sensibilità politiche del momento potesse derivare una compressione duratura delle libertà fondamentali (in primis, il ritorno di fenomeni di natura fascista).
Eppure, esistono situazioni in cui l’applicazione delle norme “ordinarie” rischia di portare al collasso, per il sopravvenire di eventi esterni sfavorevoli, il sistema della convivenza “civil and safe”, o addirittura di favorire il dilagare di fenomeni apertamente negativi per la salute e la vita delle persone.
Esistono situazioni – la pandemia che abbiamo conosciuto negli ultimi due anni è senz’altro una di queste – in cui pare opportuno affidarsi, per mitigare con efficacia e immediatezza gli effetti sfavorevoli dell’evento calamitoso esterno sulla popolazione, ad un diritto emergenziale, che non si limiti a sospendere per un periodo di tempo determinato l’efficacia di una o più norme cronologicamente precedenti, ma che addirittura disciplini una serie di fattispecie “normali” in modo diverso da quello che ordinariamente ci si dovrebbe aspettare.
Ma qual è il fondamento costituzionale del diritto emergenziale? Esistono dei presupposti di legalità formale e sostanziale che devono essere rispettati nell’emanazione, adozione e applicazione di atti extra ordinem che comprimono per un tempo non irrisorio i diritti di libertà costituzionalmente tutelati?
E’ necessaria una dichiarazione formale dello stato di emergenza o l’emergenza è semplicemente una condizione di fatto che, una volta accertata o ritenuta accertata, permea di sé l’intero ordinamento giuridico, deviandolo, a prescindere dalle fonti del diritto utilizzate, verso una dimensione “restrittiva” e “contenitiva”, seppure temporanea?
Una prima risposta ci viene fornita dal cosiddetto codice della protezione civile (che, è bene ricordarlo, è una legge ordinaria dello Stato), il quale, unico, contiene espressamente una definizione e una disciplina dello “stato di emergenza”.
Si tratta di una disciplina, quella del d.lgs. n. 1 del 2018, pensata astrattamente per eventi calamitosi naturali riconducibili a terremoti, eruzioni, inondazioni e condizioni metereologiche particolarmente avverse, come evincibile da alcune disposizioni, riferibili essenzialmente, se non esclusivamente, ad attività di primo soccorso e assistenza materiale ed economica (tipiche di eventi dal grande e violento impatto innanzitutto sui beni fisici), tra cui sono espressamente ricomprese le attività di “gestione dei rifiuti, delle macerie, del materiale vegetale o alluvionale o delle terre e rocce da scavo prodotti dagli eventi”.
Quanto ai presupposti dello stato di emergenza, ai sensi dell’art. 7, comma 1, lettera c), ai fini dello svolgimento delle attività di protezione civile (ovvero di quelle attività volte alla previsione, prevenzione e mitigazione dei rischi, alla gestione delle emergenze e al loro superamento), sono rilevanti le emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall'attività dell'uomo, che, in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d'intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell'articolo 24.
A sua volta, l’art. 24 del d.lgs. n. 1 del 2018 stabilisce che il Consiglio dei Ministri delibera lo stato d'emergenza di rilievo nazionale, fissandone la durata e determinandone l'estensione territoriale con riferimento alla natura e alla qualità degli eventi, e autorizza l'emanazione delle ordinanze di protezione civile di cui all'articolo 25 (ordinanze finalizzate agli interventi di soccorso, sostegno e ripristino, da adottarsi in deroga ad ogni disposizione vigente, nei limiti e con le modalità indicati nella deliberazione dello stato di emergenza e nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico e delle norme dell'Unione europea).
Sempre secondo l’art 24, “la durata dello stato di emergenza di rilievo nazionale non può superare i 12 mesi, ed è prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi”.
Si attaglia questa disciplina a un fenomeno come quello migratorio, che ha fasi più intense e meno intense, ma che, come ci dicono i report delle Nazioni unite, non è destinato a concludersi certamente in breve tempo?
La gestione emergenziale dell’accoglienza rappresenta senz’altro una debolezza strutturale del nostro Stato; formalmente, poi, con la dichiarazione dello stato di emergenza vengono forniti al governo e ai commissari delegati poteri straordinari per svolgere funzioni ordinarie che già sembrano adeguatamente disciplinate.
Tra i poteri attribuiti dall’ordinanza, infatti, ve ne sono alcuni che con tutta evidenza risultavano già di competenza del Ministero dell’Interno e delle Prefetture, mentre costituisce una novità utilizzare per il trasporto “derivato” dei migranti l’utilizzo delle forze armate e di polizia, con confusione tra il piano della sicurezza interna e quello della politica sociale e di integrazione.
D’altra parte – deroghe alle norme dei contratti pubblici e del procedimento amministrativo a parte - le regole per realizzare Centri di accoglienza straordinaria (Cas) attivi in tutto il territorio sono state originariamente pensate proprio per rispondere a situazioni come quella che stiamo attraversando.
Quanto invece al tentativo di eliminare l'ipotesi generale (e generica) di permesso di soggiorno per protezione speciale, occorre in primo luogo ricordare che tale forma di protezione non ci è imposta dalla normativa sovranazionale, ma nelle intenzioni più nobili è ispirata a un sentimento di pietà umana.
Nella pratica, dati alla mano, riguarda un numero limitato di persone ed è normalmente riservata ai più disgraziati tra quelli che arrivano tra di noi; secondo qualcuno, invece, è diventato uno strumento per "bucare" le regole sulla corretta immigrazione, con la possibilità di successiva conversione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, e stabilizzazione “impropria” sul territorio nazionale.
A prescindere da come la si voglia giudicare, la protezione speciale (e prima ancora la protezione umanitaria) ha permesso però di mantenere una sorta di controllo/censimento sulla marea grigia di stranieri che non hanno un lavoro regolare ma neanche possono essere rimpatriati con la "forza", spesso per i limiti cronici delle risorse economiche impiegabili a tali fini dallo Stato.
Con la possibilità, non trascurabile, di successiva immissione di tali soggetti nel mondo del lavoro “regolare”.
Una volta eliminata questa specie di cuscinetto, verrà contestualmente creata un’ulteriore zona d'ombra in cui da un lato migliaia di individui spariranno dai radar della burocrazia - con tutto ciò che ne consegue in tema di indebolimento dell'ordine pubblico - e dall'altro a quegli stessi individui, non espulsi, non riconosciuti e non in grado di lavorare regolarmente, si lascerà un'ultima disperata opzione per la sopravvivenza, ovvero il crimine.
Sono i nuovi fantasmi della società, quelli che vivono nel limbo, che non sono più tra di noi, ma che neanche se ne vogliono/possono andare, pronti ad apparire con le peggiori delle intenzioni (o con la più cupa delle disperazioni, il che è lo stesso) dinanzi alla strada di noi “regolari”, che viviamo come cittadini liberi per diritto acquisito e che a volte dimentichiamo che non tutti hanno avuto la stessa fortuna su questo pianeta, come testimoniato crudelmente dai poveri corpicini senza vita ritrovati sulla spiaggia di Cutro.
[1] Il d.l. n. 20 del 2023 è stato infine convertito con modificazioni dalla L. n. 50 del 2023.
[2] La legge di conversione ha infatti abrogato le lettere a), b) e h-bis) dell'articolo 6, comma 1-bis, le lettere a), b) e h-bis) decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, che prevedevano appunto la possibilità di conversione delle singole fattispecie sopra richiamate.