Nel nostro ordinamento non esistono definizioni legislative di tributo.
Ma nel tradizionale linguaggio giuridico rientrano nel concetto di tributo fattispecie diverse (imposte, tasse, contributi e, per alcuni, anche i monopoli fiscali).
In ogni caso, per la Corte costituzionale i caratteri essenziali della nozione di tributo – tali dunque da ricomprendere “ogni” tipo di tributo – sono la doverosità della prestazione, in assenza di un rapporto sinallagmatico tra le parti, nonché il collegamento di una prestazione con la spesa pubblica, in relazione ad un presupposto economicamente rilevante.
La doverosità della prestazione deve però derivare da un atto autoritativo adottato sulla base di una legge, ex art. 23 della Costituzione.
Secondo l’art. 117, comma 2 della Costituzione, lo Stato ha legislazione esclusiva in materia di “sistema tributario e contabile dello Stato”; alle Regioni è lasciata invece competenza concorrente nel “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”.
Ai sensi dell’art. 119 della Costituzione, peraltro, “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea”; “stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”.
Dispongono, inoltre, “di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”.
Secondo l’interpretazione dominante, la potestà legislativa regionale in materia tributaria è potestà legislativa concorrente e non residuale, nel senso che allo Stato è sempre riservata la fissazione dei principi fondamentali del sistema tributario complessivo e la disciplina dei tributi regionali resta una competenza strumentale rispetto alle funzioni materiali attribuite alla Regioni.
Le Regioni possono dunque legiferare in materia di tributi regionali e locali ma pur sempre nell’ambito segnato dai principi fondamentali e dai principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario fissati dal leggi statali; in altri termini, lo Stato definisce i tributi o i tipi di tributo regionali e locali, indicando quali oggetti imponibili e quali tributi possono essere oggetto di legislazione regionale, e la Regione, nell’ambito di tali coordinate, regola o istituisce a sua volta il singolo tributo sulla materia di sua competenza concorrente.
In ogni caso, le Regioni possono realizzare, in linea con l’autonomia impositiva ad esse riconosciuta dall’art. 119 Cost., propri interventi di politica fiscale, anche di tipo agevolativo, ma questi, in coerenza con i presupposti che giustificano tale autonomia, devono inerire solo e unicamente a tributi il cui gettito è ad esse assegnato, e mai, invece, a tributi il cui gettito pertiene allo Stato, nella cui sfera di competenza esclusiva rientra anche l’eventuale regime agevolativo previsto dalla disciplina del singolo tributo, regime che non costituisce altro che un’integrazione della disciplina medesima.
I tributi locali, invece, possono essere creati e disciplinati dallo Stato o dalle Regioni - nei limiti appena evidenziati -, ma mai dai Comuni, in quanto sussiste la riserva di legge, e gli enti sub-regionali, nel nostro ordinamento, non hanno potestà legislativa.
Tali enti possono dunque disciplinare con regolamento i tributi propri (che cioè vengono qualificati espressamente dalla legge come tributi locali) ma soltanto in via secondaria, stabilendo norme attuative o integrative delle norme primarie, contenute in leggi statali o regionali.
Considerando dunque il contenuto minimo della norma tributaria impositrice riservato alla legge dalla Costituzione (soggetti passivi, presupposto e misura del tributo, quanto meno tramite fissazione, se non proprio della base imponibile e dell’aliquota, dei criteri e limiti idonei a delimitare ed orientare le scelte fatte con fonti regolamentari), i Comuni devono limitarsi ad integrare tale contenuto (così, ad esempio, in materia di IMU).
Dal punto di vista dei principi generali in materia di imposizione fiscale, posto che l’art. 3 della Costituzione declina il principio di uguaglianza (valevole anche in materia fiscale, e non violato dalla concessione di agevolazioni per scopi costituzionalmente riconosciuti) e la necessità di rimozione degli ostacoli economici – quindi anche di natura tributaria – che impediscono la piena attuazione di tale principio, l’art. 23 della Costituzione sancisce invece la riserva di legge (statale e regionale, ma relativa e non assoluta) in materia tributaria (”nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”), e l’art. 53 della Costituzione il principio della “capacità contributiva”, secondo cui ”tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” e “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Sotto quest’ultimo profilo, il dovere di concorrere alle spese pubbliche è uno dei “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” sanciti dall’art. 2 della Costituzione; il singolo non deve contribuire in ragione di ciò che riceve, ma in ragione delle sue capacità, e non in ragione proporzionale, ma in ragione progressiva rispetto alle sue potenzialità economiche.
Fatto espressivo di capacità contributiva è un fatto che esprime forza economica, un indice concretamente rivelatore di ricchezza, dal quale sia razionalmente deducibile l’idoneità soggettiva all’obbligazione d’imposta.
Vi sono indici diretti (reddito, patrimonio, incrementi di patrimonio) e indici indiretti (consumi e trasferimenti di beni) di capacità contributiva, ma alcuni fatti economici non sono espressione di tale capacità (ad esempio, reddito minimo) e il fatto tassato deve essere rivelatore di capacità effettiva e non fittizia.
La Corte costituzionale ha peraltro ritenuto che il principio di capacità contributiva non è violato per il solo fatto che una riduzione del valore della moneta faccia aumentare l’incidenza di un tributo, e che non sono necessariamente lesive del principio di effettività della capacità contributiva le norme che collegano i tributi a parametri legalmente predeterminati (ad esempio, reddito catastale).
Le presunzioni legali sono legittime, se corrispondono a regole di esperienza e ammettono la prova contraria; l’effettività è inoltre collegata necessariamente all’attualità della capacità contributiva, di modo che sono illegittimi da un lato i tributi retroattivi, se i fatti del passato “colpiti” dal tributo non esprimono una capacità contributiva attuale, e dall’altro i pagamenti anticipati di tributi, se la fattispecie a cui si collega il prelievo anticipato sia del tutto avulsa dal presupposto, l’obbligo di versamento sia incondizionato o non siano previsti meccanismi di riequilibrio.
Il principio di progressività, infine, non riguarda i singoli tributi ma il sistema nel suo complesso, indica che il sistema tributario non ha soltanto lo scopo di fornire mezzi finanziari allo Stato ma anche funzioni redistributive, ed è soddisfatto, nel nostro ordinamento, da un tributo sul reddito complessivo a carattere progressivo – quale l’Irpef – che abbia valore caratterizzante di tutto il sistema tributario.
Altri principi comuni al sistema fiscale si rinvengono nello Statuto dei diritti del contribuente, che ha peraltro valore di legge ordinaria, e dunque può essere astrattamente derogato da norme di pari rango ad esso successive.
Tuttavia, l’art. 1 della L. n. 212 del 2000 stabilisce che le disposizioni di essa sono da considerarsi diretta attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, e costituiscono “principi generali dell'ordinamento tributario”, di modo che tali disposizioni “possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali”.
Inoltre, lo Statuto pone un limite alle leggi apparentemente interpretative, cioè a quelle norme che non hanno l’obiettivo di interpretare correttamente e autenticamente una disposizione tributaria di incerto significato, ma si autodefiniscono interpretative per modificare la norma che dicono di interpretare, così intervenendo sulla stessa retroattivamente, posto in ogni caso che la Corte costituzionale ha statuito che la palese erroneità di tale autoqualificazione può costituire di per sé un indice della irragionevolezza della disposizione interpretativa.
Secondo lo Statuto, se delle previsioni di legge costituiscono interpretazione autentica di norme tributarie – con effetti cioè retroattivi e applicabili anche ai “rapporti non esauriti” -, tali norme devono riguardare casi eccezionali, avere forza di legge ordinaria e autoqualificarsi espressamente come di “interpretazione autentica”.
Si tratta peraltro sempre di interpretazione di norme tributarie sostanziali, disciplinanti an e quantum dei singoli tributi, perché per le altre norme (ad esempio procedimentali e processuali) non si pone una peculiarità di sistema.
Resta inteso che in diritto tributario le norme che accordano esenzioni o agevolazioni sono da interpretare sempre restrittivamente, in quanto deroghe ad una regola generale (in conformità all’art. 14 delle preleggi), e che le fattispecie imponibili non sono soggette ad integrazione analogica, secondo alcuni perché le norme impositrici sono norme a fattispecie esclusiva (norme cioè che non rispondono a un principio superiore, e che dunque non sono suscettibili di estensione analogica), secondo altri perché non possono presentare lacune in senso tecnico – la eventuale lacuna corrisponde sempre ad una scelta del legislatore – e il divieto di analogia corrisponde al pacifico divieto di analogia delle relative norme sanzionatorie, dovendosi in tesi estendere analogicamente un’imposta a casi non previsti espressamente dalla legge tributaria e poi considerare non punibile l’evasione, in considerazione dell’impossibilità di estendere parallelamente la norma punitiva.
Tra i principi stabiliti dallo Statuto dei diritti del contribuente degno di nota è quello previsto dall’art. 10, secondo cui “i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede” e “non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell'amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall'amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell'amministrazione stessa”.
Secondo lo stesso art. 10, peraltro, le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta.
Tale condizione di incertezza non è rinvenibile nella pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria, mentre le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto, pur trattandosi di disposizioni imperative (in tal senso, la norma pare costituire l’espressa deroga richiesta dall’art. 1418, comma 1, del codice civile, in tema di nullità virtuale).