Cassazione Civile, Sez. V, 9 settembre 2021, n. 24255
L’Agenzia delle Entrate aveva acquisito sentenze presso vari uffici giudiziari dalle quali emergeva che uno studio professionale di avvocati aveva patrocinato una serie di difese. Nondimeno, nessuno dei legali associati aveva dichiarato quei compensi.
Da ciò una rettifica analitica-induttiva ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, l’espletamento del contraddittorio con gli interessati senza che questi “fossero stati in grado di giustificare la mancata corresponsione dei compensi”, e l’emanazione di avvisi di accertamento nei confronti dell’associazione e dei singoli associati con la contestazione di maggiori redditi da lavoro autonomo e di un maggiore volume d’affari, da cui scaturiva una maggiore pretesa fiscale ai fini IRAP e IVA nonché l’applicazione delle relative sanzioni.
L’accertamento, fondato dunque sulla presunzione che a seguito del deposito della sentenza l’avvocato difensore riceva il compenso, è stato giudicato legittimo.
In particolare, la Corte di Cassazione ha:
- innanzitutto, precisato che il fatto che dalla contabilità dello studio non risultava il versamento di alcun compenso era irrilevante visto che la ricostruzione analitico-induttiva del reddito prescinde dalla contabilità, anche se formalmente regolare, basandosi invece su presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti (requisiti previsti dall’art. 2729 c.c.);
- e che anche il fatto che non risultavano fatture era inconsistente in quanto “appare ragionevole ritenere che la fattura non sia stata emessa al fine proprio di sottrarsi al pagamento delle imposte”;
-all’opposto, l’utilizzo di una presunzione per individuare il momento dell’effettiva percezione del reddito - individuato con il deposito della sentenza, atto che conclude l’incarico professionale - è legittimo perché conforme ai criteri generali posti dagli artt. 2727 e 2729 c.c.;
- è già stato affermato che per le imposte sui redditi “il corrispettivo della prestazione del professionista legale e la relativa spesa si considerano rispettivamente conseguiti e sostenuti quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell’esaurimento o della cessazione dell’incarico professionale” (Cass. Civ., Sez. V, 11 agosto 2016, n. 16969);
- la prestazione difensiva ha carattere unitario e ciò importa che gli onorari di avvocato devono essere liquidati una volta posta in essere una prestazione tecnicamente idonea a raggiungere il risultato a cui quella prestazione è diretta e in base alla tariffa vigente nel momento in cui essa è condotta a termine;
- più precisamente, l’unitarietà va rapportata ai singoli gradi in cui si è svolto il giudizio, e quindi al momento della pronunzia che chiude ciascun grado;
- manifestazione dell’unitarietà della prestazione è anche la decorrenza della prescrizione del diritto dell’avvocato al compenso che, ai sensi dell’art. 2957 c.c., decorre dal momento dell’esaurimento dell’affare (decisione della lite o conciliazione delle parti) per il cui svolgimento fu conferito l’incarico.
Per cui in presenza di una prova indiziaria grave, precisa e concordante - le sentenze - era onere del contribuente avvocato dare la prova di non aver percepito i relativo compenso o che precisi fattori ne avevano impedito l’incasso (per esempio, producendo diffide ad adempiere o richieste di decreto ingiuntivo, o provare l’infruttuosità dell’esecuzione).
E ciò non significa chiedere una prova negativa, perché “può parlarsi di prova negativa solo quando taluno per far valere un diritto è tenuto a dimostrare non solo i fatti costitutivi ma altresì la inesistenza di fatti estintivi”.