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Responsabilità civile dei funzionari pubblici e prova della condotta “ulteriore”

dalla Redazione • 30 gennaio 2025

Tribunale ordinario di Bari, Sezione Terza Civile, sentenza n. 2 del 2025 emessa nella causa iscritta al n. 15328/2017 R.G.


IL CASO E LA DECISIONE

Un soggetto, all’epoca magistrato amministrativo, nella qualità di Consigliere di Stato, ma successivamente destituito dall’Ufficio giudiziario di appartenenza, ha citato in giudizio dinanzi al Giudice ordinario, tra gli altri, due dei tre componenti della commissione incaricata dal Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa (organo di autogoverno dei magistrati amministrativi) di svolgere attività istruttoria in funzione disciplinare.

In particolare, secondo l’attore, i due convenuti de quibus, occupandosi del suo caso in qualità di componenti della citata commissione istruttoria, avrebbero agito in base a "un disegno persecutorio", che sarebbe stato provato, tra l’altro, dalla scelta di negare all’incolpato "il contraddittorio nella fase degli accertamenti preliminari", dall’essere stati pregiudizialmente faziosi nel condurre l’audizione dei testimoni e dall’avere utilizzato prove acquisite illecitamente.

L’ex magistrato amministrativo ha dunque chiesto la condanna dei due componenti della commissione al risarcimento dei danni (a titolo di responsabilità civile, ex art. 2043 c.c.) che gli sarebbero derivati dall’illecito plurioffensivo (in quanto lesivo del "diritto all'equo processo", del "diritto all'autodeterminazione", della "libertà di ricerca e insegnamento" e del "diritto alla salute") cagionato dall'iniziativa disciplinare e dalle modalità con cui la stessa sarebbe stata condotta.

Dopo un passaggio in Corte di Cassazione in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, a seguito del quale i Giudici di legittimità hanno stabilito che la causa introdotta in sede civile dall’attore apparteneva alla giurisdizione del giudice ordinario e non a quella del giudice amministrativo, il Tribunale adito ha respinto tutte le domande e le eccezioni proposte.

In particolare, il Giudice di primo grado ha ritenuto superabili le eccezioni di nullità dell’atto di citazione, di incompetenza territoriale e di inammissibilità della domanda di risarcimento proposte dalle parti, soffermandosi poi sulla questione della legittimazione passiva dei convenuti in quanto componenti della commissione pubblica “disciplinare” e sulla asserita insindacabilità delle opinioni espresse e delle decisioni assunte da costoro nella loro qualità di componenti del Consiglio di Presidenza, nel corso del procedimento disciplinare.

Invero, una volta chiarito definitivamente che la vicenda oggetto di causa è da considerarsi estranea al perimetro della legge n. 117 del 1988 (legge sulla responsabilità civile dei magistrati), in quanto le funzioni svolte dai componenti della commissione ex art. 33 della legge n. 186 del 1982 non costituiscono esercizio di attività giudiziaria, il Tribunale di Bari ha evidenziato la differenza strutturale che corre tra la valutazione preliminare del difetto di legittimazione passiva e l’assolvimento o meno dell’onere probatorio gravante sull’attore rispetto alla titolarità della posizione soggettiva passiva.

Quanto alla prima (valutazione preliminare della legittimazione), la sussistenza della legittimazione ad agire, e a contraddire, è riscontrabile sulla base del mero criterio della prospettazione, di modo che è stato sufficiente, a tali fini, e nel caso di specie, che l’ex magistrato amministrativo abbia dedotto di avere subito un pregiudizio connesso a condotte personali guidate da “vis persecutoria”.

Quanto alla seconda, invece (titolarità della posizione soggettiva), la stessa attiene al merito della controversia ed è un elemento costitutivo della domanda che deve essere debitamente provato, cui consegue l’eventuale accertamento positivo del Giudice circa la sussistenza di condotte dolose o gravemente colpose dei due componenti della commissione pubblica “disciplinare”, che abbiano cagionato la lesione dei diritti fondamentali dell’attore, e che abbiano trovato mera “occasione” nell’operato della commissione stessa, quale organo collegiale amministrativo.

Tanto premesso, e nel merito della causa, parte attrice era dunque gravata, innanzitutto, dell'onere di provare, sotto il profilo dell'elemento materiale dell'illecito aquiliano, quali comportamenti individuali avessero in concreto condizionato negativamente la Commissione, e il nesso eziologico tra condotta antigiuridica e lesione dei suoi diritti fondamentali; sotto il fronte dell'elemento psicologico, inoltre, avrebbe dovuto essere dimostrato l'intento persecutorio dell'agente e il disegno unitario che legava i singoli atti, all'interno di una strategia preordinata a raggiungere il risultato specifico e determinato di applicare la sanzione disciplinare.

Tuttavia, è risultato che l’asserita condotta illecita dei convenuti - arguita da vari elementi presunti dall’attore, tra cui, ad esempio, la mancanza di contraddittorio, la trasmissione non dovuta degli atti alla Procura della Repubblica e l'utilizzazione di prove illecite - sia stata fondata su vizi del procedimento rispetto ai quali non sono stati riscontrati dal Giudice comportamenti individuali o contributi dei singoli animati da dolo e volti ad orientare in una preordinata direzione la vicenda disciplinare.

D'altra parte, sui predetti vizi del procedimento si è pronunciato in diversa sede il Giudice amministrativo, che ha nel frattempo definitivamente respinto tutte le censure dedotte dall'ex magistrato contro il provvedimento di destituzione.

Posto, dunque, che l’attore non ha in alcun modo chiarito secondo quali modalità le presunte violazioni sarebbero state commesse in concreto dai funzionari pubblici attraverso un loro contributo individuale e specifico a ciò preordinato, la domanda risarcitoria è stata integralmente respinta.


L’AZIONE RISARCITORIA: COMPETENZA TERRITORIALE E PRESUPPOSTI DELLA RESPONSABILITA’

Uno degli spunti più interessanti tra le numerose questioni giuridiche affrontate dal Giudice di primo grado attiene al radicamento della competenza territoriale nel caso di obbligazione nascente da fatto illecito, ex art. 20 c.p.c. (che deroga al criterio generale della residenza dei convenuti), qualora il danno-evento e il danno-conseguenza si siano verificati in due luoghi diversi, posto che la norma in questione prevede un foro facoltativo determinato dal luogo in cui l’obbligazione risarcitoria “è sorta”. 

Invero, l’attività dei due funzionari pubblici impegnati nell’istruire la “pratica” disciplinare e a cui è stata contestata la condotta lesiva uti singuli, si era sostanzialmente esaurita in Roma, luogo in cui ha sede l’Organo di autogoverno della magistratura amministrativa.

In senso contrario alla competenza del Giudice “periferico” – competenza territoriale connessa al luogo di residenza dell’attore – deponevano poi le seguenti circostanze:

- la diversa sede di lavoro (Roma) dell’ex consigliere di Stato;

- il fatto che gli illeciti non erano stati compiuti a mezzo della stampa, della televisione o delle reti telematiche, per cui non sarebbero state sussistenti, nel caso di specie, deroghe alla competenza stabilita dall’art. 20 c.p.c., né risulterebbero applicabili altri criteri speciali di competenza per territorio.

Il Giudice di primo grado ha respinto l’eccezione premettendo che giurisprudenza ormai consolidata ha identificato, nelle controversie aventi ad oggetto la richiesta di risarcimento del danno da fatto illecito, il luogo in cui è sorta l’obbligazione con quello in cui si è verificato il pregiudizio effettivo.

Ne deriva che, secondo l’impostazione seguita, e in una causa in cui l’attore ha dedotto la lesione di diversi diritti fondamentali, quali il diritto all’equo processo, all’autodeterminazione, alla libertà di insegnamento e di ricerca, il diritto alla salute e alla privacy, oltre che all’onore, alla reputazione e alla identità personale, è apparso al Giudice necessario limitare, anche in ossequio all’art. 25 della Costituzione, la scelta della competenza ad un luogo certo e individuabile in base a un criterio oggettivo, quale quello della residenza o del domicilio del soggetto che si ritiene danneggiato.

In tali luoghi si presume si sia verificato massimamente e cumulativamente il pregiudizio patito, analogamente a quanto già ritenuto dalla Cassazione per i giudizi promossi per il risarcimento dei danni derivanti dalla lesione dei diritti della personalità recati da condotte diffamatorie tramite mezzi di comunicazione di massa, di modo che l’attore avrebbe legittimamente esercitato la sua facoltà di adire o il giudice del suo domicilio o quello, se diverso, della sua residenza.

Nel caso di specie, dunque, il danno ingiusto plurimo dedotto dall’ex magistrato – danno amplificato dalla risonanza nazionale della vicenda – si sarebbe identificato, secondo il Giudice di primo grado, non con la lesione presupposta (sanzione disciplinare) bensì con le conseguenze pregiudizievoli che ne sono derivate in concreto al danneggiato, conseguenze che hanno avuto massima diffusività proprio nel luogo di residenza dell’attore, ovvero dove questi si trovava stabilmente e aveva ricevuto tutte le comunicazioni e convocazioni della commissione disciplinare.

Nel merito, il Giudice di primo grado ha chiarito inequivocabilmente – anche sulla scorta della precedente pronuncia della Corte di Cassazione resa nello stesso giudizio, in sede di regolamento preventivo di giurisdizione – che l’azione civile contro due dei tre funzionari pubblici che hanno fatto parte di una commissione amministrativa disciplinare non può essere un mero “doppione” della domanda di annullamento del provvedimento adottato a seguito dell’iter procedimentale portato avanti da quella stessa commissione, ma, pur “passando” per l’illegittimo esercizio del potere amministrativo, dovrebbe essere diretta a evidenziare una condotta antigiuridica “ulteriore” di coloro che quel potere hanno esercitato.

Tale condotta “ulteriore” non può esaurirsi nei vizi formalmente dedotti ma deve necessariamente correlarsi al complessivo comportamento tenuto dai funzionari, posto in essere non soltanto con atti formali, ma anche con comportamenti materiali e dichiarazioni.

Nel caso di specie, l’abuso del potere (amministrativo) disciplinare in contestazione – anche per distinguere le posizioni all’interno della commissione disciplinare, tra chi avrebbe commesso la condotta antigiuridica “ulteriore” e chi no – avrebbe dovuto concretarsi in una slealtà del modus procedendi rilevabile ictu oculi dall’esame della documentazione prodotta o da testimonianze che corroborassero l’ipotesi del disegno persecutorio.

Si pensi, a esempio, ad affermazioni pubbliche o private di un componente della commissione disciplinare, o  a documentazione allo stesso riconducibile, attestanti la volontà di arrivare a un risultato prefissato (sanzione disciplinare) “strozzando” il contraddittorio o falsando i presupposti della contestazione o ancora omettendo dolosamente di vagliare le giustificazioni addotte dall’incolpato.

Tuttavia, in assenza di una tale prova, il giudizio sulla condotta dei singoli funzionari tende a confondersi con il giudizio sul corretto esercizio del potere amministrativo a loro devoluto e restituisce all’organo nel suo complesso una collegialità nel procedere e nel decidere che nel nostro ordinamento soltanto il Giudice dell’atto (in questo caso, il Giudice amministrativo) può sindacare direttamente, con possibilità di una pronuncia di annullamento, tramite la verifica della sussistenza dei tradizionali vizi di legittimità (incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere), da cui far derivare, eventualmente, oltre alla caducazione della sanzione, anche una tutela risarcitoria.

D’altra parte, l’approccio rigoroso del Tribunale sulla necessità di una prova ulteriore e aggiuntiva da parte dell’attore, nel caso in cui decida di “colpire” solo alcuni dei soggetti che si sono occupati del suo procedimento disciplinare, pare giustificata anche dalla necessità di impedire una possibile strumentalizzazione delle iniziative giudiziarie extra procedimentali da parte dell’incolpato, che incidano e interferiscano ingiustificatamente sull’attività dei funzionari pubblici, qualora la condotta di costoro non superi, singolarmente, i limiti della continenza e della buona fede, limiti che non sono incisi dalla rigorosa ricerca della verità, in ossequio al principio costituzionalmente tutelato del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione.




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