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Responsabilità politica, responsabilità giuridica e responsabilità morale. Storia recente di uno Stato che non sa chiedere scusa

a cura di Roberto Lombardi • 12 giugno 2021

E’ notizia di questi giorni che il vaccino Vaxzevria (più noto con il vecchio nome di AstraZeneca) sarà somministrato soltanto a chi ha più di 60 anni. Almeno così ha “consigliato” il CTS al Ministro della Salute, dopo la morte della giovane Camilla.

Prima di oggi, Astrazeneca era stato soltanto “raccomandato” agli over 60, e allegramente distribuito, nonostante ciò, ai diciottenni nei famigerati Open Day. Prima ancora, quando il vaccino di Oxford non era ancora entrato nell’occhio del ciclone per le correlazioni con episodi di trombosi venose cerebrali, la sua somministrazione era stata limitata agli under 55 e poi agli under 65.

Da domani, chi ha fatto la prima dose con Astrazeneca e ha meno di 60 anni dovrà fare il richiamo con un diverso vaccino. Chiamarlo caos scientifico e normativo è un eufemismo.

Ma chi risponde per tutto questo? C’è un Tribunale che potrà accertare delle eventuali responsabilità giuridiche? C’è qualcuno che secondo il nostro ordinamento rappresenta individualmente l’apparato dello Stato non solo nella gestione del potere e nelle parate, ma anche nella cattiva sorte, quando si cumulano errori su errori? Secondo la nostra Carta costituzionale qualcuno c’è.

E le recenti vicende del processo all’ex Ministro dell’Interno sul presunto sequestro di migranti, e della mozione di sfiducia presentata (e respinta) nei confronti dell’attuale Ministro della Salute per omissioni e comportamenti connessi alla gestione della pandemia, ne sono la dimostrazione, riportando in auge il mai sopito dibattito sui confini della responsabilità.

Responsabilità morale, responsabilità politica, responsabilità giuridica.

Quanti tipi di responsabilità esistono? E che cos'è di fondo, la responsabilità?

Responsabilità, in linea generale, è il fatto di essere responsabili, cioè di rispondere delle proprie azioni e dei propri comportamenti, rendendone ragione e subendone le conseguenze.

E’ un concetto tipico del diritto, laddove individua una situazione giuridicamente “sanzionabile” di obbligo gravante su un soggetto, che si instaura o per inadempimento di un obbligo primario (ad esempio, nascente da un contratto) o per qualunque atto illecito doloso o colposo che abbia arrecato ad altri un danno ingiusto, e che acquista diverse sfumature a seconda del campo di elezione (responsabilità patrimoniale, responsabilità amministrativa, responsabilità penale, responsabilità internazionale).

Ma è anche un concetto strettamente connesso al dibattito politico, all’interno di un rapporto di rappresentanza tra titolare di una carica pubblica elettiva e i suoi elettori.

Nel sistema costituzionale italiano, ad esempio, è tipicamente politica la responsabilità del Governo verso il Parlamento, che si concretizza nell’obbligo del primo di dimettersi quando non abbia più la fiducia del secondo.

Vi è infine la responsabilità morale, definibile per inclusione quale corollario della responsabilità giuridica – qualora, come normalmente avviene, la condotta illecita sia riprovevole anche sotto un aspetto ideale -, ovvero, per esclusione, definibile come “non estraneità” ad atti illeciti da parte di chi, per la posizione occupata, per le affermazioni fatte o per la condotta mantenuta, pur non violando l’ordinamento giuridico, non ha rispettato una norma morale ritenuta universalmente valida, o ha offeso, in un dato contesto storico e sociale, i principi morali correnti.

Le conseguenze delle azioni dei Ministri, organi monocratici che compongono il Governo della Repubblica, si situano molto spesso a metà strada tra responsabilità politica e responsabilità giuridica; i Ministri della Repubblica sono inoltre sempre moralmente responsabili, per l'indiscusso potere di cui godono, delle scelte governative e delle loro ricadute sul tessuto ordinamentale, economico e sociale del Paese.

Secondo l'art. 95, comma 2 della Costituzione, i Ministri "sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri".

La responsabilità dunque si riconnette a un potere proprio nella formazione tanto degli atti del Governo intero, quanto degli atti dei rispettivi Ministeri. La titolarità di questo potere è ciò che caratterizza la figura del Ministro nel governo parlamentare, rispetto al passato.

La vera trasformazione del Ministro, dalla risalente posizione di funzionario, posto prima al servizio della persona del Re, e poi, quale suo diretto subordinato, alla guida dell’apparato per la gestione degli “affari” del regno (da cui il titolo, solo di recente abbandonato, di Segretario di Stato), è indubbiamente avvenuta con l’avvento della forma di governo parlamentare e la corrispondente emarginazione politica del Sovrano. Poiché il monarca aveva mantenuto la posizione di Capo dello Stato, ma aveva perso quella di Capo del Governo, il compito di direzione dello Stato si era trasferito naturalmente sugli uomini al vertice delle diverse branche operative del relativo apparato amministrativo. Ed è in tal modo che è nato il potere decisionale autonomo del Ministro, organo monocratico al quale è istituzionalmente attribuita, nell’ambito del potere esecutivo, la cura di una determinata serie di interessi pubblici.

La relativa funzione di cura e, al contempo, di rappresentanza di tali interessi, si fa valere non solo nel Consiglio dei Ministri, ma anche in sedi istituzionali diverse, sia interne che esterne al Governo, dove il Ministro, quale portatore di interessi settoriali, può avvalersi contestualmente del concorrente valore di rappresentante del Governo inteso nella sua unità. Ciò avviene, in particolare, nei rapporti con l’Unione europea, nonché con le Camere, perché la posizione del Governo in Parlamento – con i connessi poteri, recepiti nei regolamenti parlamentari, fra i quali spicca la proposta di emendamento ai disegni di legge anche in assenza, di norma, di una specifica pronuncia del Consiglio dei Ministri – finisce naturalmente per fare capo al Ministro competente per materia, che li esercita personalmente, ovvero per il tramite dei sottosegretari.

Per quanto poi attiene alla individuazione della sfera di interessi di cui ciascun Ministro si fa portatore in queste molteplici forme, l’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 300/1999 rinvia espressamente (per i Ministri preposti ai Ministeri) alle funzioni di spettanza statale nelle materie e secondo le aree funzionali normativamente indicate per ciascuna amministrazione.

L’unità di azione con i titolari degli altri Ministeri, non più assicurata dalla comune sottoposizione alle direttive del Sovrano, viene assicurata oggi, da un lato, dal Consiglio dei Ministri, che è diventato titolare delle decisioni più importanti del Governo - come tali idonee a condizionare l’azione di ciascun Ministro nel proprio ramo di amministrazione -, e, dall’altro, da un organo ulteriore e distinto, la cui denominazione (Presidente del Consiglio, primo Ministro, Cancelliere), nelle varie esperienze, tradisce pur sempre l’origine per così dire “ministeriale” dell’organo medesimo e comporta per tale organo una responsabilità diretta nei confronti delle Camere rappresentative, con tutta una serie di implicazioni, in punto di potere di nomina e revoca dell'incarico, incidenza sulle decisioni collegiali e autonomia nella definizione delle questioni di pertinenza ministeriale.

La responsabilità di cui parla l'art. 95 della Costituzione è una responsabilità politica, che si scinde in responsabilità collegiale e responsabilità individuale, in relazione alla duplice veste del Ministro di componente della compagine governativa, da un lato, e di vertice del dicastero, dall'altro.

Risulta dai lavori preparatori della Costituzione che la responsabilità del singolo Ministro era stata qualificata in un primo tempo come "personale", diventando poi nel testo definitivo "individuale", a rimarcare l'intento di stabilire una correlazione tra le due forme di responsabilità - collegiale ed individuale - nel comune quadro della responsabilità politica.

Nella forma di governo parlamentare la relazione tra Parlamento e Governo si snoda secondo uno schema nel quale laddove esiste indirizzo politico esiste responsabilità, nelle due accennate varianti, e laddove esiste responsabilità non può non esistere rapporto fiduciario.

L'indirizzo politico che si colloca al centro di una siffatta articolazione di rapporti è assicurato, dunque, nella sua attuazione, dalla responsabilità collegiale e dalla responsabilità individuale contemplate dall'art. 95 della Costituzione; responsabilità che fanno capo ai soggetti specificamente indicati dall'art. 92 della Costituzione, vale a dire il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri, nella duplice veste di componenti del Governo e di vertici dei dicasteri, e che sono definite nei loro termini anche temporali di riferimento, ai sensi dell'art. 94 della Costituzione, dall'instaurazione, da un lato, e dal venir meno, dall'altro, del rapporto fiduciario.

L'attività collegiale del Governo e l'attività individuale del singolo Ministro - svolgendosi in armonica correlazione - si raccordano all'unitario obiettivo della realizzazione dell'indirizzo politico, a determinare il quale concorrono Parlamento e Governo. Al venir meno di tale raccordo, l'ordinamento prevede strumenti di risoluzione politica del conflitto a disposizione tanto dell'esecutivo, attraverso le dimissioni dell'intero Governo ovvero del singolo ministro, quanto del Parlamento, attraverso la sfiducia, atta ad investire, a seconda dei casi, il Governo nella sua collegialità ovvero il singolo ministro, per la responsabilità politica che deriva dall'esercizio dei poteri a lui spettanti.

Sussiste in particolare la possibilità di proporre una sfiducia “individuale”, nei confronti del singolo Ministro – secondo quanto precisato dalla Corte costituzionale –, quando il comportamento dissonante di costui infrange la collegialità come metodo di azione dell’esecutivo, di modo che il recupero dell'unitarietà di indirizzo può essere favorito proprio dal ricorso, allorché una delle Camere lo ritenga opportuno, all'istituto della sfiducia individuale.

Invero, la Costituzione configura una responsabilità politica individuale che implica una correlazione sul piano delle conseguenze, e la lesione del metodo collegiale che caratterizza l'azione del Governo ad opera del singolo Ministro trova sanzione proprio nella sfiducia ad personam.

D’altra parte, in veste di uguali componenti del Consiglio dei Ministri, i Ministri concorrono da un lato all'adozione delle decisioni più importanti del Governo, ovvero "la politica generale del governo e, ai fini dell'attuazione di essa, l'indirizzo generale dell'azione amministrativa" (art. 2 comma 1 della L. n. 400 del 1988), ma dall'altro, quali titolari di un dicastero, o, comunque, di una cerchia determinata di attribuzioni, sono individualmente preposti alla concreta attuazione delle stesse decisioni di governo, che hanno concorso ad adottare come componenti del Consiglio. In particolare, tocca a ciascun Ministro il compito di dar corso alle deliberazioni consiliari «concernenti schemi di provvedimento da lui stesso approntati».

Risulta così propriamente affidata alla figura dei Ministri, organi di vertice dell’amministrazione statale e componenti del Consiglio dei Ministri, l’opera di ideazione, proposizione, deliberazione ed infine attuazione delle decisioni del potere esecutivo.

La Costituzione conferma la relazione di stretta continuità fra posizione del Ministro nel Consiglio dei Ministri e posizione del Ministro nel Ministero, non distinguendo affatto fra attività di governo ed attività di amministrazione, bensì ricorrendo alla nozione della “politica generale di governo”, la quale non è soltanto l’attività politica in senso stretto, bensì riguarda tutta l’attività governativa comunque rivolta alla gestione della cosa pubblica, e cioè l’operato complessivo del Governo e dei singoli elementi che lo compongono.

Per quanto attiene ai veri e propri poteri di amministrazione attiva, tipici dell’attività di esecuzione delle leggi e delle decisioni generali di Governo, a partire dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 29 del 1993, al Ministro è stato lasciato il solo potere di indirizzo politico-amministrativo (e cioè la definizione degli obiettivi e dei programmi da attuare) nonché le funzioni di controllo (e cioè la verifica della rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti), mentre è stata affidata alla competenza esclusiva di una classe di funzionari appositamente creata – i dirigenti – l’attività amministrativa in senso stretto (adozione degli atti e provvedimenti) nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa del Ministero.

In particolare, l’art. 14 del d.lgs. n. 165 del 2001, stabilendo l’impossibilità per il Ministro del potere di «revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti», ha sanzionato definitivamente il venir meno della sua posizione di capo gerarchico del Ministero a lui affidato.

In tal modo, tuttavia, si è andato potenzialmente ad acuire il conflitto già in linea di principio esistente tra l’accoglimento espresso nella Costituzione di due criteri organizzativi tra di loro diversi (la responsabilità ministeriale e l’imparzialità dell’amministrazione: artt. 95 e 97), poiché la responsabilità dei Ministri di fronte alle Camere origina proprio dalla titolarità del potere esecutivo, imputata ad essi quali organi al vertice delle rispettive amministrazioni, cosicché se al Ministro residua soltanto il potere di direttiva, ad esserne colpita è proprio la previsione costituzionale secondo cui i Ministri sono responsabili individualmente degli atti dei loro dicasteri.

Né è possibile risolvere il problema limitando la responsabilità politica del Ministro ai contenuti delle direttive ministeriali, posto che, per propria natura, la responsabilità politica non sembra sottoponibile a queste forme di limitazione, data l’impossibilità di sindacare in alcun modo il contenuto della censura della Camera nei confronti del Governo.

Sembra quindi necessario ribadire, nonostante le intervenute modifiche normative in tema di separazione tra attività di indirizzo e attività di gestione, che l’art. 95 Cost., nell’imputare a ciascuno dei Ministri la responsabilità individuale per gli atti del proprio dicastero, esprime un principio tuttora connaturato al governo parlamentare.

Diversa deve essere invece la conclusione per la responsabilità giuridica del Ministro. Valendo qui necessariamente il carattere personale della responsabilità, non si può chiedere al Ministro di rispondere di una gestione amministrativa le cui decisioni sono riservate ai dirigenti. Ne deriva pertanto che, ad integrare la nozione degli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni di Ministro (atti cd. “ministeriali”), ricadenti, in quanto tali, nell’area della sua responsabilità giuridica, restano i soli atti di indirizzo e di controllo, nonché gli atti adottati dal Consiglio dei Ministri, in particolare se emanati con decreto del Presidente della Repubblica, per i quali l’apposizione della controfirma implica per ciò solo, ai sensi dell’art. 89 Cost., assunzione della relativa responsabilità.

Per tali atti sussiste, secondo le tradizionali ripartizioni, sia responsabilità civile ed amministrativa, per le quali l’ordinamento non pone per il Ministro regole diverse da quelle valevoli per ogni amministratore della cosa pubblica, sia responsabilità penale, per la quale invece residua – sulla scorta della tradizione – una disciplina speciale, che ha mantenuto integro sul piano costituzionale l’istituto del “reato ministeriale”.

Nella vicenda della gestione della pandemia, con particolare riferimento alla mancata istituzione della “zona rossa” ad Alzano e Nembro e del mancato aggiornamento del piano pandemico, i profili di responsabilità del Ministro competente (Ministro della Salute), e degli altri soggetti istituzionali connessi, si sono aggrovigliati in un nodo a tratti inestricabile.

Le indagini della Procura della Repubblica di Bergamo stanno cercando di fare luce su una possibile correlazione tra decessi per covid-19 e condotte illecite ascrivibili a persone fisiche.

Si tratta di un’attività doverosa, in quanto l’art. 112 della Costituzione stabilisce che “il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale” e l’unico modo che le Procure della Repubblica hanno per rispettare tale norma è di vagliare, di ufficio o su evidenza degli organi di polizia giudiziaria, tutte le notizie di reato, anche quelle che appaiono prima facie infondate.

Non è possibile ovviamente prevedere, ad oggi, quali saranno gli esiti di tale attività di indagine – le cui “carte” sono coperte da segreto – ma possono comunque essere delineati alcuni punti fermi e oggettivi rispetto alle potenziali responsabilità (politiche, giuridiche e morali) dei soggetti istituzionali coinvolti.

Mancata istituzione delle zone rosse ad Alzano e Nembro.

L’art. 3 del decreto-legge n. 6 del 2020 (prima “barriera” normativa adottata dal Governo Conte per fronteggiare concretamente l’epidemia) aveva stabilito che le misure di cui agli articoli 1 e 2 dello stesso decreto (tra cui, appunto l’istituzione di ulteriori zone rosse, rispetto a quelle già individuate nei Comuni di Codogno e dintorni) avrebbero dovuto essere adottate “con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, sentito il Ministro dell'interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell'economia e delle finanze e gli altri Ministri competenti per materia, nonché i Presidenti delle regioni competenti, nel caso in cui riguardino esclusivamente una sola regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni, nel caso in cui riguardino il territorio nazionale”.

Dal verbale n. 16 del Comitato tecnico scientifico del 3 marzo 2020 apprendiamo che i dati relativi ai Comuni di Alzano Lombardo e Nembro, situati in stretta prossimità di Bergamo, denotavano una situazione di “alto rischio di ulteriore diffusione del contagio”.

Il Comitato proponeva, pertanto, agli organi competenti – che, come visto, erano già stati normativamente individuati nel Presidente del Consiglio dei Ministri e, quale organo proponente, nel Ministro della Salute – “di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei comuni della zona rossa anche in questi due comuni, al fine di limitare la diffusione delle infezione nelle aree contigue”.

Tuttavia, in data 4 marzo 2020 non veniva disposta l’istituzione della nuova zona rossa invocata dal Comitato tecnico scientifico, e il Presidente del Consiglio dei Ministri emanava un decreto che, pur dando atto di avere tenuto conto delle indicazioni formulate dal Comitato tecnico scientifico nelle sedute del 2, 3 e 4 marzo 2020, non conteneva alcun divieto di spostamento dai Comuni di Alzano Lombardo e Nembro.

Soltanto il successivo 8 marzo 2020 tutta la Regione Lombardia, in cui l’epidemia era ormai chiaramente fuori controllo, veniva sottoposta ai “rigori” della zona rossa.

Vi è stata dunque certamente un’omissione o comunque un ritardo imputabile, in astratto, primariamente al Ministro competente a proporre le misure da adottare, ovvero il Ministro della Salute.

Ma che tipo di responsabilità ha generato tale omissione?

Certamente, e innanzitutto, di natura politica.

L’art. 1, comma 1 del d.l. n. 6 del 2020 aveva previsto che “allo scopo di evitare il diffondersi del COVID-19, nei comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un'area già interessata dal contagio del menzionato virus le autorità competenti sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica”.

Chi stabiliva l’adeguatezza della misura da disporre? Si direbbe che la competenza fosse proprio del Comitato tecnico scientifico nominato a tale scopo in data 3 febbraio 2020 dal Capo del Dipartimento della protezione civile.

La norma primaria era dunque chiara: ricorreva il presupposto (positività di almeno una persona per la quale non si conosceva la fonte del contagio) e l’obbligo di adozione della misura suggerita dall’organo tecnico.

La responsabilità politica è innegabile.

E la responsabilità giuridica?

La misura adeguata e “consigliata” dal CTS per i due Comuni a rischio della bergamasca era la zona rossa e nonostante ciò non è stata adottata.

Il ritardo decisionale si è rivelato astrattamente “catastrofico” in termini di vita umane, per una scelta non tecnica, ma di opportunità: resta in ogni caso il difficilissimo compito dell’accusa di provare in giudizio la rilevanza causale della inerzia sui singoli decessi.

Più facile potrebbe essere accertare la responsabilità penale dei soggetti che nella catena decisionale hanno commesso un ulteriore errore o una leggerezza.

Nel caso di “non” commissione di tale ulteriore errore, l’accertamento della responsabilità penale e civile degli organi di vertice dovrà confrontarsi anche con la necessità di verificare preliminarmente se gli atti e le omissioni “incriminati” abbiano o meno natura essenzialmente politica.

Mancato aggiornamento del piano pandemico antinfluenzale.

Il Ministro della Salute ha dichiarato in aula che si tratta di un’omissione ascrivibile a ben sette governi prima del suo.

Basta una tale giustificazione per declinare un’ipotesi di responsabilità politica? Ovviamente no.

Al massimo c’è corresponsabilità, ma non assenza di responsabilità.

Quando l’OMS ha dato notizia dell’epidemia nata in Cina l’attuale Ministro della Salute era già da alcuni mesi in carica.

Le notizie che giungevano da Oriente erano preoccupanti e avevano preoccupato il suo Governo, che infatti aveva dichiarato il 31 gennaio 2020 lo stato di emergenza.

Ma il mancato aggiornamento del piano pandemico antinfluenzale – magari in funzione anti-covid -, che avrebbe dovuto essere in quel contesto un’ovvia priorità, è stato soltanto una parte della forte impreparazione del Paese alla tragedia che successivamente lo avrebbe travolto, come attestato anche dal report del dott. Zambon poi fatto ritirare – a beneficio di chi? - dall’OMS.

D’altra parte, è un fatto che la dottoressa che ha scoperto il primo paziente affetto da covid-19 senza catena di trasmissione nota o riconducibile a Paesi dove era cominciata la pandemia (il famoso Mattia di Codogno), abbia dato seguito alla sua intuizione in violazione della circolare del Ministero della Salute adottata in data 27 gennaio 2020, secondo cui gli unici casi da ritenersi sospetti, operatori sanitari a parte, erano i soggetti che contemporaneamente presentassero una infezione respiratoria acuta grave - in assenza di altra eziologia che spiegasse pienamente la presentazione clinica -, e che avessero avuto contatti con aree o persone a rischio. 

Peccato che nel frattempo l’epidemia dilagava sottotraccia.

Ed è un altro fatto inoppugnabile che all’inizio dell’emergenza gli ospedali erano a corto di dispositivi di protezione individuali. 

Anche qui valgono, per quanto riguarda la responsabilità giuridica, le stesse considerazioni già svolte in precedenza sulle omissioni imputabili.

Con l’aggiunta che la Procura della Repubblica di Bergamo starebbe approfondendo anche la sussistenza di comportamenti “scorretti” di soggetti che a vario titolo e con ruoli diversi nella catena gerarchica – ma sempre nell’ambito della struttura del Ministero della Salute – avrebbero disatteso o comunque aggirato le indicazioni di OMS e UE sulla necessità di una revisione sostanziale ed effettiva del piano pandemico del 2006.

Ma, al di là di quanto accerteranno le Procure e i Tribunali competenti, residua un’amara considerazione finale sulla responsabilità morale che nasce dalle scelte umane di chi gestisce la cosa pubblica, nel momento in cui tali scelte non siano all’altezza del compito assegnato o avallino decisioni intempestive ed errate.

E’ un viaggio che ci porta, prima ancora che nel campo della competenza in certi ruoli chiave, nel campo della dignità dei comportamenti umani e della corretta percezione, in chiave oggettiva, del proprio valore, che non sempre è pretendibile, nemmeno nei confronti di chi rappresenta un’Istituzione.

A volte, però, quando il dolore di chi vede morire - in modo brutale, inaspettato e improvviso - un proprio caro, è così grande, quando anche solo il dubbio di avere contribuito a creare questo dolore è il frutto di considerazioni razionali e non di fantasia, l’uomo giusto dovrebbe sempre ricordare a se stesso che può restituire dignità al ruolo ricoperto, ed evitare al contempo di chiudersi in un moto di arroganza autoreferenziale, tramite un atto semplice ma potentissimo e nobile, che va al di là del rapporto fiduciario con la maggioranza di turno: un atto chiamato dimissioni.

In alternativa, uno Stato che si rispetti dovrebbe chiedere scusa a chi ha pagato un costo troppo alto per scelte sbagliate. Anche se forse non chiedere scusa è solo l’estremo e goffo tentativo di sentirsi ancora degno della carica ricoperta.



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