“... il debole storicismo di Savigny veniva usato in due direzioni: per garantire anche in Italia il primato della scienza giuridica rispetto al testo dei codici, in funzione cioè antilegislativa (ed era la vocazione moderata di quel ceto di intellettuali che così si esprimeva: dietro l’onnipotenza del legislatore s'intravedeva sempre l’ombra del rischio rivoluzionario). E insieme per integrare il primato del diritto romano ben dentro ‘lo spirito del popolo’ della nuova Italia (per riprendere una celebre espressione che Savigny mutuava dalla cultura romantica del suo tempo). In tal modo la ripresa degli studi romanistici, sotto il magistero della grande scuola tedesca, ma cercando nello stesso tempo di affrancarsene («come abbiamo rivendicato dallo straniero la nostra terra, rivendichiamo il culto di una scienza», aveva scritto sempre Serafini), diventava non solo un problema di dottrina e di idee, ma una questione di identità nazionale, e di impronta da dare allo Stato e alla formazione delle nuove classi dirigenti. Un vincolo strettissimo doveva stringere «antico diritto di Roma» e «nuovo diritto d’Italia», e questo nel rispetto delle caratteristiche intrinseche della storia italiana, «poiché è impossibile improvvisare un diritto nazionale» e, se «le nazioni si formano con le armi», è solo con le «buone istituzioni» che «si mantengono» (Serafini 1872, 1901, pp. 217-19).
Questo programma collegava così in un unico intreccio la vocazione ‘nazionale’ della nuova romanistica a quell’attualizzazione del diritto romano (la costruzione di un diritto romano ‘attuale’ – noi diremmo di un ‘diritto romano-borghese’ – era stata il progetto dell’ultimo Savigny, che aveva caratterizzato tanta parte della cultura giuridica europea nel corso del 19° sec., e che aveva dato vita, in Germania ma non solo, alla scuola della cosiddetta pandettistica.”
La citazione sopra riportata è tratta dall'articolato e complesso saggio del prof. Aldo Schiavone intitolato “La storia del diritto romano. Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Diritto” voce dell'Enciclopedia Treccani del 2012 (rinvenibile online all'indirizzo:
https://www.treccani.it/enciclopedia/la-storia-del-diritto-romano_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Diritto%29/ )
Nell'ambito di detta voce - che traccia la parabola (ascendente prima e discendente poi) della rilevanza del diritto romano nella formazione del giurista e della costruzione del sistema giuridico in Italia dall'unità all'attualità - segnalo, per il lettore interessato a conoscere ed approfondire le tematiche relative alla funzione e allo scopo del diritto e del rapporto fra legge e norma, i paragrafi iniziali (La romanistica ‘nazionale’; Il ‘modello Bonfante’ e la polemica con Benedetto Croce; Fascismo e modernizzazione; La crisi).
La tematica è di ampio respiro e non può che essere richiamata per cenni, riprendendo in modo del tutto rapsodico alcuni stralci dello scritto, di seguito citati:
Pietro Bonfante è stato di certo il romanista più importante dell’Italia moderna. ... Al centro del suo mondo di studi ritroviamo un’interpretazione fortemente finalistica del diritto e della storia. L’attualizzazione del diritto romano – già in gran parte realizzata – era solo il primo passo verso l’assolvimento di un compito ancora più complesso, che doveva mirare a riportare alla luce le finalità storiche e giuridiche di ciascun istituto, come si potevano leggere attraverso «una lunga catena di secoli» In questo modo, ricerca storica e ricerca propriamente giuridica s'integravano al servizio della comprensione e dell’arricchimento del diritto vigente, e di una più corretta individuazione dei suoi scopi e delle sue funzioni. Antico diritto romano e moderno diritto civile s'intrecciavano in maniera davvero inestricabile, senza però che questo comportasse un annullamento della prospettiva storica, in un punto d’equilibrio di indubbia suggestione, che non sarebbe stato più ritrovato. Bonfante in realtà era uno storico di prim’ordine ...anche se per lui la conoscenza storica aveva pur sempre una funzione in qualche modo subalterna rispetto alla costruzione giuridica...nel suo pensiero la storia del diritto romano veniva identificata con la storia della formazione stessa del popolo italiano, e con la storia dei concetti di nazione e di Stato-nazione. I tradizionali confini del diritto privato erano così completamente travalicati. Il diritto romano poteva diventare una specie di scienza regina, dove si fondevano costruttivismo giuridico e analisi storica nella definizione di un primato culturale (e in certo senso morale) che aspirava a porsi come punto di riferimento dell’intera intelligenza italiana.
E fu proprio questa – un’autentica lotta per l’egemonia intellettuale – la ragione profonda che scatenò, negli anni della Prima guerra mondiale, la polemica di straordinaria asprezza che Bonfante avrebbe ingaggiato con Croce, già allora all’apice della sua influenza ...esso segnò anche il culmine nell’ascesa del diritto romano come sapere di punta, in grado d'imprimere il proprio sigillo su tutta la cultura italiana. La veemenza della reazione di Croce aveva in effetti anche il sapore di un riconoscimento. L’avversario era di pari livello. E la questione andava molto al di là di una semplice battaglia antipositivistica. In gioco erano due modelli alternativi di educazione intellettuale per le nostre classi dirigenti: uno centrato sullo storicismo idealistico, e sul ruolo dominante della filosofia; l’altro su una scienza giuridica in grado di orientare la forma stessa dello Stato nazionale: un gruppo omogeneo di discipline a stretto contatto con le scienze naturali e dominato dal diritto romano, a sua volta rigenerato dalla sociologia e da una storiografia educata al positivismo. Quel che Croce voleva contrastare non era tanto (o almeno non soltanto) lo scientismo positivista sul piano delle idee, ma la pretesa di Bonfante di collocare il diritto (e gli studi romanistici) al posto della filosofia come cerniera decisiva fra popolo e Stato, fra domanda politica e ‘servitori’ della cosa pubblica: esattamente quel che abbiamo definito la funzione ‘nazionale’ degli studi romanistici...Cinquant’anni dopo Serafini, sembrava davvero che l’obiettivo da lui indicato fosse stato pienamente raggiunto. Gli studi di diritto romano avevano saputo guadagnare con rinnovato slancio il centro della scena: non solo delle facoltà di Giurisprudenza, bensì dell’intero panorama culturale della nuova Italia. …
questa fusione fra antico e moderno si reggeva su un'interpretazione pesantemente individualistico-liberista tanto del diritto romano quanto del diritto positivo contemporaneo: autonomia privata, primato della volontà, costruzione individualistico-liberista della soggettività giuridica e dei diritti che ne discendevano. Insomma, sull’asse di una trascrizione liberale del diritto romano. Ebbene, era proprio quest'impostazione che una nuova generazione di giuristi – quella, per capirci, di studiosi come Filippo Vassalli o Costantino Mortati – stava cominciando a mettere in crisi, sulla spinta di una nuova idea del rapporto fra Stato ed economia e fra diritto e socialità, indotta dalle trasformazioni del capitalismo del Novecento a ridosso della grande crisi del 1929, e dalla conclusione del ciclo liberale nella storia d’Italia ...da noi quest’onda di modernità arrivava filtrata e deformata dall’opzione drammaticamente liberticida e antidemocratica che il fascismo vi imprimeva sopra: era, appunto, una modernizzazione autoritaria della vita del Paese. Ma era comunque una modernizzazione sufficiente per determinare un salto di qualità che spiazzava gli studi di diritto romano, azzerando la loro funzione ‘nazionale’ e dislocando, per la prima volta, la cultura giuridica italiana lontano da ogni scelta attualizzante rispetto al diritto romano. Paradossalmente, quanto più la retorica della romanità (e del suo ‘immortale’ diritto) si faceva martellante nella politica culturale fascista, tanto più sotto quell’insulso velo si elaboravano ben altre realtà. Adesso c’era bisogno di nuovi modelli normativi, di una razionalità giuridica che il diritto romano non poteva più offrire. ...da noi quest’onda di modernità arrivava filtrata e deformata dall’opzione drammaticamente liberticida e antidemocratica che il fascismo vi imprimeva sopra: era, appunto, una modernizzazione autoritaria della vita del Paese. Ma era comunque una modernizzazione sufficiente per determinare un salto di qualità che spiazzava gli studi di diritto romano, azzerando la loro funzione ‘nazionale’ e dislocando, per la prima volta, la cultura giuridica italiana lontano da ogni scelta attualizzante rispetto al diritto romano. Paradossalmente, quanto più la retorica della romanità (e del suo ‘immortale’ diritto) si faceva martellante nella politica culturale fascista, tanto più sotto quell’insulso velo si elaboravano ben altre realtà. Adesso c’era bisogno di nuovi modelli normativi, di una razionalità giuridica che il diritto romano non poteva più offrire.
E importanti segnali del cambiamento non si sarebbero fatti aspettare. Nel nuovo codice civile, promulgato nel 1942, e già nei suoi lavori preparatori, la presenza della tradizione romanistica fu inaspettatamente molto modesta, quando non addirittura quasi del tutto assente. E anche dopo la Liberazione, nell’impianto della nuova Costituzione repubblicana, mentre non era difficile intravedere le tracce della cultura giuridica italiana venuta tormentosamente alla luce negli anni Trenta, e poi definitivamente maturata nella crisi del fascismo, non era sopravvissuto praticamente nulla della vecchia impronta giuridica romano-borghese. …
Emilio Betti...fu l’unico romanista a percepire precocemente il cambiamento, sia pure in modo non del tutto limpido, e a cercare di ricostituire su nuove basi – non più pandettistiche – l’indispensabilità, se non proprio il primato, del diritto romano, che per lui restava indiscutibile (rivendicando, da un lato, la superiorità logica del presente sul passato in termini quasi hegeliani, sottolineando però dall’altro l’intrinseca continuità della tradizione giuridica europea, che aveva avuto proprio nel diritto romano un incancellabile e creativo momento di fondazione. Ma la sua rimase per molte ragioni – anche politiche – una voce isolata, nonostante l’indubbio prestigio che sempre circondò il suo lavoro e la sua persona.