I Tribunali Amministrativi Regionali nella Costituzione per completare il sistema di giustizia amministrativa
dalle giornate celebrative intitolate “Dai 190 anni dell’editto di Racconigi ai 50 anni della legge istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali” – Torino 12-13 novembre 2021
1. Il disegno costituzionale per la giustizia amministrativa di primo grado
In seguito alla riforma del titolo V, intervenuta ad opera della legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3, l’attuale art. 125 della Costituzione recita:
“Nella Regione sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado secondo l’ordinamento stabilito da legge della Repubblica. Possono istituirsi sezioni con sede diversa dal capoluogo della Regione”.
Esso contempla dunque oggi le sole funzioni giurisdizionali amministrative di primo grado.
La norma, come noto, originariamente disciplinava anche i controlli amministrativi (di legittimità e merito) ammissibili da parte dello Stato nei confronti degli atti della Regione.
Lo specifico contesto in cui la disposizione è nata non è irrilevante per comprenderne il valore sistematico all’epoca ed all’attualità.
I padri costituenti hanno inteso disegnare uno Stato unitario contemporaneamente attento alle esigenze del decentramento e del territorio e, in quella fase, disegnavano strutture amministrative, le Regioni a statuto ordinario, che, pur corrispondenti all’epoca ad un dato geografico e sociale, dal punto di vista istituzionale e amministrativo neppure esistevano; l’esigenza, percepibile dal tenore della discussione in seno all’Assemblea Costituente, era quella di trovare il giusto equilibrio per rispettare le autonomie locali e, contemporaneamente, evitare spinte centrifughe dallo Stato nazionale.
A ciò erano funzionali, primariamente, i controlli amministrativi ma anche l’istituzione di un presidio di giustizia amministrativa, e quindi di legalità nell’amministrazione, insediato sul territorio ma facente parte di una geografia giudiziaria nazionale. L’affiancamento dei due istituti non sembra, quindi, da ascriversi ad una presunta visione in termini “locali” dei Tribunali Amministrativi Regionali, quanto piuttosto ad una loro comune funzione di presidio dell’unità nazionale nel decentramento .
La disposizione relativa alla giustizia amministrativa di primo grado, emersa in sede costituente, pur nella sua estrema sintesi, è frutto di precise scelte di principio, che hanno trovato conferma nell’immediata successiva giurisprudenza costituzionale.
Il dibattito dell’epoca, con riferimento a questa particolare disposizione, risulta incentrato maggiormente sui controlli amministrativi, per la verosimile ragione che, mentre i controlli amministrativi erano una realtà esistente e nota, il giudice amministrativo territoriale di primo grado in forma giurisdizionale, come immaginato dall’Assembla Costituente, era piuttosto un’esigenza sentita nel dibattito pubblico, senza essere effettivamente confrontabile con nulla di allora esistente.
Si può concludere che i padri costituenti hanno lucidamente dibattuto di una struttura ignota secondo i parametri del tempo e rispetto alla quale hanno saputo fissare alcune scelte lungimiranti:
1. hanno deliberatamente escluso l’attribuzione di un potere giudiziario alle Regioni, così come hanno escluso formulazioni della disposizione che limitassero la competenza degli istituendi giudici amministrativi di primo grado agli atti regionali o comunque locali, lasciando aperta la strada al legislatore per quella che poi fu la soluzione adottata della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei TAR; il suo tenace relatore, onorevole Lucifredi, rivendicherà giustamente come un pregio coerente con il disegno costituzionale la creazione di un giudice amministrativo di primo grado generalista , la cui competenza, a differenza delle vecchie Giunte Provinciali Amministrative non era tassativamente enumerata ma definita dalla posizione giuridica soggettiva e con cognizione in linea di principio su tutti gli atti aventi efficacia sul territorio regionale, a prescindere dal tipo di amministrazione che li aveva adottati; in sintesi, e come in effetti si legge in trasparenza nel dibattito, trattasi di un presidio di unità della tutela giurisdizionale amministrativa nel rispetto del decentramento; i costituenti hanno, poi, deliberatamente ancorato questo presidio al territorio, inserendo la struttura, anche dal punto di vista sistematico, nella parte relativa all'organizzazione dello Stato sul territorio;
2. hanno optato consapevolmente per una giurisdizione amministrativa, quindi un organismo che, nell’esercizio di un controllo sull’azione amministrativa si affiancava all’epoca, senza doppiarli, ai controlli amministrativi in senso stretto, e con il diverso compito di un sindacato giurisdizionale demandato ad un soggetto terzo, indipendente, non espressione dell’autorità locale e formato da componenti di carriera.
La versione dell’articolo 125 che è transitata nella Carta con la votazione finale dell’Assemblea del 20.12.1947 era stata approvata, in quella stessa dizione, già circa un anno prima, nella seduta del 21 dicembre 1946, momento in cui la parallela commissione competente sulla giurisdizione non aveva nemmeno ancora sciolto il nodo sulla giurisdizione unica o binaria; tanto è vero che si esplicitò, nella discussione, il proposito di non precisare quale sarebbe stato il giudice di secondo grado competente, per evitare problemi di coordinamento con scelte ancora in fieri.
Per contro già in quella fase era maturato chiaramente in seno alla competente commissione il proposito di una generale revisione delle giurisdizioni speciali, alla quale, come noto, sono sopravvissuti solo il Consiglio di Stato, la Corte dei conti e i Tribunali Militari; in particolare, per quanto qui di interesse, era emerso chiaramente nel dibattito il proposito della soppressione delle Giunte Provinciali Amministrative (GPA), che non godevano di buona reputazione .
Si può a buon diritto affermare che, pur avendone in parte ereditato contenzioso e competenze, i Tribunali amministrativi non possono considerarsi in continuità con le GPA, essendo sorti piuttosto dalle loro ceneri, da una scelta esplicita di discontinuità rispetto a quel modello.
E’ dunque oggettivo che, mentre il Consiglio di Stato disegnato nell’ordinamento costituzionale è il frutto del successo storico di un istituto di lunga tradizione e radicata capacità di adattarsi al mutare dei contesti (si percepisce piuttosto chiaramente, nel dibattito costituzionale sul mantenimento o meno di una giustizia amministrativa separata da quella ordinaria, che il Consiglio di Stato deve la sua sopravvivenza anche alla allora riconosciuta capacità di operare, al di là della collocazione istituzionale, in modo indipendente ed a tutela dei cittadini ), i Tribunali amministrativi sono stati concepiti, o quasi si potrebbe dire auspicati dall’Assemblea Costituente, visto che se ne demandava al legislatore il concreto disegno e che vedranno effettivamente la luce 26 anni dopo la previsione costituzionale , per superare il fallimento delle GPA e degli organi del contenzioso amministrativo di primo grado, i quali poco o nulla avevano dato prova di indipendenza dall’amministrazione in cui erano saldamente incardinati.
Nel dibattito in seno all’Assemblea Costituente ci si interrogò anche se determinare puntualmente i criteri di nomina dei componenti degli istituendi giudici amministrativi di primo grado ma si optò per non fissarli, demandandoli alla legge, ferma l’esplicitazione del crisma dell’indipendenza anche dei giudici speciali, cristallizzato nell’art. 108 della Costituzione.
Puntualmente i vecchi organi del contenzioso amministrativo, in un primo momento mantenuti nel loro sostanziale modello, proprio per l’incompatibilità con il nuovo contesto costituzionale, furono sostanzialmente “abbattuti” dalla Corte costituzionale, alla luce della riscontrata carenza di autonomia e indipendenza.
L’indipendenza dell’istituendo giudice amministrativo di primo grado ha, infatti, rappresentato la base sulla quale la Corte costituzionale, dopo un primo periodo di tolleranza ed in attesa delle necessarie modifiche normative, ha finito per censurare gli organi di contenzioso amministrativo di primo grado ereditati dal periodo precedente, accelerando il processo di rinnovamento.
Con la sentenza n. 93 del 1965 sono così stati dichiarati incostituzionali gli artt. 82 e 83 del d.p.r. 16 maggio 1960 n. 570 e 43 della l. 23 marzo 1946 n. 136 (già artt. 74, 75, 76 del d.p.r. 5 aprile 1951, n. 203) nonché l’art. 2 della l. 18 maggio 1951, n. 328, nella parte in cui attribuivano ai consigli rispettivamente comunali e provinciali funzioni contenziose in materia elettorale; la Corte formulò in questo caso un giudizio piuttosto severo sul funzionamento di questi organismi, stigmatizzando la sistematica violazione dell’obbligo di astensione da parte dei consiglieri la cui elezione era in contestazione, l’assenza di regole procedurali (primo fra tutti il contraddittorio), e financo l’abuso dell’incidente di costituzionalità al fine di ritardare la decisione oltre i termini utili.
Con la sentenza n. 30 del 1967 la Corte, a fronte di una rimessione del Consiglio di Stato, ha poi inciso sulla composizione delle GPA come prevista dall’art. 1 del d. l.vo 12 aprile 1945; il giudice delle leggi ha in questo caso osservato che la presenza nelle GPA del “Prefetto o chi ne fa le veci” e di due “funzionari di carriera prefettizia” risultava incompatibile con il principio dell’indipendenza; data la modalità discrezionale e a termine di designazione dei componenti e la posizione di subordinazione gerarchica dei funzionari prefettizi, caratteristiche che non garantivano né l’indipendenza né l’imparzialità, le GPA sono state ritenute in contrasto con gli artt. 101 e 108 della Costituzione; analoga sorte veniva riservata, con la sentenza n. 55/1966, ai Consigli di Prefettura per quanto riguardava le loro competenze giurisdizionali in materia contabile.
Il principio veniva ancora, successivamente, ribadito nella sentenza n. 33 del 1968, con riferimento alla Giunta giurisdizionale amministrativa della Valle d’Aosta, anch’essa censurata sia per le norme sulla struttura che per le norme di procedura.
Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, ed a fronte dei già paventati dubbi di conformità al nuovo ordinamento costituzionale degli organi del contenzioso elettorale, con la l. 23 dicembre 1966, n. 1147, art. 2, era stato modificato l’art. 83 del d.p.r. 16 maggio 1960 n. 570. La nuova disposizione esordiva: “Fino a quando non verranno istituiti i Tribunali amministrativi regionali di cui all'art. 125 della Costituzione, in ogni Regione è istituita la sezione dei Tribunali amministrativi per il contenzioso elettorale, alla quale sono deferite le controversie in materia di operazioni elettorali”, tradendo l’intento del legislatore che quell’organismo potesse rappresentare, in embrione, la nuova struttura dei Tribunali amministrativi regionali.
Il legislatore dimostrava tuttavia di non avere metabolizzato la nuova sensibilità costituzionale in materia poiché, ancora in quell’occasione, si prevedeva, per la composizione di tali uffici, la seguente struttura: “Il presidente della sezione è scelto tra i funzionari dell'Amministrazione civile dell'Interno, di qualifica non inferiore a vice prefetto. I quattro componenti vengono scelti, l'uno tra i funzionari dell'Amministrazione civile dell'interno, di qualifica non inferiore a vice prefetto ispettore, e gli altri tre fra cittadini idonei, elettori della Regione. Questi ultimi devono essere in possesso dei requisiti richiesti dall'art. 9 della legge 10 aprile 1951, n. 287, per i giudici popolari delle Corti di assise, nonché del titolo finale di studi di istruzione secondaria di secondo grado…. I componenti elettivi della sezione, tre effettive e tre supplenti, sono designati dal Consiglio regionale ma, fino a quando non saranno istituite le Regioni a Statuto ordinario, la designazione sarà effettuata dai consiglieri provinciali in carica”
La soluzione andò incontro alla inevitabile bocciatura da parte della Corte costituzionale che, con la sentenza n. 49 del 1968, ne stigmatizzò nuovamente la mancanza di autonomia, non tanto per la modalità di nomina in sé, quanto per la natura a termine dell’incarico, che incideva appunto sull’indipendenza degli interessati, condizionati da una aspettativa di riconferma.
2. L’entrata in funzione dei Tribunali Amministrativi Regionali
La prima attuazione dell’art. 125 della Costituzione ad opera della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 ebbe non discutibili effetti di avvicinamento della giustizia amministrativa ai cittadini; il contenzioso arrivò là dove prima appariva cosa remota, soprattutto se si considera che, negli anni ’70, la mobilità e la digitalizzazione non erano quelle odierne e quindi l’avvicinamento del giudice al territorio aveva tangibili effetti in termini di accessibilità alla giustizia.
La legge del 1971 introdusse ex novo la giurisdizione esclusiva in materia di concessioni, aspetto in quel momento critico del riparto di giurisdizione, e ciò comportò che, per estensione derivante dal principio di impugnabilità delle sentenze TAR al Consiglio di Stato, la materia venne definitivamente attribuita alla giurisdizione amministrativa.
La legge TAR introdusse anche efficaci rimedi tipici di nuovo conio, certamente volti ad una maggiore effettività della tutela, quale la condanna al pagamento di somme di denaro in favore di pubblici dipendenti creditori dell’amministrazione nell’ambito del rapporto di pubblico impiego.
I Tribunali amministrativi sono stati, dalla loro nascita, protagonisti di un forte attivismo giudiziario; basti pensare che la decisione della Corte Costituzionale n. 190 del 1985, con la quale il giudice delle leggi ha dichiarato incostituzionale l’art. 21 della legge TAR nella parte in cui, limitando l’intervento d’urgenza del GA alla sospensione di esecutività dell’atto, non consentiva di adottare, nelle controversie patrimoniali di pubblico impiego sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva, i provvedimenti d’urgenza più idonei secondo il caso, è stata provocata da un’ordinanza di rimessione del TAR del Lazio; si evince dal testo della sentenza che l’iniziativa era stata affiancata dal parallelo tentativo dei Pretori del lavoro di proporsi a loro volta di colmare questa lacuna di tutela.
Esula dai limiti della presente esposizione evidenziare nel dettaglio i plurimi progressi che la giustizia amministrativa ha compiuto negli ultimi decenni; per avere solo un’idea del cambio di paradigma che ha interessato la giustizia amministrativa, e che ovviamente si è prodotto progressivamente e con il contributo di tutte le sue componenti, basterebbe leggere l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato 24 maggio 1961 ove si afferma che: “la tutela che l’ordinamento accorda agli interessi legittimi non è così piena e perfetta come quella che è data ai diritti soggettivi” per rendersi conto di quanta strada è stata percorsa dalla giurisprudenza, con il riconoscimento della natura atipica e financo propulsiva della tutela cautelare in ogni ambito, della tutela piena dell’interesse legittimo e della sua risarcibilità, della caratterizzazione del giudizio amministrativo non come mero giudizio sull’atto ma come giudizio sul rapporto, del fulcro dell’azione del giudice amministrativo incentrato su ogni forma, anche comportamentale, di esercizio di potere.
A questa evoluzione la giurisprudenza dei Tribunali Amministrativi Regionali ha partecipato e partecipa a pieno titolo.
E’, talvolta, accaduto che le iniziative del giudice di primo grado non siano subito state apprezzate dal giudice di appello, che ha reagito con nettezza.
A fine anni ’90, ad esempio, alcuni TAR, in particolare quello di Milano e quello di Catania , se pur con percorsi argomentativi differenti, in nome di una maggiore effettività della tutela introdussero per via pretoria le misure cautelari ante causam; il giudice meneghino argomentava in specifico, in materia di appalti, con l’esigenza di allinearsi alla normativa eurounitaria; il giudice siciliano, per contro, offriva una ricostruzione di derivazione costituzionale dello strumento, muovendo dall’assunto che la disciplina della materia cautelare dettata dal c.p.c. costituisse una forma di diritto processuale comune, integrabile nel processo amministrativo, secondo appunto i dettami degli artt. 24 e 113 della Costituzione.
L’iniziativa fu stroncata dal Consiglio di Stato che dichiarava nulli, rectius abnormi, i provvedimenti presidenziali in tal senso adottati per violazione del principio di collegialità
Il Tar Lombardia, con l’ordinanza 15 febbraio 2001 n. 1, sollevava allora dubbi di legittimità costituzionale dell’allora vigente disciplina processuale nella parte in cui escludeva la tutela cautelare ante causam ma la Corte Costituzionale, con l’ordinanza 6 maggio 2002 n. 179, dichiarava la questione manifestamente infondata in ragione dell’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore in materia processuale, con il solo limite della non manifesta irragionevolezza o palese arbitrarietà.
La tutela cautelare ante causam è tuttavia stata, poi, imposta nel nostro ordinamento dal sistema eurounitario ed è stata recepita nel codice del processo amministrativo con l’art. 56 c.p.a.
Al di là dei singoli episodi, per comprendere il contributo che oggi il giudice di primo grado fornisce alla giurisprudenza amministrativa, basta ricordare che nel periodo tra l’1.1.2017 e il 29.10.2019 su tutte le sentenze (brevi e ordinarie) emesse dai TAR italiani (pari a 208.142) la percentuale di decisioni appellate è stata del 17% (3522); nello stesso periodo il numero di appelli accolti è stato pari al 14%.
Questi numeri, per quanto ovviamente sempre da sottoporre a valutazione critica in vista di obiettivi di miglioramento (in particolare quanto alla celerità dei giudizi, oltre che alla loro qualità e prevedibilità ), fotografano un sistema di giustizia amministrativa sostanzialmente coerente al suo interno, che consente agli utenti di ottenere risposte ragionevolmente prevedibili le quali, in più dell’80% di casi, restano quelle che sono state fornite dal Tar. Questo risultato è ovviamente anche l’effetto di una attenta gestione della nomofilachia da parte del giudice d’appello.
Ovvio poi che il contenzioso che prosegue in appello, ancorché numericamente ridotto, è quello più rilevante per peso specifico e novità delle questioni, perché, come è giusto che sia, questo tipo di controversie richiede fisiologicamente una sedimentazione delle soluzioni che solo il giudice di appello, anche confrontando ed avvalendosi degli approdi della giurisprudenza di primo grado, può sintetizzare; resta il fatto che il basso tasso di riforma delle sentenze di primo grado denota che i Tribunali Amministrativi sono in linea di massima attrezzati per offrire risposte adeguate e credibili e si sono integrati armonicamente nel sistema.
3. La giurisprudenza costituzionale come specchio di alcune problematiche irrisolte della giustizia amministrativa di primo grado
Le iniziative dei Tribunali regionali, se, come visto, talvolta sono state foriere di migliori livelli di tutela, ponendosi così perfettamente nel solco della tradizione del giudice amministrativo e dei valori costituzionali che lo governano, talaltra sono state oggettivamente meno appropriate a confronto con tali valori.
Ci si riferisce al non lodevole fenomeno delle cosiddette “migrazioni” cautelari, in relazione alle quali alcuni Tribunali concedevano provvedimenti cautelari su istanze per le quali erano sforniti di competenza territoriale, giovandosi della derogabilità della disciplina della competenza territoriale allora vigente.
Ciò, oltre ad evidentemente creare squilibri nella distribuzione del contenzioso per ragioni non oggettive, entrava in collisione con il principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge e, in combinazione con il fatto che l’accoglimento dell’istanza cautelare non comportava all’epoca la fissazione dell’udienza di merito, poteva condurre a protratti stalli del contenzioso.
Ne è derivata una comprensibile reazione del legislatore.
L’attuale codice del processo amministrativo ha infatti reso inderogabile la competenza territoriale, anche a fini meramente cautelari, ed imposto, in ogni caso di accoglimento dell’istanza cautelare, la fissazione dell’udienza di merito per dare certezza e celerità alla definizione del contenzioso in particolare quando sono state adottate misure di sospensione o comunque di blocco dell’azione amministrativa.
Siffatte più che condivisibili garanzie processuali si sono accompagnate a scelte particolarmente accentratrici in tema di competenza territoriale che, benché probabilmente provocate dal già descritto contesto storico, appaiono oggi una opinabile scelta di politica giudiziaria: l’accentramento delle competenze, a differenza delle altre due misure citate, sembra ormai produrre maggiori problemi di quelli che intendeva risolvere.
L’art. 135 del c.p.a. contiene un nutrito elenco di materie devolute alla cognizione esclusiva del TAR Lazio in deroga agli ordinari criteri di ripartizione territoriale del contenzioso (dettati dagli artt. 13 e ss. del c.p.a.) e ha avuto l’effetto di sovraccaricare il tribunale capitolino di un pesante contenzioso e connesso arretrato, a cui non sembra, a ormai dieci anni dalla più impattante modifica della disciplina delle competenze in deroga, potersi utilmente rimediare semplicemente con modifiche di organico .
L’art. 135 c.p.a. ha, dal suo esordio, rappresentato un punto critico della riforma del processo amministrativo suscitando numerose ordinanze di rimessione promosse dai vari TAR, spogliati delle loro competenze a giudizi in corso. Ne è scaturita una nutrita serie di pronunce della Corte costituzionale.
Occorre subito evidenziare che, con un’unica eccezione per quanto concerne la disciplina delle autorizzazioni rilasciate dall’autorità di polizia in materia di giochi pubblici con vincita in denaro , la Corte ha sempre negato che le deroghe introdotte dall’art. 135 c.p.a. e dalle varie norme speciali rispetto all’ordinaria competenza territoriale (che privilegia l’efficacia dell’atto o la sede dell’autorità competente e quindi la distribuzione territoriale del contenzioso) fossero tali da porsi in contrasto con l’art. 125 della Costituzione, il quale sancisce appunto tale distribuzione sul territorio .
Gli argomenti spesi dal giudice delle leggi, più o meno simili in tutti le pronunce, potrebbero essere suscettibili di revisione critica. E’ per altro preliminarmente doveroso rilevare che la Corte costituzionale è fisiologicamente prudente nel censurare scelte di politica giudiziaria, salvo che esse non producano effetti di immediata o palese incompatibilità con la Carta; ciò, da un lato, consente di affermare che non tutto ciò che è stato ritenuto costituzionalmente ammissibile rappresenta anche la migliore attuazione possibile del dettato costituzionale stesso, la quale spetta, pur sempre, al legislatore in un’ottica di progressiva attuazione dei valori della Carta e, dall’altro, consente di distinguere pronunce a carattere maggiormente progressista (quali quelle che hanno bocciato i vecchi organi del contenzioso amministrativo di primo grado), destinate ad un lunga durata nel tempo, e pronunce a carattere maggiormente conservatore, ancorate al contesto giuridico e sociale in cui sono immerse, che non escludono possibili rimeditazioni.
Analizzando la giurisprudenza in materia si osserva come la modifica della disciplina della competenza territoriale sia stata contestata a livello costituzionale per:
- violazione dell’art. 76, in quanto si sosteneva che il codice del processo amministrativo, sullo specifico punto, ampliando le ipotesi di competenza accentrata avesse ecceduto i limiti della delega sulla cui base era stato redatto;
- violazione dell’art. 25 e del principio del giudice naturale precostituito per legge, in quanto si lamentava che il mutamento di competenza territoriale a contenzioso in corso avrebbe sottratto il giudizio al suo giudice naturale;
violazione dell’art. 125 per contrasto con il principio di territorialità dell’organizzazione dei Tribunali Amministrativi Regionali;
- violazione degli artt. 24 e 111, per possibili frizioni con il diritto di difesa e ragionevole durata del processo.
Si tralascia il profilo di eccesso di delega, il cui rilievo resta confinato alla specifica fonte e che non potrebbe riproporsi a fronte di eventuali riedizioni con legge ordinaria delle stesse o di analoghe disposizioni; anche la paventata violazione dell’art. 25 della Costituzione appare poco pertinente ed è stata dalla Corte esclusa sulla scorta di una giurisprudenza consolidata, secondo la quale la disciplina della competenza è “volta unicamente ad assicurare l’individuazione del giudice competente in base a criteri predeterminati in via generale dalla legge”, essendo sufficiente “che l’individuazione del giudice risponda a criteri generali fissati in anticipo” e ciò anche qualora incida su processi già in corso. D’altro canto, diversamente opinando, nessun mutamento, ancorché generale, dei criteri di competenza sarebbe mai suscettibile di immediata attuazione .
Quanto invece alla violazione dell’art. 125, trattasi in effetti del profilo più critico.
Nell’incipit delle proprie argomentazioni la stessa Corte non ha potuto esimersi dall’osservare che “con specifico riferimento alla competenza funzionale inderogabile del Tar Lazio, questa Corte ha affermato che, tanto in ragione del suo carattere derogatorio dell’ordinario sistema di ripartizione della competenza tra i diversi organi di primo grado della giurisdizione amministrativa, quanto per il fatto che nel corso del tempo si sono concentrati presso il tribunale amministrativo romano numerosi e cospicui settori del contenzioso nei confronti della pubblica amministrazione, si pone un delicato problema di rapporto con l’articolazione su base regionale ex art. 125 Cost., del sistema di giustizia amministrativa. Di qui la necessità di adottare un “criterio rigoroso” nella verifica di legittimità costituzionale della legislazione in materia di competenza funzionale del Tar Lazio“ .
La Corte non esclude poi il rischio che il legislatore statale, svuotando di fatto di competenza i Tribunali territoriali, vanifichi l’articolazione diffusa della giustizia amministrativa voluta dalla Costituzione.
All’atto pratico la Corte ha, però, quasi sempre escluso il contrasto di volta in volta prospettato nelle ordinanze di rimessione, evidenziando innanzitutto come la specifica materia considerata involgesse “atti emessi dall’amministrazione centrale dello Stato in quanto emessi da organi che operano come longa manus del Governo finalizzati a soddisfare interessi che trascendono quelli delle comunità locali” e presupponesse la straordinarietà delle situazioni presupposte.
La giustificazione non convince pienamente.
Molte delle materie ordinariamente devolute alla cognizione del giudice amministrativo, anche territoriale, trascendono fisiologicamente gli interessi della comunità locale (basti pensare, per restare all’attualità, ai provvedimenti in materia di gestione della recente pandemia COVID-19 per i quali, in una verosimile mutata sensibilità istituzionale, non si è sentita alcuna esigenza di imporre deroghe di competenza territoriale, alle interdittive antimafia, ai provvedimenti in materia di titoli di soggiorno), sicchè il principio rischia di provare troppo; l’affermazione oblitera poi che anche i Tribunali amministrativi regionali sono espressione, come visto coerente, di una giurisdizione statale, che fisiologicamente trascende gli interessi delle comunità locali, e che, per espressa scelta maturata già in seno all’assemblea costituente, hanno visto l’attribuzione di una competenza che può attingere anche atti di amministrazioni centrali.
La straordinarietà o eccezionalità dei presupposti, inoltre, non può essere tale in quanto affermata dal legislatore per un indefinito numero di situazioni ma dovrebbe essere concretamente verificata e circoscritta.
Ancora la Corte ha giustificato le deroghe di competenza in ragione della salvaguardia dell’uniformità della giurisprudenza. Per la verità la stessa Corte ha dubitato della solidità dell’argomento là dove ha precisato che: “Quanto all’esigenza di uniformità della giurisprudenza sin dal primo grado di giudizio, va rilevato che questa Corte ha recentemente escluso che tale esigenza sia da sola idonea a giustificare un regime processuale differenziato (sentenza n. 159 del 2014); in ogni caso, anche a prescindere da tale rilievo, si osserva che – in questa materia – la probabilità che si formino pronunce contrastanti tra i vari uffici giudiziari dislocati sul territorio non è superiore a quanto accade nella generalità delle controversie attribuite alla cognizione dei giudici amministrativi, rispetto alle quali l’uniformità della giurisprudenza viene garantita, in sede di gravame, dal Consiglio di Stato, e in particolar modo dalla sua Adunanza Plenaria” .
L’argomento pare inoltre non più aderente al moderno sistema di funzionamento della giustizia amministrativa; se infatti, in passato, la concentrazione fisica presso un determinato ufficio poteva certamente favorire forme di coordinamento degli orientamenti giurisprudenziali, oggi, ferma restando l’insopprimibile autonomia di ogni singolo collegio, il sistema di lavoro interamente telematico del giudice amministrativo consente ad ogni giudice di svolgere la propria attività secondo criteri di giusto aggiornamento e documentazione e di verificare, praticamente in tempo reale, la giurisprudenza, oltre che ovviamente del giudice di appello, di tutti i restanti Tribunali territoriali. Si potrebbe quindi oggi affermare che non è più la vicinanza fisica ma quella culturale che garantisce l’omogeneità della giurisprudenza.
La Corte ha infine ritenuto, di volta in volta, non violato il principio di proporzionalità nel rapporto regola eccezione delle singole fattispecie derogatorie prese in analisi. Anche siffatto argomentare non risulta pienamente condivisibile; una analisi condotta con riferimento alla singola fattispecie di volta in volta contestata, infatti, non coglie il senso della contestazione, in quanto la tensione costituzionale deriva piuttosto dalla sommatoria delle deroghe, non certo dai singoli casi separatamente considerati. Il problema, in sostanza, non è la singola e certamente ammissibile fattispecie derogatoria ma l’effetto globale dell’innumerevole serie di deroghe.
Quanto alle lamentate violazioni degli artt. 24 e 111 della Costituzione, le motivazioni delle decisioni appaiono estremamente sintetiche; se da un lato è ovvio che l’individuazione di un giudice piuttosto che un altro all’interno di una omogenea struttura è, di per sé, fermo il rispetto del giudice naturale precostituito per legge, neutra quanto al diritto di difesa e alla gestione del contenzioso, l’impatto sulla durata dei processi dell’insieme delle scelte di organizzazione giudiziaria è, come già evidenziato, ben visibile nei dati della giustizia amministrativa. D’altro canto, la rilevanza delle scelte di organizzazione giudiziaria, ai fini del rispetto della ragionevole durata del processo, non è questione peregrina ma una valutazione acquisita presso la CEDU, che di quel principio è il primo custode, e che non ammette gli Stati che violano la ragionevole durata del processo a giustificare tali violazioni con ragioni di intasamento dei ruoli degli uffici dovute a scelte di organizzazione giudiziaria non lungimiranti.
4. La modernità dell’art. 125 della Costituzione
L’articolo 125 della Costituzione assume oggi profili di obiettiva modernità, a fronte di un ordinamento che, negli ultimi decenni, si è evoluto con una straordinaria velocità.
La modernità si caratterizza per una facile destrutturazione di ogni forma di organizzazione sistemica, per la difficoltà degli Stati centrali di imporre le proprie scelte rispetto alla globalizzazione e di essere rappresentativi di una sfuggente società liquida, per l’esigenza di una costante mediazione di interessi e valori.
In questo contesto è visibile la dequotazione della più tradizionale fonte dell’organizzazione collettiva propria dei sistemi di civil law, la legislazione, in quanto il legislatore nazionale spesso non riesce a scegliere o non vuole farlo o la fa con colpevole ritardo rispetto alla velocità dei fenomeni sociali, rinviando talvolta ad altre sedi. Per la sua natura più flessibile e di riconciliazione dei conflitti assume, per contro, maggiore peso, anche quale vera e propria fonte del diritto, la giurisprudenza, tanto più destinata ad essere efficiente in questo ruolo quanto più coesa e ben organizzata.
Ne deriva che il ruolo dei tribunali tutti, ed amministrativi in particolare vista la tipologia di contenzioso di interesse generale che trattano, con la loro idonea distribuzione sul territorio risulta quanto mai attuale, perché lancia un segnale tangibile della presenza delle istituzioni in una società disorientata; i tribunali sono luogo di elaborazione di un pensiero collettivo comune che traduce in pratica i valori costituzionali, mezzo per favorire la coesione sociale costruendola sulle scelte condivise nella Carta costituzionale; il Tribunale territoriale offre, in particolare, una risposta utile a fronteggiare la frantumazione sociale, anche se talvolta faticosa e non lineare nella sua elaborazione, e, in un processo ascendente, esercita naturalmente una attività di ricucitura di fratture sul territorio in cui opera.
Si aggiunga che il giudice amministrativo, per storia e tradizione giudice del potere e della tutela contro l’arbitrio, ha visto la sue competenze spostarsi verso settori nevralgici della vita collettiva e viene spesso indicato come “giudice dell’economia”, ove per altro le dinamiche di potere oggi seguono percorsi complessi che non sempre vedono la parte più forte coincidere con la parte pubblica. A mero titolo esemplificativo se il Tribunale amministrativo piemontese a metà degli anni ’90 vedeva circa il 50% del suo contenzioso concentrato tra pubblico impiego ed edilizia, oggi più del 22% dell’attività riguarda appalti ed autorità di regolazione dei trasporti. L’evoluzione del contenzioso rispecchia in questo Tribunale le scelte legislative sul nuovo ruolo del giudice amministrativo.
Si nota, però, agevolmente come non in tutti i territori il contenzioso di primo grado segua dinamiche omogenee. Da questo punto di vista la territorialità dei Tribunali amministrativi consente anche di restituire un’utile fotografia dell’area su cui insistono, di intercettare sul nascere fenomeni ed esigenze che dovrebbero essere oggetto di attenzione nel loro complesso da parte delle istituzioni, senza catalizzare strumentalmente l’attenzione solo su singoli giudizi (inevitabilmente talvolta errati, trattandosi di fallibile attività umana).
Il vituperato contenzioso sulle gare pubbliche, ad esempio, se ovviamente non deve degenerare in patologiche ed artificiali contestazioni a tutto campo o prestarsi a dubbie operazioni anticoncorrenziali delle imprese del settore, è, nella sua fisiologia, anche sintomo del fatto che, in un determinato territorio, le amministrazioni offrono infrastrutture e servizi, e tale offerta ha tanto più valore quanto più si inserisce in una cornice di legalità dell’azione pubblica; per contro la presenza, nel contenzioso di taluni Tribunali territoriali, di patologiche percentuali di giudizi di ottemperanza, che arrivano fino al 30% dell’intero contenzioso, a fronte di esigui numeri relativi al contenzioso economico in senso proprio, denuncia che quel territorio è arretrato, con una presenza pubblica inefficiente.
La territorialità dei tribunali amministrativi disegnata dall’art. 125 della Costituzione, come parte fondamentale della giustizia amministrativa, in definitiva, non è più solo, come alle origini, uno strumento di equilibrio tra centro e periferia ma diventa imprescindibile presidio di salvaguardia del territorio sulla base di valori costituzionali comuni applicati al caso concreto.