IL CASO
Il Comune di Civitanova Marche rilasciava nel 1986 una concessione edilizia per la realizzazione di un immobile a destinazione residenziale.
La quantificazione, le modalità ed i termini di corresponsione della somma pari al costo di costruzione venivano determinati in aderenza ad una deliberazione del Consiglio comunale del 27 giugno 1980 che ne consentiva il versamento fino al rilascio del certificato di abitabilità.
Forte di tale previsione, il titolare, previa prestazione di una polizza fideiussoria, procedeva al versamento della somma relativa al costo di costruzione nel dicembre 1998.
Di lì a poco, nel marzo del 2000, l’Amministrazione comunale gli irrogava la sanzione di cui all’art. 3 della L. 47/1985, a titolo di penalità ed interessi legali. Ciò, dopo aver disapplicato la delibera consiliare (la DCC 223/80) che, in dispregio alle previsioni di legge, aveva consentito di procrastinare il versamento della somma relativa al costo di costruzione fino al rilascio del certificato di abitabilità.
La definizione del giudizio di impugnazione dell’ordinanza che aveva irrogato la sanzione pecuniaria aveva luogo a distanza di vent’anni (nel gennaio 2021) dalla proposizione del ricorso, nei confronti degli eredi del titolare della concessione (frattanto scomparso).
LE QUESTIONI AFFRONTATE
La fattispecie, pur lineare nella sua rappresentazione, ha sottoposto al Collegio svariate tematiche.
La materia è quella della disciplina dei termini cui soggiace l’obbligo di versamento della somma relativa al costo di costruzione, ad oggi cristallizzata all’art. 16 del D.P.R. 380/2001.
La norma, dopo aver previsto, al comma 2, che “La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all’atto del rilascio del permesso di costruire”, soggiunge, al comma 3, che “La quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all’atto del rilascio, è corrisposta in corso d’opera, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione”.
Si tratta di una previsione che ricalca la formulazione dell’art. 11 della Legge Bucalossi (la L. 10/1977), norma che, già in vigore alla data del rilascio del titolo edilizio del quale s’è trattato nel giudizio deciso con la sentenza in commento, indicava un termine finale per il versamento della somma relativa al costo di costruzione (sessanta giorni dall’ultimazione della costruzione) ben più circoscritto rispetto a quello contenuto nella delibera consiliare adottata nel giugno 1980.
Dunque, una disciplina regolamentare (parrebbe questa la più consona qualificazione della delibera comunale di disciplina della misura, delle modalità e dei termini del versamento della somma relativa al costo di costruzione) in contrasto con una previsione di legge preesistente (l’art. 11 della L. 10/1977, come già accennato) e di altra sopravvenuta (l’art. 3 della L. 47/1985).
Con una ulteriore peculiarità: entrambe le previsioni preesistevano al rilascio del titolo edilizio (dicembre 1986).
Nell’ambito di una materia sì circoscritta, il Collegio si è trovato ad affrontare plurime questioni giuridiche: dalla natura degli atti con i quali l’Amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, ai limiti del potere di disapplicazione “normativa”[1] ed ancora ai limiti della tutela dell’affidamento del cittadino, alla trasmissibilità della sanzione irrogata ex art. 3 L. 47/1985 ed ai relativi termini di prescrizione.
L’iter logico-argomentativo elaborato dal Collegio trae fondamento ed aderisce alle conclusioni dell’Adunanza Plenaria n. 12 del 30 agosto 2018.
E dunque:
- gli atti con i quali l’Amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione (ed in particolare il costo di costruzione quale species) non hanno natura autoritativa, ma si pongono nell’ambito di un rapporto paritetico di tipo obbligatorio, con la conseguenza che essi soggiacciono alla previsione dell’art. 1, comma 1 bis, della L. 241/1990 e sono invece sottratti all’applicazione dell’art. 21 nonies della medesima legge;
- la disapplicazione della delibera comunale, quale atto regolamentare, è sempre consentita alle Amministrazioni nelle ipotesi di contrasto con le disposizioni di legge[2];
- la tutela dell’affidamento ingenerato nel destinatario del provvedimento (nel caso di specie, la concessione edilizia del 1986) trova un limite nella “oggettività dei parametri da applicare al contributo di costruzione”;
- la sanzione irrogata ex art. 3 della L. 47/1985, in aderenza al principio di personalità della sanzione amministrativa (ex art. 7 L. 689/1981), non è trasmissibile agli eredi dell’incolpato;
- il diritto a riscuotere le somme dovute a titolo di sanzione per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione[3].
Sulla base di tali argomentazioni, il Tar ha ritenuto che “il contributo fosse dovuto dal momento del ritiro della concessione”, ma non più esigibile essendo decorsi oltre cinque anni dalla commissione della violazione, salvo che in relazione agli interessi legali frattanto maturati[4]. Ha quindi accolto parzialmente il ricorso ed ha annullato l’ordinanza che aveva irrogato la sanzione in parte qua ritenendo che “degli importi richiesti dal Comune di Civitanova Marche con il provvedimento del 18 marzo 2000, debbono considerarsi non dovuti quelli pretesi a titolo di aumento del contributo di concessione, mentre rimane dovuta dai ricorrenti la somma per gli interessi maturati ... fino all’11 dicembre 1998, data dell’avvenuto pagamento del contributo stesso”.
[1] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 26 febbraio 1992, n. 154, ove il Collegio qualifica “disapplicazione normativa” la disapplicazione dei regolamenti confliggenti con norme primarie di legge preesistenti, ponendo un distinguo con la cd. disapplicazione amministrativa relativa a provvedimenti privi di natura regolamentare (atti amministrativi) di competenza del G.O. ex art. 5 L. 2248/1865, All. E.
[2] Ciò, in aderenza al principio di gerarchia delle fonti che mal tollererebbe la sopravvivenza di una norma contenuta in una fonte secondaria confliggente con una norma contenuta in una fonte primaria ad essa preesistente.
È a dirsi che il potere di disapplicazione, nei termini appena delineati, è stato anche riconosciuto quale prerogativa del giudice amministrativo (e non solo dell’Amministrazione) anche a prescindere dalla impugnazione congiunta del regolamento (Consiglio di Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n. 4778).
[3] Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 12 marzo 2009, n. 1464.
[4] Esula dallo scopo di questo contributo la questione della sopravvivenza dell’obbligazione (accessoria) di corresponsione degli interessi a quella (principale) di pagamento del capitale.
RIFLESSIONI CRITICHE
Le argomentazioni utilizzate dal Tar inducono a riflettere ben al di là dei caratteri della fattispecie esaminata.
Gli scenari che l’orientamento giurisprudenziale, fin qui elaborato sulla scia della Plenaria 12/2018, ha disvelato, in ordine ai presupposti (ed ai limiti) della tutela dell’affidamento ingenerato dall’adozione di un provvedimento amministrativo, impongono una modifica prospettica.
La stessa scena, ma da altro angolo visuale.
Orbene, la tutela dell’affidamento del cittadino nei confronti della Pubblica Amministrazione è uno dei temi emersi nell’ambito di un dibattito che, a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso[1], è approdato all’affermazione del principio del giusto procedimento ed alla conseguente disciplina di un complesso di garanzie partecipative volte a ridurre l’asimmetria dei rapporti intercorrenti tra amministrazione e cittadino.
Ciò, nelle intenzioni del legislatore, non solo nelle ipotesi in cui l’attività amministrativa sia espressione di un potere autoritativo, ma anche ove essa si ispiri alle regole del diritto privato[2].
Uno degli indici sintomatici di tale scelta di politica legislativa è riscontrabile nella previsione di cui all’art. 3 della L. 241/1990, norma che, nel disciplinare l’obbligo di motivazione degli atti amministrativi, così prescriveva: “La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.
Sennonché, nella successiva evoluzione interpretativa della norma[3], la conoscibilità dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche utilizzate dall’Amministrazione, in uno con la verificabilità della loro correttezza, è stata eletta a parametro nella valutazione della buona fede del cittadino.
Sono i parametri che, ad oggi, in sede giurisdizionale, rappresentano i soli indicatori del grado di tutelabilità dell’affidamento riposto nella legittimità del provvedimento amministrativo.
La legittimità del provvedimento, appunto.
Si consideri che già nel momento genetico (ossia quello della sua formazione) l’attività amministrativa è connotata da “quella finzione che è stata definita presunzione di legittimità”[4], ossia la presunzione iuris tantum che ogni atto amministrativo sia legittimo per il solo fatto che proviene da una autorità legittima.
Sennonché siffatta presunzione accompagna inesorabilmente l’atto fin quando la sua validità non sia consolidata dallo spirare del termine accordato per proporvi impugnazione o dall’eventuale esito favorevole del sindacato giurisdizionale.
Tutto ciò, a prescindere dalla qualificazione dell’interesse del quale è portatore il destinatario (si tratti d’interesse pretensivo od oppositivo) ed ancor più a prescindere dal fatto che l’attività amministrativa sia manifestazione di un potere autoritativo o invece abbia luogo nell’ambito di un rapporto paritetico.
Sembra, quindi, di poter ritenere che il rapporto tra cittadino ed amministrazione non riesca a superare lo squilibrio genetico, nonostante i progressivi affinamenti che il legislatore continua ad operare sull’impianto della Legge 241/1990, alla quale si deve, comunque, il riconoscimento al cittadino di un ruolo di partecipazione e collaborazione nell’esercizio delle funzioni pubbliche.
È da osservare peraltro che, nel caso di esercizio di poteri di imperio – quello che connota in larga parte l’agire dell’Amministrazione – ad esso fanno da contraltare le garanzie partecipative accordate al cittadino in ogni fase del procedimento (l’avvio, l’istruttoria e finanche l’eventuale revoca o l’annullamento).
Potremmo dire che, in tal caso, la presunzione di legittimità trovi un ulteriore fondamento nell’apporto collaborativo del cittadino, al quale viene garantita una partecipazione fattiva finanche nella fase propedeutica all’esercizio dei poteri di autotutela (alla stregua degli artt. 7, 8 e 10 della L. 241/90).
Diversa è invece la posizione del cittadino nell’ipotesi in cui l’Amministrazione agisca secondo le norme di diritto privato[5], e cioè nell’ambito di un rapporto obbligatorio paritetico.
In tali fattispecie, l’Amministrazione non può esercitare alcun potere di autotutela, come ribadito dall’Adunanza Plenaria 12/2018, ma ad essa è comunque sempre consentita la disapplicazione delle determinazioni precedentemente assunte, ove si rivelassero in contrasto con la legge.
A fronte di tale facoltà, sembra che il cittadino non possa fruire di alcuna garanzia di tipo partecipativo (la stessa Plenaria 12/2018 ha ritenuto che gli atti, con i quali la Pubblica Amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, costituiscono esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge e ad essi non possono applicarsi né la disciplina dell’autotutela né le disposizioni previste per gli atti provvedimentali che siano manifestazioni di imperio) .
In conclusione: la presunzione di legittimità nella quale il cittadino ha confidato non parrebbe idonea ad apprestare in suo favore alcuna forma di tutela, neanche, come è avvenuto nella fattispecie annotata, a distanza di 35 anni dall’adozione dell’atto.
Che dire? Forse è il caso di chiedersi se non vi sia il rischio di assistere ad un’involuzione della connotazione paritetica dei rapporti tra amministrazione e cittadino o se, invece, in una visione più ottimistica, si tratti solo dei retaggi di un originario squilibrio, in via di soluzione.
[1] Già nel 1957, nella prima edizione degli Appunti di Diritto amministrativo, Feliciano Benvenuti delineava la scansione dell’attività amministrativa in segmenti procedimentali, auspicando la partecipazione, ad essi, del cittadino.
[2] Si consideri a riguardo, nell’ambito del percorso di affinamento della disciplina paritaria dei rapporti tra amministrazione e cittadino, la novella dell’art. 1 della L. 241/1990 con l’introduzione del comma 2 bis ad opera dell’art. 12 del d.l. 76/2020, convertito dalla L. 120/2020, ove si prevede che “I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede”.
[3] Cfr. Tar Bologna, sez. II, 3 giugno 2020, n. 380; Tar Milano, sez. II, 3 agosto 2020, n. 1488.
[4] F. Benvenuti, Il Nuovo Cittadino, Venezia, 1994, p. 102.
[5] Art. 1, comma 1 bis, L. 241/1990.