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Una Costituzione in bilico

di Roberto Lombardi • 14 ottobre 2022

La netta vittoria di uno schieramento politico su tutti gli altri alle recenti elezioni riporta sotto i riflettori una vecchia questione mai sopita: la tenuta di una Costituzione che ha ormai oltre settanta anni di età.

Tuttavia, ed è questa la novità, la diminuzione del numero dei parlamentari, congiuntamente ad una legge elettorale che ha dimostrato di potere “amplificare” i risultati di soggetti politici aventi un consenso complessivamente inferiore al 50% dell’elettorato votante - fino a determinare maggioranze schiaccianti alla Camera e al Senato -, rischiano di rendere molto più facile la modifica di parti fondamentali della Costituzione su impulso del vincitore di turno.

Ma facciamo un passo indietro.

Con la legge costituzionale n. 1 del 2020 il numero dei parlamentari è stato sensibilmente ridotto, con passaggio da 630 a 400 deputati per i rappresentanti della Camera e da 315 a 200 per i senatori elettivi.

Alla riforma non sono peraltro seguiti tutti gli ulteriori “correttivi costituzionali” che si sarebbero resi necessari, se non la norma afferente all’equiparazione dell’età dell’elettorato attivo di Camera e Senato (la legge costituzionale n. 1 del 2021 ha infatti soppresso la formula con cui l’art. 58 della Costituzione concedeva il diritto di voto per il Senato soltanto agli elettori che avessero “superato il venticinquesimo anno di età”).

In questo caso, peraltro, il correttivo non era affatto necessario al funzionamento del nuovo Parlamento, ma è stato pensato per limitare, “armonizzando” gli elettorati di Camera e Senato, la possibilità che si formino maggioranze diverse nei due rami del Parlamento.

Sono restati invece lettera morta il superamento della base regionale per l’elezione del senato, la riduzione da 3 a 2 dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica e la revisione dei regolamenti della Camera dei deputati [1].

E dal punto di vista della legge elettorale? Le regole con cui si forma e si aggrega in Parlamento la schiera dei rappresentanti del popolo sono parimenti importanti per una democrazia. 

Ancora prima della definitiva approvazione e promulgazione della legge costituzionale n. 1 del 2020, la legge n. 51 del 2019 aveva stabilito che “qualora, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sia promulgata una legge costituzionale che modifica il numero dei componenti delle Camere di cui agli articoli 56, secondo comma, e 57, secondo comma, della Costituzione”, il Governo avrebbe dovuto adottare un decreto legislativo “per la determinazione dei collegi uninominali e plurinominali per l'elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”, applicando i principi e i criteri direttivi di cui all'articolo 3, comma 2, lettere b), c), d) ed e), della legge 3 novembre 2017, n. 165, ovvero della legge elettorale previgente, che dunque avrebbe continuato a spiegare i suoi effetti anche con un minore numero di parlamentari da eleggere.

Il decreto legislativo è stato approvato ed è entrato in vigore il 30 dicembre 2020 (d.lgs. n. 177/2020), di modo che, in estrema sintesi, la volontà politica è stata quella di andare ad elezioni utilizzando un sistema elettorale misto (maggioritario per un terzo), concepito per la formazione di un parlamento con una struttura decisamente diversa.

D’altra parte, si tratta di una legge elettorale, il Rosatellum, che dopo le ultime elezioni è stata criticata perfino dal parlamentare da cui prende il nome [2].

Ma di meglio il Legislatore non è riuscito a fare, rinunciando in corsa anche a “puntare” sul ddl AC 2329, che aveva ipotizzato un sistema elettorale di tipo essenzialmente proporzionale.

La critica più fondata sul Rosatellum, confermata dall’esito dell’ultimo voto, è la distorsione che tale formula elettorale provoca tra voto espresso e attribuzione del numero dei rappresentanti delle singole forze politiche, in conseguenza del criterio di attribuzione dei seggi uninominali (vince in tali seggi e in un turno "secco" la coalizione o la lista che ha anche un solo voto in più della seconda, senza alcun quorum da superare), a cui si ricollega un premio di maggioranza che non garantisce una fotografia fedele del voto degli italiani.

Con un sistema proporzionale puro, ad esempio, all’esito delle ultime elezioni sarebbe stato necessario, in rappresentanza dell’elettore “mediano”, il consenso di un altro partito collocato al di fuori della coalizione vincitrice per raggiungere una maggioranza in Parlamento, sia alla Camera che al Senato.

Di certo, l’effetto distorsivo del premio di maggioranza (mirante a garantire la cosiddetta “governabilità”) è già stato più volte, in passato, sottoposto al vaglio della Corte costituzionale.

La Corte, nell'esaminare il meccanismo di premio di maggioranza introdotto dall'Italicum (L. n. 52 del 2015) - singolare caso di legge elettorale approvata e mai applicata -, aveva dovuto stabilire se le disposizioni la cui legittimità era stata messa in discussione, violavano, tra gli altri, il principio di eguaglianza del voto garantito dall'art. 48 della Costituzione [3].

In particolare, occorreva accertare se il premio di maggioranza previsto per il primo turno (premio che premiava la lista che avesse raggiunto, su base nazionale, almeno il 40% dei voti validi) avrebbe potuto determinare una “sovrarappresentazione” della lista vincente, e una irragionevole “sottorappresentazione” della lista perdente, anche in considerazione del fatto che non vi sarebbe stato alcun rapporto tra i voti ottenuti e il complesso degli aventi diritto.

Sotto un primo profilo, la Corte aveva respinto le censure, evidenziando che l'avere stabilito una soglia minima di voti validi per l'attribuzione del premio (40%), soglia da considerarsi in sé non manifestamente irragionevole, salvava in astratto la legittimità del meccanismo premiale, alla luce della riconosciuta discrezionalità del legislatore in materia, anche perché, a ritenere il contrario, si dovrebbe considerare ragionevole e proporzionale solo l'attribuzione di un premio di governabilità (e non di maggioranza), condizionato al raggiungimento di una soglia pari almeno al 50% di voti o di seggi, e destinato ad aumentare, al fine di assicurare la formazione di un esecutivo stabile, il numero di seggi di una lista o di una colazione che quella soglia abbia già autonomamente raggiunto.

La Corte aveva tuttavia dichiarato l'illegittimità costituzionale delle previsioni normative del turno di ballottaggio (secondo turno) per l'assegnazione del premio di maggioranza, in quanto, pur potendo il legislatore innestare un premio di tal fatta in un sistema elettorale ispirato al criterio del riparto proporzionale dei seggi, il meccanismo premiale congegnato dall'Italicum, facendo accedere al ballottaggio le sole due liste più votate, senza consentire forme di apparentamento o di collegamento con liste presentate al primo turno, e ancorando la ripartizione dei seggi ai risultati ottenuti al primo turno, comprimeva eccessivamente il carattere rappresentativo dell'assemblea elettiva e l'eguaglianza del voto.

E ciò perché una lista avrebbe potuto in concreto accedere al turno di ballottaggio anche avendo conseguito, al primo turno, un consenso esiguo, ottenendo infine un premio che, seppure non determinato artificialmente - conseguendo pur sempre ad un voto degli elettori -, sarebbe stato ad ogni modo conquistato solo attraverso le stringenti condizioni di accesso al secondo turno, al prezzo di una valutazione del peso del voto in uscita fortemente diseguale.

Quanto invece alla rappresentatività degli aventi diritto al voto, la Corte aveva salvato la norma scrutinata, con considerazioni valevoli in prospettiva anche per il Rosatellum.

Invero, si contestava che la soglia del 40 per cento fosse stata calcolata sui voti validi espressi, anziché sul complesso degli aventi diritto al voto; tuttavia, la Corte ha sostenuto che, pur non potendosi in astratto escludere che, in periodi di forte astensione dal voto, l’attribuzione del premio avvenga a favore di una lista che dispone di un’esigua rappresentatività reale, “condizionare il premio al raggiungimento di una soglia calcolata sui voti validi espressi ovvero sugli aventi diritto costituisce oggetto di una delicata scelta politica, demandata alla discrezionalità del legislatore e non certo soluzione costituzionalmente obbligata”.

Così come la presenza, accanto al premio, di un correttivo alla rappresentatività, costituito da una soglia percentuale di sbarramento sui voti validamente espressi su base nazionale, quale condizione per l’accesso delle liste al riparto dei seggi, resta anch'essa, secondo la Corte, una tipica manifestazione della discrezionalità del legislatore che intenda evitare la frammentazione della rappresentanza politica, e contribuire alla governabilità.

D’altra parte, anche nella precedente sentenza n. 1 del 2014 – che aveva “affondato” la legittimità del Porcellum [4] - la Corte aveva accolto, senza alcun riferimento agli aventi diritto al voto, la questione di legittimità costituzionale in relazione a disposizioni elettorali che non prevedevano l’attribuzione di un premio condizionato al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi.

In altri termini, una minima distorsione del sistema rappresentativo è ammissibile quando è tesa in modo ragionevole a consentire la stabilità dell’esecutivo, in quanto espressione delle forze politiche che hanno ottenuto il maggior consenso popolare.

Ma a questo punto il tema torna ad essere non tanto quello della governabilità, quanto quello della eccessiva facilità di intervento sulla Carta costituzionale, con una possibilità di riuscita che è sicuramente favorita da maggioranze “aggressive” e aventi una visione costituzionale per così dire eccentrica, i cui i leaders dispongono potenzialmente anche di una maggiore capacità di controllo sul singolo deputato o senatore, in un contesto numerico più ridotto.

Già nella legislatura appena finita, sono fioccate le modifiche “puntuali” della Costituzione, approvate o tentate.

Si è passati cioè da un metodo sistematico e organico – che ha raggiunto il suo fallimento più eclatante con la bocciatura della riforma costituzionale Renzi-Boschi – a un metodo asistematico e frammentario, che, se pure assicura la più facile raggiungibilità degli obiettivi, in virtù della limitatezza degli stessi, allo stesso tempo non garantisce adeguato coordinamento tra norme all’interno della Carta, come evidenziato dalla necessità – non sempre poi soddisfatta – di operare ulteriori “correttivi”.

Basta un piccolo elenco delle iniziative di riforma costituzionale nella XVIII legislatura per restare un po’ disorientati.

Si va dal principio di insularità all’enunciazione del valore dello sport, dall’iniziativa legislativa popolare fino all’aumento dei poteri di Roma Capitale, passando per l’introduzione del vincolo di mandato, per la costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze (!) e infine per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica.

Non è mancata ovviamente la solita proposta di abolizione del CNEL – stavolta si voleva proprio abolire l’ente, non solo la norma della Costituzione -, ma ancora una volta i nostri eroi l’hanno scampata [5]. Altro che piano nazionale di ripresa e resilienza! 

Certo, tutto è modificabile e tutto è perfezionabile. Ma occorre sempre porre molta attenzione - anche facendo tesoro dell’involuzione democratica “legale” di Stati come la Polonia e Ungheria [6] -, a non incidere con riforme improvvisate sulla tenuta dello Stato di diritto.

L’Unione Europea considera infatti l’indipendenza della magistratura, il rispetto dei diritti umani e delle minoranze, oltre che la libertà di espressione (e quindi di stampa) all’interno degli Stati membri, come principi fondamentali ineludibili per la piena permanenza all’interno del sistema Europa [7].

Un meccanismo democratico di libere elezioni non basta a garantire lo Stato di diritto, se poi tutto il potere è giuridicamente concentrato nelle mani dell’esecutivo o di un “despota”, senza alcuna forma di controllo e di bilanciamento tra poteri.

Nella nostra Costituzione è stato sancito che soltanto “la forma repubblicana” non può essere oggetto di revisione costituzionale (art. 139 Cost.), ma non è stato indicato alcun riferimento a disposizioni o principi che, per il divieto in oggetto, andrebbero sottratti al procedimento di cui all'art. 138, di modo che il fondamentale compito  di operare l’individuazione dei limiti materiali entro i quali circoscrivere l’attività “legale” di manutenzione della suprema Carta è stato lasciato agli operatori giuridici.

Tuttavia, anche alla luce del trend giurisprudenziale che negli ultimi anni ha fatto prevalere spesso e volentieri il principio di necessità su tutte le altre istanze giurisdizionali, e posto che né la Corte costituzionale né il Presidente della Repubblica in questo particolare momento storico appaiono argini totalmente efficaci contro il sovvertimento dei "principi costituzionali supremi", forse sarebbe il caso di inserire in Costituzione, prima ancora di procedere con ulteriori modifiche in ordine sparso della Carta fondamentale, una norma espressa e inequivoca che preveda che neanche lo Stato di diritto – così come interpretato dalle democrazie più evolute e in ultima analisi "preteso" dall’Unione europea, rispetto alla quale abbiamo ormai rinunciato ad una parte della nostra sovranità – può giammai subire vulnus, specie in un Paese come il nostro, da sempre esposto a corruzione e fascismi di ritorno.[8]

Una norma del genere non dovrebbe creare contrapposizioni o distinguo tra le forze politiche, se è vero che la possibilità di far valere i propri diritti a qualsiasi livello dovrebbe essere ormai divenuta patrimonio comune e pacifico del grado di civiltà raggiunto, oltre che fondamento stesso del nostro sentirci liberi, cittadini e (parzialmente) padroni del nostro destino.





[1] Il regolamento del Senato è stato invece modificato in data 27 luglio 2022.

[2] Ettore Rosato, esponente di Italia Viva, a margine della conferenza stampa del Terzo Polo per commentare i risultati elettorali, ha affermato che abolirebbe la legge elettorale che porta il suo stesso cognome e della quale fu tra i promotori.

[3]  Sentenza n. 35/2017 della Corte costituzionale.

[4] La legge fu formulata principalmente dall'allora Ministro per le riforme istituzionali Roberto Calderoli, che tuttavia qualche mese dopo la definì «una porcata», da cui la definizione di "porcellum". Si trattava d'altra parte di una legge elettorale che è stata dichiarata incostituzionale anche perché sovra-rappresentava la lista o la coalizione di liste vincente, attribuendo il premio di maggioranza del 54% dei seggi a prescindere dalla percentuale di voti ottenuti, anche se minima, e con la quale sono stati eletti ben tre Parlamenti.

[5] https://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1104514.pdf?_1564097148761

[6] Con 433 voti favorevoli, 123 contrari e 28 astensioni, il 15 settembre scorso il Parlamento europeo ha approvato la risoluzione (324/2022) sull’esistenza di un evidente rischio di violazione grave da parte dell’Ungheria dei valori su cui si fonda l’Unione.

[7] L'attivazione della procedura di cui all'articolo 7 del TUE può portare Il Consiglio europeo a constatare l'esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all'articolo 2 (rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze), con successiva sospensione di alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall'applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio.

[8] L'espressione "fascismo di ritorno" viene utilizzata pubblicamente per la prima volta nel 1974 dal sociologo Franco Ferrarotti, nel suo saggio avente analogo titolo. In particolare, Ferrarotti indagava, in quello scritto, quanto fascismo fosse rimasto, non solo nelle istituzioni, ma anche nella società, nella psicologia di massa degli italiani e nella loro cultura.


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