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[NDR: la dott.ssa Papaccio, che ha già collaborato con questo sito quando svolgeva l'attività di tirocinio presso il Tribunale amministrativo regionale, è in procinto di assumere adesso le funzioni di MOT presso la Corte di appello di Napoli, dopo avere superato brillantemente le prove (e per ben due volte gli scritti) del concorso in magistratura ordinaria] PREMESSA La riforma Cartabia ha introdotto nel corpo del codice di procedura civile un istituto inedito nel nostro ordinamento, ossia il rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di cassazione, per la risoluzione di una questione di diritto nuova e controversa, prima della decisione del giudice del merito . Fino alla recente modifica, invero, la Suprema Corte quale giudice di legittimità interveniva sulle questioni di diritto, al fine di enunciare il principio da applicare da parte del giudice del merito al caso concreto, solo in via successiva in sede di impugnazione, avverso una pronuncia in grado unico o di appello, censurata dal ricorrente sulla base dei motivi tassativi di cui all’ art 360 c.p.c. . In disparte la ipotesi del regolamento preventivo di giurisdizione, in tutti gli altri casi, la Corte di cassazione si è sempre pronunciata su un provvedimento già adottato da parte del giudice del merito, in funzione di giudizio di pura legittimità ed in veste nomofilattica, come previsto dalla legge sull’ordinamento giudiziario. L’ art 65 del Regio decreto numero 12 del 1941 , in proposito, statuisce che la Corte di cassazione “ assicura l’esatta osservanza e la uniforme interpretazione ed applicazione della legge, garantisce la unità del diritto oggettivo, vigila sul rispetto dei limiti delle giurisdizioni e regola i conflitti di competenza ”, così indentificando i tratti caratteristici del giudice di legittimità, garante della corretta applicazione del diritto oggettivo e della uniformità della sua applicazione nell’ordinamento da parte dei giudici di merito. In tale ottica dispone anche l’ art 111 Costituzione , che proietta il singolo giudizio di legittimità verso una funzione più ampia della risoluzione del caso concreto in punto di diritto, e più precisamente nella dimensione di un processo avente come scopo l’unità del sistema giuridico e la osservanza della legge. In analoga ottica nomofilattica si inscrive anche la norma di recente introduzione di cui all’ art 363 bis c.p.c. , significativamente collocata subito dopo l’ articolo 363 c.p.c. che disciplina le ipotesi in cui, su richiesta del Procuratore generale, o di ufficio, viene enunciato il principio di diritto nell’interesse della legge. L’inedito istituto del rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di cassazione accentua la funzione di cui all’art 65 della legge sull’ordinamento giudiziario, e precisamente ciò si realizza mediante la sottoposizione della questione giuridica controversa alla Suprema Corte, prima che il giudice del merito si pronunci, al fine di fornire allo stesso il principio di diritto da applicare, vincolante nel caso in esame. Lo scopo dell’istituto è quello di fornire al giudice del merito, in via anticipata rispetto alla decisione, la corretta interpretazione della legge da applicare al caso concreto, su una questione di diritto nuova e controversa. In tal modo si consente di realizzare, da un lato, un risparmio di energie processuali , e dall’altro di potenziare la funzione nomofilattica, fornendo ex ante al giudice a quo una pronuncia della Corte di cassazione, che dirima una controversia, in punto di diritto, suscettibile di dar luogo a orientamenti differenti e non uniformi davanti a più giudici di merito. Infatti i presupposti e requisiti, per la attivazione della richiesta alla Suprema Corte, sono: 1-che la questione, “esclusivamente di diritto ”, sia necessaria alla definizione anche parziale del giudizio, ponendosi come passaggio logico indispensabile da compiere per addivenire alla decisione. 2-che la stessa non sia ancora stata risolta dalla Corte di cassazione, ovvero che sia inedita perché non si è ancora posta all’attenzione del giudice di legittimità. 3-che la questione presenti gravi difficoltà interpretative , richiedendo un impegno ermeneutico apprezzabile , per individuare la soluzione adeguata al caso concreto tra una pluralità di potenziali interpretazioni. 4-la serialità , ossia la circostanza che la questione è suscettibile di porsi in numerosi giudizi, non predeterminati a priori e appunto molteplici. Ciò significa che, se non risolta una tantum in sede di rinvio pregiudiziale, la medesima questione potrebbe riproporsi davanti a giudici diversi, producendo una proliferazione di differenti interpretazioni e - come il delta di un fiume - moltiplicando le decisioni a scapito della armonia e uniformità tra i decisioni. La norma appena descritta, che ha già trovato applicazioni nel processo civile, sebbene in un numero limitato di casi, ha consentito alla Suprema Corte di risolvere questioni interpretative, prevenendo contrasti giurisprudenziali in materie che presentano oggettive difficoltà ermeneutiche, ovvero riguardanti questioni inedite. LA NORMA E LE SUE APPLICAZIONI “EXTRA VAGANTI” La disposizione sembrava posta per rimanere circoscritta al processo civile , considerata la sua funzione endoprocessuale e dunque focalizzata sulla risoluzione di questioni suscettibili di concretizzarsi, se non preventivamente risolte, in una impugnativa afferente al vizio ex art 360 numero 3), ovvero cd. error in iudicando . Tuttavia si è già riscontrata la prima richiesta di “esportazione” dell’istituto al processo tributario , con l’ordinanza di rinvio della Corte di Giustizia tributaria di Agrigento, che ha dato origine alle recenti Sezioni Unite del dicembre 2023. Con tale rinvio è stata sottoposta alla Suprema Corte una questione di giurisdizione, cui era sotteso il controverso inquadramento della fattispecie sostanziale oggetto di lite: in una controversia inerente al diniego di contributo a fondo perduto ex d.l. 34 del 2020, ha assunto carattere pregiudiziale ai fini della determinazione della giurisdizione, l’esatto inquadramento della natura giuridica della posizione soggettiva sottesa. Le Sezioni Unite – con sentenza 13 dicembre 2023 n. 34851 -, in tale occasione, hanno ritenuto utilizzabile il nuovo strumento ermeneutico anche da parte del giudice tributario, rilevando che “ è proprio la funzione nomofilattico-deflattiva assegnata al rinvio pregiudiziale ad avvalorarne … l’utilità .. in una materia come quella tributaria, nell’ambito della quale si rivela particolarmente pressante l’esigenza di assicurare l’uniforme interpretazione del diritto, anche al fine di contenere la proliferazione di un contenzioso notoriamente assai consistente sotto il profilo quantitativo e spesso connotato da caratteri di serialità, nonché di consentire una più rapida definizione delle controversie pendenti. ” La stessa relazione di accompagnamento alla riforma, osservano le Sezioni Unite, menziona la esigenza, particolarmente avvertita in materia tributaria, di « rendere più tempestivo l’intervento nomofilattico, con auspicabili benefici in termini di uniforme interpretazione della legge, quale strumento di diretta attuazione dell’art. 3 della Costituzione, prevedibilità delle decisioni e deflazione del contenzioso ». Aggiunge la Suprema Corte che « una interpretazione autorevole e sistematica della Corte resa con tempestività, in poco tempo ed in concomitanza alle prime pronunzie della giurisprudenza di merito, può svolgere un ruolo deflattivo significativo, prevenendo la moltiplicazione dei conflitti e con essa la formazione di contrastanti orientamenti territoriali ». Una volta ammessa - con la pronuncia del 2023 - la esportazione dell’istituto al di fuori dei confini del processo civile, il TAR Liguria, con la ordinanza del 28 febbraio 2025, n. 230 ha attivato per la prima volta il rinvio nel giudizio amministrativo . Anche in questa fattispecie il rinvio è stato operato al fine di risolvere una questione di giurisdizione. Il ricorso è originato dall’impugnativa degli atti di una procedura concorsuale per il conferimento dell’incarico quinquennale di Direzione della Struttura Complessa “Chirurgia Generale ad Alta Complessità” - disciplina di Chirurgia Generale - Area di Chirurgia e delle Specialità Chirurgiche, dell’Azienda Sociosanitaria Ligure 5. Si tratta di procedure di conferimento di incarichi direttivi di strutture caratterizzate da maggiore autonomia nella gestione, in base a quanto previsto dall’atto organizzativo adottato dalla ASL ( cfr. ex art 15, comma 6, del d.lgs. 502/1992 ). Sul conferimento di tali incarichi dirigenziali è divenuta controversa la giurisdizione , a seguito di una recente modifica normativa, che ha riformato l’art. 15, comma 7 bis del d.lgs 502/92, sostituito dall’ art. 20, comma 1, l. 5 agosto 2022 n. 118 . Per effetto della richiamata novella legislativa, l’art 15 sopra citato ora prevede una maggiore procedimentalizzazione della procedura di scelta del dirigente. Precedentemente, infatti, la procedura era basata su un’analisi comparativa dei titoli, posseduti dai candidati “ai fini della predisposizione di una terna di candidati idonei formata sulla base dei migliori punteggi attributi”; poi si passava alla “individuazione da parte del direttore generale, del candidato da nominare, tra i due che avessero ottenuto il punteggio più elevato”. In tale contesto la giurisdizione ordinaria era fondata – cfr. ex multis Cass., SU, n. 13491/2021- sulle stesse modalità della selezione, articolate in “uno schema che non prevede lo svolgimento di prove selettive, con la formazione di graduatoria finale e l’individuazione del candidato vincitore, ma soltanto la scelta, di carattere essenzialmente fiduciario”. Di qui, in applicazione dell’ art 63 del TU del pubblico impiego , le controversie si ritenevano devolute al giudice ordinario, escludendo la natura concorsuale della procedura e ritenendo la stessa integrata da atti adottati con i poteri del privato datore di lavoro. Infatti è pacifico ormai che , in tema di impiego pubblico privatizzato, il g.a. mantiene una riserva ex art 63 del TU pubblico impiego, solo per le procedure concorsuali finalizzate alla assunzione, o anche alla progressione in un’area o fascia superiore quella di appartenenza. Per contro, il conferimento di un incarico dirigenziale , ivi compresa la dirigenza sanitaria, non costituisce un concorso avendo come destinatari personale già in servizio ed in possesso della relativa qualifica, e rappresentando una scelta tra curricula e non una valutazione comparativa. Con la recente modifica normativa, gli incarichi di direzione di struttura sanitaria complessa sono ora attribuiti sulla base dell’ analisi comparativa dei curricula e dei titoli professionali posseduti dai candidati “secondo criteri prefissati preventivamente”, in modo tale da far prescegliere il candidato con il punteggio migliore. Le interpretazioni di queste novità procedurali, in giurisprudenza, hanno dato origine a due opposte soluzioni in punto di giurisdizione. Secondo un primo orientamento sussiste tuttora la giurisdizione del giudice ordinario, anche dopo la modifica normativa. Infatti la procedura attiene al “conferimento degli incarichi di direzione” , le cui controversie sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario per espressa previsione ex art. 63, comma 1, del d.lgs n. 165/01 ( come ha già affermato ex multis Cass., SU, nn. 13491/2021) e le modifiche del 2022 nulla mutano in ordine alla natura dell’incarico, essendo la procedura selettiva finalizzata all’attribuzione di un incarico dirigenziale e non avendo natura concorsuale. La giurisdizione del giudice amministrativo è per contro configurabile solo nelle ipotesi di concorsi finalizzati alla “assunzione” del dipendente, mentre l’incarico di direttore di struttura complessa è conferibile a chi sia già stato assunto nel ruolo della dirigenza medica mediante concorso pubblico ai sensi dell’art. 15, comma 7, primo periodo del d.lgs n. 502/92 e s.m.i.. In tali termini la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che “ la riserva stabilita in favore del giudice amministrativo concerne soltanto le procedure concorsuali strumentali all’assunzione o alla progressione in un’area o fascia superiore a quella di appartenenza, laddove gli atti di conferimento d’incarichi dirigenziali - i quali non concretano procedure concorsuali ed hanno come destinatari persone già in servizio nonché in possesso della relativa qualifica - conservano natura privata in quanto rivestono il carattere di determinazioni negoziali assunte dall’Amministrazione con i poteri e le capacità del comune datore di lavoro ” (Cass., SU, nn. 13491/2021). In sintesi, secondo tale tesi, la novella legislativa, pur incrementando la procedimentalizzazione della selezione, nulla innoverebbe sul riparto di giurisdizione. (Consiglio di Stato sezione III, 4 giugno 2024, n. 5017; C. S. III, 19 luglio 2024, n. 6534). Secondo un secondo orientamento , più recente, del Consiglio di Stato, tali controversie sarebbero attratte alla giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto, per effetto della riforma, sarebbe venuto meno il carattere fiduciario del conferimento dell’incarico e la procedura sarebbe ora inscritta nel modello concorsuale. Ciò si desumerebbe dal fatto che la selezione non è limitata ai medici in servizio presso l’Asl interessata, ma “aperta e pubblica” e quindi assume i connotati di una procedura per l’immissione in servizio di un sanitario, in posto qualificato: la stessa sarebbe finalizzata all’assunzione del sanitario sub specie di “progressione in un'area o fascia superiore a quella di appartenenza” ovvero all’acquisizione di uno “status” professionale più elevato (Consiglio di Stato sentenza 18 ottobre 2024 n. 8344). In ordine alla questione così inquadrata, il TAR Liguria ha ravvisato la sussistenza di tutti i presupposti di cui all’art 363 bis c.p.c., ovvero la natura esclusivamente di diritto del quesito, la possibilità che la questione si ponga in molteplici giudizi, come dimostra la giurisprudenza in materia, la novità della questione e il contrasto giurisprudenziale ancora irrisolto, sia in seno alla giurisprudenza amministrativa sia da parte della Suprema Corte in sede di regolamento della giurisdizione. Trattandosi di una questione che indubbiamente condiziona la risoluzione della controversia, in particolare in quanto la scelta tra le diverse opzioni ermeneutiche viene a riflettersi sulla sussistenza in radice della potestas decidendi del g.a., il Collegio, ha operato il rinvio di interpretazione alla Corte di cassazione, rilevando che occorre in limine risolvere una questione da cui dipende la sussistenza della propria giurisdizione. OSSERVAZIONI FINALI La circostanza centrale nel caso in esame è proprio inerente alla utilizzabilità dello strumento del rinvio pregiudiziale da parte del giudice amministrativo , e quindi alla possibilità, anche in tali casi, di sua esportazione al di fuori del contesto del codice di procedura civile. Quanto alla possibilità di operare il rinvio ex art 363 bis c.p.c. da parte dei giudici speciali , occorre rifarsi alla sopra richiamata pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione che ha risolto il problema favorevolmente, rispetto al rinvio operato dal giudice tributario ( SSUU sentenza 13 dicembre 2023 n. 34851). Nell’ottica della estensibilità dell’istituto anche al processo amministrativo, il Tar Liguria rileva come la questione che intende sottoporre alla Cassazione sia relativa alla giurisdizione sulla controversia, la quale ex art. 111, comma 7 Cost. e art. 110 c.p.a. è scrutinabile dalla Suprema Corte, quale organo regolatore della giurisdizione, anche rispetto alle decisioni dei giudici speciali. Ancora, argomenta il TAR Liguria come il rinvio esterno contenuto nell’ art. 39 comma 1, c.p.a. – secondo cui “Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali”- consenta l’opzione ermeneutica prescelta. In ciò giova richiamare la similitudine con il processo tributario, ove è presente analogo rinvio esterno al codice di procedura civile, e precisamente all’ art. 1, comma 2, d.lgs. 546/92, norma che è stata adoperata per ritenere consentito il rinvio pregiudiziale da parte del giudice tributario, come affermato dalla Cassazione nel precedente sopra citato ( SSUU sentenza del 13 dicembre 2023 n. 34851). La circostanza che il Tribunale amministrativo regionale appartenga a una giurisdizione speciale non sarebbe ostativa ex se alla facoltà per i giudici amministrativi di sollevare rinvio pregiudiziale ex art 363 bis c.p.c., atteso che il rinvio è operato proprio ai fini della determinazione della giurisdizione, ambito in cui “la Cassazione costituisce l’organo di vertice, con il compito di assicurare l'esatta osservanza, l'uniforme interpretazione della legge e l'unità del diritto oggettivo”. Inoltre tale istituto - “ essendo volto a sollecitare un responso anticipato della Corte in ordine ad una questione di diritto, non ancora risolta dalla giurisprudenza di legittimità ed avente carattere seriale, che presenti gravi difficoltà interpretative ed appaia rilevante ai fini della decisione della controversia ” - sembra specialmente adeguato laddove la questione di giurisdizione sottenda una delicata e complessa questione di diritto afferente l’inquadramento sistematico dell’istituto di diritto sostanziale su cui si fonda l’attribuzione della giurisdizione. A favore della possibilità di applicare l’istituto anche al processo amministrativo, va rilevato l’inquadramento dato allo stesso dalle Sezioni Unite nella richiamata pronuncia 34851/2023, e precisamente le rilevanti differenze che “lo strumento ex art 363 bis c.p.c. presenta” rispetto al regolamento preventivo di giurisdizione, in quanto opera ad iniziativa del giudice, che può utilizzarlo non solo nel giudizio primo grado ma anche in quello di appello. In tal sede è significativa la definizione del rinvio pregiudiziale quale “strumento complementare” di definizione delle questioni di giurisdizione, rispetto a quelli già disciplinati dal c.p.c., il regolamento preventivo ad istanza di parte ex art 41 c.p.c. , e il regolamento di ufficio che è solo successivo. Questo inquadramento consente quindi di dare maggiore spazio ad un rinvio pregiudiziale anche in un’ottica di definizione della giurisdizione, proprio per evitare un inutile dispendio di energie processuali, deflazionando il contenzioso, mediante la enunciazione di un principio suscettibile di essere applicato in controversie seriali. Tuttavia le apprezzabili ragioni favorevoli alla ammissibilità dell’istituto vanno confrontate con le possibili obiezioni, specifiche per il processo amministrativo, che non sembrano essere state ancora vagliate nella fattispecie già esaminata dalla Cassazione, relativa al processo tributario. Può osservarsi che il rapporto tra giudice amministrativo e Corte di cassazione è delineato all’art 111 Costituzione , secondo cui le decisioni del Consiglio di Stato sono sindacabili dalla Suprema Corte solo per “motivi di giurisdizione”, con esclusione dei vizi costituenti errores in procedendo o in iudicando compiuti dal giudice speciale. Di qui occorre porre una particolare cautela alla estensibilità dell’istituto al processo amministrativo, onde evitare che venga piegato ad un surrettizio ampliamento delle cosiddette questioni di giurisdizione conoscibili dalla Cassazione. Il riferimento è alle posizioni espresse dalla Corte costituzionale, in riguardo alla diversa problematica del sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale, che focalizzano la necessità di intendere in senso stretto le questioni di giurisdizione (Corte costituzionale n. 6 del 2018), preservando una autonomia di decisione e procedura del giudice speciale. In tal sede la Consulta ha quindi ridimensionato un'eccessiva dilatazione del concetto di eccesso di potere giurisdizionale , che avrebbe consentito un sindacato sugli errores in iudicando o in procedendo , con una torsione del vizio di cui all’art 360 numero 1 c.p.c. inerente ai motivi di giurisdizione. Nel caso del rinvio pregiudiziale per motivi di giurisdizione questa torsione sembra escludersi, dal momento che la Corte di cassazione è chiamata ad una sorta di actio finium regundorum , che ha lo stesso contenuto del sindacato svolto in sede di regolamento di giurisdizione, o ex post in sede di ricorso per motivi di giurisdizione; può dunque condividersi la tesi per cui l’istituto si pone in linea con l’esigenza del giusto processo , in quanto finalizzato ad ottenere pronunce orientate a garantire la certezza e prevedibilità del diritto. In ultima analisi va condivisa l’osservazione secondo cui il rinvio pregiudiziale, più che destabilizzare le garanzie di autonomia riconosciute ad ogni giudice dall’ art 101, secondo comma Costituzione , rappresenta un’opportunità in più offerta al giudice di merito per rivolgersi alla Corte regolatrice della giurisdizione. Non sembra di ostacolo la osservazione, formulata da una parte della dottrina, secondo cui il rinvio pregiudiziale, anche se limitato ai fini di una questione di giurisdizione, troverebbe una barriera nella circostanza che in tale questione i profili di diritto sono inscindibilmente connessi a quelli di fatto . Al riguardo la Suprema Corte, nella citata sentenza concernente il Giudice tributario, ha osservato che tale inscindibilità contraddistingue tutte le questioni di carattere processuale, ove la Corte è chiamata ad operare come giudice anche del fatto. In ogni caso, in tali questioni è ben possibile distinguere l’aspetto riguardante la interpretazione della norma giuridica astrattamente applicabile, dalla ricostruzione della concreta vicenda processuale, che rimane “ affidata al giudice di merito, sia in via preventiva , ai fini della motivazione in ordine alla rilevanza della questione, che in via successiva, ai fini della applicazione del principio di diritto enunciato da questa Corte ”. In altri termini si è rilevato che, fermo che i profili fattuali sono riservati in via esclusiva al giudice di merito, a quello di legittimità può demandarsi il profilo giuridico consistente non già nell’individuare il giudice a cui spetta la giurisdizione, ma nella “interpretazione delle norme sostanziali e processuali dalle quali dipende il riparto di giurisdizione”(cfr. sempre Cassazione, Sezioni Unite numero 34851/2023). Vale sottolineare che in ogni caso la Suprema Corte ha già chiarito nella citata sentenza che la sua pronuncia non sarà mai nel senso di statuire in via diretta a chi spetti la giurisdizione, bensì di qualificare la posizione giuridica sottesa alla questione di giurisdizione , rimanendo nel campo del giudice del merito il compito di trarne le conseguenze, benché entro il vincolo del principio di diritto. In attesa di conoscere la decisione della Suprema Corte in ordine all’estensibilità del rinvio sollevato al processo amministrativo, si rileva come l'ordinanza del giudice di primo grado , nel solco della giurisprudenza di altri giudici speciali, abbia colto la possibilità, offerta dal codice di rito in virtù del rinvio esterno, di dialogo anticipato con la Corte regolatrice della giurisdizione. In tal modo, il giudice amministrativo contribuirebbe a realizzare lo scopo della norma di recente introduzione, ossia una previa risoluzione di questioni di diritto rispetto alla decisione di merito, nell’ottica di economia processuale, ragionevole durata del processo e dell’armonia tra decisioni di diversi giudizi, al fine di assicurare l’uniformità del diritto oggettivo.

TAR Emilia-Romagna, sentenza n. 781 del 2019 - Consiglio di Stato, sez. III, 22 aprile 2022, n. 3108 IL CASO E LA DECISIONE DI PRIMO GRADO Un soggetto sindacalmente attivo, che ha partecipato a numerose manifestazioni non autorizzate davanti ad uno stabilimento industriale, durante le quali erano stati anche commessi reati, impugnava dinanzi al Giudice amministrativo la misura di prevenzione del foglio di via obbligatorio con divieto di ritorno nel Comune dello stabilimento, per la durata di tre anni, da cui era stato colpito, a causa della citata condotta. In fatto, durante tali manifestazioni, i partecipanti avrebbero ostacolato gli automezzi in entrata e in uscita dallo stabilimento, congestionando il traffico e creando un clima di tensione crescente con le Forze di Polizia, che in alcuni casi sarebbe sfociato in vera e propria violenza nei confronti delle stesse. Il ricorrente in primo grado, individuato come soggetto pericoloso sulla base di una informativa di reato, aveva dedotto la violazione degli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 159/2011 e carenza di motivazione del provvedimento impugnato. Il Tar per l’Emilia-Romagna ha però respinto le sue doglianze, precisando, preliminarmente, che “organizzare eventi di natura sindacale che si risolvono in illeciti picchetti all’ingresso di azienda o in blocchi stradale commettendo reati di violenza privata oltre che di manifestazione non autorizzata non significa esercitare il diritto di sciopero”. E se pure l’esercizio dei diritti sindacali non può di per sé costituire un motivo per classificare l’interessato tra le persone socialmente pericolose, a fronte ad un numero così elevato di episodi, l’affermazione che il ricorrente fosse persona che mette in pericolo la tranquillità pubblica non era da considerarsi incongrua, specie se nel provvedimento vi è – come accaduto nel caso di specie - un riferimento circostanziato alle condotte che fondano un giudizio di pericolosità. Il Giudice di primo grado riteneva inoltre coerente al contesto complessivo “la prognosi infausta circa la possibile reiterazione di condotte turbative della tranquillità pubblica” e il riferimento all’art. 27 Cost. improprio “perché nel caso in esame non vi è alcuna violazione del principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza fino a condanna passata in giudicato poiché siamo in ambito amministrativo”. La sentenza di rigetto del TAR emiliano è stata peraltro impugnata e riformata dal Consiglio di Stato. Misure di prevenzione e posizione espressa dal Consiglio di Stato sul caso esaminato La giurisprudenza amministrativa, nell’ambito del variegato panorama delle misure di prevenzione , è chiamata a sindacare la legittimità di quelle questorili , ovvero del foglio di via obbligatorio e dell’avviso orale, costituenti gli interventi di prevenzione meno intensi nei confronti del soggetto “socialmente pericoloso”. In particolare, per quanto attiene al foglio di via, il provvedimento è adottato nei confronti delle categorie di soggetti di cui all’ art. 1 del d.lgs. n.159/2011 , ovvero: soggetti abitualmente dediti ai traffici delittuosi, soggetti che vivono abitualmente con i proventi di attività delittuose, ovvero nei confronti di coloro che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, al sicurezza o la tranquillità pubblica. La misura richiede l’ulteriore requisito di cui dall’ art. 2 del codice antimafia, ossia la formulazione di un giudizio prognostico e predittivo da cui inferire che detti individui risultino pericolosi per la sicurezza pubblica e si trovino fuori dal luogo di residenza. In tal caso, il Questore può rinviare i soggetti alla propria residenza, con foglio di via obbligatorio, che inibisce loro di rientrare, senza preventiva autorizzazione, o non prima del termine stabilito, nel Comune dal quale sono stati allontanati. La giurisprudenza ha compiuto una interpretazione cd. " tassativizzante" della normativa de qua , nel senso che per la legittima applicazione della misura è richiesta la indicazione di attuali e concreti elementi di fatto, dai quali desumere la pericolosità sociale, con un giudizio individualizzante, nonché, con riferimento alla categoria di soggetti di cui alla lettere c) art. 1, le precise modalità aggressive dei beni protetti, ovvero la sicurezza e tranquillità pubblica. Pertanto, si ritiene che il foglio di via debba essere motivato “con riferimento a concreti comportamenti del soggetto dai quali possano desumersi indici di pericolosità per la sicurezza pubblica” (Cfr. T.A.R. Umbria Perugia, sez. I, 27 maggio 2014, n. 273). Il sindacato del giudice amministrativo sul provvedimento questorile viene spesso invocato contestando il giudizio di pericolosità nei confronti del proposto, riservato alla discrezionalità della PA. Al riguardo, si è sviluppato un consolidato orientamento a mente del quale la sussistenza della pericolosità non richiede prove compiute della commissione di reati, ma si giustifica ex se con riguardo ad “episodi di vita che secondo la prudente valutazione della autorità di polizia, rivelino oggettivamente una apprezzabile probabilità di condotte penalmente rilevanti da parte di un soggetto rientrante in una delle categorie previste dalla legge” (Consiglio di Stato, sez. III, 27 gennaio 2012, n. 368). Ne deriva che non occorre la prova dell’avvenuta commissione di reati, bensì una motivata indicazione degli episodi di vita, da cui oggettivamente emerga una apprezzabile probabilità di condotte penalmente rilevanti e socialmente pericolose. Il sindacato giurisdizionale sulla valutazione prognostica si manifesta dunque nella forma del sindacato cd. estrinseco sull’esercizio della discrezionalità, rilevandosi come le norme di prevenzione riconoscono all’Amministrazione un “ampio margine di apprezzamento” nella valutazione della pericolosità sociale, condotta sulla base di elementi concreti (Consiglio di Stato, sez. III, 27 gennaio 2012, n. 368). In definitiva, la linea di tendenza della giurisprudenza amministrativa afferma come i provvedimenti di rimpatrio per motivi di sicurezza pubblica, quale il foglio di via obbligatorio, costituiscono “manifestazione della più ampia discrezionalità amministrativa in quanto tipici atti con finalità preventiva basati su un giudizio prognostico di pericolosità sociale. Di conseguenza, gli stessi sfuggono al sindacato giurisdizionale se non sotto i profili dell'abnormità dell'iter logico, dell'incongruenza e dell’irragionevolezza della motivazione o del travisamento della realtà fattuale”. Con minore frequenza il giudice amministrativo è chiamato a sindacare la inclusione nelle specifiche categorie di pericolosità sociale effettuata dalla autorità di polizia, ovvero la ascrizione del soggetto proposto ad una delle categorie di cui all’art. 1 del codice antimafia. Tali fattispecie costituiscono tuttavia, anche in ragione della loro peculiarità, il banco di prova della interpretazione tassativizzante della normativa di prevenzione, che ne assicura la tenuta costituzionale e convenzionale. E’ noto, in proposito, come la pronuncia della Consulta n. 24 del 2019 , emessa in seguito alla sentenza della CEDU De Tommaso c. Italia , ha sottolineato l’esigenza di rispettare, anche per il diritto della prevenzione, essenziali esigenze di tassatività sostanziale, riferite alla precisione e determinatezza degli elementi indicati dalla norma; nonché esigenze di tassatività processuale, attraverso la richiesta di un rigore probatorio quasi penalistico. La sentenza del Consiglio di Stato in commento costituisce un’interessante applicazione della necessità di un sindacato attento sul giudizio soggettivo, ovvero sulla inclusione del proposto tra i soggetti dediti alla commissione di determinati reati, e sulla attitudine offensiva degli stessi nei confronti dei beni protetti indicati dalla norma di riferimento. Nella vicenda esaminata in concreto dal Giudice amministrativo, il sindacato a cui il ricorrente aderiva, nel corso di diversi mesi, aveva indetto molteplici manifestazioni non autorizzate davanti ad uno stabilimento produttivo, nel corso delle quali i partecipanti avrebbero attuato un blocco di merci, ostacolando gli automezzi in entrata ed in uscita dallo stabilimento, con effetto di provocare il congestionamento del traffico. Il provvedimento aggiunge che nel corso di dette manifestazioni si sarebbe creato un clima di tensione con le forze di polizia, che in alcuni casi sarebbe sfociato in episodi di violenza nei confronti delle stesse; fatti per i quali il proposto si trova denunciato all’autorità giudiziaria penale per violenza privata in concorso e omesso avviso di riunioni pubbliche (art. 18 TULPS). Tali gli elementi di fatto, dai quali l’autorità questorile aveva tratto la conclusione che il proposto fosse una persona dedita alla commissione di reati che mettono in pericolo la sicurezza e la tranquillità pubblica. Nella vicenda in commento, peraltro, le manifestazioni di pericolosità sociale sono coincidenti con l’esercizio delle libertà sindacali e in particolare del diritto di sciopero . Il Consiglio di Stato, pertanto, si è interrogato sulle caratteristiche e sulle ricadute del cd. " picchettaggio ", definito come “ un complesso di comportamenti materiali di diversa natura, aventi come carattere comune la tendenza a rafforzare la partecipazione, la riuscita, l’efficacia di uno sciopero e più specificamente…tutte quelle attività e quei metodi posti in essere dagli scioperanti per indurre i lavoratori dissenzienti e non accedere ai luoghi di lavoro per fornire la prestazione lavorativa ”. Il Giudice di secondo grado ha affermato che il picchettaggio non può ritenersi in sé attività vietata o pericolosa, rientrando nel legittimo esercizio del diritto di sciopero, garantito dall' art. 40 della Costituzione , purché lo stesso non sia attuato con modalità violente o minacciose, tali da condizionare la libertà dei lavoratori non scioperanti, ovvero tali da mettere a repentaglio la pubblica sicurezza. L’attività dei picchetti può dunque assumere rilevanza sotto diversi profili giuridici, dal momento che, nella pratica, essa tende ad assumere connotati tanto più energici quanto maggiore è l’asprezza del conflitto sindacale in corso. La semplice presenza di un picchetto che tenda ad ostacolare le persone e gli automezzi in entrata o in uscita dallo stabilimento industriale o tenda a svolgere un’attività di persuasione e di sensibilizzazione sindacale, non connotata da ulteriori ed eloquenti fatti, riconducibili a specifiche condotte di violenza privata o minaccia, non può integrare ex se il reato di violenza privata; se ciò avvenisse, il potere di prevenzione si trasformerebbe in un surrettizio, indebito, strumento di repressione della libertà sindacale e del diritto di sciopero. Viceversa, tale attività diventa illegittima qualora assuma modalità aggressive per la sicurezza altrui e per l’ordine pubblico, manifestandosi con forme che ostacolino il diritto di autodeterminazione altrui. Con riferimento proprio alla nozione di violenza , la giurisprudenza penale più recente ha adottato una nozione restrittiva della stessa , escludendo che sia integrata qualora i manifestanti si limitino a un ostruzionismo “passivo” delle attività, senza impiegare violenza fisica o minaccia contro le persone, sia dei lavoratori sia dei fornitori; e, con specifico riguardo al delitto di resistenza a pubblico ufficiale, qualora l’opposizione all’operato delle forze dell’ordine avvenga senza l’utilizzo di condotte violente o minacciose, si ritiene l’insussistenza del reato. La Corte di cassazione, in proposito, esclude la configurabilità del delitto in questione nei casi di mera resistenza passiva , quale l’inerzia, la mancata collaborazione con gli operanti o, più in generale, l’opposizione che comunque non si estrinsechi in forme neanche minime di violenza o intimidazione (Cass. pen., Sez. VI, sent. 13 gennaio 2015, n. 6069). Quanto al reato di cui all’ art. 18 TULPS , si afferma che la tutela riconosciuta dall’art. 40 della Costituzione al diritto di sciopero si estende a tutte le azioni, anche “collaterali rispetto all’astensione collettiva dei lavoratori, che siano strettamente connesse e siano utili in vista del perseguimento degli scopi degli scioperanti”. La tutela copre anche i casi in cui il diritto di sciopero sia esercitato “a sorpresa”, poiché la mancanza di preavviso appare addirittura connaturata all’esercizio di tale diritto, risultando spesso indispensabile per “assicurare all’iniziativa collettiva dei lavoratori una qualche efficacia nei confronti della controparte datoriale”. Quanto al delitto di violenza privata, la giurisprudenza penale ritiene che, anche ove possano configurarsi i contorni dell’evento costrittivo descritto dall’ art. 610 c.p. , mediante condotte impeditive del passaggio di mezzi e personale, tale elemento non sarebbe da solo sufficiente a configurare il reato, dovendosi altresì accertare che la costrizione sia stata in concreto posta in essere mediante condotte qualificabili in termini di violenza o minaccia. Invero, la corretta delimitazione del concetto di violenza penalmente rilevante, è da tempo oggetto di contrasti interpretativi in dottrina e in giurisprudenza e si rinvengono in proposito due principali orientamenti. Secondo un primo indirizzo restrittivo, la nozione penalistica di violenza rimanderebbe necessariamente a una vis corporis corpori data , ossia a un’esplicazione di energia fisica rivolta verso persone o cose. L’orientamento prevalente invece interpreta tale nozione all’interno del delitto di cui all’art. 610 c.p., con una lettura della norma autosufficiente, in modo da ricomprendere nel suo perimetro ogni condotta capace di produrre l’effetto costrittivo richiesto dalla norma (Cass. pen., Sez. V, sent. 18 ottobre 2018 , n. 3710). In tal senso, si ritiene integrare reato anche l’ipotesi di picchettaggio cd. ostruzionistico , ma non violento, e si esclude la riconducibilità di tali fatti all’esercizio del diritto di sciopero ex art. 40 Costituzione, in quanto tale diritto “trova un preciso limite nella impossibilità di compromettere diritti e libertà di terzi”. Un terzo orientamento, per così dire intermedio, stempera il rigore della predetta tesi e afferma come la nozione di violenza non possa prescindere dal considerare gli effetti prodotti da tale condotta, che per sua natura è destinata a relazionarsi con terzi destinatari; dunque determinante, più che l’esercizio di energia fisica sul soggetto passivo, è il verificarsi di una intromissione nell’altrui sfera fisica o psichica, mediante indebita ingerenza da parte dell’agente. Tuttavia, l’orientamento in parola è minoritario, in quanto non collima con la giurisprudenza giuslavoristica, che riconduce nell’alveo del diritto di sciopero il solo picchettaggio “persuasivo” , vale a dire quello volto a promuovere la partecipazione all’astensione dal lavoro attraverso condotte propagandistiche (come volantinaggio o slogan), e non anche le condotte materialmente ostruttive o impeditive, che accedano e colorino con modalità aggressive l’esercizio del diritto di sciopero. I giudici di Palazzo Spada, nel solco delle più recenti coordinate ermeneutiche della giurisprudenza penalistica, hanno escluso che il picchettaggio commesso nel caso in commento potesse costituire un comportamento in senso proprio violento, in particolare nei confronti delle forze dell’ordine. L’assunto è stato corroborato da una attenta analisi probatoria, volta a dare una lettura tassativizzante della fattispecie di pericolosità sociale generica, avendo riguardo alle risultanze istruttorie ed in particolare alla carenza di elementi forniti dalla Questura, che si era rifiutata di ostendere gli atti presupposti, opponendo esigenze di segreto istruttorio. Il Consiglio di Stato ha escluso pertanto la possibilità di ravvisare la necessaria tassatività sostanziale e processuale, che deve presiedere l’applicazione delle misure di prevenzione, ovvero elementi concreti di fatto che indichino una reale ed individualizzata carica di pericolosità sociale del proposto, secondo il criterio del “più probabile che non”. La pronuncia, con riguardo al picchettaggio, ha affermato che “ il semplice ostacolo al passaggio di automezzi in entrata o in uscita dallo stabilimento industriale, non connotata da elementi fattuali che consentano di rintracciare specifici ed individuali condotte di violenza o minaccia da parte di un determinato soggetto, non può integrare da sola sintomo di pericolosità sociale e carico di questo, se non si vuole trasformare il diritto della prevenzione… in un surrettizio, indebito strumento di repressione della libertà sindacale e del diritto di sciopero e in ultima analisi in una misura antidemocratica ”. La sentenza di secondo grado de qua , in conclusione, aggiunge un preciso tassello sia a tutela della libertà sindacale e delle connesse forme lecite di manifestazione del diritto di sciopero, sia a presidio della democraticizzazione del diritto della prevenzione, che deve trovare il proprio fondamento in elementi di fatto concreti e specifici, senza addossare al singolo responsabilità per fatto altrui.

TAR per la Sicilia, Sezione I, sentenza n. 2887 del 2016 - Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana- sez. giurisdizionale, sentenza 15/2/2021 n.107 IL CASO Gli attuali proprietari dell’abitazione che fu del giudice Livatino ricorrono avverso il decreto regionale che ha dichiarato l’interesse culturale ed ha sottoposto a vincolo storico-artistico - ai sensi dell’articolo 10 del Codice dei Beni Culturali - l’immobile denominato “Casa Famiglia del Giudice Rosario Livatino” sito in Canicattì ed i beni mobili ivi custoditi. Il TAR aveva respinto il ricorso avverso il decreto di vincolo, con decisione confermata dal Giudice di appello, in una fattispecie in cui vengono in rilievo aspetti interessanti sia in tema della nozione di bene culturale, sia in tema di ampiezza del sindacato del giudice amministrativo sulle scelte tecniche della PA. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia ripercorre da un lato la vita e il valore della memoria del giudice Rosario Livatino, noto come “il giudice ragazzino”, che riempie di contenuti culturali e di memoria storica l’immobile in cui lo stesso ha vissuto, sottolineando come si sia attualmente affermata una nozione di bene culturale diversa da quella meramente estetizzante; e, dall’altro, riepiloga il quadro normativo e giurisprudenziale relativo al sindacato sui provvedimenti di apposizione di vincoli su beni di interesse storico-culturale, come espressione di discrezionalità tecnica nella sua massima declinazione, censurabili soltanto mediante un sindacato estrinseco. VINCOLI SUI BENI CULTURALI E SINDACATO GIURISDIZIONALE Le pronunce in esame si inscrivono nel variegato panorama giurisprudenziale relativo al sindacato giurisdizionale sui provvedimenti di apposizione di vincoli su beni culturali, e si caratterizzano per un aspetto inedito, connesso al rilievo di una nuova valenza della nozione di bene culturale. Il percorso ermeneutico parte da una rievocazione sintetica ma eloquente della vita del giudice Livatino, dedicata al servizio dello Stato ed alla lotta contro la criminalità organizzata, portata avanti mediante l'impegno diretto in rilevanti indagini sul potere mafioso, in rapporto anche alla capacità dello stesso di inquinamento dell’economia legale. Sottolineano i Giudici aditi come l’impegno “morale ed etico” del magistrato è alla base della decisione di apposizione del vincolo, inteso non già nel suo senso classico e statico come conservazione di beni culturali di pregnante rilevanza artistica o storica, bensì come tributo ad un “servitore eccezionale dello Stato”, per assicurare il ricordo del magistrato alle future generazioni. Il giudice amministrativo rileva come la dedizione di Livatino alla causa della legalità, arrestata dalla sua tragica uccisione, costituisca fulgido esempio e, in proposito, testimoni quella lezione di impegno e riservatezza che il provvedimento di vincolo vuole assicurare a futura memoria. Tali elementi sono desumibili dalla relazione storica della Soprintendenza, che ne fornisce una lettura orientata a ricavare un nuovo concetto di bene culturale. Va rilevato come la nozione di “bene culturale” ha subito una evoluzione dal punto di vista teleologico: il Codice dei Beni culturali lo definisce come res avente interesse storico, artistico, etnoantropologico, e chiude con la clausola aperta ricomprendente ogni “ testimonianza materiale avente valore di civiltà ”; l’attenzione si è tuttavia progressivamente spostata da una nozione estrinseco-artistica ad una nozione predominata da aspetti assiologici, relativi ai valori cui il bene concreto rimanda. La res rileva in quanto proiezione dell’uomo in un contesto storico-culturale, non in sé per le sue caratteristiche formali (es. un quadro di una certa corrente pittorica), ma per l’importanza etica e sociale dei valori che è capace di trasmettere in modo trasversale e diacronico alle generazioni venture (considerazioni già accennate da Cons. Stato 17 ottobre 2003, n. 6344, che ha evidenziato la rilevanza prospettica del concetto dinamico e sociale di bene culturale, ormai « protetto per ragioni non solo e non tanto estetiche, quanto per ragioni storiche, sottolineandosi l’importanza dell’opera o del bene per la storia dell’uomo e per il progresso della scienza »). La stessa nozione di bene culturale, precipitato delle convenzioni internazionali (Convenzione UNESCO 1972, 2003 e Convenzione Quadro del Consiglio d’Europa del 2005) e di una secolare evoluzione normativa, può compendiarsi nella definizione di “testimonianza materiale avente valore di civiltà”. Al riguardo, la giurisprudenza afferma che “ i valori si incardinano inscindibilmente nel bene materiale, ed il bene diventa radice ed espressione di una significazione altra che non si identifica con il supporto materiale ma rimanda ai valori ed ai principi che in dato momento storico guidano l’evoluzione della società ”. Con il definitivo superamento del criterio estetizzante, in favore di uno storicistico, le pronunce in esame attestano che il valore culturale si identifica nel rimando all’impegno etico e morale del giovane magistrato che, con la normalità della sua vita, ha indicato ai giovani, non solo siciliani, la via del riscatto e della liberazione dal predominio mafioso. Anche un bene ex se privo di un valore intrinseco da un punto di vista artistico o estetico, ma connotato da una pregnante valenza simbolico-valoriale - nella specie il messaggio di legalità e senso del dovere di cui è stato portatore il giudice Livatino -, può assumere una forte valenza storico culturale, da preservare e tramandare alle future generazioni. Ciò assume peculiare rilievo proprio mediante la preservazione dell’originaria atmosfera in cui il giudice Livatino ha vissuto e lavorato, in modo da trasmettere alla collettività, tramite la quotidianità della casa di abitazione, la dimensione umana prima che istituzionale del magistrato nella quale si colloca la sua lotta alla criminalità (ricreando l’atmosfera emotiva del modus vivendi sobrio e semplice del giudice, testimoniato da un immobile con arredamento semplice e nel quale traspare - anche dagli oggetti personali ivi conservati - un ambiente autentico che veicola gli insegnamenti di superiore ricerca della giustizia e senso delle istituzioni). Ne discende come lo strumento del vincolo storico-culturale rappresenta il frutto di una precisa scelta di tipo tecnico-discrezionale della amministrazione, nella specie finalizzata alla migliore conservazione e preservazione del bene in quanto intriso dei valori fondanti la vita e l’operato del magistrato; scelta caratterizzata da margini di discrezionalità particolarmente intensi e come tale censurabile in sede di legittimità soltanto laddove la valutazione della amministrazione appaia inattendibile o manifestamente illogica. Nell’aspetto afferente la natura del sindacato giurisdizionale la pronuncia applica consolidati principi in base ai quali i provvedimenti di vincolo sono caratterizzati da “fisiologica ed ineliminabile opinabilità” degli apprezzamenti, in un campo connotato da elevato tecnicismo: è necessario - per il principio di separazione dei poteri - rispettare la sfera valutativa propria della PA, dovendo il giudice limitarsi ad un sindacato estrinseco sub specie di verifica della completezza dell’istruttoria, della sussistenza dei presupposti, di adeguatezza della motivazione, della evidente attendibilità del giudizio dell’amministrazione; fermo in tutti questi casi il divieto per il giudice amministrativo di sovrapporre il proprio giudizio a quello espresso dagli organi tecnici. Invero, tali provvedimenti sono caratterizzati da apprezzamenti tecnico discrezionali che presentano margini di soggettività particolarmente intensi: gli accertamenti compiuti dall’autorità preposta, la Soprintendenza, esprimono un giudizio valutativo di elevata opinabilità, basato su scienze umane e non esatte, che coinvolgono anche interessi e valori costituzionali di speciale delicatezza. Al riguardo, l’amministrazione è chiamata ad applicare regole che non appartengono al diritto, ma a scienze tecniche (come la medicina, la biologia, la fisica e nel caso in esame la storia dell’arte): in altri termini, si instaura un rapporto tra tecnica e diritto nella misura in cui la norma attributiva del potere compia un rinvio a siffatte scienze, attribuendo rilevanza ad elementi extra giuridici che integrano il dato normativo. Peraltro, individuare gli elementi di interesse artistico, storico, archeologico, ovvero i caratteri di “eccezionale interesse culturale” coinvolge accertamenti complessi nella cui applicazione entrano in gioco non solo elementi extra giuridici ma anche di carattere indeterminato, fortemente influenzati da variabili di natura soggettiva, relativi a colui che compie la valutazione, e di natura oggettiva, relativi alla evoluzione del concetto di bene culturale. Ne deriva che il potere è conformato dalla legge come aperto, ossia, in altri termini, più che rinvio ad una vera regola tecnica, vi sarebbe rinvio ad una clausola aperta che deve essere riempita dalle valutazioni della Pubblica Amministrazione. Di conseguenza, la giurisprudenza ha più volte affermato che il giudice deve necessariamente arrestare il proprio controllo ad un sindacato cd. estrinseco debole, che si arresti sulla soglia del contenuto dell’atto, compiendo una verifica dall’esterno ovvero riscontrando se lo stesso sia affetto da vizi di manifesta illogicità, irrazionalità ed errore di fatto, tali da far emergere la inattendibilità delle valutazioni dell’amministrazione (è invero frequente la massima secondo cui “ nel peculiare settore dei beni culturali l’accertamento volto a verificare la sussistenza del relativo interesse non può che essere compiuto dall’amministrazione applicando regole tecnico specialistiche ontologicamente caratterizzate da una fisiologica ed ineliminabile opinabilità. Ne consegue che queste valutazioni possono essere censurate in sede giurisdizionale solo quando risulti la loro palese inattendibilità sotto il profilo tecnico ”- Consiglio di Stato sezione VI, 3 luglio 2014 numero 3355; Consiglio di Stato sez. VI 2 gennaio 2018 n. 17). Tali stringenti binari al sindacato giurisdizionale sono imposti, oltre che dalla obiettiva opinabilità della valutazione, dal principio di separazione dei poteri, che preclude al giudice la diretta valutazione e comparazione degli interessi pubblici in gioco. Proprio per la matrice assiologica di tali scelte e per l’elevato grado di soggettività del giudizio, in origine le valutazioni tecnico discrezionali erano assimilate al merito e considerate non sindacabili, sul presupposto della indistinguibilità del giudizio tecnico da quello di opportunità (espressione di tale atteggiamento si rinviene nella posizione di quella dottrina più risalente - Ranelletti - che propugnava la teoria assimilativa, secondo cui la discrezionalità tecnica coincide e si confonde con quella amministrativa, col corollario della insindacabilità del potere discrezionale della PA). Di qui anche un ‘originaria adesione della giurisprudenza alla totale insindacabilità delle scelte tecnico discrezionali in genere, e di quelle attinenti alle scienze umane, inscrivendole nell’ambito del cd. merito, in quanto compiute con l’ausilio del solo canone di buona amministrazione, alla stregua di un giudizio di opportunità. L’area della riserva di amministrazione è stata erosa progressivamente da un orientamento giurisprudenziale che ha affermato la possibilità di un controllo dell’atto dall’esterno, attraverso le figure sintomatiche dell’eccesso di potere. La più importante svolta in materia è costituita dalla sentenza Baccarini – CdS n. 601/1999 - punto di approdo di circa un secolo di elaborazioni dottrinarie che, a partire dalla teorica dei “fatti complessi” del Cammeo, hanno inaugurato la discussione sulla possibilità di un sindacato sui giudizi tecnici della PA. Detta pronuncia, che riecheggia gli studi del Ledda sulla distinzione tra opinabilità ed opportunità delle valutazioni tecniche, ha inaugurato un nuovo modello di sindacato sui giudizi tecnici, cosiddetto intrinseco debole, il quale si estende alla verifica diretta dell’attendibilità delle scelte della PA, quanto a criterio tecnico e procedimento applicativo seguito, fermo il limite del merito. Così si è giunti a delineare il proprium della discrezionalità tecnica, come giudizio caratterizzato da margini di opinabilità comunque sindacabili, in quanto distinto dal vero e proprio merito attinente ad un giudizio di opportunità. Opinabilità ed opportunità corrono su piani distinti, poiché le scienze non sono sempre esatte, e non vi è una soluzione tecnica univoca, ma ciò non esclude una possibilità di verifica dei fatti posti a base delle valutazioni stesse, anche qualora siano fatti cd. complessi. Oggi non è più predicabile una riserva dell’esame del fatto alla sola amministrazione, atteso che il giudice può conoscere dello stesso, e può compiere un sindacato diretto sul fatto, nel senso della verifica di attendibilità e correttezza delle valutazioni tecniche sotto il profilo di procedimento applicativo e criterio tecnico prescelto; tale accesso al fatto è reso possibile anche dai rinnovati mezzi istruttori e decisori introdotti con la legge di riforma del processo amministrativo 205/2000 (quale per antonomasia la consulenza tecnica di ufficio) e successivamente trasfusi nel c.p.a.. Il sindacato sulla discrezionalità tecnica tuttavia deve modularsi con differente intensità a seconda delle scienze di riferimento che vengono in rilievo nel caso concreto, potendo dispiegarsi in senso cd forte o sostitutivo soltanto nell’ipotesi di scienze esatte, ove la valutazione della PA può essere finanche sostituita da quella compiuta dal giudice. Per contro, laddove la scienza di riferimento sia inesatta, il giudice non può spingersi a sostituire la propria valutazione a quella della PA , ancorché opinabile, per il rispetto della separazione dei poteri, dovendosi il sindacato arrestare ai confini dell’attendibilità e ragionevolezza della scelta . Nell’ambito dei giudizi di vincolo storico artistico, la Soprintendenza esprime un giudizio connotato da ampia discrezionalità tecnica-valutativa, che implica l’applicazione di cognizioni tecniche e specialistiche proprie di settori scientifico-disciplinari caratterizzati da forti margini di opinabilità, fisiologici ed ineliminabili. Ne discende che il controllo del giudice potrà atteggiarsi a sindacato debole - non sostitutivo - ed estrinseco: l’intervento in via “estrinseca” del GA si sostanzia nel controllo della completezza dell’istruttoria, della sussistenza dei presupposti, di adeguatezza della motivazione, della evidente inattendibilità del giudizio dell’amministrazione, fermo in tutti questi casi il divieto per il giudice amministrativo di sovrapporre il proprio giudizio a quello espresso dagli organi tecnici. Invero, qualora si sia mantenuto nell’ambito della coerenza e attendibilità dei presupposti di fatto, della plausibilità dei criteri tecnici assunti nonché in un contesto di ragionevolezza e proporzionalità, l’esercizio del potere, ovvero della discrezionalità tecnica, in ambito attinente alla tutela dei beni culturali e del paesaggio si presenta riservato alla valutazione specialistica dell’amministrazione, attenendo al campo delle cosiddette “soft sciences”, ovvero di quelle tecniche con marcato carattere di soggettività, dove è fisiologico che anche dopo l’esercizio del potere l’assunto seguito resti non dimostrabile e oggettivamente non da tutti condivisibile nei risultati. Siffatte coordinate sono state fatte proprie dalle sentenze in commento, che evidenziano come il giudizio circa la sussistenza dei requisiti legittimanti l’emissione del provvedimento sia ampiamente discrezionale sicché “lo stesso meriterebbe censura solo nelle ipotesi in cui debba ritenersi illogico o irrazionale”. Infatti, il vaglio del GA deve compiersi alla stregua del principio di proporzionalità, connesso “alla ragionevolezza e questa si specifica nel conseguimento di un punto di equilibrio identificabile nella corretta e sufficiente funzionalità dell’esercizio del potere di vincolo”. In tale prospettiva, la relazione tecnica della Soprintendenza è stata ritenuta dimostrativa del corretto esercizio del potere di valutazione tecnica, poiché ha ancorato il proprio giudizio ad elementi di carattere storico e culturale, con richiamo al ritenuto valore simbolico dei beni vincolati, che si colora di indubbi significati etici. Le valutazioni, come illustrato nella relazione dell’amministrazione, ” rappresentano oggi la memoria storica su cui incentrare una azione di sensibilizzazione e divulgazione di valori fondanti come il perseguimento della legalità, la ricerca della giustizia, il compimento del proprio dovere, tutti valori che concorrono alla costruzione di una società migliore “, e il loro esame prescinde dalla considerazione di interessi ulteriori e diversi da quelli presi in esame dall’amministrazione procedente, nell’ottica di massima valorizzazione della tutela del bene culturale “con sensibile riduzione dei margini per l'applicazione del principio di proporzionalità quale misura del potere esercitato dall'Amministrazione “. Conclusivamente, va rilevato come le pronunce aderiscano alla giurisprudenza che anche di recente (cfr. CdS n. 2061/2020) hanno provveduto alla perimetrazione del sindacato giurisdizionale nell’ambito del vaglio di ragionevolezza e logicità della motivazione del provvedimento di vincolo (come esplicitata nella relazione storico-culturale), a cui si affianca la peculiarità del procedimento impositivo del vincolo, ove si tratti dell’accertamento di una qualità che il bene possiede intrinsecamente, e che non può venire meno in considerazione di eventuali interessi secondari riconducibili all’utilizzazione e agli oneri di conservazione del bene.