Spigolature filosofiche

Spigolature filosofiche

a cura di Sergio Conti

*Segnalazione di scritti tratti dal web per suscitare la riflessione dei giuristi sui temi “esistenziali” e “metafisici” nascosti dietro la nuda norma positiva


Autore: Sergio Conti 1 novembre 2024
“ L'idea di giustizia è comunemente descritta come un ambito valutativo la cui specificità e ristrettezza rispetto alla sfera più ampia della moralità sostanziale lo rende particolarmente adatto per la comprensione della sua rilevanza giuridica ” [...] - ( vedi nota in calce) Si porta all'attenzione dei lettori il corposo saggio (39 pagg.) di Petar Popović – Professore incaricato di Filosofia del diritto, di Fondamenti del diritto nella Chiesa e di Dentologia del diritto canonico, Pontificia Università della Santa Croce (Roma) - “ Il ruolo della giustizia nella strutturazione del concetto di diritto in Bobbio, Ferrajoli, Zagrebelsky e (d’altra parte) Cotta”, pubblicato su “Archivio giuridico Serafini ” vol. I, fasc. 1 2022, pp. 95-133, rinvenibile online all'indirizzo: https://www.archiviogiuridiconline.it/2022/04/14/petar-popovic-il-ruolo-della-giustizia-nella-strutturazione-del-concetto-di-diritto-in-bobbio-ferrajoli-zagrebelsky-e-daltra-parte-cotta-the-role-of-justice-in-the-structure-of-the-conc/ . Come recita l'abstract: L’articolo esamina il ruolo dell’idea di giustizia nella strutturazione del concetto di diritto in quattro autori appartenenti al contesto italiano della filosofia del diritto: Norberto Bobbio, Luigi Ferrajoli, Gustavo Zagrebelsky e Sergio Cotta. Lo scopo di questo esame consiste nella verifica che l’idea di giustizia non è una questione giusfilosofica marginale nell’itinerario verso la determinazione del concetto di diritto, ma invece una pista dottrinale che fornisce spiegazioni considerevoli dell’opzione preferenziale per una concreta visione dell’essenza del diritto. In ciascuno dei quattro filosofi del diritto, scelti in base allo spazio notevole che dedicano all’idea di giustizia nei loro scritti, si analizza la concezione di giustizia elaborata nei loro testi, poi si studia il modo in cui essi concepiscono la rilevanza giuridica della giustizia, e infine si espone la loro visione dell’essenza del diritto. Questo percorso argomentativo risulta particolarmente adatto per evidenziare che il concetto di diritto di ciascun autore è notevolmente condizionato dalla sua idea di giustizia e dalla visione circa la rilevanza giuridica di quest’idea. In più, lo stesso percorso ci permette di collocare la giusfilosofia di ciascun autore in uno dei due approcci generali alla conoscenza e descrizione dell’essere di diritto, cioè, o tutto il diritto è essenzialmente diritto positivo (primo approccio), oppure gli elementi di giuridicità, connessi con l’idea di giustizia, sussistono anche all’infuori del diritto positivo (secondo approccio). Riporto, al solo fine di sollecitare l'interesse del lettore, uno stralcio del saggio, laddove inizia ad esaminare le premesse da cui muove il pensiero del primo dei quattro filosofi del diritto che sono confrontati: … “Bobbio colloca l’idea di giustizia nel dominio dei valori o del dover essere. L’influsso di tale idea sul concetto di diritto, quindi, viene da lui compreso nella tensione sussistente tra il punto di vista valutativo della giustizia e i contenuti del diritto positivo i quali, invece, appartengono al «piano dell’essere». Nella visione bobbiana, il nesso tra due piani, quello di giustizia e quello di diritto, viene spiegato in termini di (1) una finalità ideale, causa finale o risposta alla domanda ‘a che cosa serve il diritto’ (giustizia) e (2) un mezzo o strumento particolarmente adatto per raggiungere determinate finalità (diritto). I due piani sono necessariamente esaminati da due indirizzi scientifici diversi: l’indirizzo ‘deontologico’ della filosofia del diritto, incentrato sull’analisi di ciò che il diritto deve essere e correttamente denominato ‘teoria della giustizia’, e l’indirizzo ‘ontologico’ di una teoria generale del diritto, fondato sulla ricerca di ciò che il diritto realmente è. Insomma, per Bobbio risulta «perfettamente legittimo» che «l’ordinamento positivo, oltre ad essere esaminato nella sua obbiettività, sia altresì valutato nella sua maggiore o minore adeguazione ad un ideale di giustizia». Prima di presentare le conseguenze della distinzione dei due piani per l’impostazione bobbiana del tessuto ontologico dell’essere di diritto, occorre chiarire la sua comprensione nozionale dell’idea di giustizia. Bobbio spesso esprime la sua consapevolezza che la giustizia, in quanto «momento ideale del diritto», costituisca il fulcro d’interesse preferito di quella che egli denomina la «dottrina del diritto naturale». Secondo lui, una versione estrema del giusnaturalismo promuove la centralità della tesi che il diritto naturale sia «un diritto nello stesso senso del diritto positivo». Il concetto di diritto, nella lettura bobbiana di questa tesi giusnaturalista, sarebbe più ampio del solo ricorso ai fenomeni del diritto positivo ed includerebbe, in qualche maniera, un riferimento essenziale ai principi morali il cui contenuto oggettivo sarebbe fondato nella normatività razionale insita nella natura umana. A suo avviso, la tesi giusnaturalista circa la vera giuridicità del diritto naturale pare essere dedotta quasi automaticamente dal fatto dell’oggettività dei principi morali della legge naturale e dalla collocazione di tali principi nel contesto del coordinamento sociale..." [...] Cfr. la convergenza dei giusfilosofi tra loro assai diversi circa la specificità della giustizia e la sua rilevanza giuridica: H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, Torino, 20023 , pp. 184-186; J. Finnis, Aquinas and Natural Law Jurisprudence, in The Cambridge Companion to Natural Law Jurisprudence, a cura di G. Duke, R. P. George, Cambridge, 2017, pp. 50, 53; R. Dworkin, La giustizia in toga, Bari-Roma, 2010, pp. 39-40
Autore: Sergio Conti 2 ottobre 2024
Nel quattrocentesimo anniversario della pubblicazione della Scienza Nuova (Napoli 1624) mi soffermo su alcuni saggi attinenti al pensiero del grande filosofo napoletano, non sempre adeguatamente apprezzato. Al riguardo, scrive il prof. Giuliano Fassò (cfr. Storia della filosofia del diritto, vol. II L'età moderna, Bari 2001, pag. 213, 214 ) : “... la singolare ed originalissima figura del Vico. La sua speculazione profonda ma non di rado oscura, contrastante con l'indirizzo prevalente e con la moda intellettuale del tempo... fu apprezzata adeguatamente soltanto nel secolo XIX, e meglio ancora nel nostro : in cui l'opera vichiana, pur dando luogo a interpretazioni diverse e contrastanti, ancora affascina e suggestiona il lettore con la potenza espressiva del suo linguaggio e con l'audacia spesso inconsapevole delle intuizioni che vi son contenute. ” Fassò acutamente pone in luce che: “ Il Vico, come del resto lo Hobbes, lo Spinoza, il Leibniz, ...è ben più che un semplice filosofo del diritto; ma dalla meditazione intorno al diritto ha per gran parte preso le mosse, ed al diritto, come a tutte le creazioni dello spirito umano, ha applicato la sua filosofia: tanto che in certi momenti della storia della sua travagliatissima fame fu apprezzato prevalentemente per la sua filosofia del diritto, così come in altri momenti fu celebrato precursore della sociologia, della psicologia dei popoli, della comparatistica giuridica, o come campione fra i maggiori della filosofia della storia, mentre veniva ignorata la sua pur genialissima metafisica, che è a un tempo il punto di arrivo ed il presupposto logico di tutte le ricerche da lui condotte nei più vari campi dell'operare umano. ” Segnalo, sull'opera di Giambattista Vico, alcuni saggi e scritti rinvenibili in rete: a) la voce “Vico, Giambattista” di Andrea Battistini in “Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia (2012) nel sito della “Treccani” (rinvenibile all'indirizzo: https://www.treccani.it/enciclopedia/giambattista-vico_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Filosofia%29/ ); b) lo scritto “la storicità del diritto” di Giampiero Cirillo del 2019 (rinvenibile all'indirizzo: www.giustizia-amministrativa.it/-/cirillo-la-storicita-del-diritto-13-aprile-2019 ); c) l'articolo “Vico e la nozione storica di diritto naturale” di Daniele Onori (2021) sul sito Centro studi Livatino (rinvenibile all'indirizzo: https://www.centrostudilivatino.it/7-vico-e-la-nozione-storica-di-diritto-naturale/ ); d) lo scritto del prof. Spasiano “Una riflessione su Giambattista Vico e il diritto amministrativo” del 2021 sulla rivista Nuove Autonomie (rinvenibile all'indirizzo: https://www.nuoveautonomie.it/una-riflessione-su-giambattista-vico-e-il-diritto-amministrativo/ ). Di quest'ultimo articolo, che istituisce un “curioso” rapporto fra il filosofo e il diritto amministrativo, riporto l'abstract: Il contributo ha ad oggetto l’esame di due elementi fondativi del diritto amministrativo, quali il concetto di auctoritas e l’esercizio del potere pubblico, così come declinati nel pensiero di Giambattista Vico. L’Autore analizza, in particolare, le ragioni che secondo l’impostazione vichiana giustificano l’esercizio del potere da parte dell’Autorità, sottolineando il ruolo di compartecipe riconosciuto al cittadino, chiamato a rispettare il precetto normativo in funzione di partecipazione civica. In questa prospettiva, l’Autore afferma che nel pensiero di Vico l’adozione di “comandi” (oggi provvedimenti) da parte dell’Autorità trova la sua ragion d’essere unicamente nella incapacità dell’uomo di rispettare autonomamente i precetti della legge (naturale). Anche in Vico, in altri termini, lo Stato esercita il potere sovrano in quanto unico tutore degli interessi generali, ma questi ultimi rappresentano il riflesso degli interessi naturali propri dei singoli individui, collocando, così, l’uomo al centro dell’ordinamento in piena coerenza con la visione etica e trascendente dell’esistenza propugnata dal filosofo.
Autore: Sergio Conti 13 settembre 2024
Segnalo un breve, ma denso, scritto del prof. Giorgio Agamben, che individua le ragioni dell'attuale crisi. Dal macrocosmo al microcosmo, è evidente che le questioni poste sotto un profilo generale hanno anche una ricaduta sul “ristretto” (in tutti i sensi, a mio parere) mondo del diritto. Data la brevità riporto per intero il testo, che è rinvenibile online all'indirizzo https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-il-guscio-della-lumaca . Quali che siano le ragioni profonde del tramonto dell’Occidente, di cui stiamo vivendo la crisi in ogni senso decisiva, è possibile compendiarne l’esito estremo in quello che, riprendendo un’icastica immagine di Ivan Illich, potremmo chiamare il «teorema della lumaca». «Se la lumaca», recita il teorema, «dopo aver aggiunto al suo guscio un certo numero di spire, invece di arrestarsi, ne continuasse la crescita, una sola spira ulteriore aumenterebbe di 16 volte il peso della sua casa e la lumaca ne rimarrebbe inesorabilmente schiacciata». È quanto sta avvenendo nella specie che un tempo si definiva homo sapiens per quanto riguarda lo sviluppo tecnologico e, in generale, l’ipertrofia dei dispositivi giuridici, scientifici e industriali che caratterizzano la società umana. Questi sono stati da sempre indispensabili alla vita di quello speciale mammifero che è l’uomo, la cui nascita prematura implica un prolungamento della condizione infantile, in cui il piccolo non è in grado di provvedere alla sua sopravvivenza. Ma, come spesso avviene, proprio in ciò che ne assicura la salvezza si nasconde un pericolo mortale. Gli scienziati che, come il geniale anatomista olandese Lodewjik Bolk, hanno riflettuto sulla singolare condizione della specie umana, ne hanno tratto, infatti, delle conseguenze a dir poco pessimistiche sul futuro della civiltà. Nel corso del tempo lo sviluppo crescente delle tecnologie e delle strutture sociali produce una vera e propria inibizione della vitalità, che prelude a una possibile scomparsa della specie. L’accesso allo stadio adulto viene infatti sempre più differito, la crescita dell’organismo sempre più rallentata, la durata della vita – e quindi la vecchiaia – prolungata. «Il progresso di questa inibizione del processo vitale», scrive Bolk, «non può superare un certo limite senza che la vitalità, senza che la forza di resistenza alle influenze nefaste dell’esterno, in breve, senza che l’esistenza dell’uomo non ne sia compromessa. Più l’umanità avanza sul cammino dell’umanizzazione, più essa s’avvicina a quel punto fatale in cui progresso significherà distruzione. E non è certo nella natura dell’uomo arrestarsi di fronte a ciò». È questa situazione estrema che noi stiamo oggi vivendo. La moltiplicazione senza limiti dei dispositivi tecnologici, l’assoggettamento crescente a vincoli e autorizzazioni legali di ogni genere e specie e la sudditanza integrale rispetto alle leggi del mercato rendono gli individui sempre più dipendenti da fattori che sfuggono integralmente al loro controllo. Gunther Anders ha definito la nuova relazione che la modernità ha prodotto fra l’uomo e i suoi strumenti con l’espressione: «dislivello prometeico» e ha parlato di una «vergogna» di fronte all’umiliante superiorità delle cose prodotte dalla tecnologia, di cui non possiamo più in alcun modo ritenerci padroni. È possibile che oggi questo dislivello abbia raggiunto il punto di tensione massima e l’uomo sia diventato del tutto incapace di assumere il governo della sfera dei prodotti da lui creati. All’inibizione della vitalità descritta da Bolk si aggiunge l’abdicazione a quella stessa intelligenza che poteva in qualche modo frenarne le conseguenze negative. L’abbandono di quell’ultimo nesso con la natura, che la tradizione filosofica chiamava lumen naturae, produce una stupidità artificiale che rende l’ipertrofia tecnologica ancora più incontrollabile. Che cosa avverrà della lumaca schiacciata dal suo stesso guscio? Come riuscirà a sopravvivere alle macerie della sua casa? Sono queste le domande che non dobbiamo cessare di porci. 23 maggio 2024
Autore: Sergio Conti 18 luglio 2024
Ancora sul tema del rapporto fra diritto e violenza, già oggetto di segnalazioni in "Spigolature 14", "Spigolature 15", "Spigolature 16" e "Spigolature 17". In particolare, in Spigolature n. 14 Il fondamento del diritto e il rapporto con la forza. si rimarca che una delle domande fondamentali alla quale deve rispondere la filosofia del diritto è quella del fondamento su cui poggia il diritto. Nell'articolo che qui si propone all'attenzione dei lettori si affronta, con equilibrio e completezza, il tema scottante del rapporto fra il Betti e il fascismo, di cui fu sempre convinto sostenitore. L'aspetto del complesso articolo (di cui consiglio la lettura integrale per l'interesse giuridico ma anche storico politico che riveste), che sotto riporto si focalizza sul tema di quale sia il fondamento sul quale si costruisce il diritto nell'esperienza giuridica romana, evidenziando come per il Betti esso vada individuato nella violenza.. In Spigolature 15 Diritto e "violenza" , p roseguendo sul tema, che si è iniziato a trattare nel precedente contributo, dell'origine del diritto e del rapporto del medesimo con la violenza, segnalo la tesi di dottorato di Maria Pina Fersini, intitolata “Diritto e violenza. Un'analisi giusletteraria”; In Spigolature 16 Legame tra forza e diritto e autolimitazione della forza, sono riportate alcune, del tutto rapsodiche, segnalazioni sul tema del rapporto tra diritto e forza. Innanzitutto lo scritto “Diritto e forza. Da Rousseau a Kant” di Maria Borrello, pubblicato su Nuovi studi politici 2005; Del rapporto fra forza e diritto in von Jhering tratta poi la tesi di dottorato in Filosofia - presso l'Università La Sapienza - del dr. Daniele Cavarra, intitolata “Genesi dello stato e problema del diritto nella filosofia di Nietzsche (1875-1887)”). Infine, in Spigolature 17 Diritto e forza "organizzata" - Un viaggio nel pensiero di Karl Olivecrona – il più noto esponente della corrente del realismo scandinavo –, si indaga ancora sul rapporto fra il diritto e la forza. Segnalo ora sul tema la lectio brevis - tenuta all'Accademia del Lincei - del prof. Massimo Luciani (Emerito della Facoltà di Giurisprudenza - Università Degli Studi Di Roma – La Sapienza) intitolata “Il diritto della forza”, che è rinvenibile online all'indirizzo: https://www.lincei.it/sites/default/files/documenti/Articles/Luciani_Lectio_brevis_Diritto_della_forza19aprile2024.pdf (la quale è pure disponibile in video all'indirizzo https://www.lincei.it/it/videoteca/19042024-lectio-brevis-del-socio-luciani ). L'articolo si ripartisce sul seguente schema: Indice 1.- Diritto della forza e forza del diritto. 2.- La riflessione dei giuristi. 3.- I tre livelli del rapporto tra forza e diritto. 4.- Il cuore di tenebra del diritto Riporto, per sollecitare la curiosità del lettore, uno stralcio dal testo: ... iii) Veniamo al terzo livello, il più complesso. “Iniziare e finire sono [...] due forze di fondo, da cui scaturisce la vita” degli esseri umani, ma esattamente allo stesso modo è l’inizio a dare identità e direzione alle istituzioni sociali: stabilire cosa esse siano e dove vadano è questione della determinazione dell’origine e tale questione è – dunque – cruciale. Il mito, dal quale siamo partiti, traccia un itinerario sicuro di costruzione della pólis: dall’indistinto cháos delle origini al violento disordine del regno di Urano e poi di Crono, all’ordine olimpico del mondo degli dei, all’ordine del mondo umano della città. Il passaggio dal disordine all’ordine è consentito dalla violenza (estrema, poiché violenza del figlio contro il padre: di Crono contro Urano; di Zeus contro Crono), ma l’ordine così raggiunto la trascende e se ne allontana grazie al diritto: è il diritto a segnare e consentire il passaggio dal mondo della violenza (βία) a quello del potere (κράτος) e – anzi – possiamo parlare di potere proprio perché il κράτος è violenza imbrigliata, violenza qualificata, violenza legittimata dal diritto che si fa istituzione e in quanto tale cessa di essere violenza. Della violenza, sì, il diritto fa uso per portare a effetto il proprio comando, ma così radicalmente la violenza si trasforma una volta entrata in contatto col diritto che quando il contatto si compie è nostro significativo uso linguistico non parlarne più, non proferire il lemma violenza (se non quando vogliamo stigmatizzare un abuso: la violenza della polizia nella caserma Diaz, per esempio), bensì il lemma potere (per esempio: quando diciamo che siamo tutti soggetti al potere dello Stato). Troviamo in Sorel la distinzione tra forza e violenza come contrapposizione tra “force légale” e “violence insurrectionnelle” cioè fra atti d’autorità e atti di ribellione (“la force a pour objet d’imposer l’organisation d’un certain ordre social dans lequel une minorité gouverne, tandis que la violence tend à la destruction de cet ordre”) 66. Troviamo in Panunzio (nel contesto di una concezione della violenza come potenza viva e libera) la medesima distinzione, ma rapportata non già allo scontro storico tra borghesia (utilizzatrice della forza) e proletariato (utilizzatore della violenza), bensì allo scontro teorico tra positivismo (che nel diritto positivo pretende di “esaurire tutto il diritto e perciò fa appello alla forza”) e giusnaturalismo (“che tende a rovesciare l’ordine giuridico positivo che sanzioni delle ingiustizie per la instaurazione di un ordine nuovo, e fa appello alla violenza”). Non troviamo in nessuno dei due, invece, la considerazione del superamento della genetica scaturigine violenta dell’ordine grazie all’effetto mitigatore del diritto, dal quale promana il potere. Ed è probabilmente per questo che “forza” e “violenza” ne sono così nettamente distinte, laddove qui se ne fa uso a mo’ di sinonimi. È proprio a ben leggere il mito, tuttavia, che la violenza, per quanto lo preceda, non può risultare in sé e per sé fondativa del diritto, perché nel momento stesso in cui si manifesta come potere essa è divenuta altro da sé, sta tutta dentro il diritto, non fuori. Non accade nulla di diverso, a ben vedere, nemmeno nelle più urticanti teorizzazioni moderne del rapporto fra ordine e violenza. Non in Hobbes. La costituzione della dimensione del politico e di quella del potere presuppone il fondamentale passaggio fondativo di un contratto che non è mero pactum subiectionis, bensì “pactum unionis con effetto immediato di pactum subiectionis”. Non in Spinoza. “Jus uniuscujusque eo usque se extendere, quo usque ejus determinata potentia se extendit” si scrive nel Tractatus theologicopoliticus e nel Tractatus politicus si ribadisce che “unusquisque tantum juris habet, quantum potentia valet”. Si tratta di affermazioni palesemente debitrici della concezione hobbesiana dello stato di natura, ma esse sono fondate sull’idea che il diritto della natura si estende tanto quanto è estesa la sua potenza (“jus naturae eo usque se extendere, quo usque ejus potentia se extendit”), poiché la potenza della natura non è altro che la potenza di Dio, la quale ha diritto su tutte le cose (“naturae enim potentia est ipsa Dei potentia, qui summum jus ad omnia habet”): è solo per questo che nello stato di natura la forza conferisce il diritto di fare tutto ciò che con essa si può fare. Che il giuridico venga così esaurito nella forza sarebbe tuttavia arbitrario concludere. La dimensione del giuridico – ch’è poi quella della politica – si costruisce performativamente, cioè col sopravvenire di un atto che si fa giuridico nel medesimo momento del suo compiersi: la società è infatti istituita (e ottiene il proprio legittimo imperium) solo grazie al trasferimento della forza (di tutta la forza) dagli individui alla società, ma quel trasferimento è appunto un negozio giuridico (“si nimirum unusquisque omnem, quam habet, potentiam in societate transferat, quae adeo summum naturae jus in omnia, hoc est, summum imperium sola retinebit”). La forza costitutiva della società politica è pertanto forza, violenza, trasfigurata dal diritto. Né che al di sotto del diritto giaccia un sostrato di violenza può sorprendere, perché nessun meccanismo di regolazione sociale sa combattere la violenza se non con la violenza: è ineccepibile la notazione di René Girard che “Les procédés qui permettent aux hommes de modérer leur violence sont tous analogues, en ceci qu’aucun d’eux n’est étranger à la violence”. Nondimeno, il meccanismo di assorbimento della violenza assicurato dal sistema giuridico e dalle procedure giudiziarie è senza paragone il più efficace. ... Un'interessante critica, in larga parte condivisa dallo scrivente segnalatore, ad alcune delle tesi espresse dal prof. Luciani nella lectio brevis è stata svolta da Francesco Arzillo nel documento rinvenibile all'indirizzo: https://www.giustizia-amministrativa.it/documents/20142/55101660/nota+forzadiritto.docx/d2528d7a-fea2-33a3-2409-c62889929dff?t=1718709755793
Autore: Sergio Conti 17 maggio 2024
Segnalo il saggio della prof.ssa Carla Faralli intitolato “ La filosofia del diritto nel secondo Novecento ”, con sottotitolo “ Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Diritto ” - pubblicato nel 2012 su “Enciplopedia Treccani” e rinvenibile online all'indirizzo https://www.treccani.it/enciclopedia/la-filosofia-del-diritto-nel-secondo-novecento_(Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Diritto) - che contiene una analitica disamina dei filosofi italiani che si sono occupati del diritto ed espone sinteticamente il loro pensiero. Lo scritto si articola sui seguenti paragrafi: 1) DECADENZA DELL’IDEALISMO; 2) POSITIVISMO GIURIDICO E FILOSOFIA ANALITICA; 3) IL DIBATTITO POSTPOSITIVISTICO. Si riportano due estratti dall'articolo. Il Primo autore trattato è Felice Battaglia (1902-1977): “egli aderisce inizialmente alle posizioni speculative del neoidealismo, soprattutto nella forma dell’attualismo gentiliano, ma ben presto se ne distacca, sostenendo che solo la vita di relazione, sorretta dalle norme giuridiche, è storica e concreta. Ne segue che il diritto si pone come «momento originario dello spirito» e come tale irrisolvibile in ogni altra forma spirituale: esso conferisce alle articolazioni dello spirito la vera concretezza, implicando l’alterità, quale relazione con un altro come noi; la socialità, quale rapporto bilaterale irriducibile di soggetti; la persona, quale valore etico assoluto. La persona è per Battaglia, che fa proprio il pensiero di Antonio Rosmini con coloriture esistenzialiste, il centro metafisico e assoluto del diritto: è nel valore della persona, in quanto immagine divina, che il diritto si fonda e da esso trae a sua volta valore. La reale espressione del valore della persona è rappresentata dai diritti umani fondamentali: essi condensano il vero significato della persona e, poiché riguardano ogni essere umano, devono trovare riconoscimento e garanzia universale: di qui il processo di internazionalizzazione dei diritti umani, unico strumento, secondo Battaglia, per assicurare il rispetto della persona. Egli scrive: I diritti dell’uomo divengono efficienti quando, a parte l’assetto legale interno, trovano una pacifica organizzazione internazionale a loro presidio. Non basta enunciarli e prevedere loro nel sistema del diritto interno, occorre che trovino organi e strumenti di tutela in una concordata costituzione di tutti gli Stati (Le carte dei diritti, 19462, pp. XXX-XXXI). ... Il pensiero di Uberto Scarpelli : … che, negli scritti degli anni Ottanta, in particolare Il positivismo giuridico rivisitato (1989), si dichiara un credente nella legge e difensore del positivismo alquanto pentito: egli sostiene la necessità di individuare principi capaci di guidare la legislazione e auspica la creazione di un apparato giudiziario in grado di assicurare sulla base di tali principi, che si identificano con i principi costituzionali, un’attività di interpretazione del diritto che svolga una funzione unificante simile a quella svolta in passato dai codici e dalla legge, che non sembra più offrire quelle garanzie di razionalità e di tutela dei diritti fondamentali che ne avevano fatto lo strumento principale del moderno Stato di diritto. Negli stessi anni Scarpelli indirizzò i suoi studi soprattutto a problemi di etica e metaetica giuridica (l’opera più rappresentativa di questa fase è L’etica senza verità, 1982). Si tratta di un titolo emblematico che riassume tutto il senso della filosofia dell’autore, «il tema portante, il filo conduttore, la spina e la premessa» di tutte le sue ricerche sull’etica, come rileva l’autore stesso nella prefazione, ricerche sempre ispirate al principio della grande divisione tra descrittivo e prescrittivo e alla legge di David Hume, in forza della quale, come è noto, non si possono trarre precetti da asserzioni e viceversa. Di qui l’etica senza verità, nel senso che le proposizioni prescrittive, a differenza di quelle assertive, non sono né vere né false; non possono, quindi, essere sottoposte al giudizio di verità e di falsità, ma solo a criteri di giustificazione. Un posto considerevole in questo ambito occupano gli studi di bioetica: Scarpelli delineò e difese una concezione di essa come indagine razionale e libera, tesa a tutelare e garantire le libertà individuali e contribuì da una prospettiva laica ad aprire il dibattito italiano a temi fino a quel momento monopolio della cultura cattolica.
Autore: Sergio Conti 31 marzo 2024
* A 750 anni dalla morte di San Tommaso d'Aquino (7 marzo 1274). In occasione dell'anniversario segnalo i seguenti scritti sul pensiero giuridico di San Tommaso: 1) “Tommaso d’Aquino, Il Diritto fra ragione e relazione” del prof. Aldo Rocco Vitale -pubblicato il 27.3.2021 sul sito del Centro studi Livatino - (reperibile online all'indirizzo www.centrostudilivatino.it/tommaso-daquino-il-diritto-fra-ragione-e-relazione/ ) 2) "Il giusnaturalismo di Tommaso d'Aquino” del dr. Francesco M. Civili -pubblicato il 8.7.2023 sul sito del Centro studi Livatino - (reperibile online all'indirizzo www.centrostudilivatino.it/il-giusnaturalismo-di-tommaso-daquino/ ). Dal primo scritto riporto integralmente la parte centrale e finale: … Tommaso ha contribuito ad analizzare la fenomenologia giuridica nel suo complesso così come nel suo dettaglio, interrogandosi intorno alla natura del diritto, alla sua funzione, ai suoi limiti, come sulla natura dello Stato, sulla portata della legislazione umana, sui compiti della politica e sulla dimensione etica del tutto. Per coglierne realmente il pensiero occorre accertarne i due fondamenti prodromici, da un lato la natura cognitivista, quella per cui nella realtà esiste una verità che può essere conosciuta, e dall’altro lato la natura razionale, caratteristica strutturale dell’uomo, il quale con la forza della ragione naturale giunge alla verità fondativa della realtà, in accordo con le verità della rivelazione cristiana[6]. 4. Tommaso intende allontanare la dottrina cristiana dal platonismo agostiniano, per rifondare aristotelicamente l’intera sapienza cristiana e la visione cristiana del mondo[7], e dunque del diritto, poiché per Tommaso “l’ente non può essere pensato senza il vero”[8], anche l’uomo e il diritto hanno ciascuno una propria verità, cioè l’uomo la ragione[9], e il diritto la giustizia[10]. Uno dei grandi meriti del pensiero tomista consiste nel metodo e nel merito con cui intendere il diritto e la legge. Diversamente dai suoi colleghi musulmani[11], o dal pensiero di Lutero che si sarebbe diffuso alcuni secoli dopo[12], San Tommaso non soltanto riconosce l’esistenza e la vigenza della legge divina, ma evidenzia come la legge divina non possa escludere quella naturale e quella umana[13], ponendo così le basi per l’autonomia della legislazione umana, della fondazione giuridica del concetto di laicità, del radicamento filosofico della dimensione politica indipendente dall’autorità teologica[14]. Secondo l’Aquinate la legge umana non è che “rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet promulgata”[15]. La sostanza del diritto è dunque razionale, e presuppone la relazionalità, poiché il fine della legge e del diritto è quello di assicurare il bene comune. In questa prospettiva onto-assiologica, alla luce dell’umana ragione, “una norma ha vigore di legge nella misura in cui è giusta. Ora, tra le cose umane un fatto si denomina giusto quando è secondo la regola della ragione. Ma la prima regola della ragione è la legge naturale[…]. Quindi una legge umana positiva in tanto ha natura di legge, in quanto deriva dalla legge naturale”[16]. 5. Il Dottore Angelico non si contenta di affermare l’esistenza della legge umana, ma si spinge oltre e ne specifica la natura, cioè l’essere razionale. Difatti, prosegue, “la legge umana in tanto ha natura di legge, in quanto si uniforma alla retta ragione, in tal senso deriva evidentemente dalla legge eterna”[17]. La legge umana, dunque, non è (con)fusa con quella divina, poiché altrimenti non sarebbe umana, ma del resto non è nemmeno auto-referenziale poiché partecipa della razionalità, cioè del logos, ovvero della ragione divina[18]. Questa prospettiva si riflette chiaramente sul versante più strettamente politico, poiché se il diritto, sebbene sia distinto dalla legge divina, non può essere auto-referenziale, altrettanto sarà il potere temporale. Lo Stato, quindi, è indipendente dalla Chiesa, ma non può auto-idolatrarsi. Kaiser e Kyrios sono naturalmente ed irrimediabilmente diversi. San Tommaso d’Aquino, così, elabora in modo compiuto l’idea che non vi possano essere sovrani legibus soluti, poiché il sovrano non può essere al di sopra della giustizia e della legge naturale le quali richiedono sempre la difesa del bene comune: “I re mirino anzitutto al bene comune[…], perché se agiscono diversamente, curando il proprio vantaggio, non sono re, ma tiranni”[19]. Non è un caso, forse, che il XX secolo, di tutti quello più anti-cristiano, sia stato il secolo delle idee assassine[20]. Come ha giustamente osservato Sergio Cotta, ciò “comporta due conseguenze molto importanti: primo che la legge naturale, rivolgendosi ad un essere razionale, è ad esso comprensibile, cioè la sua razionalità appare non già a Dio solo, ma anche all’uomo. Secondo, che la legge naturale non è legge necessaria, poiché il suo destinatario, l’uomo, è per sua natura libero”[21]. Il lascito del pensiero di San Tommaso d’Aquino, che dovrebbe nuovamente essere riscoperto dai giuristi, è fondamentale quanto l’uso della ragione nel mondo del diritto, per evitare che il diritto diventi autoreferenziale e quindi incomprensibile e ingiusto. E soprattutto per ricordare al giurista e alla di lui coscienza che un diritto che non tenda alla giustizia non è realmente diritto, ma perversione del diritto [22]. [6] “Una duplice condizione domina lo sviluppo della filosofia tomista: la distinzione tra ragione e fede e la necessità del loro accordo. L’intero campo della filosofia dipende esclusivamente dalla ragione: significa che la filosofia non deve ammettere che ciò che è accessibile alla luce naturale e dimostrabile con le sue sole risorse”, Etienne Gilson, La filosofia nel medioevo, Sansoni, Milano, 2005, pag. 603. [7] “Il tomismo sarebbe dunque nato in quanto filosofia, da una decisione filosofica pura. Optare contro la dottrina di Platone per quella di Aristotele, era obbligarsi a ricostruire la filosofia cristiana su altre basi che quelle di sant’Agostino”, Etienne Gilson, Tommaso contro Agostino, Medusa, Milano, 2010, pag. 108. [8] San Tommaso d’Aquino, Sulla verità, q. 1, art. 1, resp. ad 3. [9] “Dire che l’uomo deve agire secondo ragione, secondo le esigenze della ragione, o secondo virtù, è lo stesso che dire agire secondo il suo fine o agire secondo le leggi dell’essere che dominano e regolano sia il mondo della vita-pensiero che quello della vita-azione”, Reginaldo Pizzorni, Diritto naturale e diritto positivo in S. Tommaso d’Aquino, ESD, Bologna, 1999, pag. 67. [10] “L’istanza della giustizia è rivolta all’uomo nel suo centro spirituale: in tanto egli è il soggetto della giustizia, in quanto è spirituale”, Joseph Pieper, Sulla giustizia, Morcelliana, Brescia, 1975, pag. 47. [11] Interrogando le autorità del pensiero islamico ciò viene in risalto autonomamente. Così, infatti, precisa nel XII secolo Abu Hamid al-Ghazali: “I livelli del giurista e del teologo sono pressoché identici tra loro, sebbene il ruolo del giurista sia comunemente più necessario e quello del teologo più complesso e difficile”, Abu Hamid Al-Ghazali, Le perle del Corano, Bur, Milano, 2000, p. 113. [12] “Il regno del diritto civile non si regge sui libri, ma sull’autorità divina[…]. I giuristi sanno acchiappare solo le mosche[…]. Perciò gl’imperi non si reggono sulle leggi”, Martin Lutero, Discorsi a tavola, Einaudi, Torino, 1969, pag. 3-5. [13] “Era necessario stabilire delle leggi per la pace e la virtù degli uomini”, San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 95, a. 1. [14] “Vi è in Tommaso la preoccupazione di mantenere consistente anche il lato giuridico oggettivo, l’esigenza normativa”, Giovanni Ambrosetti, Diritto naturale cristiano, Studium, Roma, 1964, pag. 107 [15] San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 90, a. 4, ad dem. [16] San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 95, a. 2. [17] San Tommaso d’Aquino, op. cit., I-II, q. 93, a. 3. [18] “E’ compito di qualsiasi legislatore stabilire per legge quelle norme, senza le quali la legge non può essere osservata. Ora, siccome la legge viene proposta alla ragione, l’uomo non potrebbe osservarla, qualora non fossero assoggettate alla ragione tutte le altre cose che gli appartengono”, San Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, III, CXXI, ad 4. [19] San Tommaso d’Aquino, La politica dei principi cristiani, Cantagalli, Siena, 1997, pag. 159. [20] Robert Conquest, Il secolo delle idee assassine, Mondadori, Milano, 2002. [21] Sergio Cotta, Il concetto di legge nella Summa Theologiae di S. Tommaso d’Aquino, Giappichelli, Torino, 1955, pag. 66-67. [22] “Una legge tirannica, essendo difforme dalla ragione, non è una legge in senso assoluto, ma è piuttosto una perversione della legge”, S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 92, a. 1, ad 4. Dal secondo scritto riporto alcuni significativi passaggi. Quando parliamo di giusnaturalismo, intendiamo una dottrina politico-filosofica che afferma l’esistenza di una legge morale su cui il diritto positivo deve fondarsi per essere considerato legittimo. Le radici di tale dottrina risalgono addirittura ai presocratici come Eraclito[1], però viene maggiormente elaborata da Platone, da Aristotele e dagli Stoici. Nel corso della storia, sono emerse diverse concezioni del diritto naturale, tant’è che gli studiosi propongono di distinguere ben tre tradizioni del diritto naturale. La prima è quella del cosiddetto “giusnaturalismo classico”, che include autori greci, latini e cristiani (dai Padri della Chiesa fino all’età umanistico-rinascimentale); la seconda è quella del “giusnaturalismo moderno”, che inizia con autori quali Ugo Grozio e Thomas Hobbes e termina circa agli inizi dell’Ottocento[2]; infine, potremmo definire la terza tradizione quella del “giusnaturalismo contemporaneo”: si tratta di un giusnaturalismo piuttosto singolare che vede come principale esponente il filosofo tedesco Jürgen Habermas, teorico della cosiddetta Diskursethik (o Etica del discorso). Tutte queste tre tradizioni vengono convenzionalmente collocate in diverse fasi storiche, ma tutt’oggi sono oggetti di studio anche in termini teoretico-pratici: ad esempio, la prima tradizione interessa filosofi e giuristi di orientamento cattolico (e non solo)[3]; la seconda è oggetto di studio negli ambienti tendenzialmente di orientamento liberale[4]; infine, la terza attira studiosi appartenenti a scuole di pensiero differenti (hegelo-marxiani, cattolici etc.)[5] [1] Cfr. A. Kenny, Nuova storia della filosofia occidentale. Vol. I: Filosofia antica, a cura di G. Garelli, Einaudi, Torino 2012. [2] Già durante il Settecento, il diritto naturale moderno comincia a mostrare le prime crisi con autori come Jean-Jacques Rousseau, il quale sviluppa una visione storico-evoluzionistica dello “stato di natura” e teorizza la dottrina della volonté générale. Tuttavia, è soprattutto agli inizi dell’Ottocento che il diritto naturale moderno viene messo fortemente in discussione, soprattutto per reazione ai “diritti dell’uomo” sostenuti dalla Rivoluzione francese: si pensi alla Scuola storica del diritto di Friedrich Carl von Savigny, che è emblema del cosiddetto giuspositivismo romantico. [3] La letteratura a riguardo è sterminata, ma vale la pena menzionare qualche titolo. Cfr. La regola d’oro come etica universale, a cura di C. Vigna – S. Zanardo, Vita e Pensiero, Milano 2005; cfr. anche P. Pagani, Appunti per il corso di filosofia morale, Parte V: La norma dell’atto, pro manuscripto, Venezia 2011 e S. Pinckaers, Le fonti della morale cristiana. Metodo, contenuto, storia, a cura di M. C. Casezza, Ares, Milano 2018; per autori non-cattolici che si sono interessati del diritto naturale classico cfr. L. Strauss, Diritto naturale e storia, a cura di N. Pierri, il melangolo, Genova 1990. [4] Nel panorama italiano, possiamo ricordare Norberto Bobbio, che fu di orientamento liberalsocialista e sostenne la tesi secondo cui Thomas Hobbes era il giusnaturalista par excellence. Cfr. N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Laterza, Roma-Bari 2011 e Id., Thomas Hobbes, Einaudi, Torino 2004. [5] Cfr. L. Cortella, La filosofia contemporanea. Dal paradigma soggettivista a quello linguistico, Laterza, Roma-Bari 2020 e Id., Etica del discorso ed etica del riconoscimento, in Libertà, giustizia e bene in una società plurale, a cura di C. Vigna, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 225-248; cfr. anche P. Pagani, Studi di filosofia morale, Parte V: Studi su etica e universalità, cap. III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura, Aracne, Roma 2008, pp. 439-514. … Nel Libro V dell’Etica Nicomachea, Aristotele dedica poche righe al diritto naturale, distinguendo tra il “giusto naturale” e il “giusto legale”. Lo Stagirita sostiene che il diritto naturale trovi la piena manifestazione nella comunità civile, poiché l’essere umano è animale sociale. Un dettaglio interessante, però, è che Aristotele considera il diritto naturale mutevole: «presso di noi [mortali] ci sono cose che, pur avendo anche la caratteristica di essere per natura, ciononostante sono del tutto mutevoli»[11]. Essendo questo passaggio di Aristotele ambiguo, esso è stato oggetto di discussione nel corso del Medioevo, tant’è che Averroè, nei suoi Commentari aristotelici, si è proposto di offrire una spiegazione alla mutevolezza del diritto naturale. Secondo il filosofo ispanico, il diritto naturale sarebbe un insieme di regole convenzionali, che però sono universali e presenti in tutte le comunità civili: in sostanza, sono le regole che stanno alla base dell’umano associarsi e sono in qualche modo “naturali” grazie alla naturale socievolezza dell’uomo. Tuttavia, queste regole si adattano al contesto storico-geografico e al costume di un popolo. Tale lettura di Averroè è giunta anche in Europa Occidentale, grazie agli averroisti cristiani, ed è stata ripresa successivamente da autori come Marsilio da Padova. Lo stesso passaggio di Aristotele viene commentato anche da Tommaso, il quale trova un’altra soluzione rispetto a quella suggerita da Averroè, conciliando la visione dello Stagirita con la patristica. Secondo l’Aquinate, le affermazioni di Aristotele andrebbero interpretate distinguendo i precetti primari e quelli secondari della legge naturale. I primi sono da considerare immutabili e universali, mentre i secondi sono regole naturali che vengono percepite in maniera diversa a seconda del contesto culturale e geografico. I precetti primari sono i doveri conosciuti immediatamente attraverso quella che i Padri della Chiesa chiamavano synderesis, ossia il sentimento morale della coscienza umana che permette di distinguere il bene dal male, e il primo precetto primario (“si deve fare il bene ed evitare il male”) è considerato alla stregua del principio di non-contraddizione della ragione speculativa[12]. Tuttavia, nel momento stesso in cui i precetti primari si applicano alla realtà diveniente, vengono generati i precetti secondari, che sono soggetti al mutamento. Per dimostrare questa seconda specie di doveri naturali, Tommaso riprende una testimonianza raccontata nel De bello Gallico di Giulio Cesare, secondo cui i popoli germanici consideravano il reato di furto tale soltanto quando quest’ultimo era praticato all’interno della propria tribù, ma si poteva derubare membri di altri clan senza ricevere punizioni dalla propria gente[13] – una concezione del furto che non era contemplata dal diritto romano. [11] Cfr. Ivi, V, 1134 b 27 – 29. [12] Cfr. «I precetti della legge naturale stanno alla ragione pratica come i primi princìpi dimostrativi stanno alla ragione speculativa: poiché gli uni e gli altri sono princìpi di per sé evidenti. […] Ora, tra le cose universalmente conosciute vi è un certo ordine. Infatti la prima cosa che si presenta alla conoscenza è l’ente, la cui nozione è inclusa in tutto ciò che viene appreso. Perciò il primo principio indimostrabile è che l’affermazione e la negazione sono incompatibili: poiché esso si fonda sulla nozione di ente e di non ente. E su questo principio si fondano tutti gli altri, come nota Aristotele. Ora, come l’ente è la cosa assolutamente prima nella conoscenza, così il bene è la prima nella conoscenza della ragione pratica, che è ordinata all’operazione: poiché ogni agente agisce per un fine, il quale ha sempre ragione di bene. Perciò il primo principio della ragione pratica si fonda sulla nozione di bene, essendo il bene ciò che tutte le cose desiderano. Si ha così il primo precetto della legge: Bisogna fare e cercare il bene e bisogna evitare il male. E su di esso sono fondati tutti gli altri precetti della legge naturale: per cui tutte le altre cose da fare o da evitare appartengono ai precetti della legge di natura in quanto la ragione pratica le conosce naturalmente come beni umani» (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia-IIae, q. 94, a. 2, a cura dei Frati Domenicani, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014). [13] Cfr. «Quindi si deve concludere che la legge naturale quanto ai primi princìpi universali è identica presso tutti gli uomini, sia quanto alla sua rettitudine oggettiva che quanto alla sua conoscenza. Rispetto però a certe sue applicazioni, che sono come delle conclusioni dei princìpi universali, essa è identica presso tutti sia per la bontà delle sue norme che per la sua conoscenza nella maggior parte dei casi, tuttavia in pochi casi ci possono essere delle eccezioni, sia quanto alla bontà delle norme che quanto alla conoscenza. Possono infatti intervenire ostacoli particolari (come avviene del resto anche nel caso degli esseri generabili e corruttibili, che talvolta per ostacoli particolari non raggiungono l’effetto). E quanto alla conoscenza va notato che ci sono alcuni i quali hanno la ragione sconvolta dalle passioni, o dalle cattive consuetudini, oppure dalle cattive disposizioni naturali. Giulio Cesare, p. es., racconta che una volta presso i popoli della Germania non si considerava delittuoso il latrocinio, che pure è espressamente contrario alla legge naturale» (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia-IIae, q. 94, a. 4, a cura dei Frati Domenicani, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014).
Autore: Sergio Conti 6 marzo 2024
Sulle formule di Radbruch – importante giurista tedesco di cui si è già trattato in Spigolature n. 2 – segnalo due interessanti saggi che analizzano il significato e la portata delle stesse da due angolazioni contrapposte. Le formule sono state così riassunte (v. D. Di Rocco in https://www.iusinitinere.it/leredita-della-formula-di-radbruch-tra-certezza-e-mutevolezza-del-diritto-42284 ): La prima Formula, detta “Unertraglichkeitsformel” o “formula dell’intollerabilità”, si basava sull’assioma “dell’intollerabilità dell’ingiustizia” del diritto posto, superato il quale il diritto cogente perde il carattere di vincolatività e, quindi, la Certezza deve cedere il passo alla Giustizia. Tale formula lasciava, comunque sia, insoddisfatto l’interrogativo riguardante la soglia di tollerabilità dell’ingiustizia del diritto, il suo limite di valicabilità. La seconda formula, conosciuta come “Verleugnungsformel” o “formula della negazione deliberata”,[vi] si contrapponeva alla prima perché si fondava sulla valutazione aprioristica della legge, ritenendo che, laddove mancasse la benché minima parvenza di aspirazione alla giustizia, la legge posta, priva di uno dei suoi valori fondamentali, non avrebbe mai potuto fare ingresso nel campo del diritto e sarebbe dovuta essere – sillogisticamente – considerata inesistente, tamquam non esset. Ne discendeva un disconoscimento ontologico, ex tunc, della disposizione di legge: “là la legge non è solamente un diritto ingiusto, ma sfugge completamente alla natura del diritto” Nello scritto di Bernd Schunemann -professore dalla Ludwing Maximilian Universitat di Monaco di Baviera - intitolato “PER UNA CRITICA DELLA COSIDDETTA FORMULA DI RADBRUCH NOTE SU UN CONCETTO DI DIRITTO CULTURALMENTE E COMUNICATIVAMENTE ORIENTATO” (pubblicato su i-lex. Scienze Giuridiche, Scienze Cognitive e Intelligenza artificiale Rivista quadrimestrale on-line: www.i-lex.it Dicembre 2011, numero 13-14 , reperibile all'indirizzo: http://www.i-lex.it/articles/volume6/issue13-14/schuenemann.pdf ) - si pongono in luce criticità delle tesi svolte da Radbruch. Per contro, nell'articolo di Gaetano Carlizzi – giudice militare e docente universitario - recante il titolo < > (pubblicato negli Annali dell'Università degli Studi Suor Orsola Benincasa 2018, rinvenibile all'indirizzo https://universitypress.unisob.na.it/ojs/index.php/annali/article/viewFile/1203/435 ) viene evidenziata la rilevanza delle formule e ne viene contestata la contraddittorietà. Vengono riportati di seguito - a puro titolo di stimolo di riflessione - alcuni passaggi dei due saggi. Bernd Schunemann Gustav Radbruch, il filosofo tedesco del diritto del ventesimo secolo più noto nel panorama internazionale, in quindici anni, ha risposto in maniera assolutamente differente al problema cardine della filosofia del diritto, ovvero al problema del rapporto tra validità giuridica e giustizia. La spiegazione biografica, a tal riguardo, è evidente. Infatti, la prima risposta si rinviene nella sua Rechtsphilosophie del 1932, pubblicata immediatamente prima della presa di potere da parte del nazionalsocialismo, la seconda risposta, dopo quattordici anni circa e successivamente alla fine della dittatura nazionalsocialista. Per un filosofo del diritto ciò è sorprendente: la veridicità di asserzioni filosofiche sul diritto, a differenza di quelle sociologico-giuridiche, non dipende da una verifica empirica e, pertanto, nemmeno può essere falsificata da eventi storici, come il dominio del nazionalsocialismo. Il cambiamento compiuto da Radbruch della sua teoria della validità giuridica, come reazione agli illeciti del regime nazionalsocialista, nemmeno può essere giustificato in base alla circostanza che la nuova teoria era considerata necessaria per rendere possibile la punizione degli atti di violenza del nazionalsocialismo. Il che rappresenterebbe una chiara fallacia naturalistica. Perciò, devono essere verificate, criticamente, le variazioni nel concetto di validità del diritto in Radbruch. Nella terza edizione della sua Rechtsphilosophie, apparsa nel 1932, Radbruch riconosce proprio alla coscienza del singolo il diritto di rifiutare obbedienza alle “leggi vergognose”, Schandgesetzen. Il giudice invece, nella sua attività di interpretazione, è sottoposto all’ordinamento giuridico positivo e non deve conoscere altro che la teoria giuridica della validità, che considera in egual modo l’esigenza di validità della legge rispetto alla validità effettiva; il giudice non deve mai chiedersi se il comando giuridico autoritativo sia anche giusto ma, molto più, deve considerare vigente tutto il diritto legale . Diversamente, nel suo saggio del 1946, Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht, il diritto positivo ha certamente priorità se, in riferimento al contenuto, è non giusto e non conforme allo scopo, ma tale priorità verrebbe meno qualora il contrasto della legge positiva con la giustizia raggiungesse una misura così intollerabile da far sì che la legge, come “diritto ingiusto”, debba cedere alla giustizia. Il che significa, in via diretta e conseguentemente, che, laddove nemmeno la giustizia fosse raggiunta e nella posizione del diritto positivo venisse negato consapevolmente il principio di uguaglianza — che rappresenta il cuore della giustizia — allora la legge in questione non solo sarebbe “diritto ingiusto”, ma sarebbe addirittura priva della natura di diritto. Queste osservazioni di Radbruch spesso sono presentate come una ‘teoria a tre livelli’. Il primo livello comprende le leggi semplicemente ingiuste, che possiedono, tuttavia, validità giuridica; il secondo livello è occupato dalla perdita di validità giuridica a causa di una “ingiustizia non tollerabile”; infine, al terzo livello, le leggi non rientrerebbero proprio più nel concetto di diritto qualora, attraverso di esse, il legislatore non avesse perseguito neppure la giustizia e, suo presupposto, l’uguaglianza . Certamente, si può dubitare si tratti effettivamente di due distinti piani, ovvero il piano della “intollerabile ingiustizia” e quello della “mancata aspirazione alla giustizia”. Anzi, viene introdotta, una volta, con la formula della intollerabilità, una misura oggettiva, ed un’altra, attraverso la formula del mancato impegno per la giustizia, una misura soggettiva, misure che potrebbero distinguersi appena nell’esito finale. Infatti, nella formula soggettiva, non è da trascurare che il concetto stesso di giustizia può essere considerato in maniera assolutamente differente, allo stesso modo in cui il criterio dell’uguaglianza dipende dal riferimento a ciò che si considera come uguale e come disuguale. Così, oggigiorno, l’uguaglianza formale di tutti gli individui rappresenta il quadro di riferimento decisivo, mentre, nel pensiero giuridico marxistaleninista, lo sfavore del nemico di classe era considerato giustificato, così come, nell’ideologia nazionalsocialista, la differenza fondata sull’elemento dell’appartenenza alla razza o, nel pensiero antico, la mancanza di diritti in capo agli schiavi. Pertanto, la “intollerabile ingiustizia”, come limite alla validità del diritto positivo, ovvero al diritto legale secondo le norme della Costituzione statuale concreta, non potrebbe mai divenire reale entro una ed un’identica cultura giuridica. E ancora: che Radbruch, attraverso la sua formula creata nel 1946, abbia alquanto limitato il positivismo legalista — quel positivismo radicale che aveva sostenuto nel 1932 —, considerato il moderno sviluppo degli Stati costituzionali, sembra avere un effetto meno importante, quasi irrilevante. Infatti, le concezioni sulla giustizia di un gruppo sociale sono contenute nella Costituzione ed una legge può essere invalidata già da una Corte Costituzionale, se essa contravviene, in particolare, alla Costituzione e non solo quando la violazione della Costituzione è intollerabile. Perciò, la formula di Radbruch ha senso, sin da principio, solamente nel caso speciale in cui ci si trovi di fronte ad un capovolgimento dell’intero sistema politico e che, di conseguenza, si ponga il problema di un giudizio retroattivo su fatti precedentemente commessi. La questione ha una particolare rilevanza nel diritto penale in virtù della sua natura, laddove il principio di legalità, riconosciuto nell’articolo 25 della Costituzione Italiana come nell’articolo 103 secondo comma della Costituzione Tedesca, esclude di fatto ogni applicazione retroattiva del nuovo diritto a fatti e circostanze precedenti. Se si considera questo, diviene anche chiara la specifica funzione della formula radbruchiana: non riconoscere validità alle norme dell’ordinamento giuridico antecedente, — al fine di fondare l’azione penale unicamente sulla parte dell’ordinamento precedente qualificata come valida — e, per questa via, eludere il divieto di retroattività. … Ab) In verità anche la formula soggettiva non porta lontano. Infatti la questione va decisa chiedendosi se il precedente legislatore “non abbia neppure perseguito la giustizia”, a partire non dalla sua prospettiva e secondo le sue convinzioni, bensì dalla prospettiva esterna del giudice attuale, rispetto a ciò che è giusto e ciò che è intollerabilmente ingiusto. Poiché è negata la prospettiva della giustizia interna ai gruppi che legiferano e che dominano la società, la ‘élite politica’, il criterio soggettivo si rivela un criterio di apparenza che rinvia ulteriormente all’attuale giudizio esterno e ancora alla discrepanza oggettiva tra la precedente disciplina e le attuali idee sulla giustizia. ...A tal proposito, come starebbero le cose rispetto al diritto delle società antiche, con la schiavitù ad esempio, oppure con quelle attuali che non riconoscono parità di diritti per le donne; e come starebbero le cose rispetto al diritto degli odierni ‘Stati confessionali’ o delle società che ammettono mutilazioni femminili e circoncisioni? In base alla formula di Radbruch il carattere di diritto non dovrebbe riconoscersi a gran parte degli ordinamenti giuridici di queste società. È chiaro, pertanto, che la formula conduce ad una sorta di imperialismo giuridico che interpreta le attuali visioni giuridiche del mondo occidentale come misura di tutte le cose. ... Gaetano Carlizzi (...) Il primo dato rimarchevole della teoria divenuta famosa come “Formula di Radbruch”, è l’inesattezza di questa stessa etichetta. La tesi che essa sta designare non ha, infatti, quella semplicità evocata dal termine singolare “formula”, bensì una indubbia complessità. In breve: dietro di essa si nasconde non una sola, bensì due tesi, le quali, sebbene dotate – come si vedrà – del medesimo fondamento, vanno distinte in linea di principio. Sarebbe, pertanto preferibile usare locuzioni come “Duplice formula di Radbruch” o “Formule di Radbruch”. La fonte comune delle due tesi è il breve eppure celeberrimo articolo Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht6 , pubblicato nella Süddeutsche Juristenzeitung all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale (1946). Esso prende le mosse dal problema giusfilosofico centrale della validità (Geltung) del diritto: in ragione di cosa la legge costituisce un dover essere, è vincolante per i consociati? Sotto la spinta dell’esperienza nazista, il problema è affrontato nell’ottica particolare del trattamento penale applicabile a chi commette fatti gravemente lesivi dei diritti umani, ma non punibili al momento della loro realizzazione. A quale dei due “metri postbellici” giudicare questi fatti? Quello della neonata sensibilità per la tutela assoluta dei diritti umani oppure quello della restaurata riverenza verso il divieto di retroattività delle nuove incriminazioni? Fornendo un saggio di quella capacità tipicamente tedesca di combinare sensibilità giusfilosofica e competenza tecnicogiuridica, Radbruch usa come banco di prova tre vicende realmente accadute nella Germania hitleriana, in zone ricadenti ora sotto il controllo sovietico. Si tratta dei casi di: delatori per libera scelta, che, con le loro denunce, avevano condotto all’applicazione di norme contemplanti la pena di morte per fatti irrisori; giudici che avevano fatto applicazione di queste stesse norme; boia che, pur potendo dimettersi, avevano preferito continuare a dare esecuzione a tali pronunce. Il punto è che tutti questi soggetti hanno commesso fatti disumani ma leciti in base a(d alcune de)lle leggi dell’epoca. Donde la riemersione dell’interrogativo indicato: escludere ex post questa base legale giustificativa e punire i suddetti soggetti, oppure tenerla ferma e mandarli assolti? La risposta di Radbruch, che si colloca a metà strada, ha una trama assai articolata e conseguenze dirompenti, che vanno ben oltre le descritte vicende del passato. Come spesso fa nei suoi scritti, egli dissemina la propria riflessione di spunti in apparenza incidentali, ed è anche facendo attenzione ai relativi dettagli, talvolta costituiti da semplici coincidenze o divergenze letterali, che il lettore riesce a scoprire la sconfinata ricchezza del suo pensiero. Ai nostri fini conviene prendere le mosse dalla distinzione tra fatti commessi sotto il regime nazista e fatti commissibili in futuro, appena accennata nello scritto in esame . In effetti, se, da un lato, la “Duplice formula di Radbruch” è elaborata con immediato riguardo ai fatti del secondo tipo, dall’altro, non solo essa risulta rilevante anche per i fatti del primo, ma il discorso svolto per questi contiene precisazioni che retroagiscono sulla portata della stessa formula. … 3.1. Una volta chiarito il contenuto complesso della formula in esame, si tratta di comprendere il fondamento delle due tesi che la costituiscono. Sostenere che la legge intollerabilmente ingiusta non è vincolante, mentre quella volutamente ingiusta è addirittura inesistente, è troppo in contrasto con la mentalità giuridica novecentesca per poter essere giustificato solo con l’ineccepibile disprezzo dell’abominio nazista. Radbruch è perfettamente consapevole di ciò, tanto è vero che, sempre nell’articolo del 1946, si preoccupa di specificare le ragioni della sua proposta. In sintesi: la validità della legge non può basarsi semplicemente sulla forza detenuta da chi la emana, giacché la legge costituisce una doverosità lato sensu (Sollen), mentre la forza è un dato di fatto che può fondare tutt’al più una necessità (Müssen). Piuttosto, nella prospettiva neokantiana, mai abbandonata da Radbruch, un Sollen può essere costituito soltanto da un valore (Wert). Ed è proprio qui che sorgono i problemi più spinosi. Nella sfera del diritto, infatti, non vi è un unico valore fondamentale, bensì molteplici, che possono entrare, e sono di fatto costantemente, in tensione tra loro: l’utilità (Zweckmäßigkeit), la giustizia (Gerechtigkeit) e la certezza giuridica (Rechtssicherheit). In questo senso, la possibilità di fondare la validità della legge positiva sulla certezza del diritto, che pure potrebbe ammettersi in astratto, giacché la legge positiva assicura la uniformità, stabilità e prevedibilità della vita giuridica, incontra in concreto degli ostacoli. Ciò non tanto da parte dell’utilità, che tende ad occupare l’ultimo posto della triade, dato che il suo soddisfacimento richiede regole certe e giuste, bensì da parte della giustizia, che in qualche modo include la stessa certezza, poiché dipende anche dalla stabilità della disciplina giuridica. Ma se è così, ecco che gli equilibri di questo campo di forze emergono quasi da soli, dando luogo alla tripartizione illustrata nel precedente paragrafo. Infatti: A) la legge relativamente ingiusta è valida perché, da un lato, assicura di per sé, nella sua mera positività, la certezza giuridica, dall’altro, non incide in misura significativa sulla giustizia, così risultando congruente anche con l’utilità; B) la legge intollerabilmente ingiusta non è valida, perché, pur assicurando la certezza giuridica per le ragioni appena viste, nondimeno vanifica del tutto la giustizia (e con essa l’utilità, che non si accontenta della certezza), così finendo per rivelare quel senso di mero atto di forza che, come visto poco sopra, non è in grado di fondarne la generale vincolatività; C) la legge volutamente ingiusta è solo in apparenza legge, mentre è in realtà priva di natura giuridica, in quanto, essendo il diritto «un ordinamento e una statuizione che è orientata a servire alla giustizia», essa manca interamente di quella tensione costitutiva della stessa giuridicità. Come anticipato, secondo l’opinione nettamente maggioritaria in letteratura, questo quadro è il frutto di una svolta, di un passaggio dal “primo” al “secondo” Radbruch. Così, a seguito dell’esperienza nazista, egli avrebbe abiurato al rigido giuspositivismo della giovinezza e della maturità, la cui espressione più compiuta sarebbe l’ultima edizione della Rechtsphilosophie da lui curata, quella del 1932, e avrebbe abbracciato una mentalità tipicamente giusnaturalista. Insisto sul fatto che questa lettura, quanto meno nelle versioni più radicali, non solo è fondamentalmente sbagliata, ma pure irrispettosa dell’acume del nostro Autore. Sotto il secondo profilo, non bisogna dimenticare che Radbruch era animato, oltre che da una potenza teoretica superiore, anche da una notevole onestà intellettuale (oltre che morale): pertanto, egli non avrebbe avuto alcun problema ad ammettere che la concezione giusfilosofica coltivata fino al 1932, anno che fatalmente precede l’avvento al potere del nazismo, meritava un così radicale rovesciamento alla luce di quest’ultima esperienza. Eppure, se si legge con attenzione l’articolo del 1946, non solo non si trova neppure un accenno in tal senso, ma addirittura si nota una chiara presa di posizione contro un certo tipo di giuspositivismo (“la legge è legge”), che con Bobbio potremmo chiamare “ideologico” e che impone di svolgere una ricostruzione più problematica di quella tradizionale. … Non solo l’idea di giustizia occupa un ruolo centrale in tutto l’arco del pensiero di Radbruch, ma immutato resta anche l’inquadramento che egli riserva alla vanificazione di tale idea per via legislativa. Sia che si tratti di ingiustizia intollerabile, sia che si tratti di ingiustizia voluta, in entrambi i casi si ha “negazione legale del diritto”, dato che “il diritto è la realtà che tende a servire alla giustizia”. E il fatto che nel primo caso l’atto del legislatore sia privo di validità, cioè non vincolante, mentre nel secondo manchi addirittura di natura giuridica, non deve far perdere di vista il fondamento comune delle due conseguenze. Alla luce di ciò è finalmente possibile giustificare apertamente la scelta, compiuta per la prima volta in questa sede, di tradurre “gesetzliches Unrecht” con “negazione legale del diritto”, anziché con “torto legale”, “illecito legale” o “ingiustizia legale”. In effetti, mi pare che nessuna di queste tre traduzioni sia in grado di riflettere adeguatamente l’ispirazione di fondo del pensiero di Radbruch. Ciò vale, innanzitutto, per “torto legale”, che, da un lato, ha risonanze eticheggianti, dall’altro, smorza la gravità dei casi da lui considerati; in secondo luogo, per “illecito legale”, che, nell’accezione corrente del termine “illecito”, richiama un fenomeno, la violazione del diritto vigente, ben diverso da quello esaminato da Radbruch; infine, per “ingiustizia legale”, la quale trascura che, per il nostro Autore, vi sono forme di ingiustizia legale (leggi relativamente ingiuste) che esulano dal quadro radicalmente patologico finora tratteggiato. A tutti questi limiti sembra sfuggire il sintagma “negazione legale del diritto”, il quale, da un lato, mette in piena luce quella radicale contraddizione con l’idea di giustizia che sola può giustificare le gravi conseguenze ricollegate da Radbruch alle due relative forme; dall’altro, oltre ad aderire al contenuto di senso dei morfemi “Un” (prefisso negativo), “gesetzlich” (“legale”) e “Recht” (“diritto”), pone in diretto ma contraddittorio contatto ciò che il giuspositivismo tradizionale identifica senz’altro, la legge e il diritto, così svelando quella paradossalità che vale a perpetuare la “Duplice formula di Radbruch”. D’altro canto, il tentativo di restituire l’intima organicità e continuità del pensiero del nostro Autore non toglie che esso, come ogni altra vera filosofia del diritto, resti essenzialmente problematico, resistendo alla tentazione di acquietarsi nell’immagine razionale che pure riesce a prospettare del diritto. Radbruch, infatti, è ben consapevole che quell’immagine riflette un equilibrio precario, soggetto ai rapporti di forza delle varie epoche, dunque è destinato a ricostituirsi sempre di nuovo, attraverso la prevalenza, che non può mai essere totale, dell’una sulle altre componenti dell’idea del diritto. Questa consapevolezza si esprime soprattutto in un passo magnifico della Rechtsphilosophie, che pongo a sigillo delle mie modeste riflessioni: Abbiamo mostrato alcune contraddizioni senza riuscire a risolverle. In ciò non scorgiamo alcuna mancanza di sistema. La filosofia non deve prendere decisioni, deve condurre proprio davanti a esse. Né deve rendere la vita più semplice, ma per l’appunto problematica. […] Quanto sospetta sarebbe una filosofia che non considerasse il mondo una creazione finalistica della ragione, e consentisse di risolverlo in un sistema razionale privo di contraddizioni! E quanto inutile sarebbe un’esistenza se il mondo non fosse in definitiva contraddizione, e la vita decisione!
Autore: Sergio Conti 17 febbraio 2024
L'esame delle dottrine giusfilosofiche elaborate dai due filosofi di scuola idealistica consente di verificare gli esiti così divaricati delle rispettive elaborazioni anche sulla natura e funzione del diritto. Segnalo l'articolo di Marina Lalatta Costerbosa del 2016 intitolato “Diritto e filosofia del diritto in Croce e Gentile” pubblicato sull'Enciclopedia treccani (2016) – rinvenibile online all'indirizzo https://www.treccani.it/enciclopedia/diritto-e-filosofia-del-diritto-in-croce-e-gentile_%28Croce-e-Gentile%29/ - che analizza il pensiero dei due filosofi che hanno dominato la scena culturale italiana da fine Ottocento sino alla metà del Novecento. In preambolo, la professoressa Lalatta Costerbosa – ordinario di Filosofia del diritto nell'Università di Bologna – osserva: All’aprirsi del 20° sec. lo scenario giusfilosofico europeo annovera tra i suoi protagonisti la corrente tradizionale del giusnaturalismo e quel giuspositivismo avalutativo che aveva rappresentato lo sguardo dominante sul diritto per tutto l’Ottocento. Come pure visioni del diritto riconducibili a istanze antiformalistiche che evidenziano la maturata insoddisfazione verso visioni del diritto rigide, incapaci di raffigurare la natura del fenomeno giuridico. Nel contesto italiano però qualcosa arriva ben presto a sparigliare l’ordine delle cose, sebbene senza la forza per sovvertirlo. È una voce dissonante che riuscirà a influenzare, nonostante tutto, la scienza giuridica italiana della prima metà del Novecento. È una voce che muove dalla rielaborazione della lezione hegeliana e approda a una reinterpretazione della dialettica della ragione, a un rinnovato idealismo. Lo storicismo incarnato da Benedetto Croce, per il quale la vita e la realtà non sono null’altro che storia (La Storia come pensiero e come azione, 1938, 2002, p. 59), diverrà uno snodo cruciale. Come sempre, però, la storia è un po’ più complicata. Più complicata perché nell’alveo del nostrano neoidealismo, accanto alla figura di Croce, enorme rilievo avrà quella di Giovanni Gentile; più complicata anche perché, per la propria affermazione, lo storicismo idealistico dovrà fronteggiare su diversi scacchieri lo scientismo: una prospettiva culturale contraria a ogni valorizzazione del diritto che non si risolva in un riduzionismo tecnicistico. Propugnare un ideale scientista per il diritto vuole dire squalificare la filosofia, nella sua vocazione alla problematizzazione e pure nel suo ruolo accademico. Emblematico l’intreccio di questi profili nella prolusione di Pietro Bonfante all’Università di Roma nel 1917, nella quale la filosofia del diritto viene ritenuta il «simbolo di una fase prescientifica nello studio del diritto» (Il metodo naturalistico nella storia del diritto, «Rivista italiana di sociologia», 1917, 21, p. 67). Si tratta di un dissidio concettuale ed epistemico, ma non da ultimo di una battaglia per l’egemonia culturale, tanto che non solo Gentile, ma persino Croce reagirà con veemenza rivendicando la credibilità della filosofia, intesa come storia e metodologia della storia, non certo come astrazione metafisica e interrogazione sulla presunta dimensione noumenica del mondo (cfr. Filosofia e metodologia, «La Critica», 1916, 14, p. 309). Nel rinviare per ogni approfondimento alla lettura del saggio, si riportano alcuni passaggi che consentono di intuire l'importanza dei temi trattati. Viene in particolare ricordato che Croce assunse una posizione critica sulla stessa filosofia del diritto “ definita «un groviglio di difficoltà» (Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, 1907, 1926, p. 37; d’ora in poi RD), «un filosofico ircocervo» (recensione a G. del Vecchio, Diritto ed economia, 1935, «La Critica», 1936, 34, p. 378) – e da ogni riconoscimento della sua presunta indipendenza nello spettro dei saperi. E neppure far intendere che vi sia in lui una qualsivoglia edulcorazione della condizione in cui versa la filosofia del diritto italiana. Ma certo Croce deve intuire la portata di simili pubbliche prese di posizione, forse presagendo i rischi di scelte che possono revocare in dubbio elementi caratterizzanti il concetto positivistico del diritto, come la certezza del diritto e il principio di validità, i quali – nonostante per altri versi tradiscano un formalismo da legulei, prono ad accettare e cresimare gli istituti giuridici positivi, prodotto della storia (cfr. recensione a I. Petrone, Lo Stato mercantile chiuso di G. Am. Fichte e la premessa teorica del comunismo giuridico, 1904, «La Critica», 1905, 3, p. 149) – possono fungere da argine contro derive irrazionalistiche e autoritarie. Rimane tuttavia chiaro ai suoi occhi come lo sforzo per ben intendere il valore della filosofia non possa essere disgiunto da quello volto alla comprensione della concretezza storica, e dunque come un’analisi storica legata a quella chiarificazione concettuale, che soltanto la filosofia può offrire, divenga un’impresa necessaria (Teoria e storia della storiografia [pubblicato nel 1915 in tedesco, nel 1917 in italiano], 2007, p. 136). Non solo. Pensando allo status della filosofia del diritto, Croce è convinto che la riunione armonica di filosofia, scienza del diritto e politica richieda «vigore e coraggio» e che, ora una sfumatura desolata in una severa immagine di singolare realismo, i più dei professori e cultori del diritto guardano dall’alto tavolato delle loro astrazioni la sottostante acqua del mare, ma non vogliono gettarvisi dentro per aver da fare con le onde (recensione a P. Biondi, Metodo e scienza del diritto, 1935, «La Critica», 1936, 34, p. 145). Per comprendere quale sia il concetto di diritto e di filosofia del diritto di Croce è preliminare l’indicazione che egli stesso ci offre allorquando rintraccia nella figura di Christianus Thomasius (1655-1728) il primo vero filosofo del diritto: colui che, alla fine del Seicento, ha il grande merito di aver posto al centro della riflessione filosofica il rapporto tra diritto e morale. Una distinzione che non esclude sovrapposizioni tra le diverse sfere della condotta umana, ma si affranca dai riduzionismi sino ad allora prevalenti: del diritto alla morale (da Platone a Ugo Grozio), come voleva il moralismo, o della morale al diritto (da Trasimaco a Thomas Hobbes), come prescriveva il positivismo. … E il diritto? Quale ruolo riserva Croce al diritto in questo scenario che non lo contempla in quanto momento autonomo dell’agire? Come già aveva chiaro alla mente negli anni che precedono il completamento della Filosofia della pratica (nella memoria dedicata alla filosofia del diritto, ma persino, prima, nelle Tesi di estetica del 1900), il diritto non può che dispiegarsi sul terreno economico, solo eventualmente intrecciando relazioni con quello etico,perché la vita economica e la vita morale non stanno tra loro come due sfere coordinate e indipendenti, ma come il perpetuo passaggio dall’una all’altra; e le virtù economiche o giuridiche sono il primo passo e il presupposto della virtù morale (Frammenti di etica, in Etica e politica, 1967, pp. 55-56). Il diritto corrisponde alla declinazione economica dell’operare: l’attività giuridica è sinonimo di attività economica (FP, p. 358), senza che nulla vieti un suo possibile candidarsi alla promozione di un agire teso all’universalità, a emanciparsi dagli interessi particolari degli individui. Ma certo non dovrà mai necessariamente farlo per conservare o conseguire lo status della giuridicità. Netta è la distanza dall’etica, tanto che parlare di un diritto giusto e di un diritto ingiusto ha poco senso – ironizza Croce – quanto il classificare i cavalli in due specie, «cavalli vivi e cavalli morti!» (p. 362). La dimensione normativa del diritto non trova alcun riconoscimento, delegittimate sono quelle norme morali che si presentino come indispensabili per definire il diritto come tale. Lontanissimo è Croce da ogni formulazione giusnaturalistica, e prossimo alla sensibilità teorica dello storicismo giuridico che valorizza la lingua di un popolo e conferisce alla storia il primato nella determinazione del diritto. Le regole, le norme, le massime «non hanno valore assoluto» (p. 88). Esse sono un portato concreto delle situazioni realmente prodottesi nella storia e, se rettamente comprese, si rivelano addirittura ineludibili per orientarsi nell’azione; sebbene mai vadano intese come precedenti in grado di determinare l’azione. Anche per questo in ambito giuridico si impiegano solo pseudoconcetti, non concetti veri e propri, poiché sempre essi discendono da dati positivi, cioè presenti di fatto nella realtà. ... ...non hanno alcuna consistenza i presunti valori universali: essi sono sempre idee particolari elevate a universali (La storia come pensiero, cit., p. 59). Inaccettabile è l’idea di «una legislazione limite o modello, di un diritto universale, razionale o naturale» che diviene un’arbitraria razionalizzazione di contingenze storiche oppure mera «tautologia» (FP, p. 334) e per di più «urta contro il principio della mutevolezza delle leggi, che è conseguenza necessaria del carattere contingente e storico del loro contenuto» (p. 332). Si comprende così che, appena terminata la Seconda guerra mondiale, Croce ribadisca la propria distanza dal presupposto teorico dal quale scaturisce la Dichiarazione dei diritti dell’uomo: un riabilitato giusnaturalismo universalistico, che «filosoficamente e storicamente è affatto insostenibile» (I diritti dell’uomo e il momento presente, in Dei diritti dell’uomo, 1952, p. 133). I diritti umani non sono per Croce «esigenze eterne», bensì «fatti storici, manifestazioni di bisogni di determinate epoche e preparazione a cercar di soddisfarli» (p. 133). … Gentile si differenzia da Croce innanzitutto per la convinta riabilitazione della filosofia del diritto. Egli non entra nella polemica sull’argomento se non per reciderne le ragioni alla base. Si pone in questione lo status della filosofia del diritto – a suo giudizio – solo perché si concede allo storicismo e alla sociologia partita vinta su quanto vi è di più significativo: il concetto di diritto; e si consegna alla teoria generale del diritto il ruolo formale di sostituto della filosofia. La questione va invece ripensata e posta su basi più adeguate. Il diritto non è un mero fatto o fenomeno, rispetto al quale ovviamente priva di senso sarebbe la prospettiva filosofica (I fondamenti della filosofia del diritto, 19613, p. 34; d’ora in poi FFD). Contro ogni rappresentazione riduzionistica, appagata da una visione fenomenica della realtà, «sta lo spirito (l’uomo appunto, che si contrappone ad essa e la giudica, osservandola, e quindi prevedendone il fatale andare)». Egli non è un fatto, «giacché stare di fronte a una realtà è pensarla; e pensare è un atto, non un fatto» (p. 43). … Il diritto rientra dunque nell’unità spirituale che si realizza come processo entro il quale si palesano sì differenze, ma mai tali da agire da moltiplicatori dell’unità. Esse sono intrinseche, immanenti all’unità, che per loro tramite «si instaura, e integra, e attua» (p. 55). È un processo dialettico, perché dialettica è la realtà dello spirito. In questa rappresentazione della storia come vita dello spirito, il bene corrisponde al «valore dello spirito nella sua attualità dialettica» (p. 67; cfr. anche Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, 1946, 1994, p. 52, d’ora in poi GS) tanto che l’atto in quanto momento del processo di realizzazione dello spirito può dirsi morale. E il male – che neppure Kant nella sua grandezza era stato capace di spiegare (FFD, p. 22) – è un momento interno al bene, il «momento negativo della nostra effettiva realtà spirituale»; perché ogni vero nemico è sempre da ricercarsi all’interno (p. 68). Il male è dunque alimento per il bene: in sé non è nulla. Tanto che «tutta la realtà di un’ingiustizia non si manifesta (non vale per quella realtà che essa è, in quanto realtà morale) se non nella coscienza che la valuta» (p. 68). Finanche la guerra si trasfigura in qualcosa di positivo e indispensabile: la guerra è l’instaurazione della pace, risoluzione di una dualità o pluralità nel volere unico, la cui realizzazione è immanente nel conflitto, e ne rappresenta la vera ragion d’essere e il significato profondo (p. 72; cfr. anche GS, p. 104). … Il diritto implica comunque la comprensione dell’attività giuridica, «che non è più un fatto, bensì il principio produttivo del fatto»; la filosofia del diritto è pertanto inevitabile, anche per coloro che riducono la sfera del diritto alla sfera dei fatti, e coloro che non lo ammettono non possono che «fare della cattiva filosofia» (FFD, p. 45). Ecco allora che la filosofia del diritto – evidente la distanza da Croce – ha un compito essenziale, un compito che Gentile definisce «gnoseologico»: contribuire alla formazione di una coscienza critica della realtà per quanto concerne la comprensione del momento della vita dello spirito che costituisce la scaturigine del fenomeno giuridico (p. 46) e che si sofferma sul carattere sociale dello spirito umano. La natura dell’uomo è sociale e vive entro le maglie di una «unità dialettica e dinamica d’ogni costruzione sociale». Non nel senso di un’unità organica, ove la concordia annulli inclinazioni e interessi anche opposti da parte degli individui, ma neppure di un’unità come aggregato di singolarità separate e confliggenti. La vera essenza della socialità dell’uomo sta non nel suo relazionarsi esteriore, in una società inter homines, bensì nella comprensione di sé in quanto membro di una società universale, di una società in interiore homine, perché il valore universale dello spirito si può affermare solo attraverso «l’immanente soppressione dell’elemento particolare» (p. 75), concependo gli uomini particolari, sotto il profilo spirituale, come fossero un sol uomo. … È la forza a rendere possibile questa unità: è la forza il principio del diritto. Con ‘forza’ occorre però intendere qualcosa di uguale eppure di diverso dal significato che Baruch Spinoza, da un lato, e Jean-Jacques Rousseau, dall’altro, hanno a essa attribuito. Coglieva nel segno Spinoza nel ritenere che la forza fosse fonte del diritto, ma sbagliava nel ridurre la forza a mera necessità meccanica, all’evidenza che il pesce grosso mangerà il piccolo. Aveva ragione Rousseau nel sostenere che dalla forza non potrà mai discendere il diritto, ma errava nel sottrarle ogni idealità: solo per questo poteva negare siffatta derivazione. La forza, rettamente intesa, non è perciò una forza naturale, determinata obbiettivamente e senza intrinseca razionalità, ma è libera forza spirituale, la quale può realizzarsi solo attraverso una legge universale, e negando costantemente ogni particolarità (FFD, p. 82). E così «la forza che è diritto è la forza interiore, l’attività o potenza dello spirito, nella sua intimità» (p. 83). Il diritto ha dunque un volto interno, una coattività interiormente percepita, alla quale corrisponde la coattività esteriore delle norme giuridiche. Anche per Gentile però la dimensione della coazione esterna non è tratto essenziale del diritto, poiché il diritto si dà ogni qual volta il soggetto si trovi al cospetto di un «voluto» che non è il suo volere attuale (pp. 94-95). La sanzione che ha come sua finalità l’annullamento della volontà contraria a quanto stabilito dalla norma può fallire, ma il diritto resta tale in quanto noi lo percepiamo come coattivo, lo riconosciamo come vincolante, come legge che sovraintende alla nostra volontà. È questo lo snodo che rende evidente il fraintendimento di cui è vittima il giusnaturalismo nella sua «rivendicazione della libertà di coscienza dal potere politico» (p. 95). Non vi è opposizione tra Stato e cittadino, lo Stato è una società sentita come tale dall’uomo nella sua interiorità. Non vi è una dimensione ideale contrapposta a una fattuale. Non vi è una sfera morale separata da una sfera giuridica. Non vi è un diritto soggettivo che rivendica il proprio riconoscimento in contrapposizione a un diritto oggettivo (p. 92)." Come si vede, sono molti gli spunti di riflessione che ognuno dei brani sopra riportati - ed estratti in via meramente rapsodica dal complessivo contesto dell'articolo segnalato – possono fornire al giurista allora come oggi.
Autore: Sergio Conti 12 gennaio 2024
Segnalo, nella ricorrenza dell'anniversario della morte del papa Benedetto XVI [1] , l'articolo di Daniele Onori “Il magistero giuridico di Benedetto XVI” apparso sulla rivista “Centro studi Livatino” il 31 dicembre 2023 (reperibile online all'indirizzo https://www.centrostudilivatino.it/il-magistero-giuridico-di-benedetto-xvi-ricordando-il-discorso-al-bundestag/ ). Lo scritto disamina il pensiero sul diritto di Joseph Ratzinger ripercorrendo i concetti enunciati in due occasioni: la lectio magistralis proferita il 10 novembre 1999 in concomitanza della concessione della laurea honoris causa in Giurisprudenza da parte dell’Università LUMSA [2] ; e il discorso al Bundestag del 22/09/2011 [3] . Nella prima occasione, l'allora cardinale Ratzinger rileva che: « L’elaborazione e la strutturazione del diritto non è immediatamente un problema teologico, ma un problema della “recta ratio”, della retta ragione. Questa retta ragione deve cercare di discernere, al di là delle opinioni e delle correnti di pensiero, ciò che è giusto, il diritto in se stesso, ciò che è conforme all’esigenza interna dell’essere umano di tutti i luoghi e che lo distingue da ciò che è distruttivo dell’uomo. […] . La redenzione non dissolve la creazione ed il suo ordine, ma al contrario ci restituisce la possibilità di percepire la voce del creatore nella sua creazione e così di comprendere meglio i fondamenti del diritto. Metafisica e fede, natura e grazia, legge e vangelo non si oppongono, ma sono intimamente legati » Al Bundestag, il Papa ha iniziato il suo discorso « con una piccola narrazione tratta dalla Sacra Scrittura. Nel Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento importante? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli chiede. Domanda invece: “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1Re 3,9). Con questo racconto la Bibbia vuole indicarci che cosa, in definitiva, deve essere importante per un politico: la volontà di attuare il diritto e l’intelligenza del diritto. Se la politica non è capace di distinguere il bene dal male, si può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia. Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti? ha sentenziato una volta sant’Agostino ». Ha poi voluto evidenziare che una politica priva della capacità di discernere tra il bene e il male, e che non si basa su un principio superiore di giustizia, inevitabilmente conduce alla catastrofe e all’ignominia. « Noi tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto – era diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio ». Benedetto XVI ha osservato che il cristianesimo non ha mai inteso le legge divina come l’islam intende la shari’a , cioè come un diritto rivelato che il diritto dello Stato deve semplicemente riprodurre. Senza citare per nome l’islam – ma il riferimento implicito è evidente -, il Papa ha ricordato che « contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto », attingendo alla tradizione filosofica greca e al diritto romano. Da questo incontro – che era già stato al centro del famoso discorso tenuto da Benedetto XVI a Ratisbona il 12 settembre 2006 – «è nata – ha ricordato – la cultura giuridica occidentale, che è stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la cultura giuridica dell’umanità». L’Occidente nasce dalla scelta del cristianesimo di non proporre o imporre un «diritto religioso» ma di mettersi «dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione». Particolarmente interessante è poi la trattazione sul diritto naturale e sulla sua attuale eclissi. Nel rinviare alla lettura integrale dell'articolo del prof. Onori, riporto di seguito alcuni interessantissimi spunti di riflessione. Se si considera la natura – con le parole di Hans Kelsen – «un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti”, allora da essa realmente non può derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo di carattere etico. Una concezione positivista di natura, che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la riconoscono, non può creare alcun ponte verso l’ethos e il diritto, ma suscitare nuovamente solo risposte funzionali. La stessa cosa, però, vale anche per la ragione in una visione positivista, che da molti è considerata come l’unica visione scientifica. In essa, ciò che non è verificabile o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto. Per questo l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del soggettivo e cadono fuori dall’ambito della ragione nel senso stretto della parola. Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco». La svolta culturale della modernità si manifesta attraverso la netta separazione tra essere e dover essere. L’antropocentrismo immanentistico, con la sua enfasi sulla libertà individuale e sull’autonoma configurazione della vita sociale, ha condotto, in gran parte in modo inconsapevole, a privare il diritto della sua radice entitativa e del suo fondamento ontologico. ... La sostanzialità chiara presente nel rapporto di debito nel sapere classico, come esplicitamente delineato nella concezione tommasiana della ipsa res iusta, si è praticamente ridotta alla congruenza formale o alla forza legale della pretesa. Il fenomeno giuridico è stato così scollegato dal suo presupposto metafisico essenziale, relegato al mero potere della volontà. La scienza della giustizia è stata limitata alla logica e alla coerenza del sistema di regole stabilite convenzionalmente. [1] Così Benedetto XVI si è espresso sul rapporto tra origine della cultura europea e preservazione dei parametri giuridici esistenti: "“ La cultura europea ha avuto origine dall’incontro di Gerusalemme, Atene e Roma, dalla congiunzione della fede in Dio di Israele, della ragione filosofica dei Greci e del pensiero giuridico di Roma. Questo triplice confluire del sapere plasma l’essenza stessa dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità umana di fronte a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile di ogni essere umano, tale convergenza ha delineato parametri giuridici, il cui preservare costituisce la nostra missione in questo frangente storico ”. [2] Cfr. https://www.gliscritti.it/approf/2005/conferenze/ratzinger01.htm [3] DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI Reichstag di Berlin Giovedì, 22 settembre 2011 cfr https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2011/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20110922_reichstag-berlin.html
Autore: Sergio Conti 30 ottobre 2023
Segnalo lo scritto del dr. Antonio Casciano “La teoria neoclassica del diritto naturale” pubblicato il 6 luglio 2022 sul sito del Centro studi Livatino - rinvenibile online all'indirizzo https://www.centrostudilivatino.it/john-mitchell-finnis-teoria-neoclassica-del-diritto-naturale/#more-10980. John Mitchell Finnis, nasce ad Adelaide nel 1940. Dopo la laurea in legge, svolge un dottorato di ricerca ad Oxford sotto la supervisione di Herbert Hart. Nel 1966 insegna nella Law School dell’Università di Adelaide e ricopre il ruolo di Law Fellow all’University College di Oxford. Nei primi anni 1970 comincia la carriera accademica nell’Università di Oxford, che lo porterà a ricoprire i ruoli di Lecturer, Reader e Chaired Professor (Biolchini Family Professor of Law e Professor of Law and Legal Philosophy), fino al 2010. Nel 1980 pubblica Natural Law and Natural Rights, opera cardine nella costruzione di una teoria sulla legge naturale, oltre che scritto più rappresentativo dell’intera New Classical Theory. [Un più completo esame è rinvenibile nel saggio del medesimo dr. Casciano intitolato “LA TEORIA DEL DIRITTO NATURALE DI JOHN FINNIS ALLA LUCE DELL’ONTO-EPISTEMOLOGIA ARISTOTELICO-TOMISTA” pubblicato sul Fascicolo 1 – 2021, della rivista L-JUS rivista semestrale del Centro studi Rosario Livatino - rinvenibile online all'indirizzo https://l-jus.it/wp-content/uploads/2021/08/L-JUS_1-2021-compressed.pdf Uno scritto di Finnis (Legge naturale e diritti naturali) è rinvenibile poi rinvenibile nel web nell'interessantissimo testo VALIDITÀ, DIRITTI, EFFETTIVITÀ -Pagine di filosofia del diritto del Novecento - a cura di Angelo Abignente, Fabio Ciaramelli, Ulderico Pomarici Napoli 2016 (ristampa) che ho già segnalato nel precedente numero di Spigolature (rinvenibile online all'indirizzo https://www.docenti.unina.it/webdocenti-be/allegati/materiale-didattico/34168036 ).] Lo scritto sopra citato (“La teoria neoclassica del diritto naturale”) evidenzia che: “ La teoria della legge naturale proposta da John Mitchell Finnis, insieme a diversi altri autori di rilievo …, rappresenta il tentativo contemporaneo più rilevante di riproposizione del giusnaturalismo. Il libro di Finnis “Natural Law and Natural Rights” ridà pieno diritto di cittadinanza nel dibattito analitico contemporaneo al tema del diritto naturale e della fondazione oggettiva di valori e princìpi morali, attraverso l’opera di reinterpretazione sistematica degli impianti dottrinali etico-politici tanto di Aristotele quanto di Tommaso, prediligendo l’impostazione analitica e il collegamento con la analytical jurisprudence di Hart e Raz. La cosiddetta “teoria neoclassica” ha assunto un’importanza crescente, oltre che nel dibattito gius-filosofico, anche in quello più propriamente etico-filosofico e teologico-morale ”. Così poi l'intero articolo: “La Scuola Neoclassica, di cui Finnis è stato uno dei maggiori rappresentanti, nasce dall’incontro tra l’onto-epistemologia aristotelico-tomista e lo stile di indagine speculativa proprio della filosofia analitica. Il connubio tra le posizioni tomiste e la riflessione di stampo analitico ha generato un filone speculativo singolare e inedito nella storia del pensiero, al quale la storiografia filosofica ufficiale ha scelto di dare il nome di “tomismo analitico”. Il carattere rigidamente antimetafisico e scientista della filosofia analitica delle origini, ispirata ad un’epistemologia di stampo rigorosamente empirista e positivista, permette di escludere qualsiasi pregresso confronto dialogico tra le due tradizioni di pensiero. E se ad oggi il contributo di Tommaso è a ragione considerato ineludibile nella riflessione etica di stampo analitico[1], ciò si deve al fatto che, in questo lasso di tempo, molte cose sono cambiate, di cui due degne di nota: 1) la necessità di ripensare completamente l’etica analitica, smarcandola finalmente dall’eredità puramente meta-morale a cui era stata condannata dalla riflessione soprattutto di matrice inglese degli anni 1950; 2) l’opportunità di riconoscere l’assoluta singolarità e necessità del «rapporto con Tommaso d’Aquino e non invece solo, o soprattutto, con Aristotele»[2], e ciò in ragione del «ruolo che svolge, in questi autori, il tema della legge naturale o più in generale della norma morale»[3]. Il pensiero dell’Aquinate, infatti, rappresentava un luogo teoretico di incomparabile importanza dottrinale, nel quale cogliere la composizione del momento analitico – si pensi alle sottili distinzioni che compie Tommaso nell’affrontare una qualsiasi quaestio, all’analisi dei vari significati che può assumere ogni termine, alle suddivisioni concettuali genere-specie che sono l’impalcatura portante di tutta la Summa – con quello sintetico: Tommaso riconduce tutto a Dio, vertice della sua piramide teoretica e punto di convergenza di ogni sua argomentazione. La Scuola Neoclassica, tenuta a battesimo, nel 1962, proprio da German Grisez, John Finnis e John Boyle, si inserirà esattamente in questo nuovo fermento culturale[4]. L’impostazione teorica prescelta lascia emergere fin da subito echi metodologici della analytical jurisprudence, non rinunciando tuttavia ad attingere ai contenuti del realismo classico, in particolare aristotelico e tomista, ed inaugurando uno sguardo innovativo sulla legge naturale. Finnis, da parte sua, avrebbe messo a punto una prospettiva teorica capace di coniugare l’eredità del pensiero tomista con gli esiti più recenti della analytical jurisprudence, in particolare con le riflessioni, sul punto di vista interno del giuspositivista Herbert Hart, di cui era stato allievo e al quale riconoscerà sempre il merito di aver ridato vigore alla jurisprudence, riaprendo al suo interno la strada verso un’analisi dei valori che guidano concretamente la condotta umana: «Ogni autore ha il suo ambiente; questo libro [Natural Law, Natural Rights, nda] affonda le sue radici in una tradizione moderna che può essere chiamata analytical jurisprudence, ed il mio personale interesse per quella tradizione precede il tempo in cui cominciai a sospettare per la prima volta che ci sarebbe potuto essere qualcosa di più nelle teorie della legge naturale che superstizione e oscurità»[5]. Secondo Finnis, dunque, l’atteggiamento proprio del teorico del diritto e della morale deve essere sì rivolto alla ricerca della legge naturale, però non già intesa come un insieme di precetti derivati dalla natura umana, bensì come lo studio del diritto positivo, colto alla luce di quei trasversali princìpi pratici che appaiono a tutti praticamente ragionevoli. In quest’ottica, il cosiddetto “diritto naturale” non viene più concepito come altro dal diritto positivo, come nella lunga tradizione del giusnaturalismo di ispirazione cristiana, ma come un metodo per elaborare una teoria del diritto positivo e, in definitiva, l’idea stessa del diritto in generale, talché l’obiettivo ultimo di Finnis sarà quello di mettere a punto una teoria giusnaturalistica del diritto positivo («a natural law theory of positive law»), dacché «there is no proper peace for a positivism outside natural law theory»[6]. Finnis concepisce la legge naturale come basata su due elementi fondanti: da una parte, alcuni beni fondamentali, che concorrono a determinare l’orizzonte teleologico, ultimo e definitivo, dell’agire umano, dall’altra i principi intermedi, ovvero alcuni criteri d’azione che costituiscono “indicatori pratici” necessari in vista del conseguimento effettivo e reale di tali beni fondamentali. La “norma morale” risulterebbe dall’intersezione tra la tensione naturale ai “beni fondamentali” e la fruizione operativa degli “indicatori pratici” in vista del conseguimento di quelli. Muovendo, dunque, dal presupposto dell’universalità delle “legge naturale”, ovvero, dall’idea di una legge morale che sia valida per tutti gli uomini di tutti i tempi, parrebbe possibile cogliere una pluralità di giudizi fondamentali di valore irriducibili gli uni agli altri – come la vita, la religione, la conoscenza, l’amicizia, il gioco, il culto dei defunti, la regolazione della sessualità – presenti in ogni cultura, ad ogni latitudine, e che, nel loro insieme, verrebbero a comporre il primo nucleo prescrittivo di quella cosa che è stata chiamata, nella tradizione del pensiero occidentale, “legge naturale”. Sarebbero tali valori, infatti, «l’unico sfondo valutativo che colora il quadro dell’etica. La vita morale si muove delineandosi all’interno di questo quadro, e le norme morali non possono che trovare in esso il loro orizzonte di significato»[7]. Detto altrimenti, quanto alle ragioni del nostro e dell’altrui agire, troviamo che esistono cose che cerchiamo principalmente per il loro bene. Queste cose sono i beni di base, o fondamentali, in quanto ricercati per se stessi e in quanto tali intelligibili, intuibili cioè come ragioni ultime per l’agire individuale, e come tali proposti dalla stessa ragione pratica ad ogni singolo agente morale. Le apparentemente numerose e diverse ragioni per l’azione che le persone concretamente hanno e i beni che cercano, possono dunque essere ridotti in un numero limitato di categorie di basic goods. Finnis, Grisez e Boyle, in uno scritto pubblicato di congiuntamente del 1987[8], hanno proposto sette categorie di beni di base, che sono divisibili in due gruppi: i beni sostanziali e i beni riflessivi. Il primo gruppo contiene tre categorie di beni che, si potrebbe dire, riguardano l’uomo in quanto creatura animata o vivente, come la vita, la salute e il loro mantenimento; l’uomo in quanto creatura razionale, come la conoscenza e l’esperienza estetica; l’uomo in quanto creatura insieme animale e razionale, come le varie pratiche simboliche per mezzo delle quali “attribuire significato” e “creare valore”. Il secondo tipo di beni, quelli riflessivi, sono invece: l’armonia interiore, la socievolezza, la religione. I beni sostantivi esistono di per se stessi indipendentemente dall’azione dell’uomo. Quelli riflessivi vengono invece ad esistenza solo nella misura in cui l’agente li realizza concretamente e sono definiti tali sia perché l’azione volta verso tali beni si riflette, nella sua efficacia, sulla persona dell’agente, sia perché essi stessi assurgono a buone ragioni per scegliere e contengono in sé altri motivi di scelta. Quali sono le caratteristiche di tali beni fondamentali? La prima, in ordine logico, è la fondamentalità, proprietà tale per cui la ricerca di qualunque altro valore può essere ad essi ricondotta, in quanto fini ultimi delle azioni umane. La fondamentalità di tali valori implica altresì la loro indimostrabilità, essendo essi le premesse prime del ragionamento pratico e, di conseguenza, tali da non poter essere propriamente dimostrati ma solo compresi. Ciò presuppone a sua volta tanto l’irriducibilità di quei valori a valori ulteriori, quanto la loro apertura. Essi, infatti, «non vanno intesi come limiti ma come il fondamento di un insieme potenzialmente infinito di azioni e di progetti di vita, tutti egualmente buoni e nessuno in grado di esaurirne la realizzazione. La migliore conoscenza dei valori non chiude prospettive ma ne apre di nuove»[9]. Vi sono ancora due caratteristiche basilari dei beni fondamentali da segnalare. La prima è la loro incommensurabilità. Data infatti l’irriducibilità di tali beni gli uni agli altri, aspetto a cui abbiamo accennato in precedenza, mancherebbe di fatto un’unità di misura comune con cui poterli con-misurare. Dall’incommensurabilità dei beni fondamentali, infine, discende, come conseguenza logica ulteriore, l‘altra caratteristica loro propria, ovvero, la mancanza di una possibile gerarchia oggettiva tra essi. Gli assi cartesiani all’interno dei quali tracciare il profilo della natural law, sono rappresentati poi, oltre che dai basic goods, anche dai cosiddetti basic requirements of practical reasonableness. Orbene, dette “esigenze fondamentali della ragionevolezza pratica” sono i criteri pratici che indicano come si possa partecipare, in un contesto d’azione specifico, ai beni fondamentali in una maniera eticamente lecita. L’individuazione concreta di tali criteri, poi, è opera esclusiva della ragion pratica. Ebbene, il ruolo della ragion pratica è quello di mettere a punto una lista di “principi intermedi” che mediano il passaggio dai beni fondamentali alle concrete e libere decisioni della vita degli uomini nelle situazioni concrete. Detto altrimenti, la partecipazione ad uno o più beni di base, in una particolare circostanza nella vita, da parte del singolo agente, domanda necessariamente l’uso di uno o più di tali principi intermedi. Aver accertato l’esistenza di un sistema di valori fondamentali, di una struttura valutativa universale e necessaria per il funzionamento della ragion pratica, prova il fatto che «l’aggettivo premorale si può sostituire adeguatamente con la locuzione: “che precede la scelta libera”. Questo punto è importantissimo. Per renderlo più esplicito bisogna dire che per Finnis e Grisez non è possibile un’azione libera e razionale che non abbia come fine almeno uno dei valori fondamentali. L’alternativa ai valori fondamentali è l’irrazionalità e la mancanza di libertà del pazzo o dell’ubriaco»[10]. In quanto premorali, dunque, i valori fondamentali non appartengono al regno della libertà umana, ma a quello della necessità. Il dibattito tra l’egoismo e le sue alternative morali appartiene in ultima analisi all’etica normativa più che alla fondazione dell’etica. Si può scegliere liberamente di essere un egoista, ma non si ha alcuna scelta sul se l’armonia tra le persone sia un bene, o sul se l’armonia sia favorita o impedita dall’egoismo individuale. È per quello che, seguendo l’Aquinate, Finnis ipotizza l’esistenza di un primo principio della ragione pratica, del tutto auto-evidente, comunemente reso per mezzo della cosiddetta formula d’oro: “Fai il bene ed evita il male”. L’orizzonte teleologico ultimo dell’agire morale individuale, infine, è rappresentato, dalla “realizzazione umana integrale”, ovvero, dalla realizzazione contestuale, per quanto possibile, di tutti i beni di base in tutte le persone che vivono in uno stato di armonia[11]. Poiché, tuttavia, nessuna linea di condotta può consentire la realizzazione di tutti i beni di base e di tutte le possibili istanze sottese a quei beni, la realizzazione umana integrale è soltanto un ideale il cui scopo è quello di ordinare la volontà verso la migliore esemplificazione possibile dei beni di base”. [1] Cfr. GRIMI, E., G.E.M. Anscombe. The Dragon Lady, Cantagalli, Siena, 2014, p. 398. [2] CAMPODONICO, A., “Tommaso e l’etica analitica”, Tommaso d’Aquino e i filosofi analitici, Orthotes Editrice, Nocera Inferiore, 2014, pp. 27 – 51, 27. [3] Ibidem. [4] Cfr. GRISEZ, G. G., BOYLE, J. M., FINNIS, J. M., Practical Principles, Moral Truth, and Ultimate Ends, in Natural Law, Dartmouth, Aldershot, 1991, vol. I, p. 237; cfr. anche FINNIS, J. M., BOYLE, J. M., GRISEZ, G. G., Nuclear Deterrence, Morality and Realism, Prefazione, Oxford University Press, Oxford, 1987. [5] FINNIS, J. M., Legge naturale e diritti naturali, Giappichelli, Torino, 1996,p. XXVIII. [6] FINNIS, J. M., “What is the Philosophy of Law?”, Rivista di filosofia del diritto, l (2012), p. 71. [7] DI BIASI, F., “I valori fondamentali nella teoria neoclassica della legge naturale”, Rivista Internazionale di Filosofia Del Diritto, 76 (1999), pp. 209 – 252, p. 221. [8] Cfr. GRISEZ, G. G., BOYLE, J. M., FINNIS J. M., “Practical Principles, Moral Truth, e Ultimate Ends “, American Journal of Jurisprudence, 32 (1987), pp. 106 – 108. [9] DI BIASI, F., “I valori fondamentali nella teoria neoclassica della legge naturale”, op. cit., p. 41. [10] DI BIASI, F., “I valori fondamentali nella teoria neoclassica della legge naturale”, op. cit., p. 42. [11] Cfr. GRISEZ, G. G., BOYLE, J. M., FINNIS, J. M., Practical Principles, Moral Truth, and Ultimate Ends, Dartmouth, Aldershot, 1991, vol. I, p. 131.
Autore: Sergio Conti 13 ottobre 2023
Un viaggio nel pensiero di Karl Olivecrona – il più noto esponente della corrente del realismo scandinavo – sul rapporto fra il diritto e la forza. Sostiene il filosofo del diritto svedese che: “Secondo una antica e ben nota tradizione il diritto e la forza vengono considerati come due opposti: la forza in quanto tale viene contrapposta al diritto. Ma se si tiene conto dell’impiego estensivo che viene fatto della forza, sotto il nome di diritto, da parte dell’organizzazione statale, tale contrapposizione appare illusoria e non rispondente alla realtà. L’applicazione del diritto nella vita concreta implica sempre un certo grado di forza, sia pure di una specie particolare: quella che viene usata contro i criminali, i debitori ed altri ancora se#condo le direttive impartite dal legislatore, è infatti una forza regolata ed organizzata. Ma nella sostanza non è possibile distinguerla dalla forza in genere. Il ladro e l’assassino usano la forza per commettere i loro delitti: ma non si può negare che la stessa forza viene diretta contro di loro al momento della punizione. Il falso contrasto tra diritto e forza deriva da una concezione metafisica del diritto, dal diritto inteso come un potere sovrannaturale, come un potere vincolante che crea ed impone dei doveri. Questo potere vincolante superiore opposto alla forza, cioè al potere concreto. Non appena ci si rende conto che il diritto non è altro che un insieme di fatti sociali, l’intera distinzione svanisce nell’aria. Il diritto include la forza, o meglio, in ogni Stato esiste un’organizzazione poderosa della forza che lavora secondo quelle regole che sono chiamate diritto. Per mezzo di tale organizzazione altre forme di forza vengono tenute a freno. La forza organizzata appare in una luce molto diversa da quella illegale: essa è sostenuta dall’opinione pubblica e circondata da un tradizionale senso di rispetto, perché è un elemento necessario per il nostro benessere e la nostra stessa esistenza. Ma è evidente che tutte queste considerazioni non alterano la sua natura oggettiva.” … “i modi tradizionali di definire il rapporto tra il diritto e la forza devono venire abbandonati. In una concezione realistica è impossibile sostenere che il diritto è garantito o protetto dalla forza. La situazione reale è che il diritto – vale a dire l’insieme delle regole chiamate diritto – si compone principalmente di norme sull’uso della forza.” … “Nel diritto amministrativo si incontra un gran numero di norme che non riguardano direttamente l’uso della forza (ad esempio quelle sulla educazione e la salute pubblica, sulle comunicazioni, ecc.). In alcuni casi la forza è necessaria anche in questo campo, ma la maggior parte delle norme di diritto amministrativo viene applicata dai pubblici ufficiali con altri mezzi. Tuttavia anch’esse presuppongono l’esistenza della forza organizzata e applicata in base alle norme del diritto civile e penale. Per quanto grande sia l’importanza che esse hanno assunto nella nostra epoca devono venire considerate come un’appendice del corpo centrale costituito dalle norme che regolano l’uso della forza.” Secondo la visuale c.d. realista di Olivecrona:  “È certo che la vita sociale si deve basare sul diritto. Ma non su di un diritto concepito in senso metafisico, cioè su di un diritto immaginario che stia al di sopra dei fatti con la sua «forza vincolante». La vita sociale si basa sul diritto concreto, sul diritto come fatto, sul diritto inteso nella sua accezione più ampia, comprendente cioè anche la forza organizzata per mezzo delle regole giuridiche, le quali costituiscono il diritto in senso stretto. Questa forza organizzata costituisce l’ossatura, la spina dorsale della comunità, ed è assolutamente necessaria. Non è possibile concepire una società – perlomeno nel mondo attuale – che non si basi sull’organizzazione della forza. Senza di essa non si avrebbe la minima sicurezza neppure della propria vita ed integrità fisica. Le riserve la#tenti di odio, di sete di vendetta e di illimitato egoismo presenti negli uomini esploderebbero immediatamente in maniera distruttiva, se non fossero tenute a freno dalla presenza di una concentrazione di forza di gran lunga superiore a quella di qualsiasi singolo individuo o associazione privata. Gli uomini hanno bisogno della coercizione per vivere insieme pacificamente: ma la coercizione su di una scala così grande presuppone una forza invincibile.” Gli stralci che precedono sono tratti dal testo “VALIDITÀ, DIRITTI, EFFETTIVITÀ Pagine di filosofia del diritto del Novecento a cura di Angelo Abignente, Fabio Ciaramelli, Ulderico Pomarici pubblicato da Editoriale Scientifica di Napoli 2010, che è rinvenibile online all'indirizzo https://www.docenti.unina.it/webdocenti-be/allegati/materiale-didattico/34168036 al capitolo intitolato Il diritto e la forza nel pensiero di Karl Olivecrona (gli scritti di Olivecrona sono tratti dal testo “Il diritto come fatto”, Milano, Giuffrè, 1967). Riporto, infine, una osservazione di Olivecrona che, pur risalente alla metà del secolo scorso, mi pare di scottante attualità: “Un motivo per cui gli effetti indiretti del diritto sono tanto trascurati è che il rapporto esistente tra il diritto stesso e le nostre azioni di ogni giorno nella maggior parte dei casi non è un rapporto diretto. Solitamente si interpongono uno o più anelli di congiunzione. Noi d’abitudine non impariamo le leggi a memoria per poter regolare il nostro comportamento secondo le loro prescrizioni, né consultiamo ogni giorno gli avvocati. L’influenza del diritto ci raggiunge attraverso molte altre vie. Una di queste è l’educazione che abbiamo ricevuto. Un’altra la stampa. Noi impariamo molto su ciò che è permesso o proibito attraverso i giornali. Talvolta viene usata la propaganda per divulgare qualche nuovo complesso di norme, ad esempio delle nuove regole sul traffico. Inoltre imitiamo le abitudini che si sono formate sulla base di qualche legge. Numerose abitudini di questa specie si sono sviluppate e sono state acquisite soprattutto nel campo del commercio e dell’industria. Facciamo anche uso di forme standardizzate per i contratti, le cambiali, ecc. Come si vede i canali di informazione sono perciò numerosi.”
Autore: Sergio Conti 25 settembre 2023
Proseguo con alcune, del tutto rapsodiche, segnalazioni sul tema del rapporto tra diritto e forza. Innanzitutto lo scritto “Diritto e forza. Da Rousseau a Kant” di Maria Borrello, pubblicato su Nuovi studi politici 2005 rinvenibile (ma con accesso riservato) all'indirizzo https://iris.unito.it/handle/2318/2755?mode=complete Nella scheda di presentazione si legge : La questione della legge suscita, da sempre, riflessioni estremamente diverse fra loro, sebbene tutte sembrano condividere un irrinunciabile riferimento al concetto di forza. L’imprescindibilità di un tale riferimento assume un ruolo centrale per la comprensione della complessa relazione che le riflessioni di Rousseau e Kant. La legge, che in Rousseau costituiva la forma più propria della libertà, si pone invece nella prospettiva kantiana, come uno strumento orientato alla libertà, vale a dire in tensione con la libertà. Si delinea pertanto, nella costruzione kantiana, un’articolazione, un movimento, che da un piano empirico conduce, o meglio deve condurre, a un piano ideale e tale passaggio impone la presupposizione di una relazione specifica tra il concetto di libertà e il concetto di forza; mettere in evidenza questo aspetto è determinante ai fini della nostra indagine: riconoscendo, infatti, la natura postulatoria della forza nell’individuazione del concetto di diritto, Kant iscrive la sua intera riflessione entro una prospettiva che non esclude, anzi ammette come imprescindibile, l’impossibilità ontologica di separare diritto e forza; ma questa stessa relazione, nella riflessione roussoiana, è, all’opposto, assunta in termini problematici ed è anzi propriamente a partire dall’impossibilità di un legame tra forza e diritto che il concetto di libertà è da Rousseau elaborato. Il contributo di questi due filosofici fornisce allora gli strumenti teoretici per affrontare la questione dell’arbitrio, e della possibilità per il diritto di riuscire a determinarsi senza coincidere con esso. Del rapporto fra forza e diritto in von Jhering tratta poi la tesi di dottorato in Filosofia - presso l'Università La Sapienza - del dr. Daniele Cavarra, intitolata “Genesi dello stato e problema del diritto nella filosofia di Nietzsche (1875-1887)” (testo rinvenibile all'indirizzo https://123dok.org/document/1y99edyg-genesi-stato-problema-diritto-filosofia-nietzsche.html ) Il Capitolo 7 è intitolato “Rudolph von Jhering: una lettura dell’estate 1879” e, al par. 2, si sofferma su “Il rapporto tra forza e diritto in Jhering”. L'Autore osserva : “... Jhering considera la ricompensa (der Lohn) la molla fondamentale che regola il meccanismo dei traffici commerciali e che, quindi, presiede allo sviluppo della intera civiltà, almeno considerata nella sfera della società civile. Quest’ultima è descritta come il luogo dove i differenti egoismi si incontrano e stabiliscono la giusta proporzione tra prestazione e controprestazione economica, cioè trovano il punto di equilibrio tra i loro interessi egoistici contrapposti (Gleichgewicht). Ora, proprio nel capitolo VII – quello appunto dedicato alla ricompensa – il giurista faceva una notazione molto importante quando sosteneva che l’impulso alla retribuzione (Vergeltung) è «un’idea generale che pervade tutto il mondo umano». In base a tale assunto generale, quando Jhering, nella seconda parte del primo volume della sua opera, abbandona l’analisi della società civile e inizia a ricostruire la storia evolutiva del diritto a partire dalle sue prime manifestazioni, il binario ermeneutico che utilizza è ancora quello: il concetto di ricompensa, sebbene declinato in altro modo. Ed è a questo radicale livello dell’analisi che si presenta il problema del rapporto tra forza e diritto. Infatti, secondo Jhering, il diritto nasce dalla forza (Gewalt). Ma ciò non è da intendersi in senso irrazionalistico come se il diritto fosse una pura e semplice dominazione del forte sul debole. Esso infatti, anche agli albori, si basa sull’autolimitazione del potente in virtù di un calcolo economico e utilitario. “... “...ogni ordinamento giuridico della storia ha conseguito lo scopo del mantenimento della società attraverso l’elemento normativo e coercitivo ma ha interpretato e ha ‘riempito’ la norma di contenuti anche molto diversi rispetto ad altri ordinamenti giuridici. Ma questo per Jhering non costituisce un problema, poiché la dimensione del diritto non fa parte della conoscenza teoretica ma di quella pratica. Jhering illustra così questo punto essenziale della sua teoria e del rapporto tra diritto e verità scientifica: «Il risultato sarebbe veramente sconsolante, se il compimento del diritto consistesse nella realizzazione di una verità assoluta. Partendo da questa premessa, è giocoforza ammettere che il diritto è condannato ad errare in eterno. Ogni epoca, modificando il diritto esistente, verrebbe a condannare l’epoca precedente, la quale credeva che le proprie norme avessero raggiunto la verità assoluta; e, d’altra parte, anche quest’ultima epoca verrebbe ben presto accusata del medesimo errore.”... ... “Il primo momento della storia evolutiva del diritto è quindi identificato da Jhering con l’autolimitazione della forza da parte di chi, potente, si limita in vista di un calcolo economico. In tale situazione, la forza domina il diritto. Un ribaltamento completo del rapporto si ha solamente alla fine del processo evolutivo quando nello Stato «il diritto ha trovato quel che cercava, cioè la supremazia sulla forza». Ma affinché il rapporto tra forza e diritto venga ribaltato, in modo tale che sia il secondo elemento a dominare sul primo e non viceversa, deve darsi tutta la lunghissima storia del diritto la quale passa attraverso la costituzione della società, della società pubblica e, infine, dello Stato. La prima tappa che succede alla autolimitazione della forza nel singolo individuo è dunque segnata, per Jhering, dal costituirsi della società (Gesellschaft), intesa quale forma giuridica di organizzazione. Alla base della Gesellschaft vi è ancora l’egoismo; essa è la forma attraverso la quale l’elemento dell’interesse egoistico non scompare, ma viene traslato sul piano comunitario: al contrasto tra due interessi in lotta viene sostituito il contrasto tra interesse comune e interesse individuale. Ulteriore sviluppo del diritto è il passaggio dalla società alla società pubblica, momento nel quale gli interessi privatistici che ancora sussistevano nella Gesellschaft vengono superati insieme al principio della esclusività che è proprio di tale forma organizzativa. Con la società pubblica – cioè con la forma giuridica che ibrida il principio privatistico della società (principio di esclusività) e quello pubblicistico dell’associazione (costitutivamente inclusiva) – ecco che avviene il passaggio dalla forma privatistica di organizzazione (la società) a quella pubblicistica cioè lo Stato. In quest’ultimo, si dispiega finalmente lo scopo che ha sempre teleologicamente guidato lo sviluppo del diritto: la supremazia sulla forza.
Autore: Sergio Conti 7 settembre 2023
Proseguendo sul tema, che si è iniziato a trattare nel precedente contributo, dell'origine del diritto e del rapporto del medesimo con la violenza, segnalo la tesi di dottorato di Maria Pina Fersini, intitolata “Diritto e violenza. Un'analisi giusletteraria”, rinvenibile online all'indirizzo https://flore.unifi.it/retrieve/e398c37b-90f4-179a-e053-3705fe0a4cff/Tesi_di-dottorato_Fersini.pdf Si tratta di uno scritto corposo (300 pagine) che disamina la questione anche (come evidenzia il titolo) sotto il profilo letterario. Nel rinviare alla lettura completa del testo, come di consueto, per dare una minima indicazione della tematica affrontata, riporto di seguito uno stralcio dell'introduzione: “Il contenuto della tesi è un tentativo di risposta a una vecchia questione filosofico-giuridica che, ancora oggi, risulta controversa e che attiene al se e al come sia possibile mantenere, in epoca moderna, la differenza tra il diritto e la violenza, non potendo disconoscere la stretta relazione che, proprio con l'avvento della modernità, si produce tra i due poli della distinzione. Nel primo capitolo ho cercato di spiegare perché solo con riferimento al diritto moderno si pongano problemi di differenziazione rispetto alla violenza, la cui soluzione è così difficile da spingere la teoria del diritto a percepire il processo di differenziazione degli ordinamenti giuridici moderni come una scommessa, anziché come un passaggio naturale e, pertanto, obbligato dell'esperienza giuridica. Ho cercato cioè di dimostrare che, mentre in epoca pre-moderna la letteratura giuridica riesce a teorizzare, in modo non problematico, la differenza tra il diritto e la violenza, perché può contare su un diritto naturale certo ed immutabile, di matrice divina, che, in quanto sovraordinato al diritto positivo, fonda e legittima il ricorso all'uso della forza da parte di quest'ultimo, rendendo la violenza giuridica, almeno da un punto di vista teorico, indiscutibilmente differente rispetto a quella esercitata dal singolo, nella modernità, invece, la graduale laicizzazione del diritto, la sua conseguente separazione dalla morale e le sue pretese di auto-legittimazione, rendono difficile pensare la differenza tra la violenza giuridica e quella de singolo, dato che, scomparsa la vecchia fonte di legittimazione della prima ̶esterna al diritto stesso e , pertanto, imparziale ̶, si comincia a dubitare della bontà della violenza giuridica o, meglio, si fa fatica a percepirla come un mezzo di contrasto della violenza indiscriminata del singolo, apparendo più veritiero immaginarla come uno strumento arbitrario di potere, finalizzato alla fondazione e alla conservazione del dispositivo giuridico, anziché come un mezzo regolamentato di controllo della forza bruta. Chiarendo quest'aspetto, ho voluto far vedere come, nella modernità, la teoria giuridica si trovi dinanzi ad un bivio: riconoscere il paradosso che fonda la relazione moderna tra il diritto e la violenza (il quale costringe a pensare il diritto come strumento per combattere la violenza illegittima e, contemporaneamente, come fruitore della stessa) e cercare strumenti teorici, alternativi al diritto naturale, per superarlo; oppure disconoscere il paradosso e risolvere la contraddizione che esso genera a sfavore o a favore del diritto, producendo rispettivamente una critica distruttiva dello stesso o una sua legittimazione idealizzata. Per rendere praticabile la prima strada ̶che è quella che a mio avviso concilia il dato storico con quello teorico, perché da un lato ammette la co-implicazione che in determinati momenti dell'esperienza giuridica (la fondazione e la conservazione) si produce tra il diritto e la violenza , e, dall'altro, cerca strumenti teorici per superarla, rendendo possibile la progressiva differenziazione del diritto dalla violenza ̶ho cercato di ricostruire la genealogia del discorso moderno su diritto e violenza, dato che senza di essa non è possibile né sapere quali sono le posizioni teoriche assunte, di volta in volta, nei confronti del paradosso né valutare le soluzioni offerte. Così l'ultimo paragrafo del primo capitolo contiene un'analisi dei distinti ordini del discorso che, nella modernità, sono stati formulati intorno al tema del diritto e della violenza: il discorso letterario di Kafka e Melville; il discorso della critica di Benjamin; il discorso della legittimazione di Hart e il discorso della differenza di Derrida.”
Autore: Sergio Conti 17 luglio 2023
Una delle domande fondamentali alla quale deve rispondere la filosofia del diritto è quella del fondamento su cui poggia il diritto. Il tema è di ampio respiro e sarà oggetto anche di prossime segnalazioni. Iniziamo ad affrontare l'argomento attraverso il pensiero di Emilio Betti, richiamando il contenuto in un articolo del prof. Massimo Brutti, già ordinario di diritto romano all'università la Sapienza di Roma: “Emilio Betti e l’incontro con il fascismo”, rinvenibile online all'indirizzo: https://romatrepress.uniroma3.it/wp-content/uploads/2019/05/Emilio-Betti-e-l%E2%80%99incontro-con-il-fascismo.pdf Il prof. Brutti – che è stato anche un politico di rilievo (senatore del PDS per cinque legislature) – ha dedicato una serie di studi alla figura di Emilio Betti, giurista di fama mondiale non solo come romanista ma come teorico dell'interpretazione giuridica . Nell'articolo che qui si propone all'attenzione dei lettori si affronta, con equilibrio e completezza, il tema scottante del rapporto fra il Betti e il fascismo, di cui fu sempre convinto sostenitore. L'aspetto del complesso articolo (di cui consiglio la lettura integrale per l'interesse giuridico ma anche storico politico che riveste), che sotto riporto si focalizza sul tema di quale sia il fondamento sul quale si costruisce il diritto nell'esperienza giuridica romana, evidenziando come per il Betti esso vada individuato nella violenza. *** Il rapporto tra forza e diritto è trattato in un saggio del 1915: La ‘vindicatio’ romana primitiva e il suo svolgimento storico nel diritto privato e nel processo. Qui esplicitamente egli afferma che l’origine del diritto è nella violenza. Cita un testo assai letto in Italia, prima della guerra e dopo: le Reflections sur la violence di Georges Sorel. Il libro verrà usato secondo versioni di sinistra e di destra. Molti, nel movimento fascista, a cominciare da Mussolini, si ispireranno a quelle pagine: alla loro intonazione attivistica, all’idea proteiforme del mito, motore dell’azione. Quel che Betti ha in comune con l’ideologo francese è una rappresentazione della forza (la violenza che vince) quale base autentica ed immediata delle relazioni giuridiche. Come nell’imperium, che dura intatto a partire dal suo più antico manifestarsi, anche nel processo egli individua un dato originario, espresso con termini che evocano l’affermarsi di un potere di fatto sulle cose e sugli uomini. Prima dello ius. Il processo romano e i congegni privatistici della proprietà e delle obbligazioni sono ricondotti alla vindicatio primitiva. Non una nozione certa, concettualmente definita nelle fonti, ma uno schema teorico col quale esse vengono interpretate. Vim dicare significa esercitare violenza: designa un atto unilaterale, arbitrario, autoritario, mediante il quale si esercita la potestà su un oggetto. Le cose vengono strappate ed afferrate. Le persone sono assoggettate. In entrambi i casi si realizza una immediata padronanza. Da qui nasce il diritto. E con questo le regole del contenzioso. Ma sta di fatto che prima di ogni regola vi è soltanto la forza. La testimonianza delle fonti su questo dato originario è debole. Betti esclude dalla vis, in base ad alcune tracce linguistiche, ogni significato negativo. La forza è affermazione del potere di una parte. Diventa diritto oggettivo se prevale, se supera la propria relatività. Non si può dire che sia come tale qualcosa di antigiuridico. Bisogna vedere se è dominante o se soccombe di fronte a qualcosa che le si oppone. Siamo di fronte – come Betti riconosce – ad una raffigurazione ipotetica, che non ha alcun elemento razionale di verifica, ma viene proposta per dare unità e senso alle vicende del diritto e del processo. È una congettura che nasce dal nulla. Precede l’indagine storica e l’interpretazione dei testi. L’autore definisce «metodo sintetico» la via adottata nell’indagine: «si procede da ipotesi sull’ignoto alla deduzione del noto». Per spiegare questo pensiero dell’ignoto, da cui fa discendere la narrazione, egli immagina, seguendo Croce, una gerarchia nella quale la forza precede necessariamente il diritto. Secondo Betti, lo instaura e gli è necessaria. È chiaro che qui si è al di fuori della storiografia. Piuttosto, si afferma la corrispondenza delle nozioni romane a valori essenziali e sovrastorici: da un lato la forza che si organizza nello Stato; dall’altro la stessa forza che si dispiega libera nella vita internazionale. Il saggio traccia insomma una teoria generale (impiego l’espressione che sarà tante volte usata da Betti nei suoi studi), mettendo insieme esempi, riflessioni, richiami alle fonti romane, con una forte connotazione ideologica. La stessa di cui si servirà per interpretare gli accadimenti contemporanei. «[…] La guerra – scrive – (o la rivoluzione) è il processo ove si constata la forza, si prova il diritto; dopo la guerra (o la rivoluzione) il diritto o resta a chi lo ha saputo difendere e mantenere, o passa a chi con la propria forza ha dimostrato più valide ragioni di averlo nel momento storico attuale; la guerra (rivoluzione) insomma ristabilisce l’equilibrio tra la pretesa storica fondata su la forza presente e il diritto posseduto, nel caso che questo – come passato – non vi corrisponda più, non le sia più adeguato […]». Ed ancora: «[...] non esiste una volontà coattiva superiore agli Stati singoli»: ciò rende revocabile ogni trattato internazionale. E conclude: «[…] ben pochi tra i moderni (per esempio Machiavelli e Bismarck) hanno avuto la perspicacia di riconoscere e la franchezza di professare verità così evidenti: la maggioranza opera ancora oggi con vieti concetti di legalità formale, di moralità, di giustizia; ma il tribunale competente per certi giudizi non è quello della morale o del diritto privato, bensì quello della storia mondiate al lume della quale vengono vagliate le forze contrastanti degli Stato o delle classi». ***
Autore: Sergio Conti 13 giugno 2023
Rispetto al significato generalmente attribuito al termine díke, nettamente diverso è quello che nel mondo greco viene assegnato ai termini usati per indicare il diritto, o la legge, che del diritto rappresenta al tempo stesso il fondamento e l’espressione più compiuta. Secondo Eraclito, dunque, il nómos, la «legge», è espressione di una misura, di una razionalità divina. Solo in quanto è «riflesso» di quella divina, la legga umana può vantare una sua legittimità. Al di fuori di questo fondamento, ove il nómos venga concepito come formulazione autonoma, esso perde ogni validità. Segnalo l'articolo, di Daniele Onori, “il concetto di legge e giustizia nei frammenti di Eraclito”, pubblicato sul sito del Centro studi Livatino il 27 maggio 2023 (rinvenibile all'indirizzo https://www.centrostudilivatino.it/il-concetto-di-legge-e-giustizia-nei-frammenti-di-eraclito/ ), che esamina il rapporto fra giustizia e legge. Partendo dal poco che c'è rimasto degli scritti di Eraclito (i frammenti, appunto) l'Autore pone in luce quale possa essere il significato della giustizia nel pensiero di questo importante filosofo che rifiuta le opinioni condivise cercando oltre l'apparenza e il fenomeno. Al fine di stimolare l'interesse riporto, come di consueto, alcuni stralci dell'articolo. ... Secondo Eraclito il nómos, la «legge», è espressione di una misura, di una razionalità divina. Solo in quanto è «riflesso» di quella divina, la legga umana può vantare una sua legittimità. Al di fuori di questo fondamento, ove il nómos venga concepito come formulazione autonoma, esso perde ogni validità. … Vengono pertanto distinti e delineati due piani della giustizia: se su di un piano fisico, di carattere squisitamente giuridico, ciò che è giusto esiste in quanto contrapposto a ciò che è ingiusto, su di un piano metafisico, ossia a livello universale, tutto è giusto in quanto esiste e si trasforma necessariamente. Il termine δίκη si ritrova in altri tre frammenti di Eraclito (fr. 28b Diels-Kranz). Δίκη καταλήψεται ψευδῶν τέκτονας καὶ μάρτυρας (“la Giustizia condannerà artefici e testimoni di menzogne”). Δίκης ὄνομα οὐκ ἂν ἤιδεσαν, εἰ ταῦτα μὴ ἦν (fr. 23 Diels-Kranz) (“non conoscerebbero il nome della Giustizia, se queste cose non esistessero”). Ἥλιος γὰρ οὐχ ὑπερβήσεται μέτρα· εἰ δὲ μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι ἐξευρήσουσιν (fr. 94 Diels-Kranz) (“il sole non oltrepasserà le misure: in caso contrario, le Erinni ministre della Giustizia lo scoveranno”). Anche qui dunque l’intervento di díke, attraverso le sue «ministre», si concretizza nella restaurazione di un ordine che coincide con il rispetto delle misure. A questa regola inflessibile non sono assoggettati soltanto gli uomini, ma tutto ciò che è parte del kósmos. È compito delle implacabili Erinni vigilare affinché nessuno violi i principi sui quali è costruito l’ordinamento dell’universo La legge era per Eraclito la più alta espressione del dominio della ragione sulla vita umana. … L'Autore conclude l'articolo rilevando: “ Liberato dalla pretesa di un perfetto «rispecchiamento» di díke, affrancato dalla mitologica illusione di «fare giustizia», il diritto svolge un ruolo insopprimibile, senza il quale le basi stesse della convivenza civile potrebbero dissolversi. Fin nella sua stessa radice etimologica, il termine «diritto», in tutte le lingue che derivano dalla matrice indoeuropea, è associato al riferimento a una linea retta: in italiano diritto, in inglese right, in tedesco Recht, in francese droit. Fondamentale nell’idea stessa di diritto è dunque la linearità, e la precisione – la stessa linearità e precisione che si ritrovano in tutto ciò che è dritto, che procede secondo una linea retta..." [6]... [6] U. Curi, Il colore dell’inferno, la pena tra vendetta e giustizia p. 60, Bollati Boringhieri 2019
Autore: Sergio Conti 9 maggio 2023
Il rapporto tra il diritto e la morale è (o forse era) il tema per eccellenza della filosofia del diritto. Una volta Oliver Wendell Holmes, mentre andava in carrozza alla Corte Suprema [...], dette un passaggio al giovane Learned Hand. Questi scese alla propria destinazione e, salutando la carrozza che ripartiva, urlò allegramente: «Fa’ giustizia, giudice!». Holmes fermò la vettura, fece invertire la marcia al conducente e tornò indietro verso il sorpreso Hand. Si sporse dal finestrino e disse: «Non è quello il mio lavoro!». Ronald Dworkin, Justice in Robes (Harvard UP, 2006) L'inquietante citazione di Dworkin sovra riportata è stata posta dal prof. Mauro Barberis, docente dell'Università di Trieste, in esergo al suo saggio intitolato: “ Diritto e morale: la discussione odierna ”, pubblicato nel 2011. Dato che si tratta di uno scritto corposo, mi limito a riportare l'abstract che lo precede: Nell'articolo vengono comparate e discusse quattro filosofie del diritto: il giusnaturalismo, il positivismo giuridico, il realismo giuridico e il neo-costituzionalismo. Ciascuna di esse è definita in base alle sue risposte a tre interrogativi: il primo concerne l'oggettività o la soggettività dei giudizi di valore etici (morali, politici, giuridici), il secondo si riferisce all'interpretazione giuridica, mentre il quesito principale ha per oggetto la relazione tra diritto e morale. Il Giusnaturalismo è in tal modo caratterizzato da (i) oggettivismo etico (ii) formalismo interpretativo e (iii) dall'idea che diritto e morale siano necessariamente connessi. Il Positivismo sostiene invece (i) il soggettivismo etico (ii) la teoria mista dell'interpretazione giuridica e (iii) la tesi della separazione. Il Realismo giuridico (che costituisce, in una certa misura, una semplice radicalizzazione della prospettiva positivistica) è definito da (i) soggettivismo etico, (ii) scetticismo interpretativo, e (iii) la tesi della separazione. L'articolo completo è rinvenibile online a vari indirizzi, fra i quali: Diritto e morale: la discussione odierna (openedition.org) https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2427419
Autore: Sergio Conti 19 aprile 2023
Secondo la definizione che ne dà l'”enciclopedia Treccani online” (https://www.treccani.it/enciclopedia/giusrealismo/ ), il giusrealismo è una “Corrente di pensiero che riunisce varie concezioni del diritto (giurisprudenza degli interessi, giurisprudenza sociologica, giusliberismo, teoria del rapporto giuridico, istituzionalismo, realismo giuridico americano e scandinavo), accomunate dal fatto di attribuire rilevanza all’effettiva operatività del diritto nella società e alla sua concreta applicazione da parte dei giudici nei tribunali. Tali teorie si contrappongono al formalismo giuridico e al legalismo giuspositivista, nonché al cognitivismo etico del giusnaturalismo, inteso come possibilità di fondazione oggettiva dei valori e, in particolare, della giustizia”. Segnalo lo scritto del prof. Riccardo Guastini “Il realismo giuridico ridefinito" pubblicato nel 2013 sulla rivista Revus ( rinvenibile all'indirizzo: https://journals.openedition.org/revus/2400 ). L'articolo così esordisce: “ Si può caratterizzare il realismo giuridico – o almeno una forma di realismo giuridico – come la congiunzione di tre tesi fra loro strettamente connesse: una tesi ontologica, una tesi metodologica, e una tesi epistemologica (le chiamo così in mancanza di meglio, anche se il nome non sempre è appropriato). (...) La tesi ontologica verte sul diritto: risponde alla domanda “Che tipo di entità è il diritto?”. La tesi metodologica ha ad oggetto l’interpretazione: risponde alla domanda “Che tipo di attività è l’attività interpretativa?”. A queste tre tesi se ne può forse aggiungere una quarta, accessoria: una tesi semantica (...) La tesi epistemologica, infine, ha ad oggetto la conoscenza (la “scienza”) del diritto: risponde alla domanda “In che consiste la conoscenza scientifica del diritto?”. Parrebbe naturale cominciare con la tesi ontologica, ma vi sono buone ragioni (appariranno chiare in seguito) per posporla, e cominciare invece con quella metodologica, giacché la tesi realista in materia di interpretazione condiziona tutte le rimanenti. ” Lo scritto analizza attentamente ciò che caratterizza il realismo giuridico , pervenendo a una originale ridefinizione di tale corrente filosofica. Nel rinviare di necessità alla lettura integrale dell'articolo, ne evidenzio qui di seguito alcuni passaggi, per espongono punti nevralgici della tesi propugnata dal prof. Guastini e che sono evidentemente capaci di suscitare profonde riflessioni (favorevoli o contrarie naturalmente, a seconda del tipo di impostazione seguita al riguardo dal lettore) sul senso e il significato del diritto. ...Il realismo metodologico è, molto semplicemente, una teoria scettica dell’interpretazione: l’interpretazione – ossia l’attribuzione di significato ai testi normativi – è attività non cognitiva, ma “decisoria”. Per dirla con Kelsen: è atto di volontà, non di conoscenza... ...ogni testo normativo ammette interpretazioni – in astratto e/o in concreto – sincronicamente confliggenti e/o diacronicamente mutevoli. Ne segue che molte (forse non tutte, ma molte) controversie e, più in generale, molte (forse non tutte, ma molte) “questioni di diritto”, ammettono soluzioni diverse in competizione... ...Accanto all’interpretazione propriamente detta, e con questa inestricabilmente connessa, gli operatori giuridici fanno opera di “costruzione giuridica”. Con questa espressione mi riferisco ad un insieme, peraltro indeterminato, di operazioni intellettuali, tra le quali spiccano le seguenti: la creazione di lacune normative e, ancor più, assiologiche; la creazione di gerarchie assiologiche tra norme; la concretizzazione di principi; il bilanciamento tra principi confliggenti; la creazione e (talvolta) la soluzione di antinomie; e sopra ogni altra la elaborazione di norme inespresse, che si pretendono implicite nell’ordinamento (sebbene normalmente non siano affatto implicate in senso stretto, ossia in senso logico, da altre norme)... … La creazione di una lacuna assiologica prelude alla costruzione di una norma inespressa atta a colmarla. La concretizzazione di principi consiste in una peculiare forma di elaborazione di norme inespresse... ...È propria del realismo una ontologia empiristica del diritto: il diritto è non già un insieme di entità astratte (quali norme, valori, obblighi, diritti, o alcunché del genere), bensì un insieme di fatti, di fatti sociali di un certo tipo... ...Diremo dunque che il diritto è non propriamente l’insieme dei testi normativi, ma piuttosto l’insieme dei significati – ossia delle norme – che si ricavano dai testi normativi, per via di interpretazione, nonché – come ormai sappiamo – per via di costruzione giuridica. In questo senso, i testi normativi non sono propriamente “diritto”: sono più modestamente “fonti del diritto”... ...È importante insistere che normalmente l’orientamento dominante è il prodotto non (solo) della giurisprudenza (in senso ampio) – come pensano taluni realisti ingenui – ma (anche e forse soprattutto) della dottrina. I giuristi sempre contribuiscono alla creazione del diritto vigente (il “diritto” in questo terzo senso della parola). È altresì importante insistere – dal momento che non è per nulla ovvio – che una gran parte del diritto vigente è costituita da norme formulate extra ordinem non già dalle autorità normative, ma dai giudici e (forse: soprattutto) dai giuristi teorici. Norme, qualcuno potrebbe dire, “formalmente invalide”, dal momento che i giuristi e (in molti ordinamenti giuridici) i giudici non sono affatto autorizzati a creare norme. Norme invalide dunque, ma, malgrado ciò, norme di fatto vigenti: applicate in passato e prevedibilmente applicabili in futuro...
Autore: di Sergio Conti 15 marzo 2023
("Botte da orbi" tra costituzionalisti)... Seguitando sul tema della interpretazione costituzionale - iniziata con la precedente "spigolatura" (l'invenzione del diritto nella teoria di Paolo Grossi) -, si richiama l'attenzione dei lettori sull'interessante ed acceso dibattito fra i costituzionalisti prof. Alessandro Pace e prof. Franco Modugno, svoltosi nel 2005 all'Università La sapienza di Roma nel 2005, ma ancora del tutto attuale. Le antitetiche posizioni dei due costituzionalisti sono rispettivamente esposte dagli autori (con dovizia di precisazioni e polemiche) negli scritti intitolati: “Interpretazione costituzionale e interpretazione per valori” di Franco Modugno, che è stato pubblicato sulla rivista Costituzionalismo fasc. n. 3 del 2005 (rinvenibile all'indirizzo https://www.costituzionalismo.it/wp-content/uploads/Costituzionalismo_186.pdf) e “Interpretazione costituzionale e interpretazione per valori” di Alessandro Pace, che è stato pubblicato sul fascicolo 2 del 2006 della medesima rivista (rinvenibile all'indirizzo https://www.costituzionalismo.it/wpcontent/uploads/interpretazionevalori-2.pdf). Si contrappongono due visioni alternative. Non è certo qui possibile neppure riassumere le tesi esposte. Parrebbe però che tutte le argomentazioni svolte dai due illustri studiosi discendono conseguentemente dal dissenso circa l'individuazione del baricentro del nostro sistema costituzionale, se esso risieda nel Parlamento (tesi di Pace) ovvero nella Corte costituzionale (tesi di Modugno). Il principio democratico vorrebbe, secondo l'uomo della strada, che fosse il Parlamento eletto dal Popolo sovrano... ma intanto il prof. Modugno siede oggi alla Corte, e il prof. Pace no.
Autore: Sergio Conti 23 febbraio 2023
L'illustre storico del diritto fiorentino Paolo Grossi, scomparso nel 2022, dopo essere stato anche presidente della Corte costituzionale, ha elaborato la teoria della “invenzione del diritto” (dal latino invenire”) secondo la quale il diritto non dovrebbe essere un comando calato dall'altro, bensì una realtà che nasce dal basso, nella società, e che il ceto dei giuristi ha il compito di ricercare e trovare. ...e il diritto si propone come oggetto di ‘invenzione’ durante tutto il lungo periodo formativo dell’antico diritto romano, durante l’intiera esperienza giuridica medievale, e ieri ed oggi nella visione del common law. Cioè in ordinamenti alieni dal concepire il ‘giuridico’ intrinsecamente vincolato al potere politico ed espressione di questo, alieni da una visione autoritaria (perché meramente potestativa) che lo collega a un comando piombante dall’alto sulla società chiamata unicamente all’obbedienza. In ordinamenti così contrassegnati è, invece, chiaro il nesso genetico fra società e diritto, la sua intima storicità e, quindi, il suo carattere di tessuto ordinante di quella, realizzàndosi in una articolazione pluralistica che coglie, come protagonisti, accanto al legislatore, i giuristi, coloro che sanno di diritto, che sono esperti di un sapere specifico e anche tecnicissimo, soprattutto gli uomini di dottrina nel vecchio diritto romano e nello ius commune medievale, soprattutto i giudici nella esperienza del common law. Tutti, ovviamente, impegnati in una attività di invenzione. Questa originale teoria, elaborata in diversi interventi, è compiutamente esposta dal prof. Grossi nel libro “L'invenzione del diritto” Roma/Bari 2017 che organicamente li riunisce. Un riassunto della tesi è rinvenibile nella relazione tenuta alla scuola della magistratura a Scandicci nel 2016 - rinvenibile sul sito della corte costituzionale (all'indirizzo web https://www.cortecostituzionale.it/documenti/interventi_presidente/grossi_scandicci.pdf ) - che qui si segnala intitolata: “La invenzione del diritto: a proposito della funzione dei giudici”. L'intervento è focalizzato soprattutto a lumeggiare il radicale mutamento che sarebbe insito nella approvazione della Carta costituzionale e nella funzione centrale da essa assegnata al ruolo della Corte costituzionale. Si riportano due brani indicativi della originalità e radicalità della tesi: ... incide in modo rilevante e imprime una caratterizzazione forte il nuovo costituzionalismo democratico inaugurato a Weimar nel 1919 e di cui è espressione fedele la ‘carta’ italiana del 1948. Limitàndoci, per quel che serve alla presente lezione, alle vicende di casa nostra, occorre ribadire con decisione che, per la intiera storia del diritto in Italia, la Costituzione repubblicana segna un prima e un poi, scavando un fossato di profonda discontinuità. Vale, infatti, la pena di ribadire, soprattutto agli attuali cantori e laudatori del vecchio ‘Stato di diritto’ prefascista, che il nuovo Stato costituzionale inaugurato nel rinnovamento democratico del secondo dopoguerra si propone discontinuo rispetto all’ assetto politico-sociale precedente, costruendo su fondazioni nuove una essenzialmente diversa struttura politica e un essenzialmente diverso ordinamento giuridico. Il guaio è che la stragrande maggioranza di quei personaggi culturalmente pigri che sono nel pianeta di civil law i giuristi non si è accorta, o non si è voluta accorgere, del germinare di eventi nuovi, ha persistito a cogliere la linea tra passato e presente quasi fosse un continuum, paga soltanto di riallacciare l’oggi al passato prefascista; e la Costituzione assume, di fronte a quegli occhi, quasi la forma di una nuvola galleggiante ben alta, assai distante, sulla esperienza quotidiana. ... E’ una sorta di scrigno prezioso fatto anche di principii inespressi, che hanno solo bisogno di un interprete che li tragga dallo strato latente, trasformàndoli in strumenti corroborativi della vita delle persone nelle vicende della loro esistenza quotidiana. Nella Repubblica, fortunatamente per il cittadino italiano, questo interprete c’è, ed è la Corte Costituzionale prevista nella sua funzione di supremo organo di garanzia. La lettura del saggio è sicuramente stimolante (perché consente di riflettere sulla fondatezza dei presupposti su cui si basa e sulla condivisibilità delle conclusioni a cui perviene) ed utile perché fornisce strumenti di comprensione del modus operandi della Corte sotto la presidenza del prof. Grossi (ma anche prima e dopo). Pur nell'apprezzamento della giurisprudenza classica romana e del diritto medievale e di antico regime, ci si permette però di segnalare la dubbiezza della possibilità dell' applicabilità di tali principi in una società – che è del tutto differente sotto ogni punto di vista, rispetto a quelle che erano caratterizzate dalla stabilità (se non dalla immobilità) - e, per di più qualificata dalla peculiare assenza di valori assoluti, essendo la nostra (ci piaccia o no) la società del relativismo e dell'individualismo soggettivista. Inoltre il baricentro della società liberale (quale ideologicamente fondata e storicamente data) risiede nel Parlamento non nella Corte costituzionale. Per una paradossale eterogenesi dei fini, si costruisce e teorizza la funambolica trasformazione della Corte costituzionale in ricercatrice di valori e norme nella società, trasformandone radicalmente la natura che, nella costruzione kelseniana , è quella di guardiana della grundnorm . In altri termini, pare di assistere a trasformazioni alchemiche, dato che da una costituzione rigida si estrae il passaggio ad un sistema simile a quello di common law .
Autore: Sergio Conti 11 febbraio 2023
Negli anni 1940/43, durante il secondo conflitto mondiale, il giovane Aldo Moro tenne, alla Facoltà di Giurisprudenza di Bari, il corso di Filosofia del diritto. E' di grande interesse il saggio che propongo alla lettura - intitolato “Tra l’amore e il dolore: sulla filosofia giuridica e politica di Aldo Moro (I - Il periodo formativo) - di Mario Sirimarco, ricercatore presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Teramo, pubblicato il 15 settembre 2022 nel fascicolo 3/2022 della rivista telematica Dirittifondamentali.it e reperibile all'indirizzo http://dirittifondamentali.it/2022/09/15/tra-lamore-e-il-dolore-sulla-filosofia-giuridica-e-politica-di-aldo-moro-i-il-periodo-formativo/ ). Lo studio così si chiude, riportando una pagina delle lezioni giovanili di Aldo Moro: In una delle pagine più belle ed intense delle lezioni baresi il giovane Moro, con un pathos che ritroveremo solo nelle lettere dalla prigione delle Brigate Rosse, scrive: “l’evoluzione storica di cui noi saremo stati determinatori, non soddisferà le nostre ideali esigenze; la splendida promessa, che sembra contenuta nell’intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà mantenuta. Ciò vuol dire che gli uomini dovranno pur sempre restare di fronte al diritto e allo Stato in una posizione di più o meno acuto pessimismo. E il loro dolore non sarà mai pienamente confortato. Ma questa insoddisfazione, ma questo dolore sono la stessa insoddisfazione dell’uomo di fronte alla vita, troppo spesso più angusta e meschina di quanto la sua ideale bellezza sembrerebbe fare legittimamente sperare. Il dolore dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la cui vita è tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno. È un dolore che non si placa, se non un poco, quando sia confessato ad anime che sappiano capire o cantato nell’arte o quando la forza di una fede o la bellezza della natura dissolvano quell’ansia e ridonino la pace. Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è pur sempre un grande destino”48 ^^^ 48 A. MORO, Lo Stato, cit., pp. 7-8 Lo scritto è di rilievo sia sotto il profilo filosofico/politico sia sotto quello storico, dato che disamina anche il complesso rapporto fra intellettuali cattolici e fascismo. Riporto anche l'incipit del saggio: L’interesse e l’approccio filosofico allo studio del diritto sono costantemente presenti nelle opere giuridiche di Aldo Moro e, successivamente e fino alla sua tragica vicenda, nei suoi seguitissimi corsi universitari. Come ha ricordato il suo allievo prediletto Franco Tritto 1, i suoi corsi di Istituzioni di diritto e procedura penale prevedevano sempre una prima parte di teoria generale del diritto sui problemi del diritto e dello Stato che riprendeva molte delle riflessioni presenti fin dalle sue prime lezioni baresi di Filosofia del diritto che, anche per questo, assumono un ruolo centrale nella ricostruzione del pensiero giuridico e politico dello statista pugliese 2 ^^^ 1 M. SIRIMARCO, Il diritto penale dal volto umano. Ricordando Francesco Tritto allievo di Aldo Moro, in M. SIRIMARCO (a cura di), Itinerari di cultura giuridica e politica. Omaggio a Francesco Tritto, Aracne, Roma, 2006. 2 A. MORO, Lo Stato. Corso di lezioni di Filosofia del diritto tenute presso l’Università di Bari nell’a.a. 1942-43, Cedam, Padova, 1943. Queste lezioni riprendono e sviluppano quelle svolte durante il primo corso tenuto nell’anno accademico 1940-41 (consultabili ma in una redazione curata presumibilmente da studenti presso l’Archivio Flamigni).
Autore: Sergio Conti 29 gennaio 2023
Si propone la lettura del “ritratto” del filosofo e storico del diritto francese Michel Villey, contenuto nell'articolo di Antonio Casciano che è pubblicato sul sito del Centro studi Livatino (reperibile all'indirizzo https://www.centrostudilivatino.it/30-michel-villey-per-un-ritorno-al-reale-contro-lastrattismo-ideologico-dei-diritti-umani/ ). La decisa opposizione al riduzionismo, onto-teleologico, prima ancora che teoretico, operato dal positivismo giuridico, inidoneo a cogliere l’esistenza delle cause finali; il disconoscimento del primato della prassi, a discapito dell’orizzonte speculativo del pensiero teoretico; il richiamo alla conflittualità del reale, in vista dell’esatta definizione del ruolo del giurista pratico, la cui mediazione culturale attua la natura “politica” del diritto; la fiera avversione ai portati estremi del soggettivismo giuridico odierno; la critica alla montante retorica del pan-dirittismo sotteso della moderne dichiarazioni di “diritti umani”, collocano il Villey nell’orizzonte dei pensatori rimasti fedeli al realismo analitico-metafisico di matrice aristotelico-tomista, in antitesi al volontarismo di matrice agostiniana, per arginare lo sfaldamento in atto del pensiero giuridico classico. Si riportano due stralci dell'articolo: (...) 2. L’orizzonte teoretico entro cui si svolse la sua riflessione – volta alla riscoperta dei fondamenti, delle categorie e dei fini del diritto – postulava tre distinti assunti epistemologici, rappresentati, rispettivamente, dall’opera di osservazione e conoscenza di Aristotele, dalla giurisprudenza romana d’età repubblicana e dal realismo metafisico-analitico di Tommaso d’Aquino. Né il platonismo, né lo stoicismo assursero mai, agli occhi di Villey, a modelli epistemologici utili a fondare il sapere giuridico nella peculiare forma proposta dai giuristi romani, i quali, ne fossero o meno consapevoli, erano per il Nostro autentici aristotelici ante litteram: la funzione che per essi la iurisprudentia era chiamata ad assolvere era infatti in tutto e per tutto assimilabile a quella che Aristotele avrebbe attribuito alla giustizia, quella cioè di addivenire alla retta determinazione del giusto, naturalmente esistente nell’ordine stesso delle cose, attraverso l’attribuzione dei beni controversi tra i consociati. Ecco allora che proprio nell’Etica a Nicomaco (libro V), così come nell’insegnamento giurisprudenziale romano tardo-repubblicano (rappresentato dallo ius civile casistico) e in alcuni passi della Summa dell’Aquinate (il Trattato sulle Leggi ed il Trattato sulla Giustizia nella Secunda Secundae), Villey individuerà i presupposti teorici necessari a conseguire un’esatta definizione di che cosa sia veramente giusto. Una definizione, questa, mai determinabile in astratto, ma rintracciabile a partire da un’attenta interrogazione del caso concreto, essendo la ragione giuridica non una ragione formale, ma pur dialettica, che muove dal constatare le antitesi e le contraddizioni presenti nella realtà, in vista, appunto, della determinazione, ad opera del giudice, del giusto per il caso specificamente vagliato. 3. In vista di ciò, tuttavia, le regole giuridiche rivestiranno un ruolo puramente accessorio, dovendo l’operatività della norma scritta essere pur sempre pensata in relazione al caso concreto. Realizzare il contrario, infatti, partire cioè da una formula giuridica astratta per giungere ad incasellare induttivamente la varietà del reale, non permetterebbe di pervenire al giusto, al diritto naturale oggettivamente inteso. Fondamentale, in tal senso, è allora la preliminare, attenta, giusta osservazione delle cose da parte dell’operatore pratico del diritto. La legge, infatti, è sempre interpretata, sempre discussa: “Se è vero che apparentemente il giudice d’oggi emette la sua sentenza sotto forma di sillogismo, di fatto il suo lavoro consiste, per la maggior parte, nella ricerca delle premesse di questo apparente sillogismo, nella scelta dei testi che serviranno a fondare la sua decisione e nella ricerca del senso da dare a questi testi, ciò che si chiama interpretazione”. Eppure, l’operazione ermeneutica compiuta dall’operatore pratico del diritto, dato il carattere comunque limitato della conoscenza umana, sarà sempre incompleta, contingente, parziale: il giurista estrapolerà dalla natura delle cose alcuni elementi particolarmente evocativi, denotativi, significativi, senza tuttavia mai conoscere a fondo tutto ciò che costituisce l’ordine finalistico, che rimarrà per la sua gran parte ignoto. E lo farà attraverso l’ausilio della ragione. … 7. Tra spirito classico e spirito romantico (o, se si preferisce, tra giusnaturalismo classico e volontarismo giuridico moderno), non esiste possibilità alcuna di mediazione. Anzi, proprio presagendo l’insuperabilità di tale antinomia, esacerbata dal solipsismo epistemologico di matrice cartesiana, consacrato dalla modernità, il Nostro sarà portato, in un testo poco noto, Le droit et les droits de l’homme (1983), a ribadire la sua convinzione di fondo circa la fragilità del fondamento volontaristico del pan-dirittismo multiculturalista odierno. La retorica montante delle “magnifiche sorti e progressive” dei diritti umani rinvierebbe, ad avviso del Nostro, a mere dichiarazioni di principio e non a veri diritti. Nella prospettiva villeyana, infatti, i diritti umani e il loro linguaggio, si costituirebbero, non solo strumentalmente, come la punta di diamante, il portato ultimo dell’elaborazione dottrinale del diritto soggettivo, la frontiera teorica più avanzata del soggettivismo giuridico moderno, radicalizzandosi in istanze di potere, facoltà e libertà che “naturalmente” scaturenti dall’individuo stesso, giungono a farsi sistema ed ideologia: “Purtroppo siamo a questo punto: tutti – i sindacati, le donne, i disabili – hanno preso l’abitudine di calcolare i loro diritti in base all’unica considerazione narcisistica di se stessi e di sé soltanto. Per questa via, a partire dal soggetto Uomo e senza riguardo per la natura politica e sociale “degli” uomini, nacquero i diritti dell’Uomo, infiniti: “felicità”, “salute”, diritto di possedere una cosa totalmente, a proprio esclusivo beneficio, libertà perfette. Ecco il punto di vista del soggetto! Ma sono false promesse, impossibili da mantenere, irreali, ideologiche”. 8. Se guardiamo, infatti, alla loro genesi storica, questi diritti, pur essendo un prodotto della tarda modernità, avrebbero ricevuto, a detta di Villey, un impulso determinante proprio ad opera della teologia cristiana, a dire che le ragioni profonde del trionfo del volontarismo giuridico, in voga nell’odierna società della giuridicizzazione dei desideri, non sarebbero teoretiche, bensì storiche. E oltre alla significativa dote apportata sul punto dalla riflessione teologico-cristiana, vi è stata un’eredità ben più pesante, risalente al XVII secolo, che ha contributo più direttamente alla nascita di questa tipologia di diritti: la dottrina giusrazionalistica di John Locke. Questo primo e piccolo nucleo di proto-diritti naturali, per lo più afferenti alla sfera della proprietà delle cose individuali e di quelle prodotte per mezzo del proprio lavoro, assurse ben presto a base teorica generale per la stesura, a distanza di circa un secolo, della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino. Sarebbe stato proprio il carattere mistificatorio, astratto, idealistico dei diritti inalienabili, formulato degli intellettuali rivoluzionari, a fungere da base teorica per le proclamazioni universali successive avutesi a livello planetario, tutte univocamente informate tanto ad un’idea falsata della giustizia e della sovranità popolare, quanto alla concezione dei diritti dell’uomo come frutto del paradigma progressivo ed evolutivo dell’umanità.
Autore: Sergio Conti 16 gennaio 2023
Segnalo dalla rivista telematica “Politica.eu” il saggio “Immanenza e trascendenza nella teoria della legalità” del prof. Salvatore Amato - ordinario di Filosofia del diritto Università di Catania - reperibile on line all'indirizzo http://www.rivistapolitica.eu/immanenza-trascendenza/ . Il saggio riproduce con ampie revisioni il IV Capitolo di S. Amato, 2002, Coazione, coesistenza, compassione. Giappichelli, Torino. Questo l'inizio del saggio: Lo sviluppo del diritto, ci fa notare Perelman, presuppone la conciliazione dell’inconciliabile, la sintesi degli opposti. « Questo sforzo per risolvere delle incompatibilità è in uso a tutti i livelli dell’attività giuridica ». Il legislatore, il giudice e il singolo interprete si trovano, ciascuno a suo modo, a produrre incoerenze, dando però per scontata la coerenza del tutto. A questa capacità del sistema giuridico di restare (o di apparire?) coerente nell’incoerenza noi diamo il nome di legalità . La legalità è il valore (la normalità) che sta dietro una struttura variabile (i rapporti tra regole). È un principio: l’esistenza di un ordine, l’esistenza di un senso nel confuso insieme di leggi, sentenze, comportamenti. È un fatto: l’esistenza di un rapporto tra norma e norma, tra norma e comportamento. Potremmo parlare di una sorta di «effetto specchio» tanto necessario quanto apparentemente impossibile. Ogni atto giuridico dovrebbe essere il riflesso di un atto precedente dal quale deriva e al quale rimanda. Tuttavia, questi legami di conformità, che la legalità dovrebbe garantire, sono osservabili empiricamente (la costituzione rimanda alla legge, la legge alla sentenza… e così via), ma appaiono difficilmente giustificabili teoreticamente. La regola precede la regola cronologicamente, nel senso che ogni regola presuppone l’esistenza di un’altra regola e poi di un’altra e così all’infinito, ma c’è qualcosa che giustifichi questo continuo rincorrersi? Oltre la cronologia, c’è l’ontologia? C’è un’essenza a cui questo rimando reciproco conduce? Queste domande diventano ancora più cruciali alla luce del diritto moderno che, in quanto diritto posto, assume la mutabilità e variabilità a modello della propria dimensione strutturale. Come osserva Luhmann, « il diritto vale positivamente solo quando la decidibilità e quindi la mutabilità diventa permanente attualità e può essere sopportata come tale ». Se tutto è difforme, se tutto cambia non esiste la legalità, non esiste alcuna plausibile connessione tra le norme. La natura, Dio, la ragione… costituivano, nei modelli giusnaturalistici, una valvola di sfogo con cui rendere tollerabile la mutabilità del diritto attraverso la convinzione di una immutabilità delle premesse.
Autore: Sergio Conti 31 dicembre 2022
Continuando sul tema “nichilismo giuridico”, segnalo lo scritto – del 2015, ma che mi pare di permanente attualità- di P. Proto intitolato “Il nichilismo giuridico e sue implicazioni nel diritto processuale civile. Schizzi di ragionamenti“ pubblicato sulla rivista Judicium (rinvenibile all'indirizzo: https://www.judicium.it/wp-content/uploads/saggi/612/P.%20Proto.pdf ) che disamina, in modo particolare, i risvolti di tipo processuale del nichilismo giuridico. Come di consueto, al fine di attrarre l'attenzione e stimolare così alla lettura integrale del testo, estrapolo due passaggi del saggio: uno filosofico e l'altro processuale. L’incipit è dato dalla perdita di centralità dell’uomo moderno e dell’Occidente europeo in particolare, consapevole della inesistenza di valori cosmologici, certi ed immutabili, provenienti e posti da un ente che sta al di sopra e al di fuori di lui. Il processo di svalutazione dei valori non ha risparmiato il diritto, fenomeno umano per eccellenza. La perdita di senso e del sé collide o compromette non poco la proposta concezione del diritto come fenomeno umano e sociale che preesiste alla legge che a sua volta lo presuppone. Un diritto incentrato sull’uomo e sui valori della persona viene negato e annullato proprio da quella perdita del sé nella sua unitarietà. Alla prassi sociale ed al linguaggio, fenomeni evidenzianti dei valori giuridici si contrappongono i sistemi funzionali dei mercati e delle tecnoscienze e la condizione umana dell’essere ridotta a quella di un individuo privo di capacità relazionale e comunicativa. Di conseguenza i processi di interazione e di interrelazione tra individui e tra questi ed i gruppi e tra i gruppi stessi che animano la prassi sociale ed il linguaggio perdono significato perché l’essere destrutturato è atomizzato in una serie di io privo di volontà ed assoggettato alla volontà di potenza sistemica dei mercati finanziari. … Lo scopo e la funzione del diritto si rivela massimamente nel processo. L’interpretazione giudiziaria coglie il valore giuridico nel momento ultimo della realizzazione. Essa è chiamata ad adattare l’effetto giuridico astrattamente previsto dalla norma alla situazione fattuale oggetto concreto della controversia. La sentenza è l’atto determinativo finale del procedimento. Essa è la norma. La domanda è: il tipo o la natura di sentenza che si vuole e quindi il tipo di giustizia che in essa deve riflettersi e che da essa si pretende. La risposta implica la disamina di alcune fasi processuali perché è funzionale ad accertare il “come” ovvero il “quomodo” con cui si arriva alla sentenza e che a sua volta incide in modo determinante sul risultato della sentenza medesima, ovvero, il suo “perché”. Secondo il modello giusformalistico Kelseniano la sentenza come la legge è un contenitore e il dispositivo o la statuizione un fenomeno secondario. Viene dato rilievo alla correttezza del procedimento dal quale origina la sentenza e dal quale essa trae la sua validità. Ma se il contenuto della sentenza diviene, anzi scade a fenomeno secondario, le qualificazioni di “giusto” e “non giusto”, “ragione o torto” – da sempre oggetto della statuizione giudiziale e scopo ultimo e determinante del processo – diventano anch’essi secondari, svuotati e sostituiti dal “legale” e “non legale”. Di qui l’indifferenza del nichilismo giuridico sul senso della giustizia perché interessa il “come”, elemento misuratore di ottimizzazione delle funzioni e non il “perché” che evoca i concetti polari di “giusto/ingiusto”, “uguale/disuguale”. I poli del “giusto” e “non-giusto” rinviano al sè-stesso nell’interezza della sua personalità ed imputabilità giuridica, quindi ad un io non ridotto ad oggetto di spiegazione scientifico-sperimentale che lo considera e lo segmenta in una serie frammentaria e frammentata di io, in relazione corrispondente alle diverse funzioni bio-macchinali dei vari sistemi sociali, dove si consuma l’io del mercato, l’io del tempo libero, l’io dei media, e così via.
Autore: Sergio Conti 16 dicembre 2022
Facendo seguito al precedente numero di “Spigolature”, nel quale si segnalavano le tesi di Natalino Irti sul fenomeno del “nichilismo giuridico”, si continua sul tema, proponendo la lettura di un articolo del filosofo Vittorio Possenti: “Nichilismo giuridico? Una sfida al diritto”. Il testo – che è stato pubblicato sulla “Rivista telematica Politica.eu 2018” ed è reperibile all'indirizzo http://www.rivistapolitica.eu/nichilismo-giuridico-una-sfida-al-diritto/ ) - riassume i termini del fenomeno, rilevandone le criticità, concludendo con un giudizio negativo sulla sua capacità di assicurare la “giustizia” (critiche che erano state più diffusamente svolte nel volume Nichilismo giuridico. L’ultima parola? Soveria Mannelli 2012). “ Nel nichilismo giuridico assistiamo all’eclissi del Diritto ed alla egemonia della Legge e del potere legislativo. La legge, diventando l’espressione della volontà dello Stato, può lasciare fuori la voce del Diritto. Ogni monismo è un assolutismo: la storia concreta del diritto è una storia di dualismi, il monismo conduce alla sopraffazione ”... ...“ Nel nichilismo giuridico il diritto diventa dunque legalità positiva. Tale svolta implica l’esclusione di ogni ordinamento reale preesistente alla decisione normativa e che questa dovrebbe rispettare, non instaurandolo ma restaurandolo. Alla consegna del diritto alla volontà che non riconosce criteri esterni a se stessa, consegue che il diritto nichilista esprime il linguaggio della volontà con la sua illimitatezza aperta ad ogni possibilità e ad ogni scelta che si manifestano poi nell’incessante produzione giuridica, le cui regole esistono solo perché gli uomini vogliono che esistano. Poiché la volontà degli umani vuole e disvuole, desidera e allontana, ama e odia, niente è stabile, tutto è revocabile e mutabile. Ciò che è stato posto può con pari ragione essere tolto: e là dove non vi è alcun senso autentico, vi possono essere infiniti sensi. Il senso fattualmente scelto non sarà vero e buono, ma soltanto scelto, ossia voluto ed eventualmente imposto con la violenza. Tolto il riferimento essenziale all’atto di ordinamento della ragione ed alla giustizia, il diritto difficilmente si difende dal confondersi con la violenza. Alte risuonano in proposito le celebri parole di Agostino: Remota justitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia? (De civitate Dei, l. IV, c. 4 )".
Autore: Sergio Conti 11 dicembre 2022
Dedicherò una serie di segnalazioni al tema del “nichilismo giuridico”. A mo' di introduzione non può che partirsi da Natalino Irti, che ha dedicato un libro al tema (Roma/Bari 2004). L'illustre Aurore, nella voce redatta nel 2007 per l'aggiornamento dell'Enciclopedia Treccani (reperibile all'indirizzo www.treccani.it/enciclopedia/nichilismo-giuridico_%28Enciclopedia-Italiana%29/), così descrive il fenomeno: “L'espressione è segnalata in un autore tedesco del primo Novecento, riaffiora in saggi di rivista, dà titolo a un libro nel 2004. Essa non designa un preciso indirizzo di filosofia, né una concezione generale del diritto, ma piuttosto raccoglie ed esprime i caratteri della modernità giuridica. La connessione tra nichilismo e modernità, e come questa si svolga e concluda in quello, è tema centrale dell'indagine.” Irti specifica che: “ Per modernità giuridica vogliamo intendere che la posizione di norme è consegnata, sempre e soltanto, alla volontà dell'uomo; e che nessun criterio esterno è legittimato a guidare e valutare le scelte così compiute. La decisione della volontà sta a sé e nulla riconosce dietro o sopra di sé. Non già che la volontà intuisca o interpreti un ordine cosmico e prenda luogo nella totalità delle cose; non già che la singola scelta rifletta una sapienza eterna o un consiglio divino: la norma è posta nella solitaria nudità della decisione umana. Alla modernità sono estranei sia l'originaria adesione a un ordine cosmico, che stringa insieme divinità, natura, storia degli uomini, sia il più tardo dualismo tra physis e nomos. Questo dualismo - risalente alla sofistica greca e perpetuatosi, con varianti sia laiche sia religiose, fino all'inizio del 21° sec. - rompe l'unità tra volere umano e legge dell'universo e lascia emergere, al di sopra o contro il diritto positivo, un criterio di giudizio capace di conferire o di negare validità alle norme decise dall'uomo. L'interrogarsi sulla validità del diritto positivo, poiché sottintende che positività non coincide necessariamente con la validità, apre la strada ai tormentosi e drammatici dualismi da cui è segnata l'intera storia del diritto. Allorché sorge la domanda sulla validità del diritto positivo - e, dunque, circa la questione se esso è come deve essere -, si frange infatti l'originaria unità e si apre un dualismo interno alla stessa posizione di norme, le quali non sono lasciate in sé sole a misurarsi dentro il loro proprio congegno e organismo, ma vengono tratte dinanzi a un criterio valutativo che le approva o disapprova, riconosce o rifiuta, convalida o invalida. Si moltiplicano così distinzioni e antitesi: norme valide e ingiuste; norme valide e giuste; e così via. I dualismi, generati dalla rottura dell'unità originaria, esprimono, a loro volta, il bisogno di unità, dove si costruisca e dove si plachino le tensioni interne al diritto. ” Va rilevato che Irti pare dare, per lo meno in forma implicita in questo scritto, un giudizio positivo del nichilismo giuridico (giudizio che risulta più manifesto nel libro del 2004 e nella sua successiva opera “Un diritto incalcolabile” Torino 2016). Invito, intanto, a leggere l'intera voce enciclopedica che ricapitola i tratti costitutivi del fenomeno e le conseguenze che ne derivano. Nelle successive spigolature saranno segnalate le criticità rilevate da altri studiosi nel fenomeno, anche nella sua dimensione processualistica.
Autore: Sergio Conti 4 dicembre 2022
Nell'ambito del filone dottrinale, che ha trovato ampio risalto negli ultimi lustri anche nella giurisprudenza, del “decidere per valori”, è di interesse lo scritto, in data 1 novembre 2022 - che qui segnalo -, di Antonio CASCIANO : “Gustav Radbruch: il diritto come realtà che tende a servire la giustizia", reperibile al seguente indirizzo Web: www.centrostudilivatino.it/category/giuristi/ Nel sottotitolo si evidenzia che “La filosofia era per Radbruch la scienza dei valori, del dovere: nella logica filosofica si insegna il giusto pensare; nell’etica filosofica il giusto operare, nell’estetica filosofica il giusto sentire. La filosofia è, dunque, contegno valorizzante, in quanto, appunto, distingue vero e falso, bene e male, bello e brutto. La filosofia del diritto, in particolare, era da lui intesa non come la ricerca del diritto positivo che, come ogni opera umana, è una manifestazione della cultura e, quindi, oggetto della scienza giuridica, ma come ricerca del «diritto giusto», cioè del diritto che «deve essere». Il diritto è infatti «la realtà che tende a servire la giustizia». Come “antipasto” del denso scritto del Casciano, che riassume il pensiero del Radbruch, riporto il passaggio che inquadra la tematica di studio del professore e politico (socialdemocratico) tedesco, nell'ambito del neocriticismo kantiano: L’ispirazione di fondo della filosofia del diritto di R. proviene dal neokantismo sudoccidentale (Wilhelm Windelband, Heinrich Rickert, Max Weber e, soprattutto, Emil Lask), scuola di pensiero che, provenendo dalla filosofia della cultura e dalla teoria dei tipi ideali umani dello Spranger, rivestì un’importanza decisiva nella sua formazione spirituale e giuridica. Come tutti gli altri filosofi del neocriticismo, anche R. fu in netta antitesi con il positivismo e, in particolare, con il positivismo giuridico. Per il Nostro, infatti, il positivismo giuridico è «quella tendenza nella scienza del diritto che, partendo dal diritto positivo, con mezzi puramente intellettuali, senza un proprio sistema di valori, pensa di poter trovare una risposta ad ogni domanda giuridica». Per una critica di “scuola formalistica” della teorica dei “valori” è di grande interesse il libro di N. Irti Un diritto incalcolabile 2016. Uno stralcio del quale è rinvenibile anche nel web: www.studocu.com/it/document/sapienza-universita-di-roma/diritto-civile-i/un-diritto-incalcolabile-natalino-irti
Autore: Sergio Conti 27 novembre 2022
Inizio la rubrica con la segnalazione di un testo abbastanza ostico, almeno per me, ma di grande importanza perché va ad esaminare il fondamento del potere e la possibilità, nella nostra Costituzione, dell'esercizio in deroga ai principi costituzionali dello stesso in situazioni di asserita emergenza. L. BUFFONI , L’ufficio di giurista: la forza/valore di legge e lo Stato d’eccezione. 2020. [...]“Nel diritto e nella gius-pubblicistica contemporanea, il sintagma «forza di legge» si riferisce, infatti, non alla legge ma ai decreti del Governo di urgenza: la forza di legge è esattamente il dispositivo che attribuisce ai decreti un’efficacia pari alla legge, valgono come leggi, ma per ciò stesso separa l’applicazione, la vis obligandi, della legge dalla sua forma. Si tratta della «confusione tra atti del potere esecutivo e atti del potere legislativo». In questo senso Eichmann diceva che «le parole del Führer hanno forza-di-legge [Gesetzeskraft]»(16). A dire che l’esistenza è superiore alla validità, che implica un diritto pre-esistente. La decisione di chi è sovrano, perché decide sullo stato di eccezione, è la pura forza che vale come legge. E la forza-di-legge è manifestazione dello stato di eccezione perché è uno stato in cui la norma vige ma non si applica (non ha forza) e in cui, invece, i decreti che non hanno valore di legge (perché non ne hanno la forma) ne hanno, però, la forza. È una «forza-di-legge senza legge»(17), graficamente forza-di-legge: la sospensione della (forma di) legge libera la forza, il «fondamento mistico dell’autorità»(18). [...] note: 16 G. AGAMBEN, Stato di eccezione, cit., 51. Nel recente intervento Una domanda, sempre a proposito delle parole del Führer, adopera, invece, il differente sintagma «valore di legge». Per le ragioni che emergeranno nel testo, pare più proprio, almeno dal punto di vista del diritto positivo, il termine ‘forza’ 17 Ivi, 52. 18 Dal sottotitolo di J. DERRIDA, Forza di legge. Il «fondamento mistico dell’autorità», Bollati Boringhieri, Torino, 2010, ove, però, il sintagma forza di legge evoca, genericamente, il discorso realista sulla sovranità, sull’ineluttabilità della hybris su cui il diritto si fonda: la legge ha valore perché promana dal sovrano, chiunque esso sia, quindi non ha valore ma forza, perché è, perché esiste come forza originaria la cui potenza e volontà sono irresistibili. Il potere della legge, la sua ‘forza’, non sta nella legge, ma in ciò che è alle sue ‘spalle’, ‘prima’ e ‘fuori’ della legge, che la sostiene e regge. Se si concede un’approssimazione grossolana, è la linea che, seppure con molte discontinuità e rotture, da Montaigne, passando per Pascal, Benjamin e Schmitt, giunge a Derrida, ove la forza di legge rivela l’origine che la legge cerca di occultare, di mettere fuori scena, la forza, la violenza creatrice di diritto, rappresentata, ripetuta, nella violenza conservatrice. Ma proprio per questo la ‘forza’ di cui dispone la legge ricorda ai poteri rappresentativi, decaduti proprio perché rappresentativi, alla democrazia parlamentare, la violenza da cui sono nate e che può in ogni momento ri-emergere, con un nuovo inizio. In questo lungo e densissimo scritto, la prof.ssa Laura Buffoni, muovendo dalle tesi esposte dal prof. Agamben nel 2020 sulla rivista Quidlibet, esaminate le tesi sul potere di eccezione e sul fondamento del potere di C. Schmitt e sul fondamento mistico dell'autorità di J. Derrida, compie una disamina delle caratteristiche del potere di emergenza esercitato dal Governo in occasione dell'epidemia Covid 19. Reputo di estremo interesse la lettura e lo stimolo alla riflessione che può nascere dal saggio della prof.ssa Laura Buffoni, costituzionalista dell'Università di Sassari.. Si tratta di un testo complesso di non facile comprensione, ma estremamente interessante ed attuale perchè scandaglia tematiche poco conosciute dai giuristi ordinari, ma che sono divenute tema di confronto in questi ultimi due anni, durante la c.d. “Emergenza Covid”, nella quale l'Esecutivo ha - a torto o a ragione – preso il comando e il Legislativo ha arrancato al suo seguito sostanzialmente ratificandone a posteriori l'operato, senza neppure avergli conferito alcun mandato ex ante. Quanto tutto ciò è conforme alla Costituzione? Il pericolo esterno giustifica sempre e comunque la restrizione dei diritti? Colui che detiene il potere ha sempre ragione? L'Autore espone dettagliatamente il suo pensiero al riguardo, che è difforme dalle tesi enunciate da Agamben, pervenendo però per altra strada alla conclusione della invalidità delle disposizioni poste in essere dal Governo. Il testo del saggio è rinvenibile al seguente indirizzo: L. BUFFONI, L’ufficio di giurista: la forza/valore di legge e lo Stato d’eccezione, in Osservatorio sulle fonti, fasc. speciale, 2020. Disponibile in: http://www.osservatoriosullefonti.it
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