“Se talvolta inclinassi la bilancia della giustizia, 

fa' che ciò avvenga non sotto il peso dei doni,

ma per un impulso di misericordia” 

(Miguel de Cervantes)
 

"LA TUTELA AMMINISTRATIVA: DAL SINDACATO INCIDENTALE DEL GIUDICE PENALE ALLA POSSIBILE ESTENSIONE DEL SINDACATO DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO"

Convegno in presenza a Bergamo:

Venerdì 15 novembre 2024 ore 15.00

Accedi alla locandina

ASCOLTA  IL CONVEGNO:  Parte-1 e  Parte-2

NEW! Adunanze Plenarie aggiornate a dicembre 2024

Cerca nel sito 

*Inserire una sola parola chiave per trovare articoli sulla tematica di interesse

L’angolo dell’attualità 

Autore: a cura di Roberto Lombardi 17 marzo 2025
Con la richiesta di ritorno alla vecchia immunità parlamentare originariamente prevista dall'art. 68 della Costituzione [1] , si chiude idealmente un cerchio che è stato ultimamente tratteggiato da alcune componenti partitiche partendo dall'asserita necessità della politica di riprendere il suo primato. È una lunga marcia che ha preso le sue mosse proprio dall'anno (1993) in cui il Parlamento, scosso dal clamore delle numerose indagini penali su corruzione e tangenti che coinvolgevano importanti esponenti politici, e dalla necessità di tenere a freno un'opinione pubblica esasperata dall'emergere di scandali e privilegi ritenuti inaccettabili, oltre che dalle numerose autorizzazioni a procedere negate nei confronti degli onorevoli , fu costretto ad eliminare parzialmente l'immunità originariamente prevista dall’ art. 68 della Costituzione . Mentre fino a quel momento il singolo parlamentare non poteva essere sottoposto neanche a procedimento penale senza autorizzazione della Camera di appartenenza, né tanto meno privato della libertà sulla base di una sentenza di condanna penale divenuta irrevocabile, dopo la riforma costituzionale restò in piedi la necessità di chiedere tale autorizzazione solo per intercettazioni, perquisizioni e applicazione di misure cautelari personali. È passata molta acqua sotto i ponti da allora, gli italiani sono sempre ben divisi tra ultragarantisti e giustizialisti, eppure il crollo della fiducia del cittadino medio nella magistratura e il forte indebolimento delle componenti politiche più disposte a rispettare senza se e senza ma le inchieste giudiziarie (o addirittura a trarne vantaggio competitivo) ha determinato la messa in discussione anche di alcuni istituti giuridici che tendevano a sottrarre il legislatore e l’amministratore da una piena libertà di agire, potenzialmente confinante con il mero arbitrio. Conseguentemente, è tornato in discussione il reale punto di confine (e di contatto) tra ius singulare giustificato da obiettive e specifiche esigenze da salvaguardare, e privilegio tout court . È un sacrosanto diritto a tutela del parlamentare e della sua importantissima e delicatissima funzione godere di particolari garanzie e restare immune da ogni iniziativa giudiziaria o è più forte il principio di eguaglianza di tutti dinanzi alla legge? E quanto è grande lo spazio di libertà e specialità di chi rappresenta la funzione legislativa ed esecutiva rispetto alle regole ordinarie che valgono per il comune cittadino? Oltre alla problematica sempre “calda” delle inchieste giudiziarie – ciò che va più sul versante dell’astratta e ideale contrapposizione tra stabilità dell’azione politica e doverosità delle iniziative della magistratura –, esiste anche un non irrilevante tema “patrimoniale” dei privilegi (veri o presunti tali) di categoria. Si pensi ad esempio ai vitalizi dei parlamentari e alle “retribuzioni” dei ministri. Sul primo fronte, nel corso dell’attuale legislatura il Consiglio di Garanzia del Senato dimissionario ha deciso di ripristinare il calcolo con il sistema retributivo (più favorevole), in luogo di quello con il sistema contributivo (meno favorevole), dell’importo dei vitalizi dovuti ai senatori eletti prima del 2012, aumentandone conseguentemente, in via retroattiva, il valore. Si pensi al riguardo, e in termini di ipotetico confronto, che per tutti i comuni cittadini che hanno cominciato a lavorare dopo il 1995 la pensione è ormai calcolata soltanto con il sistema contributivo. Sul secondo fronte, invece, caduta “a furor di popolo” la norma che avrebbe parificato tutti gli “stipendi” di ministri e sottosegretari di Stato non parlamentari a quelli dei loro colleghi di governo anche parlamentari (alcune migliaia di euro in più al mese), è stata comunque introdotta a beneficio dei primi, qualora aventi residenza o domicilio diversi da Roma, una sorta di rimborso spese tratto da un fondo speciale di 500 mila euro annui. In particolare, il comma 854 dell’art. 1 della L. n. 207 del 2024 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2025 e bilancio pluriennale per il triennio 2025-2027) ha riconosciuto in modo “secco” il diritto al rimborso delle spese di trasferta da e per il domicilio o la residenza per l'espletamento delle proprie funzioni agli attuali Ministri e sottosegretari non parlamentari, collegando tale diritto alla “dotazione” di 500.000 euro annui del nuovo fondo istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. In assenza di ulteriori indicazioni nella norma primaria, e sulla base di un mero calcolo aritmetico di natura divisoria, dal primo gennaio del 2025 i potenziali beneficiari della norma (circa quindici persone) potrebbero avere un aumento di “stipendio”, seppure sotto forma rimborsuale, di più di duemila euro al mese. In questo caso, a colpire non è tanto l’individuazione di un principio “speciale” a favore di pochi, ma che di tale principio, fino ad allora non previsto, ne beneficino in termini economici, e immediatamente, gli appartenenti allo stesso Governo dalla cui maggioranza politica proviene la norma. D’altra parte, accanto alle rafforzate garanzie di natura economica e procedurale (queste ultime, nel caso di guai con la giustizia penale), chi esercita la funzione legislativa gode anche della c.d. insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle proprie funzioni (art. 68, comma 1, Cost.). Si tratta di un’immunità preventiva e sostanziale da ogni tipo di sindacato giurisdizionale (“ I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere… ”), che elimina in radice l’antigiuridicità del fatto. Anche in questo caso, il confine tra diritto comune e ius singulare è molto labile, e non è facile stabilire fin dove la protezione dell’insindacabilità può spingersi, senza deragliare in un inaccettabile privilegio. Il libero esercizio delle funzioni parlamentari deve essere senz’altro protetto dalla paura di ritorsioni ingiustificate e intimidatorie, ma è ancora esercizio delle funzioni parlamentari l’insulto libero e la delegittimazione pretestuosa di un avversario politico o di un giudice o di un giornalista considerato ostile? Il punto di caduta delle esigenze che qui si vengono a contrapporre è stato a più riprese disegnato dalla Corte costituzionale, la quale ha anche recentemente precisato che “ è pur sempre necessario – affinché l’immunità non si trasformi illegittimamente in privilegio personale, con il correlato e ingiustificato sacrificio dei diritti e degli interessi dei terzi – che essa sia funzionalmente delimitata (…) e che, pertanto, le opinioni espresse siano caratterizzate dalla esistenza di un nesso stretto con l’esercizio delle funzioni ”. Occorre, in altri termini, stabilire di volta in volta se in concreto le opinioni espresse da un parlamentare siano riconducibili all’esercizio delle funzioni ex art. 68, primo comma, della Costituzione, e siano come tali insindacabili, o se invece vadano ricondotte all’esercizio della libertà di libera manifestazione del proprio pensiero di cui tutti godono ai sensi dell’art. 21 della Costituzione. Invero, nella normalità dei casi, profilandosi l’assenza di tale nesso funzionale, è il giudice comune a dovere decidere, nel singolo caso, da quale parte della bilancia pende il rapporto fra diritto di libera manifestazione del pensiero politico e diritto all’onore e alla reputazione del soggetto che si ritiene leso dall’opinione espressa. Passando poi dalle prerogative del Legislatore a quelle di chi rappresenta il potere esecutivo e l’amministrazione pubblica tutta, negli ultimi anni si è cercato di rendere meno alto lo scalino tra le forti garanzie concesse ai primi e la “debole” protezione riservata ai secondi. Ma quali speciali garanzie possono attenuare le importanti responsabilità derivanti dal maneggiare denaro pubblico o dal prendere decisioni che mettono in pericolo potenziale le casse pubbliche? Anche qui, le ordinarie regole di responsabilità hanno ceduto da qualche tempo il passo a un diritto speciale che ha parzialmente eliminato anche le condotte gravemente colpose da quelle sulla cui base scatta la responsabilità del funzionario pubblico. Il c.d. scudo erariale è stato introdotto per la prima volta con il d.l. n. 76 del 2020 , in piena pandemia, con effetti temporali inizialmente limitati alla scadenza del 31 luglio 2021, e successivamente prorogato, a più riprese, fino al 30 aprile 2025. L'ultima proroga risale al d.l. n. 202 del 2024 , convertito dalla L. 21 febbraio 2025, n. 15 (art. 1, comma 9). La norma prevede che la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica, per il periodo di sua applicazione, non si estende alle ipotesi di colpa grave , ma solo alle ipotesi di dolo, qualora vengano in rilievo condotte commissive. Si tratta di una disciplina provvisoria - ma è una provvisorietà che ormai dura da quasi cinque anni - che è stata recentemente ritenuta non irragionevole dalla Corte costituzionale, in quanto avrebbe limitato al dolo l'elemento soggettivo della responsabilità amministrativa in un contesto storico del tutto particolare. [2] Invero, pur indebolendo la funzione deterrente delle ipotesi di responsabilità previste a carico dei funzionari pubblici, la norma "incriminata" avrebbe il merito radicarsi in " uno specifico contesto in cui la tutela di fondamentali interessi di rilievo costituzionale richiede che l'attività amministrativa si svolga in modo tempestivo e senza alcun tipo di ostacoli, neppure di quelli che derivano dal timore di incorrere (al di fuori delle ipotesi dolose) nella responsabilità amministrativa ". E non importa se nel frattempo gli effetti della pandemia siano cessati (adesso però c'è la necessità di raggiungere gli obiettivi del PNRR) o se appare quantomeno discutibile e foriero di possibili disparità di trattamento il diverso regime di responsabilità attualmente esistente tra condotte attive (rispetto alle quali lo scudo erariale si applica) e condotte omissive (rispetto alle quali lo scudo erariale non si applica), posto che proprio nel caso dal quale è partita la Corte dei Conti, per rilevare la sospetta incostituzionalità della norma, era evidente la curiosa frammentazione del tipo di responsabilità accertabile pur con riguardo alla medesima, unitaria vicenda sottostante. Tuttavia, a fronte della tendenza alla c.d. burocrazia difensiva , è stato ritenuto prevalente, sia dal legislatore che dalla Corte costituzionale, "l'obiettivo di stimolare l'attività degli agenti pubblici in un contesto specifico e provvisorio", con la creazione di un "complessivo clima di fiducia" che favorisse "la spinta dell'intera macchina amministrativa". Bisogna a questo punto chiedersi, onde evitare che la macchina di cui sopra vada fuori giri , fino a che punto una disciplina salvata dalla dichiarazione di incostituzionalità soltanto per il suo carattere contingente, possa diventare di fatto strutturale, posto che l'ultima proroga si legherebbe all’obiettivo di consentire al Parlamento di completare la riforma organica della Corte dei conti. Senza contare che adesso l’abuso di ufficio – salvo eccezionali ipotesi ritagliate sul suo paradigma originario – non è più reato. [3] Che poi, se neanche lo scudo erariale riesce a salvare dalla condanna per spreco di denaro dei contribuenti un importante amministratore pubblico come il Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca [4] , ci sono pur sempre le fattispecie giuridiche costruite ad hoc a “congelare” le posizioni di potere divenute “cedevoli”. Qui non siamo tanto nello ius speciale o singulare che dir si voglia, ma in un’ipotesi di confine che potremmo definire, invertendo i termini, singolarità giuridica . E’ una tendenza, questa, molto diffusa anche negli apparati pubblici – ivi compresi quelli di più alto livello, come gli organi di autogoverno – dove la necessità di favorire un determinato risultato (buono o cattivo che sia) crea una nuova fattispecie normativa o regolamentare fortemente disallineata rispetto alla normale coerenza del tessuto ordinamentale, anche se non in diretto contrasto con una disposizione specifica. Nel caso di specie, il Presidente De Luca, alla fine del corrente mandato, seguendo la linea tracciata dal disegno costituzionale e legislativo in materia di disciplina delle elezioni regionali, non potrebbe concorrere nuovamente e immediatamente per la carica di Presidente della Regione, perché, nel caso di elezione, si tratterebbe del terzo mandato consecutivo . Tuttavia, l’Assemblea legislativa regionale campana – sostenuta dalla maggioranza eletta con De Luca – ha costruito una fattispecie giuridica apparentemente ineccepibile ma sostanzialmente volta a permettere all’attuale Governatore di restare ancora una volta in sella alla Presidenza della Regione, se eletto per la terza volta. Come emerge infatti dal ricorso per questione di legittimità costituzionale depositato alla Corte il 10 gennaio 2025 dal Presidente del Consiglio dei ministri [5] , la legge della Regione Campania 11 novembre 2024, n. 16 , composta di un unico articolo, ha sì stabilito, in tardiva applicazione e recepimento dell' art. 2, comma 1, lettera f) della legge 2 luglio 2004, n. 165 , che “ non è immediatamente rieleggibile alla carica di Presidente della Giunta regionale chi, allo scadere del secondo mandato, ha già ricoperto ininterrottamente tale carica per due mandati consecutivi ”, ma ha altresì contemporaneamente statuito che “ ai fini dell'applicazione della presente disposizione, il computo dei mandati decorre da quello in corso di espletamento alla data di entrata in vigore della presente legge ”. Si tratta dunque di una norma apparentemente legittima e coerente con il tessuto ordinamentale di riferimento – la legge statale, attuativa dell’ art. 122 della Costituzione , prevede infatti, in via di principio, la non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto –, tuttavia subordinata nella sua decorrenza temporale ad un’altra norma di natura transitoria che di fatto è da considerarsi “ad personam”, perché consente solo e soltanto a De Luca (e non a coloro che verranno dopo di lui) di fare un terzo mandato (“… il computo dei mandati decorre da quello in corso di espletamento alla data di entrata in vigore della presente legge ”). La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha dunque giustamente impugnato dinanzi alla Corte costituzionale la norma ad hoc votata dal Consiglio regionale campano, per possibile violazione degli artt. 122, 3 e 51 della Costituzione , ciò che deporrebbe per il tentativo di conservare un corretto equilibrio nelle attribuzioni tra diversi livelli di governo, fatte salve le malevoli interpretazioni giornalistiche sulla scarsa simpatia e non appartenenza politica tra gli attori in gioco. E adesso l’ultima parola spetta alla Corte costituzionale, troppo spesso ultimamente “costretta” a prendere posizione su questioni che in un ordinamento coerente con se stesso e interpretato con spirito di leale collaborazione da tutte le parti istituzionali e politiche neanche si dovrebbero porre. Tuttavia, sembra che in Italia la tentazione di ritagliare per sé delle condizioni di privilegio che stridono con il comune sentire di chi fa quotidianamente fatica a “tirare avanti” continui a trovare terreno fertile nella concezione amorale di un certo tipo di approccio umano, che trova adesso un pericoloso alleato nel definitivo sdoganamento del principio del “risultato ad ogni costo”. [1] Per approfondimenti sulla notizia, si rinvia, tra gli altri, al seguente link: https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2025/02/03/balboni-non-vedo-ragioni-di-rivedere-limmunita-parlamentare_f144fb4a-d026-45d8-8157-4a8a98df06f2.html [2] Per una lettura della sentenza: https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:2024:132 [3] Per alcune considerazioni critiche sull'abolizione del reato di abuso di ufficio, si rinvia ad altro contributo apparso sul sito e reperibile al seguente link: https://www.primogrado.com/il-buco-nero-della-legalita [4] Si veda Sentenza n. 600/2024 emessa dalla Sezione giurisdizionale per la Regione Campania della Corte dei Conti
Autore: a cura di Roberto Lombardi 21 gennaio 2025
Il 23 febbraio 2020 il Governo emana un decreto-legge in cui autorizza il Presidente del Consiglio ad adottare misure di contenimento per evitare la diffusione del COVID-19 . Lo stesso giorno, il Presidente del Consiglio chiude nella famigerata zona rossa Vò Euganeo, Codogno e dintorni, mentre il Ministro della Salute, d’intesa con il Presidente della Regione Lombardia, chiude in Lombardia scuole, musei e cinema, ma non i ristoranti. Restano aperti al pubblico anche i bar e tutti gli altri locali, ma soltanto dalle sei del mattino alle sei del pomeriggio. Il 27 febbraio 2020, il segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti corre a Milano per fare un aperitivo anti-panico, raccogliendo l’appello del Sindaco Sala “a non fermarsi”. Il 10 marzo successivo tutta l’Italia diventa zona rossa con un DPCM. Il resto è storia, anche se ancora non sono condivise e accettate da tutti le ragioni di quella “storia”, e forse non lo saranno mai. Di certo, un virus ci ha tenuti in ostaggio per un paio di anni, tra restrizioni alla libertà personale, obblighi di vaccinazione, mascherine e divieti vari. Parimenti, alcuni soggetti istituzionali hanno tentato o stanno tentando di fare luce su quello che è realmente accaduto. L’indagine penale avviata dalla Procura della Repubblica di Bergamo per il reato di epidemia colposa è finita con una doppia archiviazione, sia da parte del Tribunale dei Ministri che da parte del Gip, mentre il 18 settembre 2024 si è costituita in Parlamento la Commissione bicamerale d'inchiesta sulla gestione dell'emergenza sanitaria SARS-COV-2 . Questa Commissione ha il compito di accertare le misure adottate per prevenire, contrastare e contenere l'emergenza sanitaria causata dalla diffusione del virus SARS-CoV-2 nel territorio nazionale e di valutarne la prontezza, l'efficacia e la resilienza, anche al fine di fare fronte a una possibile futura nuova pandemia di analoga portata e gravità. Da notare che la Commissione “ procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria ”, ai sensi dell’ art. 82 della Costituzione , così come richiamato dagli artt. 1 e 4 della legge istitutiva (L. n. 22 del 2024) . Vedremo che cosa ne uscirà. Nel frattempo, però, un primo colpo è stato battuto dal Governo su alcune delle conseguenze giuridiche (multe per inadempimento degli obblighi vaccinali) ancora attuali della pandemia. L’art. 21, comma 5, del d.l. n. 202 del 2024 (“Disposizioni urgenti in materia di termini normativi”, anche noto come “decreto milleproroghe”), decreto in corso di conversione, ha infatti così disposto: “ I procedimenti sanzionatori di cui all'articolo 4-sexies del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio, n. 76, non ancora conclusi sono definitivamente interrotti, mentre le sanzioni pecuniarie già irrogate sono annullate. Ai fini del conseguente discarico delle sanzioni pecuniarie già irrogate, senza oneri amministrativi a carico dell'ente creditore, l'Agenzia delle entrate-Riscossione trasmette in via telematica al Ministero della salute l'elenco dei provvedimenti sanzionatori annullati. I giudizi pendenti, aventi ad oggetto tali provvedimenti, sono estinti di diritto a spese compensate. Restano acquisite al bilancio dello Stato le somme già versate, per sanzioni pecuniarie, alla data di entrata in vigore del presente decreto ”. Tradotto: la sanzione amministrativa pecuniaria di cento euro che era stata prevista nel 2021 per l’inosservanza dell'obbligo vaccinale è stata cancellata dal nostro ordinamento, salvo che la relativa somma non sia stata già versata all’erario. Conseguentemente, solo chi ha già pagato resta effettivamente e definitivamente colpito dalla “multa”. Nel commentare questa decisione, Ferruccio de Bortoli – che non può di certo essere annoverato tra gli “estremisti” del nostro giornalismo – si è così espresso: “ Con la scandalosa idea di cancellare le multe a carico di chi non ottemperò l’obbligo di vaccinazione siamo entrati definitivamente nell’era in cui la sanzione, quando c’è, è ormai solamente la trappola degli allocchi. Tra ripetuti condoni, rottamazioni generose, stralci di varia natura, è ormai appurato che chi non rispetta un obbligo di legge, specialmente in materia fiscale, ha sempre una via d’uscita ”. [1] Amen per i legalitari. Sotto altro fronte, uno dei più fervidi sostenitori delle misure di contenimento anti-covid, il Pres. della Regione Campania Vincenzo De Luca, è stato condannato dalla Corte dei Conti a risarcire il danno erariale causato alla stessa Regione da lui presieduta con riferimento all’istituzione del green pass “ante litteram”. La vicenda risale al 2021. Il buon De Luca si era mosso prima del legislatore nazionale e aveva creato la c.d. smart card regionale , al fine di consentire l’attestazione, da parte dei cittadini campani, della loro avvenuta vaccinazione. In seguito, una volta introdotte in tutta Italia, con il d.l. n. 52 del 21 aprile 2021 , le c.d. certificazioni verdi covid-19 (poi divenute green pass base e green pass rafforzato), lo stesso Presidente della Giunta regionale della Campania, con ordinanza del 6 maggio 2021, si “era affrettato” ad attribuire alla sua smart card caratteristiche sostanzialmente “corrispondenti” al green pass, al fine di giustificare la successiva adozione di particolari linee guida e direttive per disciplinarne l’uso e la circolazione. Tuttavia, pare che la Sezione Giurisdizionale Campania della Corte dei Conti che si è pronunciata sul caso abbia ritenuto che, a partire da una certa data in poi, la produzione di separate certificazioni regionali, in quanto inutile duplicato del green pass nazionale, avrebbe causato un danno erariale rilevante alla Regione Campania, con conseguente condanna del governatore a risarcire tale danno, per una somma quantificata in circa 600 mila euro. [2] D’altra parte, a fronte di un green pass ormai a pieno regime, il 6 agosto 2021 il Presidente De Luca aveva emesso un’ulteriore ordinanza per dare mandato alle Aziende sanitarie campane di “ accelerare la consegna ai cittadini vaccinati con seconda dose della smart card di Regione Campania, per l’accesso alla attestazione di effettuata e valida vaccinazione, in formato digitale, e la relativa esibizione, anche in sostituzione della certificazione verde COVID-19 del Ministero della Salute, laddove non ancora rilasciata per problematiche tecniche ”. Con la conseguenza che non è bastato al Presidente De Luca, per esimersi da responsabilità, nemmeno il cosiddetto “scudo erariale”, come introdotto dal governo Conte con l’ art. 21, comma 2 del d.l. n. 76 del 2020 , secondo cui “ la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta “, dal momento che la sua insistenza e pervicacia nel dare seguito alla fornitura di smart card – anche quando queste ormai andavano a giacere inutilizzate nelle singole strutture sanitarie – avrebbe connotato la sua condotta come intenzionale. Amen per i cultori dell’efficienza a tutti i costi. [3] Ultimo ma certamente non meno importante fronte è quello della regolazione giuridica delle conseguenze economiche della pandemia. Dopo il c.d. decreto rilancio ( d.l. n. 34 del 2020 ), che tanti problemi ha provocato introducendo i bonus edilizi all’italiana [4] , e l’avvio del Piano nazionale di ripresa e resilienza – che pure alcune tensioni ordinamentali ha creato nel rapporto tra tutela dei diritti e obiettivi da raggiungere [5] -, ecco che spunta una proposta di legge interpretativa in materia urbanistico-edilizia . In realtà questa proposta nulla avrebbe a che fare con gli “strascichi” della pandemia, se non fosse che nasce dalla necessità di salvare quella città, Milano, che più di ogni altra era stata colpita duramente dalla diffusione del virus e che più di ogni altra, come da tradizione, aveva reagito prontamente e fattivamente alla crisi economica derivata dalle restrizioni adottate per il contenimento della propagazione del contagio. E infatti il disegno di legge è noto ufficiosamente con il nome di “ salva Milano ” [6] . Ma per quale motivo deve essere salvata Milano? Le ragioni sono due, una è più tecnica ed è contenuta espressamente nella proposta di legge, l’altra è più politica e attiene al capitolo di alcune inchieste giudiziarie nate intorno a paventati abusi edilizi. Dal punto di vista normativo, la questione posta al centro della nuova norma da adottare – al momento il disegno di legge è fermo al Senato dopo l’approvazione della Camera – è l’interpretazione del primo comma dell’ articolo 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150 e del decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 . Tali disposizioni, secondo il disegno di legge in corso di esame, dovrebbero essere interpretate “ nel senso che l'approvazione preventiva di un piano particolareggiato o di lottizzazione convenzionata non è obbligatoria nei casi di edificazione di nuovi immobili su singoli lotti situati in ambiti edificati e urbanizzati, di sostituzione, previa demolizione, di edifici esistenti in ambiti edificati e urbanizzati e di interventi su edifici esistenti in ambiti edificati e urbanizzati, che determinino la creazione di altezze e volumi eccedenti i limiti massimi previsti ” (ovvero volumi superiori a tre metri cubi per metro quadrato di area edificabile, e altezze superiori a metri 25). E ciò, sempre che non vi sia “ un interesse pubblico concreto e attuale al rispetto dei predetti limiti di altezza, accertato dall'amministrazione competente con provvedimento motivato ”, oppure una previsione espressa di previa adozione di piano attuativo negli strumenti urbanistici. Dal punto di vista politico, l’urgenza del provvedere nasce dalla necessità di favorire un’applicazione retroattiva e riduttiva delle citate norme – ipotizzando che sia davvero in atto quel contrasto giurisprudenziale posto alla base dell’intervento del legislatore –, in modo da depotenziare le indagini della Procura della Repubblica di Milano (e i relativi esiti dibattimentali) sui presunti abusi commessi in città con l’assenso del Comune ad opere edilizie imponenti (edifici oltre i 25 metri di altezza) e del tutto difformi dalle costruzioni preesistenti – grattacieli al posto di fabbricati di uno o due piani, per intenderci -, avviate senza approvazione di piano attuativo e senza il rilascio del prescritto permesso di soggiorno. [7] Amen per l'equilibrio del " carico urbanistico " nelle nostre città? Vedremo. Nel frattempo, resta l’amara sensazione di essere passati sotto le forche caudine della pandemia senza avere eliminato nessuno dei nostri proverbiali (ed endemici) difetti, e avendone forse aggiunti di nuovi. [1] Questo è il link da cui è possibile accedere all'articolo integrale di De Bortoli, dal titolo " Le parole di Ruffini e il premio fiscale ai "fessi" che pagano tutto ": https://www.corriere.it/frammenti-ferruccio-de-bortoli/24_dicembre_13/le-parole-di-ruffini-e-il-premio-fiscale-ai-fessi-che-pagano-tutto-b218e939-26c9-4a13-8964-69e8b8564xlk.shtml [2] E' quanto si è appreso da vari organi di stampa, pur in assenza, allo stato, della disponibilità di un testo ufficiale della sentenza cui si fa riferimento. Vedi sul punto, ad es.: https://www.ansa.it/campania/notizie/2024/12/20/card-anti-covid-la-corte-dei-conti-condanna-de-luca_2550f6c8-5280-4edf-88ae-8cf9c5401064.html [3] Non a caso, il Presidente De Luca ha parlato di "reato di efficienza" [4] Si può trovare un approfondimento sul tema dei bonus in questo sito al seguente link: https://www.primogrado.com/panzerotti-e-boosterine [5] Si veda, a mero titolo di esempio, il contributo apparso al seguente link: https://www.ildirittoamministrativo.it/Pnrr-risvolti-sul-processo-amministrativo-aspetti-problematici/ted903 [6] Si riporta di seguito un link su cui è reperibile il disegno di legge in questione: https://www.carteinregola.it/wp-content/uploads/2024/12/dl-interpretazione-autentica-ateria-urbanistica-testo-a-fronte-versioni-commissione-ambiente-leg.19.pdl_.camera.1987_A.19PDL0116030.pdf [7] Per un approfondimento sulle contestazioni penali afferenti ai paventati abusi edilizi commessi recentemente nella città di Milano con la "complicità" dell'amministrazione comunale si rinvia al seguente contributo apparso su questo sito: https://www.primogrado.com/abuso-edilizio-e-interpretazione-della-normativa-vigente-ad-opera-del-comune
Autore: a cura di Roberto Lombardi 13 novembre 2024
(Viaggio in uno scontro tra poteri tipicamente italico) La moderna questione dei migranti evoca tempi antichi e storie che si ripetono. [1] Tecnicamente, la parola migrazione può significare sia emigrazione che immigrazione, ma il suo significato si definisce meglio con riferimento a quei “processi di mobilità internazionale” dei gruppi umani che incidono strutturalmente sulle società dei Paesi di destinazione. Negli ultimi due secoli, l’Europa è passata ad essere da terra di emigrazione a terra di immigrazione. La chiusura delle frontiere agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, anziché realizzare un sostanziale blocco dell’immigrazione, ha prodotto un’alterazione qualitativa dei movimenti migratori, determinando da un lato l’aumento delle domande di ricongiungimento familiare degli immigrati già presenti sul territorio, delle richieste di asilo e degli ingressi clandestini e irregolari, dall’altro, l’implementazione di programmi di inserimento sociale degli immigrati nelle comunità nazionali. L’ integrazione , intesa come un percorso che coinvolge ogni istante della vita dell’immigrato, è ormai ritenuta una necessità, anche se l’approccio istituzionale varia considerevolmente a seconda di quali siano gli Stati di accoglienza, secondo i due fondamentali modelli assimilazionista e multiculturalista . Tuttavia, il processo di integrazione registra una sensibile quota di insuccessi nei Paesi in cui si accompagna, accanto alla sostanziale preclusione agli immigrati della sfera politica delle società di accoglienza, un difficile accesso alla cittadinanza. Per altri versi, il dispiegamento massiccio delle azioni negative di contrasto dell’immigrazione , mirate non già a un razionale controllo quantitativo e qualitativo dei flussi, quanto al proposito di conseguire un azzeramento tendenziale della mobilità internazionale, costituisce un obiettivo anacronistico e probabilmente non realizzabile, in relazione al fatto che le migrazioni continueranno a rivestire nel tempo un ruolo centrale, coerentemente con tendenze di lungo periodo quali gli squilibri tra il tasso di sviluppo economico e l’andamento demografico nei Paesi c.d. poveri, da un lato, e l’invecchiamento delle popolazioni dei Paesi c.d. ricchi, dall’altro. Di certo, oggi, a fronte di un flusso migratorio scarsamente regolamentato nelle sue “regole di ingaggio” di base, la visione “centralizzata” dell’Unione europea sul concreto esercizio dei diritti di asilo ha creato più di un problema ai singoli Paesi maggiormente esposti alle ondate dei nuovi arrivi, limitandone le capacità operative di “blocco”. Quanto all’Italia, è ormai molto tempo che la questione dei migranti è stata inserita nell'agenda politica dei partiti e dei Governi di turno. E ciò non tanto perché l'afflusso massiccio di cittadini extracomunitari abbia messo per davvero in sistematica crisi la sicurezza del Paese o tolto occasioni di lavoro agli italiani, quanto invece perché la caoticità del fenomeno e l'incapacità delle istituzioni di gestirlo efficacemente ha profondamente turbato la percezione della situazione di "protezione" individuale e collettiva che ciascuno di noi ha in ordine al suo territorio di nascita o di appartenenza. L'effetto più rilevante che ha prodotto questo intenso fenomeno di "spaesamento" delle nostre individualità geografiche e lato sensu nazionalistiche è stato senz'altro il consenso di un elevato numero di elettori a iniziative politiche di forte impatto bloccante o comunque ridimensionante verso i flussi migratori, iniziative che si sono però a volte poste, per essere realmente efficaci e concretamente percepite dalla collettività, in netta tensione con l'ordinamento giuridico vigente, cosi come modellato dalla Carta costituzionale e dal diritto sovranazionale. Corollario principale di questa strategia di contrasto è stato, inevitabilmente, il conflitto con chi regole e norme deve farle rispettare: i giudici. In linea teorica non sbaglia chi ritiene che il principio di separazione dei poteri e di primato della Politica - con la P maiuscola - debbano tendenzialmente impedire alla magistratura di orientare nel merito le scelte del legislatore, ma in concreto l'espansione giuridica e normativa del controllo giudiziario sui cd. diritti umani (ivi compreso il diritto di asilo) - favorita anche dal nostro inserimento “a pieno titolo" nell'Unione europea - prevale ad oggi su qualsivoglia scelta politico-amministrativa che prescinda dal rispetto di tali diritti, anche laddove tale scelta sia fatta per perseguire fini strategicamente corretti (sicurezza e controllo dei confini) e sicuramente graditi a una grande fetta di elettorato. Prendiamo ad esempio di quanto appena detto due vicende di scottante attualità: il rimpatrio dall'Albania dei migranti "distaccati" dai nostri confini di ingresso e la vicenda del sequestro di persona contestato all'ex Ministro dell'Interno Salvini nel caso Open Arms . La “ questione albanese " è in realtà più semplice di quanto possa apparire. Il governo italiano ha stipulato un protocollo con il governo albanese per trasferire su territorio estero fino a 3.000 migranti. Condizione per rendere legale e aderente al protocollo stesso tale trasferimento, è l'adozione di una procedura accelerata per decidere sull'eventuale diritto di asilo del migrante richiedente; condizione per accedere a tale procedura è che il migrante provenga da un Paese sicuro, ai sensi della lett. b-bis, comma 2 dell’art. 28-bis del d.lgs. n. 25/2008 . Orbene, la definizione di “Paese sicuro” - che derivi da atti amministrativi o da disposizioni di legge - deve rispettare, a sua volta, secondo la direttiva 2013/32/UE del 26 giugno 2013 , alcune essenziali condizioni, tra cui l’ assenza di minacce alla vita ed alla libertà dello straniero per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale e la possibilità di dimostrare che non si ricorre mai alla persecuzione quale definita all’art. 9 della direttiva 2011/95. Secondo il Giudice del Tribunale di Roma che ha applicato tale normativa in sede di convalida del trattenimento di un cittadino egiziano – e la cui decisione tanto scalpore ha destato nell’opinione pubblica più vicina al Governo in carica -, una recente sentenza della Corte di Giustizia interpretativa della suddetta direttiva (le sentenze della CGUE definiscono pacificamente principi direttamente applicabili alle controversie nazionali) avrebbe chiarito che il concetto di Paese sicuro dovrebbe valere per l’intero Stato considerato e non potrebbe essere limitato né a determinate regioni interne allo Stato né a determinate categorie di persone. Di conseguenza, non potendosi considerare del tutto e per tutti sicuro l'Egitto, nessuna procedura accelerata, nessun trattenimento in Albania, e rientro immediato in Italia degli stranieri richiedenti protezione internazionale. Il Governo è subito corso ai ripari emanando un decreto legge ( d.l. n. 158 del 2024 del 23 ottobre 2024 ) in cui ha iscritto di ufficio tra i Paesi sicuri lo stesso Egitto che i giudici avevano ritenuto, alla luce della giurisprudenza eurounitaria, non sicuro; contestualmente, è stato precisato, all’ art. 2-bis, comma 2 del d.lgs. n. 25 del 2008 (che regola, come visto, la materia) che la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta anche con l' eccezione di categorie di person e , ma non più, com’era prima, con l'eccezione di parti del territorio. Partita conclusa? Neanche per sogno. L’appartenenza all’ordinamento UE ci impone di disapplicare normative anche primarie (come leggi e decreti leggi), qualora siano in contrasto con le regole eurounitarie direttamente applicabili, e così hanno fatto negli ultimi giorni altri Tribunali. [2] Nel frattempo, il processo Open Arms si avvia al suo epilogo, con i Giudici che devono decidere se condannare o meno per sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio il Senatore Salvini: la Procura della Repubblica di Palermo ha chiesto sei anni di reclusione. [3] Qui la questione giuridica si intreccia ancora di più con le priorità della politica ed è un tantino più complicata. Nell'agosto del 2019, un'imbarcazione battente bandiera straniera e noleggiata da un’associazione non governativa soccorreva diversi migranti che viaggiavano su natanti in distress nelle acque internazionali di competenza SAR libiche e maltesi. Nonostante la nave con a bordo i migranti fosse stata autorizzata, sulla base di un decreto cautelare del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, ad entrare in acque territoriali italiane, fino al 20 agosto non le fu consentito lo sbarco nel porto di Lampedusa. All'imputato ex Ministro dell'Interno (e ora Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti) è stato contestato, pertanto, di avere privato della libertà, per alcuni giorni, 107 migranti di varie nazionalità (tra cui minori di età) giunti in prossimità delle coste di Lampedusa, trattenendoli, in violazione di convenzioni internazionali e di norme interne in materia di soccorso in mare e di tutela dei diritti umani, sulla nave che li aveva salvati da un naufragio, e omettendo, senza giustificato motivo, di esitare positivamente le reiterate richieste di indicare il POS ( place of safety ) inoltrate al suo Ufficio di Gabinetto dalla competente autorità marittima di coordinamento, nonostante ciò dovesse essere fatto senza ritardo per ragioni di ordine, sicurezza pubblica, igiene e sanità. Uno dei problemi fondamentali da risolvere per i Giudici, in questo caso, una volta individuato un chiaro obbligo a carico delle Autorità italiane, è se l'indicazione di un POS (luogo di sbarco sicuro) sia da qualificarsi come un atto amministrativo o un atto politico libero nei fini. Qualora si tratti di un atto amministrativo , ovvero di un atto esecutivo di una complessa procedura stabilita a monte, adottato in coerenza con la pari dignità costituzionale delle norme internazionali convenzionali che stabiliscono il principio secondo cui la garanzia di incolumità e di rispetto dei diritti umani dei soggetti soccorsi in mare costituisce un obbligo non derogabile dall’autorità politica, il Ministro non avrebbe dovuto impedire che ai soggetti soccorsi in mare fosse offerto un luogo sicuro in cui avere riparo e in cui avvalersi immediatamente delle facoltà che il diritto internazionale loro consente (come ad esempio, la richiesta e l’ottenimento del diritto di asilo ). Quid iuris ? Non resta che aspettare la decisione finale dei Giudici aditi, perché soltanto a costoro, in un ordinamento democratico, spetta interpretare il dato giuridico decisivo, posto che in Italia il principio di indipendenza da ogni altro potere dei singoli giudici e della Magistratura nel suo complesso è stato sancito espressamente dalla Costituzione agli artt. 101, 104 e 111 . Comunque la si voglia vedere, si tratta, in ogni caso, di due vicende che hanno posto e pongono in grave tensione due poteri dello Stato, e che alimentano ulteriormente un caos istituzionale che deriva da troppi anni di diffidenza e reciproco sospetto, dall'incapacità di qualcuno di restare negli argini del rispetto delle regole e dall'insofferenza di qualche altro verso quelle stesse regole. Di certo, e al di là dei casi di mala giustizia - da punire senza se e senza ma, con il massimo rigore -, non può "tenere" a lungo un sistema in cui a pagare siano sempre gli ultimi, unici non beneficiari di un ombrello del potere troppo ampio, costruito appositamente per ridurre drasticamente le capacità operative della magistratura. Così come appare fin troppo ovvio che la politica non dovrebbe farsi (anche) sulla pelle di alcuni poveri disgraziati che fuggono dai loro Paesi per una vita migliore, sfidando umiliazioni, torture, discriminazioni e infine la morte. Ecco, forse questo non bisognerebbe dimenticarlo mai, quando si disegnano azioni di contrasto all'immigrazione, né bisogna essere talmente arroganti e stupidi da pensare che noi non potremmo mai essere come loro, nelle loro stesse condizioni: i recenti disastri climatici ci consigliano prudenza nel disegnare lo scenario del nostro futuro e dei nostri figli, in un contesto in cui basta un'alluvione per sconvolgere la quotidianità. E se mai dovessimo un giorno raccogliere in uno zaino le poche cose che ci sono rimaste e andare lontano alla ricerca di un nuovo inizio, una cosa che senz'altro ci augureremmo è quella di trovarvi un Giudice indipendente e terzo dinanzi al quale esporre le nostre ragioni umanitarie . [1] In alcuni significativi passaggi contenuti nei volumi della " Storia della civiltà europea " a cura di Umberto Eco sono spiegate molto accuratamente le dinamiche correlate al fenomeno dell'immigrazione, di cui si dà sintetico conto nel presente articolo. Lo stesso Eco faceva una sottile distinzione tra migrazione e immigrazione , affermando che soltanto le prima è paragonabile ai fenomeni naturali, in quanto avviene in misura statisticamente rilevante rispetto al proprio gruppo d’origine: violente o pacifiche che esse siano, le migrazioni avvengono e nessuno le può controllare. [2] Si legga, tra le altre, l'interessante motivazione del Tribunale di Catania, Sezione Immigrazione, del 4 novembre 2024 . [3] Per una ricostruzione più accurata della vicenda giuridica e fattuale da cui è scaturito il processo si veda anche il seguente contributo apparso su questo sito: https://www.primogrado.com/il-caso-open-arms-quando-la-politica-si-fa-processo
Show More

Biblionews

Riviste, diritto e aggiornamento
a cura di Carmine Spadavecchia
*Il riferimento alle riviste ha il solo scopo di segnalazione dei contenuti, e il lavoro dell'autore carattere meramente compilativo



I principi dell'Adunanza Plenaria

a cura della Redazione


Il Codice del Processo Amministrativo

Sfoglia il codice



Giustizia Amministrativa

I lavori dell'Organo di Autogoverno

∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞


 Sezione Tributario

  Lezioni e aggiornamenti


∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞∞

 

Diritto e società


Autore: a cura di Vittorio Russo, Avvocato e consulente parlamentare 27 marzo 2025
La diplomazia onoraria si configura quale istituto peculiare nell’ambito delle relazioni internazionali, assumendo un ruolo di supporto complementare alla diplomazia di carriera e contribuendo significativamente alla rappresentanza, all’assistenza consolare e alla promozione degli interessi strategici di uno Stato all’estero. Essa si colloca in una dimensione ibrida, a metà strada tra la rappresentanza ufficiale e la funzione di collegamento con le realtà locali, risultando di cruciale importanza soprattutto in contesti geopolitici caratterizzati da una presenza consolare frammentata o limitata. La regolamentazione della diplomazia onoraria si inscrive nell’alveo del diritto internazionale convenzionale e consuetudinario, trovando il proprio fondamento nella Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 1963 , che disciplina con precisione l’assetto normativo e giuridico delle funzioni consolari, attribuendo ai consoli onorari prerogative e immunità significativamente ridotte rispetto ai diplomatici di carriera. Nella sua storicità, continua a rappresentare un ambito molto peculiare e di grande rilievo nel panorama delle relazioni internazionali , posizionandosi tra la diplomazia ufficiale e le esigenze pragmatiche dei rapporti bilaterali fra Stati. Sebbene la disciplina giuridica e normativa di tale istituto risieda principalmente nella Convenzione di Vienna sopra citata, numerosi aspetti sollevano questioni di particolare importanza in termini di legittimità, praticabilità e necessità di aggiornamento normativo. L’istituto della diplomazia onoraria si radica in una lunga tradizione storica che risale a tempi in cui la diplomazia ufficiale era limitata nella sua capacità di proiettarsi oltre i confini nazionali. I consoli onorari, originariamente figura di rappresentanza limitata a funzioni di natura commerciale o amministrativa, si sono evoluti nel tempo in attori con un ruolo che va oltre la mera assistenza ai propri connazionali. La funzione di rappresentanza, che inizialmente era circoscritta a contesti commerciali, ha progressivamente abbracciato anche la diplomazia culturale, il rafforzamento delle relazioni economiche e, negli ultimi decenni, il soft power come strumento di proiezione della politica estera. Storicamente, la diplomazia onoraria è nata come risposta alle esigenze pratiche degli Stati di mantenere una presenza minima ma efficace nei territori esteri, laddove le risorse per inviare diplomatici di carriera o aprire consolati permanenti erano limitate. In un contesto geopolitico di costante mutamento, la figura del console onorario ha quindi cominciato a ricoprire funzioni più ampie, espandendosi verso la tutela degli interessi nazionali e la promozione di iniziative culturali e commerciali. Il fondamento normativo della diplomazia onoraria, come detto, si trova principalmente nella Convenzione di Vienna del 1963 sulle relazioni consolari, che stabilisce i diritti e i doveri dei consoli e definisce le prerogative dei consoli onorari, e fissa i principi generali che guidano le loro attività, stabilendo una netta distinzione tra costoro e i consoli di carriera. In particolare, l' articolo 71 della Convenzione di Vienna stabilisce che i consoli onorari godono di una limitata immunità rispetto alle funzioni svolte, esclusivamente nelle operazioni ufficiali legate alla funzione consolare, ma non per le attività personali. Ciò implica che i consoli onorari, sebbene godano di una certa protezione diplomatica in caso di conflitti legali derivanti dalle loro funzioni, non sono soggetti agli stessi privilegi e immunità di un diplomatico di carriera. Nonostante le limitazioni, essi sono tutelati nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali e non possono essere arrestati o sottoposti a procedimenti giuridici senza il consenso del Governo che li ha designati, se non in circostanze eccezionali. Tuttavia, il trattamento giuridico dei consoli onorari presenta delle differenze significative da Stato a Stato. La mancanza di un quadro normativo globale vincolante ha dato luogo a una molteplicità di prassi applicative che variano in funzione della legislazione nazionale, creando così disparità e incertezze giuridiche. Mentre alcuni Stati conferiscono ai consoli onorari un ampio ventaglio di prerogative, altri sono più restrittivi e limitano l’estensione delle loro funzioni. Pertanto, il diritto internazionale convenzionale e consuetudinario, pur avendo definito il quadro generale delle relazioni consolari, non ha mai fornito una codifica completa della diplomazia onoraria, lasciando ampio margine di discrezionalità agli Stati nel suo esercizio. Tra le prerogative giuridiche dei consoli onorari rientrano la protezione dei propri connazionali e l’assistenza consolare, ma vi sono in linea generale limitazioni evidenti, come detto, sia nell’immunità giuridica che nell’esenzione da imposte o da altre obbligazioni fiscali, che generalmente non si applicano ai consoli onorari. Inoltre, la possibilità per i consoli onorari di esercitare funzioni ufficiali, come l'emissione di visti o la stipula di trattati, è strettamente limitata dalle leggi dello Stato ospitante e dalla prassi internazionale. Un altro aspetto cruciale riguarda la nomina e l’accreditamento dei consoli onorari . Sebbene gli Stati godano di una piena libertà nella scelta dei propri rappresentanti onorari, tale nomina è soggetta a controllo e approvazione da parte dello Stato ospitante, che può rifiutare la designazione di un console onorario se lo ritiene inadeguato o incompatibile con gli interessi locali. E' pacifico il diritto sovrano degli Stati di stabilire le proprie politiche in materia di rappresentanza diplomatica, a condizione che queste non violino i principi fondamentali del diritto internazionale, come il principio di non ingerenza e la protezione dei diritti dei cittadini. Il concetto di soft power ha trovato una straordinaria applicazione nel contesto della diplomazia onoraria. A differenza dell' hard power , che si basa su strumenti coercitivi come il potere militare o economico, il soft power fa leva su risorse non coercitive, come la cultura, i valori, l’immagine internazionale e la diplomazia pubblica. In questo scenario, i consoli onorari svolgono un ruolo cruciale come ambasciatori della cultura e della politica del loro paese. Essi facilitano la costruzione di reti internazionali di influenze che si traducono in vantaggi economici, culturali e politici per il paese che rappresentano. I consoli onorari, infatti, agiscono come moltiplicatori di relazioni, creando un ambiente favorevole per le esportazioni, per l’attrazione di investimenti stranieri e per la promozione delle relazioni culturali. Il loro ruolo si estende a settori che spaziano dall'arte e dalla scienza, fino alle politiche commerciali ed economiche. In questo contesto, l’attività consolare onoraria diventa un importante strumento per l’esercizio del soft power , in quanto il console onorario non è solo un intermediario, ma spesso un leader di opinione che aiuta a consolidare la proiezione dell’immagine di un paese. Il soft power si esplica in una molteplicità di forme, tra cui: -diplomazia culturale, che si realizza attraverso scambi culturali, mostre, eventi artistici e accademici; -diplomazia economica, che mira alla promozione di investimenti, scambi commerciali e partenariati strategici tra Paesi; -diplomazia scientifica e tecnologica, che promuove la cooperazione internazionale in ambiti di ricerca e sviluppo; -diplomazia pubblica, che coinvolge il rafforzamento della comunicazione tra Paesi e tra cittadini dei vari Stati. In tale contesto, i consoli onorari, pur operando in una posizione non ufficiale, si trovano ad essere attori chiave nel facilitare le relazioni internazionali. Grazie alla loro conoscenza delle realtà locali e alla loro capacità di costruire ponti tra le istituzioni del loro Paese d'origine e quelle del Paese ospitante, i consoli onorari sono tra i principali promotori di politiche di soft diplomacy . Il concetto di soft diplomacy diventa cruciale per i consoli onorari, che, pur non godendo dello status ufficiale di diplomatici di carriera, svolgono una funzione che si inserisce perfettamente in questo ambito. La diplomazia onoraria, infatti, è frequentemente orientata alla promozione pacifica degli interessi nazionali, all'intensificazione delle relazioni bilaterali, e al rafforzamento della proiezione culturale di uno Stato all’estero. I consoli onorari, pur operando in un contesto informale, sono i rappresentanti ideali per la diffusione dei valori e degli interessi del loro Stato, in quanto inseriti nel tessuto sociale ed economico del Paese ospitante. La loro posizione, che li pone tra il mondo istituzionale e quello economico e culturale, consente loro di svolgere un ruolo fondamentale nel migliorare l’immagine e la reputazione del Paese che rappresentano, facendo leva su una serie di strumenti tipici della soft diplomacy , quali, le iniziative culturali, la facilitazione dei legami economici e commerciali, la promozione delle relazioni scientifiche e accademiche. Poiché la soft diplomacy si fonda su una serie di strumenti e approcci che richiedono una gestione sensibile e articolata delle relazioni internazionali, è di cruciale importanza che i consoli onorari siano adeguatamente formati sulle regole basilari che governano questa particolare forma di diplomazia. Alcuni degli aspetti essenziali che i consoli onorari devono padroneggiare includono l'etica della diplomazia culturale, la capacità di comunicazione strategica, la costruzione e il mantenimento di reti solide di alleanze locali e la p romozione di politiche di cooperazione Internazionale Ma ci può essere soft power senza adeguata conoscenza dell’attività di lobbyng ? In effetti, grazie alla loro conoscenza profonda delle dinamiche politiche ed economiche del paese ospitante, i consoli onorari possono svolgere un ruolo decisivo nella promozione degli interessi economici, commerciali e politici del loro paese. Essi, infatti, agiscono da mediatori tra il settore pubblico e privato, facilitando accordi, negoziati e la creazione di politiche favorevoli agli scambi internazionali. Tuttavia, però, l’attività di lobbying non è regolamentata in maniera uniforme a livello internazionale, il che può generare conflitti di interesse e preoccupazioni circa la trasparenza dell’attività dei consoli onorari. In alcuni casi, i consoli onorari possono essere visti come agenti privilegiati di specifici interessi economici, soprattutto quando provengono da settori strategici o da aziende di rilevanza internazionale. La regolamentazione di queste attività, con l'introduzione di norme etiche e di trasparenza , potrebbe contribuire a evitare il rischio di conflitti di interesse, garantendo che le azioni dei consoli onorari siano sempre orientate al bene pubblico. La frammentazione normativa e l’assenza di un corpus giuridico uniforme che regoli la diplomazia onoraria sollevano interrogativi circa la necessità di un approccio più strutturato e coordinato a livello internazionale. Seppur la Convenzione di Vienna del 1963 rimanga il riferimento principale per la regolamentazione delle funzioni consolari, compresa quella onoraria, la realtà delle pratiche internazionali ha evidenziato l’esigenza di un aggiornamento delle norme, in particolare per quanto riguarda le nuove dinamiche del soft power e della diplomazia pubblica. In quest’ottica, la creazione di linee guida internazionali , sotto l'egida di organizzazioni multilaterali come le Nazioni Unite o l’Unione Europea o altri Organismi internazionali, potrebbe rappresentare un passo importante per garantire una maggiore coerenza e uniformità nell’applicazione delle norme riguardanti la diplomazia onoraria. L’introduzione di standard comuni potrebbe contribuire a rafforzare la trasparenza, la responsabilità e l’affidabilità dei consoli onorari, evitando situazioni di opacità che possano minare la loro legittimità. In sintesi, la diplomazia onoraria non può più essere considerata una funzione accessoria, ma deve essere riconosciuta come un elemento fondamentale e complementare alla diplomazia di carriera. La sua importanza cresce in un contesto globale in cui la proiezione di soft power e la promozione di relazioni economiche e culturali sono sempre più determinanti per il successo delle politiche estere degli Stati. L’adozione di un quadro normativo più strutturato a livello internazionale, unitamente a una maggiore regolamentazione delle attività di lobbying e dei public affairs , rappresenta la chiave per rafforzare l’efficacia della diplomazia onoraria e per garantire il rispetto delle norme di buona condotta internazionale. Solo con una normazione adeguata e con una chiara definizione delle sue funzioni, la diplomazia onoraria potrà continuare a contribuire in modo significativo alla costruzione di relazioni internazionali stabili e produttive. Nell'attuale scenario geopolitico globale, caratterizzato da una crescente interconnessione tra Stati, organizzazioni internazionali, enti privati e attori non statali, la capacità di gestire efficacemente le attività di public affairs e di relazioni internazionali istituzionali assume un'importanza strategica fondamentale per il successo delle politiche estere di un paese. Le sfide moderne richiedono non solo competenze diplomatiche tradizionali, ma anche una solida preparazione nella gestione delle relazioni con i diversi attori locali e globali, nell'ambito di un sistema sempre più complesso e multidimensionale. In questo contesto, emerge la necessità di figure professionali altamente qualificate, capaci di interpretare al meglio le dinamiche globali e le specifiche necessità interne degli Stati, integrando i principi di diplomazia tradizionale con le sfide legate al contesto socio-politico ed economico contemporaneo. Le attività di advocacy e lobbying , in particolare, sono centrali nell’interazione con gli altri Stati e con le organizzazioni internazionali, e sono essenziali per la gestione di crisi diplomatiche, l’apertura di nuovi mercati o la promozione di iniziative culturali, politiche e commerciali. In questo contesto, è fondamentale disporre di esperti capaci non solo di rappresentare un Paese nelle sedi internazionali, ma anche di interpretare e mediare tra le esigenze politiche interne e le dinamiche globali. Le figure chiamate a svolgere questa funzione devono essere in grado di analizzare la complessità del contesto, costruire reti di alleanze strategiche e, al contempo, promuovere una visione coerente delle politiche pubbliche estere. La gestione dei public affairs e delle relazioni internazionali istituzionali richiede competenze specialistiche che vanno oltre la semplice conoscenza della politica internazionale. Le figure coinvolte devono possedere una vasta gamma di abilità, tra cui la negotiation skills , la capacità di analisi geopolitica, e un approccio multidisciplinare che le consenta di interagire con una varietà di interlocutori, tra cui governi, imprese, ONG, enti sovranazionali e la società civile. In particolare, risultano fondamentali la conoscenza approfondita delle dinamiche internazionali e il costante aggiornamento sulle evoluzioni delle relazioni internazionali, sullo scenario geopolitico globale e sulle politiche estere dei Paesi con cui sono chiamati a interagire. D'altra parte, la mediazione diplomatica richiede l'abilità di comprendere le esigenze di tutte le parti coinvolte e di trovare soluzioni che tutelino gli interessi dello Stato, ma anche quelli degli altri attori coinvolti nel processo negoziale. Il fatto poi che le attività di public affairs si svolgano in contesti multiculturali implica la conoscenza delle differenze culturali e la capacità di operare in ambienti diversi, con costruzione di reti di alleanze politiche, economiche e culturali che consente di ampliare l’influenza di un Paese e di promuovere le proprie politiche all'interno di contesti internazionali complessi. La capacità di interpretare il ruolo di mediatore in contesti internazionali è cruciale per il successo della diplomazia moderna. In situazioni di interazione tra Stati, organizzazioni internazionali e altri attori non statali, il professionista di public affairs deve possedere la capacità di conciliare posizioni diverse, trovare punti di incontro e ottenere risultati tangibili attraverso negoziati efficaci. Questo processo richiede una profonda comprensione delle priorità strategiche, politiche ed economiche degli altri attori, così come la capacità di adattare le proprie posizioni in modo flessibile, pur mantenendo la coerenza con gli interessi nazionali. Vista la crescente complessità e l’importanza delle attività di public affairs e delle relazioni internazionali istituzionali, la formazione delle figure professionali che operano in questo campo è cruciale, di modo che università e istituzioni accademiche, così come enti di formazione specializzati, sono chiamati a sviluppare curricula che rispondano alle esigenze di un mondo globale sempre più interconnesso e dinamico, in cui alla preparazione in discipline giuridiche, politiche ed economiche si accompagni anche una solida base culturale.
Autore: a cura di Vittorio Russo, Avvocato e consulente parlamentare 26 febbraio 2025
(Le falle della giustizia sportiva e il cortocircuito mediatico) Partiamo dall’inizio. Jannick Sinner, giocatore di tennis italiano che non ha bisogno di molte presentazioni (è l’attuale n. 1 del mondo) risulta positivo a un controllo antidoping il 10 marzo 2024, durante il Master 1000 di Indian Wells. Il secondo controllo positivo è del 18 marzo, dopo la semifinale persa nello stesso torneo contro Carlos Alcaraz. In entrambi i casi vengono trovati livelli simili di metaboliti di c lostebol , con una concentrazione nelle urine nel primo caso di 86 picogrammi per millilitro, e nel secondo di 76 picogrammi per millilitro: cioè una concentrazione inferiore a 1 miliardesimo di grammo per litro. Per questo tipo di positività un giocatore che viene ritenuto colpevole è solito incorrere in quattro anni di squalifica (così, ad esempio, è accaduto al tennista Stefano Battaglino, anche lui vittima "a sua insaputa" di massaggi al clostebol ). [1] Il 4-5 aprile e il 17-20 aprile sono arrivate le due sospensioni provvisorie di Sinner, a cui Jannik però - avendone diritto - ha fatto appello urgente immediato, rivolgendosi a un c.d. Tribunale indipendente. In entrambi i casi Sinner ha ottenuto la revoca immediata delle due sospensioni e ha potuto continuare a giocare (in attesa di chiarire la sua posizione) per tutti i mesi primaverili ed estivi. La decisione del Giudice sportivo viene depositata il 19 agosto 2024, poco prima degli Us Open (stravinti da Sinner), e assolve il numero 1 del mondo, spiegando che la concentrazione di clostebol trovata nelle sue urine è da definirsi "bassa". Per il collegio decidente, inoltre, Jannik non avrebbe avuto "alcuna colpa o negligenza" nell'assunzione del farmaco. L'assoluzione piena ha consentito a Sinner di evitare squalifiche, fatti salvi la rinuncia a 400 punti in classifica (il punteggio di Indian Wells, torneo durante il quale è stato accertato il doping) e il pagamento di una multa pari a 300 mila euro. Inoltre, dopo il rumore mediatico della vicenda, Sinner ha licenziato sia il preparatore atletico che il fisioterapista del suo team coinvolti. Successivamente, però, la WADA (Agenzia mondiale Antidoping) ha fatto ricorso al CAS (Tribunale arbitrale dello Sport di Losanna) chiedendo una squalifica da uno a due anni ed è notorio come è andata a finire. Sospensione “patteggiata“ per una durata di tre mesi. Fin qui i fatti certi. Veniamo alle domande senza risposta, adesso. Chiediamoci innanzitutto questo: se vostro figlio fosse tornato a casa alle due di notte sbandando e puzzando di cannabis, avreste creduto ad una spiegazione del tipo: “ l’ascensore è stato bloccato due ore e ci avevano appena fumato dentro marijuana ”? Nel caso dell’attuale numero uno del mondo del tennis, il nostro Jannik Sinner, l’Agenzia Internazionale per l’Integrità del Tennis (ITIA), per mezzo del suo c.d. Tribunale indipendente, gli ha creduto, per quanto la spiegazione sulle origini del suo doping “involontario” sembrasse un tantino inverosimile. Concentrando al massimo lo sforzo ricostruttivo – come emerge dalle pagine della pronuncia di primo grado che ha assolto il giocatore [2] -, la sostanza proibita sarebbe entrata nel corpo di Sinner a seguito di una sessione di massaggi del suo fisioterapista, che a sua volta avrebbe contestualmente usato una pomata contenente clostebol per curare una sua personale ferita alla mano. Il medicinale "incriminato" sarebbe stato consegnato al fisioterapista dal preparatore atletico del team di Sinner per uso medico individuale, comprato a suo tempo in una farmacia di Bologna e poi portato negli Stati Uniti. Secondo la decisione del tribunale istituito da ITIA, come detto, al giocatore italiano non sarebbe stata imputabile nessuna colpa o negligenza in relazione alla commissione degli articoli 2.1. e/o 2.2. del TADP (T ennis Anti-doping programme ), che inibiscono l’uso di sostanze considerate dopanti ai giocatori professionisti. Il clostebol sarebbe una di queste, perché si tratta di uno steroide anabolizzante simile al testosterone, che ha il potere di aumentare le prestazioni fisiche. Favorisce infatti l'aumento della massa muscolare e può aiutare a ridurre i tempi necessari ai muscoli per recuperare pienamente dopo un'intensa sessione di allenamento. Di più, permette di ossigenare i muscoli stessi con l’aumento della produzione di globuli rossi e il conseguente miglioramento nell’affrontare sforzi prolungati. E’ tristemente passato alla storia per lo scandalo del “doping di Stato” degli atleti della Germania dell’Est. Ora, questa è la sequenza. Sostanza dopante, tracce minime di questa sostanza nel campione di analisi, spiegazione sulla contaminazione fornita dal team di Sinner. La giustificazione è stata ritenuta ragionevole e provata da un cosiddetto Tribunale indipendente e tanto basta, da un punto di vista della verità “processuale”. Ma sembra un tantino esagerato – in un Paese abituato a mettere in discussione pronunce di ben più autorevoli e indipendenti giuristi – scagliarsi contro chi ha osato criticare prima l’assoluzione e poi il “patteggiamento” a tre soli mesi di sospensione. Se infatti la Giustizia sportiva nell’ultimo periodo probabilmente attraversa la crisi di credibilità più profonda di sempre, il circo mediatico che ne commenta gli atti, che ne critica le gesta, che ne spiega le evoluzioni, è a sua volta crollato in un buco nero che TON 618, il più grosso mai conosciuto, è un pallino da biliardo al confronto. Non fa un buon servizio allo stesso Sinner chi in Italia - ma non nel resto del mondo civilizzato -, da più di una settimana, cerca di far passare la sua spiacevole vicenda come un piccolo incidente di percorso. Una sventura del tutto accidentale, fortuita, che l’atleta di San Candido è stato costretto a subire onde non incappare in una giustizia sbilenca, raffazzonata, beffarda e crudele verso gli eroi . Eppure non parliamo di qualche sparuto gruppo di cronisti di fede altoatesina, ma della quasi totalità della stampa nazionale, sportiva e non. Perbacco. L’Italia, il Paese che notoriamente è spaccato pure su come debba bersi un bicchiere d’acqua in questo caso è stato praticamente unanime nella sentenza di assoluzione “assoluta”. Per coloro che non avessero abitato tra i confini italici negli ultimi decenni potrebbe sembrare tutto abbastanza ordinario, soprattutto se si analizza il caso Sinner con gli occhi di chi, come i nostri cugini d’oltralpe, adora affrontare le sfide giudiziarie, anche internazionali, con lo stile patriottico della grandeur nazionale, senza se e senza ma. Ma, ahinoi, siamo vissuti qui, e sappiamo benissimo che in nessun altro caso è stato cosi. Anzi. Ci viene voglia di raccontare come in altri sport, in altre vicende molto meno definite processualmente e in altri contesti giudiziari sportivi la canea mediatica, sciarpa di calcio al collo , è stata ben più tambureggiante e famelica verso la “ghigliottina giustizialistica”, alla prima avventurosa avvisaglia di agenzia stampa. Ma non lo facciamo perché abbiamo rispetto delle sentenze. E della storia che ne hanno sancito. Ecco, già. Il rispetto delle sentenze. Non siamo più il Paese “ delle sentenze della Giustizia sportiva che si rispettano sempre ”? Motto tanto caro ai vertici istituzionali dello sport italiano. Evidentemente non più. Almeno col tennis. D’altra parte, la WADA, ovvero l’Agenzia mondiale Antidoping istituita per volontà del Comitato Olimpico Internazionale e in parte da esso finanziata, non ha condiviso la ricostruzione giuridica del Tribunale di primo grado, in punto di responsabilità, e aveva inizialmente chiesto la sospensione dall'atleta da uno a due anni. Secondo la WADA, vi sarebbe stata negligenza di Sinner – responsabile anche per il suo team – per avere permesso l’introduzione nel suo corpo della sostanza proibita, tramite la superficialità dei collaboratori da lui stesso scelti, o comunque per l’assenza di adeguati controlli. E allora. O la ricostruzione della difesa di Sinner è stata costruita a tavolino e l’uso della sostanza dopante è stato quindi addirittura premeditato oppure il fisioterapista di Sinner – di certo un professionista non sprovveduto (e in effetti lavorava con il futuro numero uno del mondo del tennis) – avrebbe dimostrato nel caso di specie una pericolosa incompetenza o comunque superficialità, nel mettere a rischio la carriera del più forte giocatore italiano di tutti i tempi con massaggi al clostebol . Con la premessa lunare di essersi servito di un farmaco per uso topico su se stesso (per curare una ferita) senza avere prima verificato di cosa si trattasse e proprio su quella parte del suo corpo (le mani) che più di ogni altra sarebbe venuta a contatto con l’atleta, sulla base del loro rapporto contrattuale. E cosa c’entra poi il preparatore atletico del team? Perché è stato allontanato pure lui da Sinner? In fondo si sarebbe limitato semplicemente a fornire la medicina per uso privato ad altra persona, seppure facente parte dello stesso team sportivo. Tanto non c’entrerebbe nulla, il preparatore atletico, che è ben presto tornato nel circuito tennistico e adesso lavora niente poco di meno che con Matteo Berrettini, tra lo stupore di professionisti del tennis come l’ex numero uno del mondo Djokovic. Non vi sono inoltre notizie su eventuali squalifiche chieste e ottenute per il fisioterapista individuato processualmente come responsabile del “fattaccio”. Come la si gira e rigira, la storia non torna. E sembra più che giustificato il mugugno che proviene da una parte importante del mondo del tennis sulla poca trasparenza di tutta la vicenda, ivi compreso l’accordo finale tra WADA e Sinner sulla sospensione per tre mesi, accordo che, seppure autorizzato da espresse previsioni regolamentari, lascia l’amaro in bocca sia ai supporters che ai detrattori di Sinner, per la banale considerazione che, se uno è colpevole, tre mesi sono una sanzione ridicola, e, se uno non è colpevole, sospenderlo anche un solo giorno è profondamente sbagliato. L’Agenzia mondiale antidoping ha tuttavia spiegato le motivazioni per cui Jannik Sinner ha ricevuto una squalifica per doping molto più breve rispetto, ad esempio, alla sospensione di sei anni inflitta a una pattinatrice spagnola in un caso simile di doping. Secondo i media spagnoli, alla pattinatrice Laura Barquero è stata ingiustamente inflitta una lunga squalifica dopo essere risultata positiva al c lostebol nelle stesse minime quantità rilevate nel caso di Sinner, il quale però, al confronto, ha avuto soltanto tre mesi di stop. Tuttavia, pare che, sebbene entrambi i casi riguardassero la stessa sostanza, i fatti specifici relativi al caso di Barquero erano "molto diversi" da quelli di Sinner. " La differenza fondamentale tra i due casi è che la versione della signora Barquero su come la sostanza è entrata nel suo sistema non era convincente alla luce delle prove, tanto che le circostanze sono rimaste sconosciute per quanto riguarda la Wada; al contrario, nel caso Sinner, le prove hanno chiaramente confermato la spiegazione dell'atleta, come delineato nella decisione di primo grado " (così la WADA). La pattinatrice era risultata positiva al Clostebol per la prima volta durante le Olimpiadi invernali del 2022, poi di nuovo nel gennaio 2023. Tra la Wada e l'atleta spagnola era stato, quindi, stipulato e accettato un "accordo di risoluzione del caso" con una sospensione di sei anni. Se la signora Barquero non fosse stata d'accordo con la sanzione proposta, dunque, nessuno l’avrebbe potuta obbligare a firmare l'accordo di risoluzione del caso e sarebbe stata libera di portare avanti il caso per l'udienza presso il Tribunale di Losanna (così si è difesa ancora la WADA). Di certo, è del tutto fuori luogo insultare, come sta accadendo in Italia da parte di alcuni professionisti della difesa senza se e senza ma del proprio connazionale, chi nella vicenda sente puzza di bruciato, additandolo come “invidioso”, “frustrato” o “clown” [3] . Così come è abbastanza assurdo anche gridare all’ingiustizia della sospensione e poi dire che Sinner ha fatto bene ad accordarsi così si è tolto il pensiero, anche se questo è il tipico ragionamento del qualunquista italico (e ce ne sono tanti a tutti i livelli). Restano sullo sfondo alcune riflessioni sul rapporto tra doping e sport e sulla trasparenza delle decisioni degli organi internazionali deputati a garantire che la competizione ai massimi livelli sia “pulita” oltre ogni ragionevole limite. Non deve esistere neanche l’ombra del doping nello sport e il giocatore ai massimi livelli deve non solo circondarsi di collaboratori adeguati ma anche avvalersi di un risk manager , ovvero di un professionista non coinvolto nella gestione, assistenza e training dell’atleta, pagato per pretendere il rispetto alla lettera delle rigorose procedure da seguire al fine di evitare anche solo la contaminazione involontaria. D’altra parte, si tratta di un rischio del mestiere. E la severità delle regole sul doping – tali da connotare quasi come oggettiva la responsabilità dell’atleta e da valorizzare anche il ritrovamento nel corpo di tracce assolutamente minime di sostanze vietate, come nel caso di Sinner - non può essere messa seriamente in discussione, da un lato perché tutti gli altri giocatori devono poter confidare sul fatto che i loro avversari non sono dopati, e dall’altro perché è impossibile controllare tutti i giorni tutti gli atleti professionisti, ivi compresi i campioni. Senza arrivare alla drasticità di Michael Phelps – ex nuotatore con alle spalle un palmarès di 23 medaglie d’oro vinte alle Olimpiadi – secondo cui “ se vieni trovato positivo, poi, non devi più gareggiare ”, sarebbe stato interessante e giusto, anche per il protagonista, assistere a un vero processo sull’affare Sinner, e non a questo fluire di decisioni in parte discutibili e in parte opache. E non sembra niente affatto sconclusionato, con buona pace dei nostri opinionisti “schieratissimi”, il manifesto che ha pubblicato in risposta all’accordo tra Sinner e la WADA la Professional Tennis Players Association , ovvero l’associazione autonoma di giocatori fondata da Novak Djokovic, manifesto di cui si riportano un paio di significativi stralci: “ (…) Il "sistema" non è un sistema, è un club. (…) Non sono solo le differenti decisioni per i differenti giocatori. È la mancanza di trasparenza. La mancanza di un processo. La mancanza di una coerenza. La mancanza di credibilità delle agenzie governative incaricate della regolamentazione del nostro sport e degli atleti. La mancanza di impegno da parte dell'Atp, Wta, Grande Slam, ITIA e Wada nel riformare e creare un giusto e trasparente sistema nel futuro ”. Sullo sfondo, ma neanche tanto, il sospetto di accordi su misura mascherati da decisioni case by case che producono trattamenti ingiusti e sentenze incoerenti. Una deriva che sposta pericolosamente anche nello sport l’ago della bilancia dal rigore della giustizia e del merito all’opacità della politica e del favoritismo nei confronti del più forte o potente di turno. [1] Per una sintesi della vicenda occorsa a Battaglino si rinvia al seguente link: https://www.repubblica.it/sport/tennis/2024/09/19/news/stefano_battaglino_squalifica_clostebol_sinner-423508955/ Quanto alla sanzione normalmente comminata per casi simili a quello di Sinner, si rinvia all'interessante analisi di un esperto apparsa sulla pagina: https://www.tuttosport.com/news/tennis/2024/08/21-131726288/_caso_sinner_puzza_di_bruciato_i_sospetti_dell_esperto_di_doping_e_la_wada_ [2] Cliccare qui per scaricare la sentenza [3] A mero titolo di esempio, si cita l'articolo apparso sul seguente link: Corriere.it Sinner squalificato, perché la Wada (che è l'Onu dell'antidoping) ha giudicato colpevole un imputato innocente
Show More

Sistema giustizia


Autore: a cura di Nicola Fenicia 5 gennaio 2025
(Scritto tratto dalla Relazione tenuta dal cons. Fenicia nel convegno dell’11-13 novembre 2024, tenutosi a Palazzo Spada e organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura e dall’Ufficio Studi della Giustizia amministrativa sul tema: “Il diritto dell’ambiente nella prospettiva della tutela amministrativa e penale”) Premessa Nel Codice dell’ambiente ( d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152 ), nel Titolo V della Parte quarta, troviamo la disciplina del procedimento volto alla bonifica e al ripristino del sito inquinato che è in particolare delineato agli artt. 239-253. Nella parte sesta del Codice troviamo invece la disciplina della tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente e in particolare la disciplina dell’azione risarcitoria proponibile dal Ministro dell’ambiente dinanzi al G.O. di cui all’art. 311, dove è previsto che il risarcimento del danno ambientale debba avvenire in forma specifica, e solo “se necessario”, e dunque in via residuale, per equivalente pecuniario. Sempre nella parte sesta vi è un’altra serie di norme (artt. 304 e ss. e artt. 312 e ss.) che disciplinano un altro procedimento funzionale alla tutela ambientale e all'adozione di misure di prevenzione e di riparazione e ripristino in caso di danno ambientale, incardinato sul potere di ordinanza-ingiunzione cui il Ministro dell'ambiente può fare ricorso per ingiungere le misure di prevenzione e il ripristino ambientale o, in mancanza, il pagamento di una somma pari ai costi del ripristino, con conseguente assorbimento anche del giudizio risarcitorio che, per suo effetto, diviene improponibile ed improcedibile (art. 315 d.lgs. n. 152/2006). Si tratta in quest’ultimo caso di misure di riparazione in forma specifica del danno ambientale (artt. 305 ss. d.lgs. n. 152/2006), eventualmente precedute da misure di prevenzione e di messa in sicurezza d'urgenza che, in caso di mancata, impossibile o oltremodo difficoltosa individuazione del soggetto responsabile, devono essere attuate d'ufficio dalla pubblica amministrazione competente. L’ordinanza-ingiunzione ministeriale è impugnabile dinanzi al TAR in sede di giurisdizione esclusiva (art. 316). Bonifiche, risarcimento del danno e ordinanze ministeriali compongono una disciplina complessa alla cui applicazione sono chiamate tre giurisdizioni: civile, penale e amministrativa. Ciò comporta l’adozione di approcci diversi alla normativa con divergenze applicative dovute anche all’applicazione di standard probatori diversi relativamente all’accertamento della responsabilità e quindi dell’elemento soggettivo e del nesso di causalità: si pensi alla regola del più probabile che non nel civile e nell’amministrativo, laddove nel penale vige la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, con le conseguenti criticità che possono sorgere laddove la sanzione penale scatta per l’inadempimento ad un ordine amministrativo invece impartito sulla base di semplici presunzioni. In questa sede ci si soffermerà sull’ analisi del rapporto fra le due parti del Codice : titolo quinto della parte quarta e parte sesta , parti che affondano le loro radici in testi legislativi preesistenti al Codice: il danno ambientale nella legge n. 349 del 1986 e le bonifiche nel d.lgs. n. 22 del 1997; infatti, quando il legislatore italiano è stato chiamato a recepire la direttiva 2004/35/CE sul risarcimento del danno all’ambiente, egli anziché far confluire le due discipline, quella generale sul danno ambientale e quella speciale sulle bonifiche, in un’unica parte, le ha invece mantenute separate creando un affastellamento di norme e una notevole farraginosità nella lettura e nell’applicazione del Codice. Norma di raccordo fra le due parti del Codice è l’ art. 298 bis (Principi generali) posto alla fine della parte quinta, che prevede che i principi della parte sesta si applicano alle bonifiche. Si delinea quindi un rapporto di genere a specie tra le norme generali sulla tutela risarcitorio-ripristinatoria della parte sesta e le norme speciali e settoriali sulla bonifica. Ma sarebbe stato più logico disciplinare tutta la materia del ripristino ambientale nella parte sesta, perché così invece la disciplina presenta delle sovrapposizioni e delle incongruenze; ad esempio, le definizioni si ripetono nella parte sesta, i termini di prescrizione (30 anni dall’evento di cui all’art. 303) e decadenza (due anni dalla notizia del fatto, art. 313) sono presenti nella parte sesta ma non nella parte IV dove l’obbligo di bonifica di fatto è imprescrittibile; ancora, la disciplina dell’elemento soggettivo è contenuta nell’art. 311, mentre nella parte IV si parla solo di soggetto responsabile, tranne che alla fine della parte quinta, all’art. 298 bis citato, dove si distingue fra responsabilità soggettiva e responsabilità oggettiva. Ulteriori problemi applicativi crea la disciplina sui rifiuti (art. 192 – Divieto di abbandono) perché l’art. 239, aprendo il titolo V sulla bonifica, esclude l’applicazione della disciplina ivi prevista all’ipotesi di abbandono di rifiuti. Dunque, le regole sull’imputazione della responsabilità per la rimozione dei rifiuti non si sa dove andarle a cercare (nel 192 è responsabile chi viola il divieto di deposito di rifiuti, ma se l’autore della condotta ha agito in buona fede non essendo consapevole del fatto che il materiale che ha depositato è qualificabile come rifiuto perché non è stato regolare il passaggio da rifiuto a materiale utilizzabile ad es. per l’edilizia, risponde o meno?); solo se inserisco l’ordine di rimozione di rifiuti nella categoria generale del ripristino ambientale posso applicare la dicotomia resp. soggettiva/responsabilità oggettiva per attività pericolose, di cui all’art. 298 bis. Inoltre, nel caso dell’obbligo di rimozione dei rifiuti il proprietario incolpevole non risponde nei limiti del valore del fondo come nelle bonifiche. Anzi, in caso di abbandono di rifiuti in area privata, se i responsabili dell’abbandono sono ignoti e non vi è il concorso del proprietario, il Comune non è tenuto ad adottare nessun intervento sostitutivo: i rifiuti rimangono lì finché non si accerti il superamento dei valori di attenzione e allora si dovrà procedere alla caratterizzazione dell’area e all’eventuale bonifica. Ciò detto, scopo del presente scritto è quello di delineare gli spazi applicativi di ciascuna forma di tutela al fine di verificare l’esistenza di possibili interferenze fra le stesse. Breve analisi della disciplina sulle bonifiche La bonifica, quale misura di ripristino delle matrici ambientali contaminate, si pone in termini di specialità e di priorità rispetto al risarcimento di cui all’art. 311, che dalla prima deve necessariamente essere preceduto, assumendo così il risarcimento un carattere soltanto residuale. Essa ha natura riparatoria e ripristinatoria in relazione ad un evento ancora attuale di inquinamento, ma non ha finalità sanzionatoria. La dimostrazione del nesso di causalità tra la contaminazione e la condotta si fonda sul criterio del “più probabile che non”, e le disposizioni legislative dettate dal d.lgs. 152/2006 in tema di bonifiche si applicano anche a fatti avvenuti prima dell’entrata in vigore dello stesso (art. 242, comma 11). “ La bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione nel regime previgente alla riforma del diritto societario. Anche per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangono al momento dell’adozione del provvedimento. ” (Cons. Stato, Ad. Plen., 22 ottobre 2019 n. 10). Altro elemento fondamentale è l’inconfigurabilità dei doveri di bonifica in capo al proprietario non colpevole della contaminazione a differenza dei doveri di assunzione di misure di prevenzione gravanti anche in capo a quest’ultimo (v. Cassazione civile, sez. un. 1° febbraio 2023, n. 3077). Chi però acquista un bene conoscendone la situazione di dissesto ambientale non può essere qualificato come proprietario incolpevole, secondo Cons. Stato n. 4298/2024. Lo scopo della bonifica è l’eliminazione dei rischi inaccettabili per l’uomo. Le misure sono: misure di prevenzione, di messa in sicurezza d’emergenza, di messa in sicurezza operativa e di bonifica vera e propria. L’obbligo di bonifica è in capo al responsabile dell’inquinamento che le autorità amministrative hanno l’onere di individuare e ricercare mentre il proprietario dell’area non responsabile dell’inquinamento o altri soggetti interessati hanno solo la facoltà di effettuare interventi di bonifica (art. 245). Nel caso di mancata individuazione del responsabile o di assenza di interventi volontari, le opere di bonifica sono realizzate dalle amministrazioni competenti (art. 250) che, a fronte delle spese sostenute, si vedono riconosciuto un privilegio speciale immobiliare sul fondo (art. 253). La spesa delle bonifiche non ricade quindi sulla collettività perché l’amministrazione si rivale sul proprietario incolpevole nei limiti del valore del fondo una volta bonificato. E ciò secondo un vincolo sulla proprietà oggi coerente con l’emersione costituzionale dell’ambiente come valore tutelato e limite di svolgimento e indirizzo dell’iniziativa economica privata (artt. 9 e 41 Cost.). L’ art. 242 del Codice delinea le coordinate procedimentali e operative del sistema: in caso di “evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito”, il responsabile deve adottare — nel termine di ventiquattro ore — “le necessarie misure di prevenzione” e deve darne puntuale comunicazione all’amministrazione. Si richiede un’ analisi preliminare tesa ad accertare il ricorrere del superamento dei valori, uniformi su base nazionale, indicati per ciascuna delle possibili sostanze inquinanti dagli allegati al Codice e definiti concentrazione soglia di contaminazione (c.s.c.). Le concentrazioni soglia di contaminazione (c.s.c.) sono distinte per i suoli in due colonne dell’allegato V alla Parte Quarta del codice: nella colonna A sono indicati i valori per le aree destinate ad uso residenziale e verde pubblico; nella colonna B sono previsti i valori per le aree a destinazione commerciale/produttiva. In caso di mancato superamento, la procedura si conclude dopo l’attuazione d’interventi di riqualificazione ambientale paesaggistica. Viceversa, in caso di superamento di una o più c.s.c., il privato deve informare il Comune, la Provincia e la Regione e indicare quali misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza siano state adottate. Si parla in tal caso di sito potenzialmente contaminato e la Regione, nei successivi trenta giorni, indice una conferenza dei servizi preordinata all’autorizzazione del piano di caratterizzazione del sito. Segue l’ analisi del rischio sito-specifica (fase di contestualizzazione dei valori tabellari), volta alla determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (c.s.r.) riferite al sito in questione: sulla base delle indagini, concentrate sulla natura e l’entità del rischio connesso alla presenza di inquinanti, vengono individuati ulteriori limiti (sito-specifici) che costituiscono allo stesso tempo il presupposto e l’obiettivo degli interventi di bonifica (in quanto livelli di contaminazione residui accettabili). La successiva attività di analisi di rischio potrà determinare, in caso di esito negativo, l’esaurimento della procedura (con eventuale prescrizione, anche in questo caso, di un monitoraggio). Per contro, in caso di effettivo superamento di una o più c.s.r., il soggetto responsabile sarà tenuto a presentare, nei sei mesi dall’approvazione del documento di analisi del rischio, il progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza (operativa o permanente). La messa in sicurezza operativa trova applicazione in caso di siti con impianti ancora in esercizio, ha la finalità precipua di consentire la prosecuzione nel lungo termine delle attività industriali e si sostanzia in interventi transitori di contenimento della contaminazione nelle more di iniziative più radicali, attuabili solo a fine esercizio. La messa in sicurezza permanente trova invece applicazione in casi di impossibilità di fatto o di eccessiva onerosità dell’intervento di bonifica e deve garantire l’isolamento definitivo delle fonti inquinanti dalle matrici circostanti. Dunque, in tale sequenza assumono una centralità i limiti tabellari c.s.c. (che misurano in milligrammi per chilo la contaminazione del suolo e in micron per litro la contaminazione delle acque sotterranee): il rilevamento di valori superiori alle c.s.c. (uguali su tutto il territorio nazionale) costituisce solo un fattore di ‘allarme’ e postula unicamente l’obbligatorietà di una analisi (“analisi di rischio sanitario e ambientale sito specifica”) non limitata al mero riscontro di valori tabellari ma articolata in valutazioni di rischiosità concreta sito-specifica, sulla scorta di giudizi riferiti cioè al particolare contesto, insediativo e ambientale. Segue una successiva fase di contestualizzazione dell’inquinamento volta ad accertare la rischiosità concreta dell’inquinamento per la salute umana. Elemento soggettivo - chi è il responsabile dell’inquinamento? Come detto, la normativa in materia di bonifiche è strettamente collegata con quella in tema di danno ambientale che il d. lgs. 152/2006 tratta separatamente nella Parte VI. Gli articoli 242 e 244 del D.lgs. n. 152 del 2006 individuano nel “responsabile” della contaminazione il soggetto nei cui confronti è possibile disporre l’obbligo di bonifica, senza indicare quale sia il titolo di imputazione, di carattere soggettivo o oggettivo della responsabilità a cui si riferiscono le norme. Sul punto va infatti osservato che le operazioni materiali necessarie per la bonifica di un sito inquinato coincidono con gli interventi necessari al risarcimento in forma specifica del danno ambientale (anche se non li esauriscono nell’ipotesi in cui all’esito della bonifica permanga un danno. Infatti l’avvio delle attività di bonifica era prevista espressamente dall’art. 303, comma 1, lett. i, del D.lgs. n. 152 del 2016, come causa di esonero dalla responsabilità risarcitoria. Tale norma è stata abrogata per adeguarsi alla procedura di infrazione 2007/4679, con cui la Commissione europea ha contestato, tra l’altro, che l’art. 4 della direttiva non considera la bonifica come fattispecie in grado di dispensare in via generale dagli obblighi di riparazione). È pertanto evidente che i presupposti soggettivi che giustificano l’obbligo di bonifica debbano coincidere con i presupposti soggettivi che giustificano l’obbligo di risarcimento in forma specifica, tenuto conto della tendenziale sovrapponibilità degli interventi di ripristino ambientale necessari ad ottenere il raggiungimento degli obiettivi della bonifica e del risarcimento in forma specifica. La Direttiva 2004/35/CE “sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale”: - all’art. 3, paragrafo 1, lett. a), prevede, per il danno ambientale causato dalle attività pericolose elencate nell’allegato III - tra cui rientrano le operazioni di gestione di rifiuti e le attività di gestione dei siti di discarica - una forma di responsabilità oggettiva; - all’art. 3, paragrafo 1, lett. b), prevede, per il danno ambientale causato da attività diverse da quelle pericolose dell’allegato III, che l’autore risponda solamente in caso di comportamento doloso o colposo. L’art. 8 della direttiva prevede inoltre che la responsabilità oggettiva per il danno ambientale causato dalle attività pericolose, non abbia carattere assoluto. L’art. 8 al paragrafo 3 prevede infatti che l’interessato, con un’inversione dell’onere della prova, possa provare l’esistenza di circostanze idonee ad escludere il nesso causale (il fatto del terzo) o che assumano valenza scriminante (l’ordine dell’autorità), e al paragrafo 4 consente agli Stati membri di prevedere delle forme di esonero dalla responsabilità se l’interessato, anche in questo caso con un’inversione dell’onere della prova, sia in grado di dimostrare che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo e il danno ambientale è stato causato in base ad un’autorizzazione legittima dell’autorità, o a seguito dell’impiego di un prodotto che al momento in cui è stato utilizzato non era considerato probabile causa di pregiudizi per l’ambiente. Il legislatore nazionale nel recepire la direttiva comunitaria inizialmente aveva previsto un criterio di imputazione di tipo soggettivo anche per le attività pericolose ai sensi dell’allegato III della direttiva. Infatti il testo originario dell’art. 311 del D.lgs. n. 152 del 2006, prevedeva che “ chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato all’effettivo ripristino a sue spese della precedente situazione ”. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione 2007/4679 osservando che “alcune norme della Direttiva 2004/35/CE, in materia di danno ambientale, non sono state correttamente recepite dal Decreto Legislativo n. 152/06, che ha attuato la Direttiva in oggetto”. Il legislatore nazionale, per porre rimedio alla procedura di infrazione, ha quindi adeguato l’ordinamento nazionale a quello eurounitario con l’art. 25 della legge n. 97 del 2013, rubricato “Modifiche alla parte sesta del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente. Procedura di infrazione 2007/4679”, distinguendo il titolo di responsabilità di tipo oggettivo e soggettivo a seconda che il danno ambientale sia causato o meno da un’attività pericolosa. È stato quindi introdotto l’ art. 298 bis della parte sesta del D.lgs. n. 152 del 2006 , il quale prevede che la responsabilità in materia di tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente, che normalmente deve avvenire in forma specifica, trovi applicazione: “a) al danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate nell'allegato 5 alla stessa parte sesta e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività; b) al danno ambientale causato da un’attività diversa da quelle elencate nell'allegato 5 alla stessa parte sesta e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività, in caso di comportamento doloso o colposo”. Inoltre è stato modificato l ’art. 311, comma 2, del D.lgs. n. 152 del 2006 , prevedendo che “ quando si verifica un danno ambientale cagionato dagli operatori le cui attività sono elencate nell'allegato 5 alla presente parte sesta, gli stessi sono obbligati all'adozione delle misure di riparazione di cui all'allegato 3 alla medesima parte sesta secondo i criteri ivi previsti, da effettuare entro il termine congruo di cui all'articolo 314, comma 2, del presente decreto. Ai medesimi obblighi è tenuto chiunque altro cagioni un danno ambientale con dolo o colpa ”. In questo modo è stato recepito nell’ordinamento il principio di derivazione eurounitaria della responsabilità oggettiva per le attività pericolose, che costituiscono un numerus clausus , di cui all’allegato 5 del D.lgs. n. 152 del 2006, che corrisponde all’allegato III della direttiva 2004/35/CE. Va anche sottolineato che il legislatore nazionale nel dare attuazione alle disposizioni dell’art. 8 della direttiva, non ha configurato come assoluta tale responsabilità oggettiva per le attività pericolose, ma ha ammesso delle forme di esonero. Infatti l’ art. 308, comma 4 , ha previsto che non sono a carico dell’operatore i costi di ripristino, qualora lo stesso, con un’ inversione dell’onere della prova , possa “provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno: a) è stato causato da un terzo e si è verificato nonostante l'esistenza di misure di sicurezza astrattamente idonee; b) è conseguenza dell'osservanza di un ordine o istruzione obbligatori impartiti da una autorità pubblica, diversi da quelli impartiti a seguito di un'emissione o di un incidente imputabili all'operatore; in tal caso il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio adotta le misure necessarie per consentire all'operatore il recupero dei costi sostenuti”. Al comma 5 del medesimo art. 308, il legislatore ha altresì previsto che non sono a carico dell’operatore i costi di ripristino, qualora lo stesso sia in grado di dimostrare, anche in questo caso con un’inversione dell’onere della prova, due distinti presupposti, ovvero “che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo e che l'intervento preventivo a tutela dell'ambiente è stato causato da: a) un'emissione o un evento espressamente consentiti da un'autorizzazione conferita ai sensi delle vigenti disposizioni legislative e regolamentari recanti attuazione delle misure legislative adottate dalla Comunità europea di cui all'allegato 5 della parte sesta del presente decreto, applicabili alla data dell'emissione o dell'evento e in piena conformità alle condizioni ivi previste; b) un'emissione o un'attività o qualsiasi altro modo di utilizzazione di un prodotto nel corso di un'attività che l'operatore dimostri non essere stati considerati probabile causa di danno ambientale secondo lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento del rilascio dell'emissione o dell'esecuzione dell'attività”. Pertanto, laddove gli articoli 242 e 244 del D.lgs. n. 152 del 2006 individuano il soggetto obbligato alla bonifica dei siti contaminati nel “responsabile” dell’inquinamento, gli stessi devono essere integrati con i criteri di imputazione di derivazione comunitaria recepiti dalla parte sesta del D.lgs. n. 152 del 2006, i quali implicano la necessaria distinzione tra attività pericolose ed attività non pericolose. Stesso ragionamento andrebbe fatto in relazione all’art. 192 sull’ordine di rimozione di rifiuti. Si può affermare quindi che: - in caso di attività pericolose è sufficiente che l’Amministrazione accerti in termini oggettivi la responsabilità di un operatore nella contaminazione di un sito, provando l’evento della contaminazione e, secondo il principio del “più probabile che non”, l’esistenza di un nesso causale tra la condotta attiva o omissiva dell’operatore e l’inquinamento riscontrato, senza essere tenuta a dimostrare l’elemento soggettivo del dolo o della colpa; - l’operatore, alla luce dell’inversione dell’onere della prova prevista dalla norma, può dimostrare, fornendone la prova rigorosa, che sussistono le circostanze ed i presupposti che elidono il nesso causale o le esimenti contemplate dall’art. 308, commi 4 e 5, del D.lgs. n. 152 del 2006; - solo nel caso di attività non pericolose , e quindi non comprese tra quelle contemplate dall’allegato 5 alla parte sesta del D.lgs. n. 152 del 2006, l’Amministrazione, nell’individuare il responsabile dell’inquinamento destinatario dell’ordine di bonifica, deve provare non solo in termini oggettivi l’evento della contaminazione e, secondo il principio del “più probabile che non”, l’esistenza di un nesso causale tra la condotta attiva o omissiva dell’operatore e l’inquinamento riscontrato, ma anche l’elemento soggettivo del dolo o della colpa (v. T.A.R. Veneto, IV sez., n. 458 del 2024). In particolare, le attività professionali intese dal legislatore come ex se pericolose per loro stessa natura sono ricondotte alle ipotesi di impianti soggetti ad autorizzazione integrata ambientale; alle operazioni di gestione dei rifiuti, compresi la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento di rifiuti e di rifiuti pericolosi, nonché la supervisione di tali operazioni e i controlli successivi sui siti di smaltimento soggetti ad autorizzazione o registrazione; di qualsiasi spedizione transfrontaliera di rifiuti all'interno dell'Unione europea; della gestione dei rifiuti di estrazione; della gestione dei siti di stoccaggio geologico di biossido di carbonio; degli scarichi nelle acque interne superficiali e nelle acque sotterranee soggetti ad autorizzazione preventiva o registrazione; di fabbricazione, uso, stoccaggio, trattamento, interramento, rilascio nell'ambiente e trasporto sul sito di sostanze pericolose; di trasporto per strada, ferrovia, navigazione interna, mare o aria di merci pericolose o di merci inquinanti; di traporto o di rilascio di organismi geneticamente modificati (Allegato V alla Parte VI d.lgs. n. 152/2006, cit.). È evidente che tenendo conto del carattere impugnatorio dei giudizi promossi avverso i provvedimenti che ordinano la bonifica, la prova delle circostanze che elidono il nesso causale e delle esimenti, deve essere data dall’interessato in sede procedimentale. Non trattandosi di un giudizio sul rapporto, come quello che si svolge innanzi al giudice ordinario sulla domanda di risarcimento, il giudice amministrativo può solamente verificare se la mancata considerazione di tali circostanze da parte dell’Amministrazione possa essere sintomatica di un vizio di difetto di presupposto o di difetto di istruttoria e di motivazione, ferma restando la possibilità di un’eventuale riedizione dell’attività amministrativa alla luce degli elementi inizialmente non considerati. Solidarietà e concorso nel danno ambientale Anche in tal caso la disciplina contenuta nella parte VI può valere anche per gli obblighi di bonifica: « nel caso di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale » con previsione della trasmissibilità del debito, secondo le leggi vigenti, agli eredi, nei limiti del loro effettivo arricchimento ( art. 311, comma 3, d.lgs. n. 152/2006 ); L'unicità dell'evento dannoso importa la necessità di comprendere se il medesimo risulti causalmente imputabile a più soggetti secondo un principio di responsabilità individuale e parziaria oppure se operi il più generale principio della responsabilità solidale di cui all'art. 2055 c.c., ai fini del quale assume rilievo la posizione del soggetto che subisce il danno, nel cui favore è stabilita la solidarietà, che nel caso di specie è individuato nello Stato, per il tramite del Ministro dell'ambiente, quale ente esponenziale di un interesse collettivo a carattere nazionale ed unitario. Deve ritenersi che il principio della solidarietà sia applicabile nel caso in cui l'inquinamento possa essere ritenuto un unico fatto dannoso, mentre diversa è l'ipotesi in cui sia avvenuta una contaminazione a seguito di distinti eventi dannosi o pericolosi, che siano giuridicamente scindibili poiché riconducibili a differenti decorsi causali. La disciplina posta dal danno ambientale pare doversi perciò leggere in un rapporto di genus a species rispetto alla disciplina generale in tema di solidarietà dei coobbligati, attesa la rilevanza della responsabilità parziaria posta in punto di danno ambientale (art. 311, comma 3 d.lgs. n. 152/2006), che pone l'obbligo di riparazione solo in misura corrispondente al contributo di ciascuno al verificarsi dell'inquinamento. La speciale disciplina ora in esame mira ad evitare la responsabilità anche per fatti altrui, sicché opera nei casi di plurime condotte indipendenti e non anche in quelli di azioni od omissioni concorrenti in senso stretto alla concretizzazione di un'unitaria condotta di danneggiamento dell'ambiente, che restino tutte tra loro avvinte quali indispensabili antefatti causali di questa. Ne consegue che, in tale ultima ipotesi, non soffre limitazione la regola di cui all'art. 2055 c.c. in tema di responsabilità di ciascun coautore della condotta per l'intero evento causato. Azione risarcitoria ex art. 311 del Codice proponibile dinanzi al G.O. - ambito applicativo differente rispetto a quello delle bonifiche L’art. 300, al comma 1, definisce il danno ambientale come qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell'utilità assicurata da quest'ultima provocato, in confronto alle condizioni originarie, alle specie e agli habitat naturali protetti, alla flora e alla fauna selvatiche e alle acque interne e costiere. Volendo leggere la norma alla luce del nuovo art. 9 della Costituzione diremmo che la tutela riguarda la biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni. L’art. 311 prefigura ora quale soluzione ordinaria il risarcimento in forma specifica mentre il risarcimento per equivalente costituisce la soluzione residuale. Invero, solo per il caso in cui siano in tutto o in parte omesse, o, comunque, attuate in modo non completo o difforme dai termini prescritti le misure di riparazione, il Ministero dell'ambiente dovrà provvedere alla determinazione dei costi necessari per darvi completa e corretta attuazione e agire nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti. Il danno ambientale è perciò una speciale categoria di danno, la cui disciplina, seppur fondata sugli istituti della responsabilità extracontrattuale da fatto illecito secondo il principio del neminem laedere (art. 2043 c.c:), prevede come modalità privilegiata dall’ordinamento il risarcimento in forma specifica (art. 2058 c.c.), inteso come ripristino del bene danneggiato, seppur con declinazioni differenti. Si distingue tra ripristino in senso stretto (o riparazione primaria), che si riferisce alle condizioni e ai materiali originari e ripristino funzionale (o riparazione complementare); in tale caso i beni non tornano alle condizioni originarie e la riproduzione riguarda beni con caratteristiche diverse o in siti alternativi che siano in grado di assicurare la stessa funzionalità di quello danneggiato (es. la funzione idrogeologica di un bosco compromessa a seguito di disboscamento abusivo può essere ripristinata, senza riprodurre il bosco, attraverso manufatti alternativi come briglie o muri di sponda). In ogni caso il ripristino deve consistere nella riqualificazione del sito e del suo ecosistema, mediante qualsiasi azione o combinazione di azioni, comprese le misure di attenuazione o provvisorie, dirette a riparare, risanare o, qualora sia ritenuto ammissibile dall'autorità competente, sostituire risorse naturali o servizi naturali danneggiati. Tuttavia lo strumento stesso dell’azione giurisdizionale ha perso il proprio originario ruolo di vettore privilegiato dell’iniziativa ministeriale per fare spazio ad un modello di intervento provvedimentale che assume le forme dell’ ordinanza emanabile a conclusione di un’istruttoria amministrativa tipizzata, sul cui sfondo sono sempre operative le garanzie assicurate agli interessati dalla l. 7 agosto 1990 n. 241. Ordinanza impugnabile – anche da quei soggetti che non hanno più legittimazione ad agire per il risarcimento del danno ambientale, cioè soggetti portatori di un interesse alla tutela ambientale indicati dall'art. 309 fra cui gli enti territoriali e le associazioni ambientaliste - dinanzi al TAR del luogo in cui si è prodotto il danno ambientale in sede di giurisdizione esclusiva. Il Ministro dunque può optare certamente per l'azione giudiziaria in sede civile o esercitare l'azione in sede penale mediante costituzione di parte civile (art. 311), e potrà, in alternativa alla via giudiziaria, utilizzare esclusivamente strumenti di diritto pubblico, adottando un apposito procedimento che si svolge in via amministrativa sino all'emanazione dell'ordinanza di ripristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica (art. 313, comma 1°). In quest'ultimo caso ci troveremo di fronte ad un provvedimento amministrativo esecutivo che ingiunge il ripristino ed è impugnabile solo davanti al giudice amministrativo in via di giurisdizione esclusiva (art. 133, comma 1°, c.p.a.). L’ art. 315 stabilisce che l’adozione dell’ordinanza preclude al Ministro di procedere in giudizio per il risarcimento del danno, fatta salva la residua possibilità di intervento in qualità di persona offesa dal reato nel processo penale. La dottrina concorda nel ritenere la disciplina del decreto totalmente "sbilanciata" a favore del procedimento amministrativo e dello strumento di diritto pubblico rispetto all’azione giudiziaria in sede civile. Inoltre lo spazio residuo per il risarcimento è eroso dalle bonifiche di cui alla parte IV che possono essere considerate alla stregua di un particolare metodo di ripristino idoneo a eliminare (o almeno ridurre significativamente) il danno differenziale residuo da risarcire ancora in forma specifica o per equivalente. Criterio di riparto tra interventi previsti dalla disciplina sulle bonifiche da una parte e azione di risarcimento del danno e altre tutele previste dalla parte VI Tale criterio può essere correlato alla tipologia delle matrici ambientali coinvolte: sulle matrici suolo, sottosuolo e acque sotterranee trova spazio la bonifica, mentre in relazione alle acque, agli habitat e in relazione alla biodiversità trova applicazione il diverso modello risarcitorio. Ma è anche valida la dicotomia spazi antropizzati, dunque già compromessi dal punto di vista naturalistico vs. areali in condizione di naturalità, con applicazione del paradigma della bonifica circoscritto ai primi e applicabilità delle misure di prevenzione e risarcimento-ripristino ai secondi, anche ove l’inquinamento abbia ad oggetto il suolo o le acque sotterranee in contesto non antropizzato o antropizzabile. La bonifica è infatti da considerare la tecnica di intervento previlegiata dall’ordinamento per i contesti antropizzati, rispetto ai quali non sia preponderante il recupero delle condizioni di naturalità originarie. La disciplina delle bonifiche è stata disegnata avendo presente il tema degli impatti al suolo delle attività industriali e di gestione dei rifiuti e imperniata sulla nozione di ‘sito’, mentre la disciplina del danno ambientale non sconta restrizioni spaziali predeterminate, e anzi assume quale orizzonte spaziale le unità ecosistemiche. Altra differenza è nella finalità: le bonifiche hanno come obiettivo (limitato) la riconduzione dei valori degli inquinanti entro limiti (concentrazione soglia di rischio: c.s.r.) differenziati riferibili alle destinazioni urbanistiche del sito, mentre il danno ambientale si configura in ogni caso di significativo e misurabile deterioramento delle matrici ambientali (art. 300 codice) e il ripristino ambientale mira mediante la cd. riparazione primaria al pieno recupero qualitativo-funzionale delle matrici. Dunque da una parte si cerca la mera riconduzione dei fattori alteranti entro soglie ritenute prive di attitudine ad esporre a rischi concreti l’uomo in considerazione della conformazione insediativa (più che naturalistica) del sito, dall’altra la piena restitutio in integrum . Il modello di stampo risarcitorio si prefigge la finalità di restituire l’ambiente alla condizione di purezza originaria, e di conseguenza si concentra sulle funzioni ecosistemiche e sulla biodiversità; il modello imperniato sulla bonifica ha ordinariamente ad oggetto siti che nel tempo hanno subito processi di più o meno spinta antropizzazione (siti produttivi, discariche, luoghi urbani, porti, etc.) e sono urbanisticamente destinati ad ulteriori usi antropici (produttivi, residenziali, etc.), con la conseguenza che gli obiettivi di risanamento possono limitarsi alla riconduzione dei fattori perturbativi al di sotto della soglia di concreta rischiosità per l’uomo negli spazi entro cui le comunità sono insediate (chiarissimo sul punto, Emanuele Boscolo, “ Bonifiche e risarcimento del danno ambientale: Rapporti incerti entro la cornice della funzione di ripristino ”; Rivista giuridica dell’Edilizia, n. 1-2021). Altre differenze e altri punti di contatto Il grado di tipizzazione delle operazioni, delle sequenze procedimentali e dei poteri amministrativi, per una esigenza di garanzia delle parti private coinvolte, è massimo nelle bonifiche, mentre le norme sul ripristino e sul risarcimento si presentano a fattispecie aperta. Le competenze in materia di bonifiche sono distribuite tra i diversi livelli amministrativi mentre i procedimenti in tema di rispristino e risarcimento sono saldamente accentrati a livello ministeriale. Infine, l’intervenuta abrogazione, a far data dal 2013, della lett. i) dell’art. 303 del d. lgs. 152 del 2006 – che escludeva l’applicazione della disciplina in tema di danno ambientale alle situazioni di inquinamento per le quali erano state iniziate le azioni di bonifica disciplinate dal Titolo V della Parte IV, così come a quelle per le quali le bonifiche erano terminate -, può voler significare la definitiva presa d’atto, da parte del legislatore, che danno ambientale e contaminazione del sito sono due nozioni distinte e che, soprattutto, la prima contiene la seconda senza esaurirsi in essa. L’effetto dell’abrogazione della lett. i) dell’art. 303 d. lgs.152/2006 è infatti che le procedure per la riparazione del danno ambientale potranno essere attivate anche rispetto a siti che, nonostante siano bonificati, presentino ancora delle criticità connesse a deterioramenti nell’ambiente che rendano necessarie attività di ripristino ambientale (v. Cons. Stato, IV sez., n. 1397/2023). Ma nonostante queste differenze le due discipline si prestano ad una lettura unitaria e possono per alcuni aspetti (es. accertamento della responsabilità – elemento soggettivo – nesso di causalità fra danno e attività di singoli operatori, regola della responsabilità parziaria) essere integrate reciprocamente fra loro, essendo tese al ripristino ambientale ed essendo entrambe inquadrabili nell’alveo della responsabilità extracontrattuale. D’altro canto la bonifica ha una funzione di reintegrazione del bene giuridico propria delle responsabilità civile e riecheggia il rimedio della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 c.c.. Ad esempio, al fine di accertare la catena causale fra danni e attività di singoli operatori si può fare comunque ricorso ad alcuni elementi presuntivi, conferendo significatività alla vicinanza dell’attività dell’operatore all’area incisa ovvero alla corrispondenza fra le sostanze inquinanti rinvenute e quelle del processo produttivo anche con ricorso a presunzioni secondo il criterio del più probabile che non. Tuttavia, occorre fare anche attenzione ad alcune differenze: in base all’art. 303, e a differenza della disciplina sulle bonifiche, la parte sesta del Codice non si applica alle contaminazioni storiche , cioè a quelle intervenute prima dell’entrata in vigore del Codice (mentre invece per la giurisprudenza amministrativa, v. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.10 del 2019, è pacifica la possibilità di configurare obblighi di bonifica a carico dei responsabili di contaminazioni storiche ove gli effetti dannosi dell'inquinamento permangano al momento dell'adozione del provvedimento); né al danno in relazione al quale siano trascorsi più di trent’anni dalla sua verificazione. Inoltre la parte sesta (v. art. 303, lett. h) non si applica al danno causato da inquinamento di carattere diffuso per il quale non sia possibile risalire a singole responsabilità (invece per le bonifiche l’art. 250 prevede comunque un onere di attivazione d’ufficio da parte del Comune). Rapporto con le azioni civili ex art. 313 comma 7 (azioni a tutela della proprietà o della salute). Non ci dovrebbe essere invece pericolo d’interferenze fra l’azione ex art. 311 e le azioni intentate dai privati che si dicono lesi nella proprietà o nella salute a causa della situazione d’inquinamento, trattandosi di azioni poste a tutela d’interessi diversi. Rileva in questo caso infatti la distinzione tra il danno all'ambiente in sé considerato (cfr. gli artt. 300, 311, cod. ambiente) e il danno ai singoli beni di proprietà pubblica o privata. Nel primo caso si parla di "compromissione in sé del bene ambientale" che prescinde dal mero pregiudizio patrimoniale derivato ai singoli beni che ne fanno parte, perché il bene ambientale deve essere considerato per il valore di uso da parte della collettività, con la conseguenza che il risarcimento per la sua lesione non può che riguardare un ente esponenziale della collettività. Nel d.lgs. n. 152/2006, a differenza della precedente legislazione, vi è un accentramento della legittimazione a favore dello Stato, che diviene il solo legittimato a proporre l'azione risarcitoria. In tal senso l'art. 311, comma 1°, stabilisce che il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio agisce, anche esercitando l'azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, oppure procede ai sensi delle disposizioni della parte VI° del presente decreto. Per quanto concerne il danno ai singoli beni o comunque a posizioni individuali, tale danno trova la sua tutela nelle regole ordinarie della responsabilità civile . Questa distinzione tra il danno collettivo (agli interessi collettivi) e il danno al privato portatore di diritti soggettivi costituzionalmente protetti (diritto alla salute o all'ambiente salubre) o ai beni in sua proprietà, è stato esplicitato, in conformità al contenuto della dir. 2004/35, all' art. 313, comma 7° , che prevede la possibilità per i soggetti singolarmente danneggiati nella loro salute o nel godimento dei loro beni da un fatto produttivo di danno ambientale di agire per il risarcimento del danno (cfr. art. 2043 cod. civ.) davanti al giudice ordinario nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi. La dottrina ha precisato che con tale disposizione si è riconosciuto ai soggetti (persone fisiche, persone giuridiche, associazioni ambientaliste, enti territoriali) che lamentano un danno diverso ed ulteriore rispetto al danno ambientale, il diritto di promuovere dinanzi al giudice ordinario tutte le azioni dirette ad ottenere il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale derivante da illecito ambientale secondo gli artt. 2043 e 2059 cod. civ.. E sempre nel caso del danno da inquinamento ambientale, ciascun cittadino minacciato e anche gli enti territoriali diversi dallo Stato potranno avvalersi della tutela di urgenza ex artt. 700 cod. proc. civ. e 844 cod. civ. per conseguire provvedimenti di tipo inibitorio. Qualora l’attività nociva sia svolta in conformità a provvedimenti autorizzativi della P.A., ciò non incide sul riparto di giurisdizione (atteso che ai predetti provvedimenti non può riconoscersi l'effetto di affievolire diritti fondamentali dei terzi) ma esclusivamente sui poteri del giudice ordinario , il quale, nell'ipotesi in cui l'attività lesiva derivi da un comportamento materiale non conforme ai provvedimenti amministrativi che ne rendono possibile l'esercizio, provvederà a sanzionare, inibendola o riportandola a conformità, l'attività rivelatasi nociva perché non conforme alla regolazione amministrativa, mentre, nell'ipotesi in cui risulti tale conformità, dovrà disapplicare la predetta regolazione ed imporre la cessazione o l'adeguamento dell'attività in modo da eliminarne le conseguenze dannose. Non è neppure detto che le immissioni che rispettino formalmente i limiti massimi di tollerabilità stabiliti dalle leggi e dai regolamenti nell’interesse della collettività non siano comunque illecite, in quanto intollerabili rispetto alla proprietà del vicino più esposto rispetto agli altri alle immissioni; mentre è senz’altro illecito il superamento dei detti limiti.
Autore: a cura di Stefano Tenca 8 novembre 2024
(I contenuti della presente nota sono condivisi e sottoscritti anche da Maria Barbara Cavallo, Silvana Bini, Nicola Fenicia, Francesco Tallaro, Roberto Valenti, Paolo Nasini, Mara Bertagnolli e Carmine Spadavecchia, oltre che, fuori dalla Redazione, da Maria Abbruzzese, Presidente di Sezione presso il TAR per la Campania, sede di Napoli ) 1) Un quotidiano ha pubblicato il 21 ottobre l’intervista [1] di un componente in carica del CPGA (organo di autogoverno dei magistrati amministrativi), che ha affermato di esprimere una “ personale convinzione, da cittadino e da giurista ”, anche se poi è stato (correttamente) qualificato dal giornalista quale membro del CPGA e Presidente della sez. II del T.A.R. Puglia Lecce. Nell’articolo si censura espressamente l’errore della sentenza del Tribunale di Roma, il quale avrebbe “ esondato dai propri poteri ”. Quest’ultimo, come è noto, ha recentemente ha negato la convalida del trattenimento di alcuni migranti presso il centro italiano di permanenza per il rimpatrio in Albania. Il contesto generale di questi giorni è molto teso, poiché alcuni esponenti politici sembrano andati oltre il limite della legittima critica ad una pronuncia giurisdizionale, attaccando i singoli magistrati ed anche la magistratura nel suo insieme, accusata di essere di parte, alimentando in questo modo un forte discredito nei confronti dell’istituzione, al punto che la maggioranza dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura ha depositato la richiesta di apertura di una pratica a tutela dell'indipendenza e dell'autonomia dei magistrati [2] . Il magistrato intervistato aveva ottenuto, l’11 settembre scorso, l’autorizzazione ad assumere un incarico di diretta collaborazione con il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (quale esperto per il monitoraggio della giurisprudenza euro-unionale). 2) Va premesso che la collaborazione da parte di magistrati in qualsiasi forma a giornali e riviste costituisce certamente espressione di diritti fondamentali quali la libertà di manifestazione del pensiero, e quindi non può e non deve essere messa in discussione. Recentemente anche il CSM (delibera I Commissione del 18/6/2024) , ha ribadito che rientrano tra gli incarichi extragiudiziari liberamente espletabili, le attività che costituiscono espressione di diritti fondamentali, tra l’altro, la libertà di manifestazione scritta e verbale del pensiero, di associazione, di esplicazione della personalità, la pubblicistica, la collaborazione in qualsiasi forma a giornali, riviste, enciclopedie e simili, la partecipazione, come relatori, a seminari, convegni, incontri di studio o attività similari se non retribuita. La domanda che ci si pone è se l’opinione espressa nell’intervista, al di là del suo contenuto, sia suscettibile di appannare l’ immagine di imparzialità , in quanto esternata da un magistrato che appartiene all’organo di autogoverno della giustizia amministrativa ed è dunque chiamato a compiere scelte a tutela dell’istituzione: la sua carica deve infatti presiedere alla difesa delle prerogative di autonomia e indipendenza dei magistrati, nel loro ruolo di garanzia del cittadino contro abusi e arbitri dell’esercizio del potere pubblico. L’intervento sulla stampa, nella sua oggettività, si espone al rischio di una strumentalizzazione in quanto interpretabile dal lettore come di sostegno alle posizioni politiche espresse contro la magistratura. A tal proposito il quotidiano – forse per rafforzare l’opinione terza e imparziale del giurista – non dà conto del suo ruolo di collaborazione diretta con il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per la durata del Governo. Paradossalmente, un quadro distorto è stato rappresentato nei confronti dei lettori. 3) La regola 1 del Codice etico dei magistrati amministrativi è la seguente: “ Nello svolgimento delle sue funzioni ed in ogni comportamento professionale il magistrato si ispira a valori di disinteresse personale, di indipendenza e di imparzialità ”. Filippo Patroni Griffi, già Presidente del Consiglio di Stato e oggi giudice costituzionale, in occasione del 1° congresso magistrati amministrativi tenutosi nel 2019, disquisendo sul tema dell’etica pubblica ha sostenuto che il magistrato deve sempre essere percepito dalla collettività come retto e indipendente. Il Codice etico (specifico) dei componenti del CPGA al par. 2 statuisce che “ Il componente osserva nella vita sociale una condotta ispirata a dignità e decoro adeguati al prestigio della funzione esercitata; adotta un comportamento discreto e riservato, evitando esternazioni e collegamenti con la stampa ed altri mezzi di comunicazione ”, mentre l’ultimo par. sancisce che il componente si “ impegna a non assumere, durante il suo mandato: … b) incarichi che, in relazione all’organo che li conferisce, possano comportare condizionamenti per l’attività di componente ”. Invero, le disposizioni del codice etico sono caratterizzate da un limite interno, poiché ai sensi del par. 1 “ non hanno natura ed efficacia di norme giuridiche; esse costituiscono patrimonio ideale e pratico affidato alla coscienza individuale dei componenti il Consiglio di Presidenza. La forza del codice risiede solo nella spontanea adesione di ciascuno alle regole in esso contenute ”. Ad ogni modo questo episodio può fornire uno spunto di riflessione, visto che il quadro regolatorio di soft law vigente si rivela insufficiente a garantire riserbo e self restraint a cui dovrebbe improntarsi il comportamento di chi ricopre la carica di componente dell’organo di autogoverno. Si noti altresì che l’ art. 3, comma 1, del Regolamento interno di funzionamento del Consiglio di Presidenza , pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13/2/2004, prevede già espressamente che non possano essere autorizzati ai componenti del Consiglio di Presidenza gli incarichi di segretario generale, capo dipartimento, capo di gabinetto e capo ufficio legislativo presso gli enti e le istituzioni previsti dall’art. 3, comma 3, lettere a) e b), del D.P.R. n. 418 del 1993 (ossia la Presidenza della Repubblica, il Parlamento, la Corte costituzionale, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, i Ministeri, gli altri organi di rilevanza costituzionale, le cariche e gli incarichi presso autorità amministrative indipendenti, ovvero presso soggetti, enti e istituzioni, che svolgono compiti di alta amministrazione e di garanzia). 4) Il delineato panorama consacra il principio di carattere generale dell’indipendenza e dell’imparzialità del magistrato , che potrebbe ritenersi leso nel caso in discussione, per il pregiudizio arrecato all’immagine di terzietà di chi esercita una funzione soggetta soltanto alla legge. Peraltro, sarebbe auspicabile una declinazione del superiore principio con l’elaborazione di una serie comportamenti virtuosi da promuovere, vere e proprie best practice del magistrato amministrativo. A tal proposito, la delibera del 25/3/2021 n. 40 del CPGA , riguardante l’ uso dei social media da parte del magistrato, richiama i codici etici e le norme disciplinari “ al fine di salvaguardare il prestigio e l’imparzialità dei singoli magistrati e della giustizia amministrativa nel suo insieme e la fiducia di cui sia i singoli che l’Istituzione devono godere nell’opinione pubblica ”. Viene aggiunto (art. 5) che “ I magistrati amministrativi adottano elevati parametri di continenza espressiva, utilizzando un linguaggio adeguato e prudente rispetto a tutte le interazioni in essere sulle piattaforme di social media, nonché con riferimento al rischio della perdita di controllo del o dei contenuti immessi ed alla tipologia di contenuto oggetto di pubblicazione e diffusione ”. Se sono state elaborate raccomandazioni puntuali circa l’utilizzo dei social media da parte dei magistrati, finalizzate a salvaguardare il prestigio e l’imparzialità come singoli e della giustizia amministrativa nel suo insieme (nonché la fiducia di cui devono godere nell’opinione pubblica), il comportamento di coloro che ricoprono il delicato ruolo di componente dell’organo di autogoverno non può restarne esente, così da lasciare, ad esempio, una generalizzata deregulation nei rapporti con la stampa. 5) Un tale approfondimento è indubbiamente di competenza del CPGA. Anzitutto andrebbe elaborato un quadro regolatorio puntuale di incarichi extragiudiziari non compatibili con il ruolo di componente togato del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa , trattandosi di carica che presuppone lo svolgimento delle funzioni in una condizione di assoluta indipendenza ed imparzialità. Molto delicato si rivela il tema della partecipazione e collaborazione con tv, giornali, riviste anche telematiche. Posto che è incontroversa l’ampia libertà di discussione e dibattito scientifico in un convegno o su una rivista specializzata, si pone l’interrogativo circa l’opportunità di scrivere articoli di commento a sentenze sui quotidiani, oppure di rilasciare interviste o di partecipare a trasmissioni televisive su questioni giuridiche (di diritto amministrativo e non) di forte impatto socio-politico. Già alla luce del codice etico, i componenti del CPGA assumono condotte improntate alla continenza e al riserbo con divieto di conferire con la stampa, e non accettano incarichi suscettibili di influenzare il sereno svolgimento dell’attività. Se il semplice richiamo alla “coscienza individuale” e alla “spontanea adesione” può rivelarsi debole, non è il caso di intervenire quanto meno con raccomandazioni e linee-guida appropriate? [1] Questo il testo: https://www.ilgiornale.it/news/politica/giurista-dico-appellarsi-corte-europea-stato-errore-2383886.html [2] Questa la notizia dell’Ansa: https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2024/10/22/toghe-csmaprire-pratica-a-tutela-giudici-sezione-migranti_0228154e-02e0-4e88-a605-f99e096d7302.html
Show More

Le nostre tematiche


Share by: