“Se talvolta inclinassi la bilancia della giustizia, 

fa' che ciò avvenga non sotto il peso dei doni,

ma per un impulso di misericordia” 

(Miguel de Cervantes)
 

"LA TUTELA AMMINISTRATIVA: DAL SINDACATO INCIDENTALE DEL GIUDICE PENALE ALLA POSSIBILE ESTENSIONE DEL SINDACATO DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO"

Convegno in presenza a Bergamo:

Venerdì 15 novembre 2024 ore 15.00

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L’angolo dell’attualità 

Autore: a cura di Roberto Lombardi 24 luglio 2025
Quando, nell'ormai lontano 2004, chi vi scrive entrò in magistratura ordinaria, al Governo c'erano Silvio Berlusconi ed una maggioranza politica apertamente critica nei confronti del sistema giudiziario esistente. Era ormai passata l'epopea di Falcone e Borsellino - vittime di stragi mafiose ripugnanti che lo Stato non ha saputo prevenire -, ma ancor di più aveva ormai esaurito la sua spinta la controversa stagione di " Mani pulite ". La magistratura - specie quella penale - non era più considerata intoccabile , in quanto non godeva più dello stesso credito di dieci anni prima nell'opinione pubblica, e infatti fu "toccata" con la cosiddetta riforma Castelli . Pur con alcuni interventi probabilmente positivi su problemi reali (come l'introduzione della temporaneità delle funzioni direttive e la tipizzazione degli illeciti disciplinari), la prima vera riforma della magistratura ordinaria - in parte poi ritoccata dall'intervento della L. n. 111 del 2007 - , disancorando il passaggio agli incarichi di Presidente e Procuratore dalla regola della sola progressione per anzianità di servizio (cui conseguiva una semplice valutazione di "non demerito", ai fini dell'attribuzione delle funzioni) ha aperto le porte a un'estremizzazione del potere delle cosiddette correnti in seno al CSM. Dopo di che, gli accertati abusi correntizi sulle nomine hanno avviato un'ulteriore stretta nei confronti dei magistrati da parte della politica. Si potrebbe dire, con una sintesi estrema e forse un po'superficiale, ma non lontana da vero, che la riforma Castelli ha prodotto il fenomeno "Palamara" , e che il " caso Palamara ", aggravando una patologia già esistente, ha generato la necessità di operare nuovi interventi sul presunto malato grave, ovvero il sistema giudiziario nel suo complesso. Resta a questo punto da capire quanto il malato sia grave e quanto la medicina elaborata dall'attuale governo con il suo progetto di riforma della Costituzione sulla cosiddetta separazione delle carriere sia quella giusta e proporzionata rispetto al male da curare. Di certo, si è detto molto spesso, e non senza un minimo di ragione, che la magistratura abbia mostrato una certa incapacità di intervenire dal suo interno su alcune oggettive disfunzioni del sistema. La più grave incongruenza, a parere del sottoscritto, è stata l'estrema tolleranza nei confronti di un certo modo di fare il magistrato che, prima ancora che dannoso verso il sistema e verso la collettività, è stato percepito in modo critico e a tratti inaccettabile dalla classe forense, che pure spesso è restia, per comprensibili motivi, a denunciare la cosa alle Autorità competenti. L'arroganza, la superficialità di scrittura, la lentezza nelle decisioni e la maleducazione che in alcuni casi caratterizzano l'interpretazione del ruolo di giudice (ma lo stesso vale, mutatis mutandis , per i p.m.) meritavano e meriterebbero una presa di posizione molto severa da parte del CSM e, prima ancora, da parte dei capi degli uffici. E non può trovare facile compensazione nella pure indubbia elevata e generalizzata preparazione tecnica della categoria - scelta a seguito di uno dei concorsi più seri e qualificanti in circolazione -, caratteristica, questa, vieppiù esaltata dall'incomparabilità di spessore culturale specifico che esiste tra la magistratura togata e la magistratura onoraria, cui pure vanno a volte addebitate, per colpa del sistema di selezione di tale importante e rilevante categoria di ausilio giurisdizionale , pronunce che non fanno altro che appesantire il lavoro dei giudici togati di secondo grado e di quelli di legittimità. Correlativamente, un certo modo di fare giustizia di alcuni Procuratori della Repubblica - "condito" da smania di protagonismo e indagini apparentemente "mirate" - ha sempre più creato conflitti anche gravi nel tessuto interno degli Uffici, esponendo gli stessi a una facile critica e richiesta di "ordine" dall'esterno. D'altra parte, anche su questo aspetto la famosa riforma Castelli sembra avere fallito, producendo, con la semi-gerarchizzazione dell'ufficio del p.m., da un lato una eccessiva simbiosi tra Capo dell'ufficio e polizia giudiziaria, dall'altro una mortificazione dell'iniziativa del singolo magistrato. La riforma costituzionale della magistratura approvata appena due giorni fa al Senato senza alcuna modifica rispetto al testo originario presentato dal Governo [1] ha la peculiare caratteristica di non affrontare nessuno dei nodi problematici emersi nel tempo con riferimento all'efficienza ed efficacia del sistema Giustizia - che prima di ogni altra cosa dovrebbe assicurare qualità e velocità di risposta alle istanze dei cittadini, qualunque sia il tenore di tali istanze -, ma di provare a ridefinire il ruolo di giudici e pubblici ministeri, separandone irreversibilmente i percorsi professionali. In aggiunta, il Legislatore mostra notevole sfiducia nel sistema che fino ad oggi ha regolato l' autogoverno dei magistrati ordinari, sottraendo ai due nuovi CSM (quello dei giudici e quello dei p.m.) le decisioni in materia disciplinare - che saranno effettuate da un ulteriore organo appositamente istituito, l' Alta corte - e svuotando di fatto il potere delle correnti con l'introduzione del metodo del sorteggio "secco" per accedere ai Consigli, in luogo del metodo elettivo. Al di là della correttezza o meno dell'intervento di ortopedia istituzionale immaginato dall'attuale Governo in carica - e posto che la riforma è proposta in aperto contrasto con la volontà di molti dei soggetti nei cui confronti agirà, ovvero i magistrati -, il panorama sul cui sfondo si delinea tale riforma è tutt'altro che indicativo di uno scenario idilliaco, per quanto riguarda i rapporti tra politica e magistratura , il che, già di per sé, avrebbe dovuto forse consigliare maggiore prudenza nell'imporre un punto di vista sull'altro senza una vera mediazione sostenibile. Colpiscono in particolare alcune vicende di contrasto palese tra poteri dello Stato che si sono nel frattempo delineate. In primis , la questione della definizione di Paese sicuro e del contenzioso in merito alla titolarità o meno del singolo Governo di individuare in modo definitivo e non sindacabile dai giudici quali siano i Paesi sicuri, nonché la vicenda Open Arms , riaccesa dalla decisione della Procura della Repubblica di impugnare la sentenza di assoluzione emessa in favore di Matteo Salvini. [2] Secondariamente, due potenziali conflitti tra politica e magistratura non decisivi ma fortemente evocativi del clima che si respira, ovvero la vicenda del disegno di legge " Salva Milano " - portato avanti in aperto contrasto con le iniziative giudiziarie della magistratura meneghina, che sono recentemente sfociate anche in richieste di custodia cautelare in carcere - e la questione delle Olimpiadi invernali 2026 , con la denuncia da parte dei pubblici ministeri procedenti, secondo qualificate fonti di stampa, del tentativo di sterilizzazione di una loro indagine in materia di turbativa d'asta tramite la qualificazione, per decreto legge, della Fondazione Milano-Cortina come ente di diritto di privato, sottraendolo ai vincoli e alle conseguenze giuridiche (e penali) che deriverebbero dalla sua qualificazione come organismo di diritto pubblico. [3] Da ultimo, i magistrati hanno espresso al più alto livello netta contrarietà al c.d. decreto sicurezza , tramite la relazione su novità normativa dell' ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione , sia con riferimento al merito che con riferimento al metodo seguito nell'approvazione della nuova disciplina. Colpisce, in particolare, in quest'ultimo scatto critico sull'operato del Governo in carica, il chiaro riferimento ad una sostanziale sovversione della separazione procedurale stabilita dalla Costituzione tra esercizio ordinario del potere legislativo delle Camere ed esercizio straordinario di tale potere da parte dell'esecutivo, avendo il Governo di fatto esautorato , secondo la relazione, con un decreto legge, il Parlamento nel mentre questo svolgeva il suo compito istituzionale, e procedeva alla discussione in Senato, dopo la prima approvazione della Camera, delle medesime norme confluite poi nel decreto-legge, al fine neanche troppo velato di evitare ulteriori "perdite di tempo" con l'eventuale ritorno (in caso di modifiche) del testo alla Camera. Tutto questo cosa c'entra però con la separazione delle carriere e con l'elezione tramite sorteggio dei rappresentanti di giudici e pubblici ministeri? Si pensa forse che i conflitti con la politica diminuiranno di numero o si attenueranno nell'intensità? O che l'individuazione di una linea di confine netta tra le due categorie di giuristi indebolirà la capacità della magistratura - nella sua rappresentanza istituzionale e associativa - di costituire un argine "tecnico" rispetto agli abusi del potere politico? Perché la verità è che se la tesi di partenza è che l'ufficio del pubblico ministero si propone nel nostro Paese come un "potere irresponsabile", avendoglielo l'attuale assetto costituzionale consentito, allora sarebbe stato forse più coerente sottoporlo direttamente alla direzione funzionale dell'esecutivo, con tutte le conseguenze che ciò comporterebbe, tuttavia, in termini di minori garanzie del cittadino comune . Correlativamente, pare ormai spuntata la tesi secondo cui i giudici sarebbero succubi dei pubblici ministeri, avendo trovato tale tesi clamorosa smentita in un numero veramente importante di vicende giudiziarie note al pubblico, ed essendo al contrario ormai evidente, anche in alcuni risvolti processuali balzati recentemente sugli altari della cronaca, che il magistrato requirente medio non gradisce che il suo giudice venga meno, anche solo in apparenza, al requisito dell'imparzialità e indipendenza dalle parti coinvolte nel procedimento. [4] Piuttosto, dovrebbe forse preoccupare il Legislatore la possibilità che un Ufficio del p.m. sottratto dalla comune cultura della giurisdizione propria dei giudici - fino ad oggi garantita a tutti i magistrati dal concorso unico, dal tirocinio indifferenziato prima dell'assunzione delle funzioni e dalla possibilità di provare almeno una volta entrambe le esperienze professionali - potrebbe, questo sì, diventare graniticamente autoreferenziale e interessato soltanto a produrre numeri in positivo. E i numeri che contano, nel settore penale, non sono altro che arresti, sequestri e condanne. Con la prospettiva che più le decisioni si identificano con richieste e non con veri e propri giudizi e più nell'animo del singolo magistrato rischia di avviarsi un lento ma inesorabile processo di deresponsabilizzazione e impoverimento culturale. D'altra parte, se è vero che inquisire è diverso dal giudicare , è altresì vero che l'attuale maggioranza politica non è arrivata al punto di negare che entrambe le attività devono essere svolte con indipendenza . E allora, si è chiesto Ferruccio de Bortoli a margine di una lectio magistralis di Gustavo Zagrebelsky, " perché separare le carriere "? [5] Nell'occasione, l'ex presidente della Corte costituzionale ci ha ricordato la vera essenza del ruolo di chi svolge funzioni giurisdizionali (qualunque esse siano), ovvero l'interpretazione di tale ruolo con modestia e rigore . E se il motivo della riforma in corso di approvazione in Parlamento sta nel fatto che si crede che la somma delle singole indegnità abbia colpito irreversibilmente la credibilità dell'intero ordine, forse bisognerebbe agire a fondo sulle cause. Ma se non si crede questo, e l'unica necessità è contenere le (relativamente poche) mele marce , possibilmente cacciandole per sempre dalla magistratura, torna in mente la sproporzione tra la punizione e i demeriti denunciata nel film " Gli spietati " dallo sceriffo, mentre il fuorilegge gli punta il fucile sulla testa prima di sparare. [6] [1] Proposta di legge C. 1917 (Meloni, Nordio; S. 1353) "Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare", approvata in prima lettura dalla Camera in data 16 gennaio 2025 e dal Senato in data 22 luglio 2025. [2] Si veda, per un approfondimento di entrambe le questioni, l'articolo pubblicato sul sito al seguente link: https://www.primogrado.com/i-migranti-della-discordia-viaggio-in-uno-scontro-tra-poteri-tipicamente-italico Nelle more, quanto alla definizione di Paese sicuro, è stata discussa la problematica giuridica di fondo dinanzi alla Corte di Giustizia UE (ma non è ancora stata depositata la relativa sentenza), dopo l'acquisizione del parere indipendente dell’Avvocato generale Richard de la Tour, che ha proposto alla Corte, tra l'altro, di pronunciarsi nel senso che non è contraria al diritto eurounitario una prassi in forza della quale uno Stato membro procede alla designazione di un Paese terzo come Paese di origine sicuro mediante atto legislativo, a condizione che il giudice nazionale investito del ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale proposta da un richiedente proveniente da un siffatto Paese disponga, in virtù dell’obbligo di un esame completo ed ex nunc imposto da detto articolo 46, paragrafo 3, delle fonti di informazione sulla cui base il legislatore nazionale ha inferito la sicurezza del paese interessato. [3] Per un approfondimento della vicenda delle Olimpiadi 2026 si rimanda al seguente link: https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/25_aprile_16/milano-cortina-2026-e-la-fondazione-pubblica-o-privata-i-pm-al-gip-manda-alla-corte-costituzionale-la-legge-meloni-oppure-37e8d020-9589-4b99-814e-f3d67b366xlk.shtml [4] Si veda al riguardo quanto riportato dal Corriere della Sera al seguente link: https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/25_giugno_16/caso-alessia-pifferi-il-pm-chiede-l-astensione-del-giudice-l-anm-di-cui-e-dirigente-critico-le-mie-indagini-547f7c66-e9f8-46a5-beab-af8eb701dxlk.shtml [5] L'articolo di de Bortoli è rinvenibile al seguente link: https://www.corriere.it/frammenti-ferruccio-de-bortoli/25_marzo_20/il-giudice-guido-galli-zagrebelsky-e-il-senso-della-giustizia-ac7e00cb-240f-42cb-ab81-3a49e66f5xlk.shtml [6] https://www.mymovies.it/film/1992/glispietati/
Autore: a cura di Roberto Lombardi 11 maggio 2025
La Corte di Cassazione ha recentemente ribadito fino a che punto arriva il potere giurisdizionale, di per sé molto esteso, del Consiglio di Stato . In effetti, l'organo di secondo grado della magistratura amministrativa è giudice di merito e di legittimità rispetto alle decisioni dei Tribunali territoriali (i quali, per effetto dell'espansione delle ipotesi di giurisdizione esclusiva, giudicano in alcuni casi anche su diritti soggettivi) e assomma in sé anche la prerogativa di svolgere funzioni consultive al servizio dell'esecutivo. Tra le non sconfinate fila del suo organico, peraltro, si annovera pure un numero importante di capi di gabinetto, vice capi ed esperti che svolgono le loro attività collaterali a quelle giurisdizionali o per la Presidenza del Consiglio o per importanti Ministeri. Posto che il rispetto dei limiti interni di giurisdizione , una volta giunti all'ultimo grado del giudizio amministrativo, non è sindacabile da nessuno - se non con rimedi diversi rispetto alla impugnazione sic et sempliciter della sentenza presso altro e "superiore organo" -, la Corte di Cassazione funge da guardiano del rispetto dei c.d. limiti esterni , sanzionando l’eventuale eccesso di potere giurisdizionale . In particolare, oltre al tradizionale controllo sul presupposto indefettibile che la materia oggetto di pronuncia rientri nell'ambito della giurisdizione amministrativa, il limite che il Consiglio di Stato non può oltrepassare è quello della sfera di azione riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa. Il confine è dunque il rispetto dell'ambito giurisdizionale affidato dalle norme al Giudice amministrativo: all'interno di tale perimetro, la cattiva applicazione delle regole del giudizio o perfino la negazione ingiusta della tutela richiesta non rilevano per la Cassazione; all'esterno di tale perimetro, il Consiglio di Stato entra in una “terra proibita” e subisce l'annullamento della sua sentenza. Il difetto assoluto di giurisdizione è peraltro un'area off limits in cui è lo stesso guardiano (la Corte di Cassazione) a stabilire le regole del gioco e ad applicarle. In linea di massima, come detto, l' eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata alla P.A. si ha quando il Giudice amministrativo compie atti di valutazione della mera opportunità dell'atto impugnato, sostituisce propri criteri di valutazione a quelli demandati normalmente alla discrezionalità dell'amministrazione, oppure adotta decisioni finali che si traducono nella sostanza in decisioni c.d. autoesecutive , ovvero interamente sostitutive delle determinazioni dell'amministrazione. Si ha invece invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore qualora il giudice speciale applichi non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un'attività di produzione normativa che non gli compete. Nello specifico caso che ha dato origine alla recente sentenza n. 7530/2025 delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione , il Consiglio di Stato avrebbe esautorato completamente la potestà discrezionale dell'organo di autogoverno della Giustizia tributaria, in quanto non si è limitato ad annullare il provvedimento di diniego di un'istanza di trasferimento, ma ha adottato una regola della fattispecie concreta "chiusa" (cioè non suscettibile di ulteriori interpretazioni) e contrastante con la disciplina interna di cui si era dotato tale organo. La vicenda riguardava la volontà di un Giudice tributario, già Presidente di una Corte di secondo grado, di avvicinarsi per motivi di salute alla propria residenza mediante l’istituto dell’ applicazione temporanea . Ai sensi del combinato disposto della normativa primaria ( d.lgs. n. 545 del 1992 ) e secondaria ( risoluzione interna del Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria ) applicabile, ciò non era possibile, in quanto l'unica possibilità per assecondare i desiderata del richiedente sarebbe stata quella di violare il termine massimo di un anno previsto per la durata dell'applicazione e di derogare alla necessità di conservazione delle medesime funzioni, in quanto era in quel momento indisponibile un posto come Presidente di Corte di secondo grado nel luogo di residenza dell'interessato; d'altra parte, l'interessato non avrebbe potuto partecipare, per ragioni anagrafiche e di imminente collocamento a riposo, all'interpello per il posto oggetto dell'applicazione temporanea. A fronte di questa disciplina espressa, tuttavia, il Consiglio di Stato, a conferma della sentenza emessa in prima istanza, aveva annullato il diniego dell'istanza adottato dal CPGT, stabilendo, quale effetto conformativo non superabile, che, nel caso di specie - in ossequio al rispetto del principio costituzionale di tutela della salute -, l'applicazione del magistrato avrebbe potuto avere durata superiore a un anno e non sarebbe stato necessario lo svolgimento delle stesse funzioni già in essere, con possibilità, dunque, per il richiedente, di “passare” da Presidente di Corte di secondo grado a Presidente di Corte di primo grado. In altri termini, il Giudice amministrativo aveva riscritto la disciplina giuridica interna di un Organo di autogoverno per farne derivare, nella sua ottica decisoria, un profilo di compatibilità con l'architrave costituzionale. Si potrebbe quasi dire che nella pronuncia cassata del Consiglio di Stato è rinvenibile, in questo caso, un eccesso di diritto , inteso come spazio giuridico arbitrariamente invaso. Tanto, in senso opposto rispetto a un'altra precedente sentenza del Giudice amministrativo, anch’essa annullata per eccesso di potere, allorché invece il Consiglio di Stato fu tacciato non di avere applicato una regola di sua creazione ma di avere al contrario negato in astratto la tutela giurisdizionale (c.d. arretramento ), per avere precluso in radice la legittimazione a intervenire nel processo ad alcuni enti ricorrenti, così negando anche la giustiziabilità degli interessi collettivi da essi rappresentati ( Cass. civ, Sez. Unite, n. 32559/2023 ). In quel caso, secondo gli Ermellini, era mancata una verifica negativa in concreto delle condizioni di ammissibilità degli interventi in giudizio di alcune associazioni, con la conseguenza "di un aprioristico diniego di giustiziabilità" della posizione soggettiva di cui erano portatrici tali associazioni. Si potrebbe tradurre l'ipotesi in discorso alla stregua di una indebita trasformazione dell'interesse giuridico sottostante all'iniziativa processuale in un interesse di mero fatto . Gli approdi della Corte di Cassazione sul tema sono dunque vari e interessanti, e svelano come è facile riempire di nuovi contenuti quel controllo sui Giudici speciali che la Corte costituzionale aveva cercato di contenere con la sentenza n. 6 del 2018 , negando la possibilità di allargamento del concetto di giurisdizione al fine di garantire effettività della tutela e diritto al giusto processo. Ci sono peraltro degli ambiti di protezione dei diritti in cui forse si impone l'intervento dell'unico organo giurisdizionale davvero in grado di riportare ad unità il sistema, sotto il profilo del limite oltre il quale i singoli Giudici (speciali e ordinari) non possono andare, posto che la Corte costituzionale è "costretta" nelle strettoie del solo dato normativo di rango primario, del più che incisivo controllo sulla rilevanza delle questioni sollevate, e del necessario bilanciamento dei valori costituzionali da contemperare. Uno di questi ambiti è senz'altro quello afferente alle questioni di status dei magistrati, laddove è forse sfuggito al legislatore che gli unici che decidono sul loro “destino istituzionale”, al di fuori e a volte in senso contrario rispetto all'ambito peculiare dell'autogoverno, sono proprio i Giudici amministrativi. Si tratta di un profilo molto delicato, che si affianca in modo critico all’altra particolare questione, già sfiorata, delle c.d. carriere parallele di questi Giudici speciali, coinvolti in numero certamente superiore rispetto a quello dei magistrati ordinari nella collaborazione continuativa con le stesse amministrazioni sulla legittimità dei cui atti la Giustizia amministrativa si esprime, ma soprattutto presenti presso tutti i Ministeri più rilevanti, e anche presso gli uffici apicali della Presidenza del Consiglio dei Ministri. D’altra parte, con riferimento alle questioni di status , l’ordinamento della giustizia amministrativa è ricco di anomalie e criticità sue proprie, come evidenziato con arguzia da un ex magistrato amministrativo in un contributo apparso su questo sito [1] , e produce non poche preoccupazioni sulla sua tenuta futura, posto che le eventuali decisioni del Consiglio di Presidenza, in un senso o nell’altro – all’interno di una disciplina caotica e a strati, che spesso deve essere previamente interpretata –, sono poi impugnabili proprio dinanzi a TAR e Consiglio di Stato, nel contesto di una chiara anomalia di sistema che sfiora la dimensione della “ giurisdizione domestica ”. E non è del tutto peregrina l’ipotesi che il Consiglio di Stato, così come, con la sentenza del 7 aprile 2023, n. 3624 , ha deciso di fatto anche per il futuro (in assenza di uno specifico interesse attuale delle parti del giudizio) sulla legittimità di una delibera del Consiglio di Presidenza afferente ai criteri di nomina dei Presidenti di Sezione dello stesso Consiglio di Stato, possa un giorno pronunciarsi anche sulla perdurante separazione di fatto dei ruoli di Tar e Consiglio di Stato , posto che la tendenziale irreversibilità della scelta di transitare dal primo al secondo grado della Giustizia amministrativa è causa di malesseri interni al plesso e di una carenza ormai strutturale di provvista di giudici di appello. La formale estensione al giudice amministrativo delle garanzie di indipendenza e terzietà stabilite per il giudice civile con particolare riguardo alle cause di astensione obbligatoria ( art. 51 c.p.c. , come richiamato dagli articoli 17 e 18 c.p.a. ) rende applicabile anche al giudice amministrativo il principio secondo cui i semplici rapporti di “colleganza” e o di conoscenza tra una o più parti e il giudice, ivi compresi quelli derivanti dalla comune appartenenza a uno stesso ordinamento o istituto ovvero a una medesima associazione o categoria, non sono suscettibili di costituire causa di astensione. Tuttavia, come anticipato, tale principio, nella sostanza, sembra collidere con il fatto che il giudice amministrativo può trovarsi a giudicare su cause che vedono come parti soggetti appartenenti al suo stesso ordine giudiziario in relazione non solo a qualsiasi vicenda amministrativa ma anche in casi in cui l’oggetto del contendere, coinvolgendo l’interpretazione e l’applicazione di norme relative all’ordinamento della giustizia amministrativa, rischia potenzialmente di incidere sullo status e sulle prospettive di carriera dello stesso giudicante. L’aspetto sostanziale dell’indipendenza della magistratura – come interpretato dalla giurisprudenza sovranazionale sulla scia dell’ articolo 6 CEDU (“ Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale… ”) – pretende infatti che il giudice sia neutrale non soltanto rispetto alle parti in contenzioso, ma anche rispetto all’oggetto della lite stessa, nel senso della sua totale indifferenza rispetto agli interessi contrapposti e nei confronti dell’esito della controversia. Nel caso della c.d. giurisdizione domestica su diritti e status dei magistrati amministrativi, così come disciplinata oggi, sussistono garanzie idonee a rendere i giudici liberi da qualsiasi indebita influenza proveniente sia dall’esterno che dall’interno della magistratura? Esclusa una rilevanza di incostituzionalità delle norme vigenti, ha spazio la Corte di Cassazione per intervenire sulle sentenze del Consiglio di Stato che dovessero riscrivere o scrivere ex novo pezzi di “disciplina interna” allo stato carenti o del tutto mancanti? Staremo a vedere. Intanto può sicuramente affermarsi che, fortunatamente, le anomalie che caratterizzano l’assetto ordinamentale della giurisdizione amministrativa non sono state fino ad oggi idonee a pregiudicare la capacità dei Giudici dell’Amministrazione di assicurare un’efficace ed efficiente risposta alle istanze di giustizia dei singoli, attraverso l’imparziale applicazione delle regole processuali. Ancora più fortunatamente, sta emergendo - da ultimo - che l’incidenza del cattivo diritto sulla diminuzione del prodotto interno lordo origina da luoghi estranei a quelli in cui abita la giustizia amministrativa. È stata infatti recentemente diffusa la stima di alcuni economisti di valore, secondo cui se le leggi degli ultimi trent'anni fossero state chiare, il prodotto interno lordo italiano sarebbe ora più alto di almeno il 10 per cento [2] . Invero, tramite la misurazione di alcuni oggettivi indicatori di complessità delle norme, la ricerca ha dimostrato una correlazione importante tra ambiguità e incertezza delle leggi e diminuzione della crescita economica. E ancora più grave, poi, seguendo la lucida analisi svolta al riguardo da Sabino Cassese, è che l'oscurità del dato legislativo, ormai prepotentemente in mano ai Governi tramite l'uso "diffuso" dei decreti-legge – che sono scritti prevalentemente dagli staff dei ministeri e dalle strutture serventi della Presidenza del Consiglio dei ministri -, potrebbe essere addirittura premeditata , avendo carattere sistematico. Bisognerebbe allora capire da dove proviene e con quali criteri viene scelto il ristretto numero di «scrittori di leggi» che, ancora oggi, al di là delle competenze effettive e dei vincoli burocratici e politici, creano innanzitutto disagio applicativo ai Giudici (speciali e non), e infine veri e propri danni alla collettività. [1] Per un approfondimento delle ancora attuali questioni afferenti all'accesso e alle carriere dei Giudici amministrativi si rinvia al seguente link, dove è possibile l'integrale lettura del contributo a firma della Presidente in quiescenza Gabriella De Michele: https://www.primogrado.com/come-eravamo-e-come-siamo-rimasti-unicita-di-accesso-e-di-carriere-lo-strano-caso-dei-giudici-amministrativi [2] La notizia è stata riportata in un articolo a firma dell'ex Giudice della Corte costituzionale Sabino Cassese dal titolo "L'oscurità delle leggi ci fa male", rinvenibile al seguente link: https://www.corriere.it/opinioni/25_maggio_03/l-oscurita-delle-leggi-ci-fa-male-5c4a5f3a-ff33-44c6-81ef-d1944b925xlk.shtml
Autore: a cura di Roberto Lombardi 17 marzo 2025
Con la richiesta di ritorno alla vecchia immunità parlamentare originariamente prevista dall'art. 68 della Costituzione [1] , si chiude idealmente un cerchio che è stato ultimamente tratteggiato da alcune componenti partitiche partendo dall'asserita necessità della politica di riprendere il suo primato. È una lunga marcia che ha preso le sue mosse proprio dall'anno (1993) in cui il Parlamento, scosso dal clamore delle numerose indagini penali su corruzione e tangenti che coinvolgevano importanti esponenti politici, e dalla necessità di tenere a freno un'opinione pubblica esasperata dall'emergere di scandali e privilegi ritenuti inaccettabili, oltre che dalle numerose autorizzazioni a procedere negate nei confronti degli onorevoli , fu costretto ad eliminare parzialmente l'immunità originariamente prevista dall’ art. 68 della Costituzione . Mentre fino a quel momento il singolo parlamentare non poteva essere sottoposto neanche a procedimento penale senza autorizzazione della Camera di appartenenza, né tanto meno privato della libertà sulla base di una sentenza di condanna penale divenuta irrevocabile, dopo la riforma costituzionale restò in piedi la necessità di chiedere tale autorizzazione solo per intercettazioni, perquisizioni e applicazione di misure cautelari personali. È passata molta acqua sotto i ponti da allora, gli italiani sono sempre ben divisi tra ultragarantisti e giustizialisti, eppure il crollo della fiducia del cittadino medio nella magistratura e il forte indebolimento delle componenti politiche più disposte a rispettare senza se e senza ma le inchieste giudiziarie (o addirittura a trarne vantaggio competitivo) ha determinato la messa in discussione anche di alcuni istituti giuridici che tendevano a sottrarre il legislatore e l’amministratore da una piena libertà di agire, potenzialmente confinante con il mero arbitrio. Conseguentemente, è tornato in discussione il reale punto di confine (e di contatto) tra ius singulare giustificato da obiettive e specifiche esigenze da salvaguardare, e privilegio tout court . È un sacrosanto diritto a tutela del parlamentare e della sua importantissima e delicatissima funzione godere di particolari garanzie e restare immune da ogni iniziativa giudiziaria o è più forte il principio di eguaglianza di tutti dinanzi alla legge? E quanto è grande lo spazio di libertà e specialità di chi rappresenta la funzione legislativa ed esecutiva rispetto alle regole ordinarie che valgono per il comune cittadino? Oltre alla problematica sempre “calda” delle inchieste giudiziarie – ciò che va più sul versante dell’astratta e ideale contrapposizione tra stabilità dell’azione politica e doverosità delle iniziative della magistratura –, esiste anche un non irrilevante tema “patrimoniale” dei privilegi (veri o presunti tali) di categoria. Si pensi ad esempio ai vitalizi dei parlamentari e alle “retribuzioni” dei ministri. Sul primo fronte, nel corso dell’attuale legislatura il Consiglio di Garanzia del Senato dimissionario ha deciso di ripristinare il calcolo con il sistema retributivo (più favorevole), in luogo di quello con il sistema contributivo (meno favorevole), dell’importo dei vitalizi dovuti ai senatori eletti prima del 2012, aumentandone conseguentemente, in via retroattiva, il valore. Si pensi al riguardo, e in termini di ipotetico confronto, che per tutti i comuni cittadini che hanno cominciato a lavorare dopo il 1995 la pensione è ormai calcolata soltanto con il sistema contributivo. Sul secondo fronte, invece, caduta “a furor di popolo” la norma che avrebbe parificato tutti gli “stipendi” di ministri e sottosegretari di Stato non parlamentari a quelli dei loro colleghi di governo anche parlamentari (alcune migliaia di euro in più al mese), è stata comunque introdotta a beneficio dei primi, qualora aventi residenza o domicilio diversi da Roma, una sorta di rimborso spese tratto da un fondo speciale di 500 mila euro annui. In particolare, il comma 854 dell’art. 1 della L. n. 207 del 2024 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2025 e bilancio pluriennale per il triennio 2025-2027) ha riconosciuto in modo “secco” il diritto al rimborso delle spese di trasferta da e per il domicilio o la residenza per l'espletamento delle proprie funzioni agli attuali Ministri e sottosegretari non parlamentari, collegando tale diritto alla “dotazione” di 500.000 euro annui del nuovo fondo istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. In assenza di ulteriori indicazioni nella norma primaria, e sulla base di un mero calcolo aritmetico di natura divisoria, dal primo gennaio del 2025 i potenziali beneficiari della norma (circa quindici persone) potrebbero avere un aumento di “stipendio”, seppure sotto forma rimborsuale, di più di duemila euro al mese. In questo caso, a colpire non è tanto l’individuazione di un principio “speciale” a favore di pochi, ma che di tale principio, fino ad allora non previsto, ne beneficino in termini economici, e immediatamente, gli appartenenti allo stesso Governo dalla cui maggioranza politica proviene la norma. D’altra parte, accanto alle rafforzate garanzie di natura economica e procedurale (queste ultime, nel caso di guai con la giustizia penale), chi esercita la funzione legislativa gode anche della c.d. insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle proprie funzioni (art. 68, comma 1, Cost.). Si tratta di un’immunità preventiva e sostanziale da ogni tipo di sindacato giurisdizionale (“ I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere… ”), che elimina in radice l’antigiuridicità del fatto. Anche in questo caso, il confine tra diritto comune e ius singulare è molto labile, e non è facile stabilire fin dove la protezione dell’insindacabilità può spingersi, senza deragliare in un inaccettabile privilegio. Il libero esercizio delle funzioni parlamentari deve essere senz’altro protetto dalla paura di ritorsioni ingiustificate e intimidatorie, ma è ancora esercizio delle funzioni parlamentari l’insulto libero e la delegittimazione pretestuosa di un avversario politico o di un giudice o di un giornalista considerato ostile? Il punto di caduta delle esigenze che qui si vengono a contrapporre è stato a più riprese disegnato dalla Corte costituzionale, la quale ha anche recentemente precisato che “ è pur sempre necessario – affinché l’immunità non si trasformi illegittimamente in privilegio personale, con il correlato e ingiustificato sacrificio dei diritti e degli interessi dei terzi – che essa sia funzionalmente delimitata (…) e che, pertanto, le opinioni espresse siano caratterizzate dalla esistenza di un nesso stretto con l’esercizio delle funzioni ”. Occorre, in altri termini, stabilire di volta in volta se in concreto le opinioni espresse da un parlamentare siano riconducibili all’esercizio delle funzioni ex art. 68, primo comma, della Costituzione, e siano come tali insindacabili, o se invece vadano ricondotte all’esercizio della libertà di libera manifestazione del proprio pensiero di cui tutti godono ai sensi dell’art. 21 della Costituzione. Invero, nella normalità dei casi, profilandosi l’assenza di tale nesso funzionale, è il giudice comune a dovere decidere, nel singolo caso, da quale parte della bilancia pende il rapporto fra diritto di libera manifestazione del pensiero politico e diritto all’onore e alla reputazione del soggetto che si ritiene leso dall’opinione espressa. Passando poi dalle prerogative del Legislatore a quelle di chi rappresenta il potere esecutivo e l’amministrazione pubblica tutta, negli ultimi anni si è cercato di rendere meno alto lo scalino tra le forti garanzie concesse ai primi e la “debole” protezione riservata ai secondi. Ma quali speciali garanzie possono attenuare le importanti responsabilità derivanti dal maneggiare denaro pubblico o dal prendere decisioni che mettono in pericolo potenziale le casse pubbliche? Anche qui, le ordinarie regole di responsabilità hanno ceduto da qualche tempo il passo a un diritto speciale che ha parzialmente eliminato anche le condotte gravemente colpose da quelle sulla cui base scatta la responsabilità del funzionario pubblico. Il c.d. scudo erariale è stato introdotto per la prima volta con il d.l. n. 76 del 2020 , in piena pandemia, con effetti temporali inizialmente limitati alla scadenza del 31 luglio 2021, e successivamente prorogato, a più riprese, fino al 30 aprile 2025. L'ultima proroga risale al d.l. n. 202 del 2024 , convertito dalla L. 21 febbraio 2025, n. 15 (art. 1, comma 9). La norma prevede che la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica, per il periodo di sua applicazione, non si estende alle ipotesi di colpa grave , ma solo alle ipotesi di dolo, qualora vengano in rilievo condotte commissive. Si tratta di una disciplina provvisoria - ma è una provvisorietà che ormai dura da quasi cinque anni - che è stata recentemente ritenuta non irragionevole dalla Corte costituzionale, in quanto avrebbe limitato al dolo l'elemento soggettivo della responsabilità amministrativa in un contesto storico del tutto particolare. [2] Invero, pur indebolendo la funzione deterrente delle ipotesi di responsabilità previste a carico dei funzionari pubblici, la norma "incriminata" avrebbe il merito radicarsi in " uno specifico contesto in cui la tutela di fondamentali interessi di rilievo costituzionale richiede che l'attività amministrativa si svolga in modo tempestivo e senza alcun tipo di ostacoli, neppure di quelli che derivano dal timore di incorrere (al di fuori delle ipotesi dolose) nella responsabilità amministrativa ". E non importa se nel frattempo gli effetti della pandemia siano cessati (adesso però c'è la necessità di raggiungere gli obiettivi del PNRR) o se appare quantomeno discutibile e foriero di possibili disparità di trattamento il diverso regime di responsabilità attualmente esistente tra condotte attive (rispetto alle quali lo scudo erariale si applica) e condotte omissive (rispetto alle quali lo scudo erariale non si applica), posto che proprio nel caso dal quale è partita la Corte dei Conti, per rilevare la sospetta incostituzionalità della norma, era evidente la curiosa frammentazione del tipo di responsabilità accertabile pur con riguardo alla medesima, unitaria vicenda sottostante. Tuttavia, a fronte della tendenza alla c.d. burocrazia difensiva , è stato ritenuto prevalente, sia dal legislatore che dalla Corte costituzionale, "l'obiettivo di stimolare l'attività degli agenti pubblici in un contesto specifico e provvisorio", con la creazione di un "complessivo clima di fiducia" che favorisse "la spinta dell'intera macchina amministrativa". Bisogna a questo punto chiedersi, onde evitare che la macchina di cui sopra vada fuori giri , fino a che punto una disciplina salvata dalla dichiarazione di incostituzionalità soltanto per il suo carattere contingente, possa diventare di fatto strutturale, posto che l'ultima proroga si legherebbe all’obiettivo di consentire al Parlamento di completare la riforma organica della Corte dei conti. Senza contare che adesso l’abuso di ufficio – salvo eccezionali ipotesi ritagliate sul suo paradigma originario – non è più reato. [3] Che poi, se neanche lo scudo erariale riesce a salvare dalla condanna per spreco di denaro dei contribuenti un importante amministratore pubblico come il Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca [4] , ci sono pur sempre le fattispecie giuridiche costruite ad hoc a “congelare” le posizioni di potere divenute “cedevoli”. Qui non siamo tanto nello ius speciale o singulare che dir si voglia, ma in un’ipotesi di confine che potremmo definire, invertendo i termini, singolarità giuridica . E’ una tendenza, questa, molto diffusa anche negli apparati pubblici – ivi compresi quelli di più alto livello, come gli organi di autogoverno – dove la necessità di favorire un determinato risultato (buono o cattivo che sia) crea una nuova fattispecie normativa o regolamentare fortemente disallineata rispetto alla normale coerenza del tessuto ordinamentale, anche se non in diretto contrasto con una disposizione specifica. Nel caso di specie, il Presidente De Luca, alla fine del corrente mandato, seguendo la linea tracciata dal disegno costituzionale e legislativo in materia di disciplina delle elezioni regionali, non potrebbe concorrere nuovamente e immediatamente per la carica di Presidente della Regione, perché, nel caso di elezione, si tratterebbe del terzo mandato consecutivo . Tuttavia, l’Assemblea legislativa regionale campana – sostenuta dalla maggioranza eletta con De Luca – ha costruito una fattispecie giuridica apparentemente ineccepibile ma sostanzialmente volta a permettere all’attuale Governatore di restare ancora una volta in sella alla Presidenza della Regione, se eletto per la terza volta. Come emerge infatti dal ricorso per questione di legittimità costituzionale depositato alla Corte il 10 gennaio 2025 dal Presidente del Consiglio dei ministri [5] , la legge della Regione Campania 11 novembre 2024, n. 16 , composta di un unico articolo, ha sì stabilito, in tardiva applicazione e recepimento dell' art. 2, comma 1, lettera f) della legge 2 luglio 2004, n. 165 , che “ non è immediatamente rieleggibile alla carica di Presidente della Giunta regionale chi, allo scadere del secondo mandato, ha già ricoperto ininterrottamente tale carica per due mandati consecutivi ”, ma ha altresì contemporaneamente statuito che “ ai fini dell'applicazione della presente disposizione, il computo dei mandati decorre da quello in corso di espletamento alla data di entrata in vigore della presente legge ”. Si tratta dunque di una norma apparentemente legittima e coerente con il tessuto ordinamentale di riferimento – la legge statale, attuativa dell’ art. 122 della Costituzione , prevede infatti, in via di principio, la non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto –, tuttavia subordinata nella sua decorrenza temporale ad un’altra norma di natura transitoria che di fatto è da considerarsi “ad personam”, perché consente solo e soltanto a De Luca (e non a coloro che verranno dopo di lui) di fare un terzo mandato (“… il computo dei mandati decorre da quello in corso di espletamento alla data di entrata in vigore della presente legge ”). La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha dunque giustamente impugnato dinanzi alla Corte costituzionale la norma ad hoc votata dal Consiglio regionale campano, per possibile violazione degli artt. 122, 3 e 51 della Costituzione , ciò che deporrebbe per il tentativo di conservare un corretto equilibrio nelle attribuzioni tra diversi livelli di governo, fatte salve le malevoli interpretazioni giornalistiche sulla scarsa simpatia e non appartenenza politica tra gli attori in gioco. E adesso l’ultima parola spetta alla Corte costituzionale, troppo spesso ultimamente “costretta” a prendere posizione su questioni che in un ordinamento coerente con se stesso e interpretato con spirito di leale collaborazione da tutte le parti istituzionali e politiche neanche si dovrebbero porre. Tuttavia, sembra che in Italia la tentazione di ritagliare per sé delle condizioni di privilegio che stridono con il comune sentire di chi fa quotidianamente fatica a “tirare avanti” continui a trovare terreno fertile nella concezione amorale di un certo tipo di approccio umano, che trova adesso un pericoloso alleato nel definitivo sdoganamento del principio del “risultato ad ogni costo”. [1] Per approfondimenti sulla notizia, si rinvia, tra gli altri, al seguente link: https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2025/02/03/balboni-non-vedo-ragioni-di-rivedere-limmunita-parlamentare_f144fb4a-d026-45d8-8157-4a8a98df06f2.html [2] Per una lettura della sentenza: https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:2024:132 [3] Per alcune considerazioni critiche sull'abolizione del reato di abuso di ufficio, si rinvia ad altro contributo apparso sul sito e reperibile al seguente link: https://www.primogrado.com/il-buco-nero-della-legalita [4] Si veda Sentenza n. 600/2024 emessa dalla Sezione giurisdizionale per la Regione Campania della Corte dei Conti
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Diritto e società


Autore: a cura di Federico Smerchinich 22 maggio 2025
Il tema delle concessioni demaniali marittime è un leitmotiv che sta accompagnando il diritto amministrativo e la giurisprudenza nazionale ed eurounitaria nel corso degli ultimi anni. Difatti, la difficoltà di conciliare l’uso di beni pubblici in grado di garantire un guadagno, con la concorrenza sul mercato tra gli operatori interessati a gestire detti beni, sta portando a soluzioni interpretative non sempre allineate tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Tutto nasce dalla vicenda che ha visto coinvolta una società titolare di una concessione demaniale marittima, avente in gestione uno stabilimento balneare in Salento, la quale, dopo avere ottenuto, in un primo momento, la proroga della concessione in essere per la durata di 13 anni ai sensi dell’ art. 1 commi 682 e 683 della Legge 145/2018 (fino al 2033), aveva poi subito l’annullamento in autotutela di tale titolo. L’amministrazione comunale di pertinenza dello stabilimento balneare aveva infatti disposto l’annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies della Legge 241/90 del provvedimento di proroga sopra citato, in quanto ritenuto adottato in violazione del diritto eurounitario e della cosiddetta “direttiva servizi”. In particolare, il Comune interessato aveva ritenuto di dovere disapplicare la normativa nazionale che, in contrasto con il diritto cogente dell’Unione europea, aveva disposto un’ulteriore proroga ex lege delle concessioni demaniali in vigore, dal primo gennaio 2021 al 31 dicembre 2033. Tale provvedimento era stato impugnato dalla società interessata davanti al Tar per la Puglia, sezione staccata di Lecce, e annullato ad esito del relativo giudizio dal tribunale salentino, per violazione della normativa nazionale vigente e per eccesso di potere; in particolare, secondo i Giudici in parola, sarebbe stato erroneo il convincimento di ritenere ormai consolidato il principio secondo cui la disapplicazione della norma nazionale confliggente con il diritto dell’unione europea - a maggior ragione se tale contrasto sia stato accertato dalla Corte di Giustizia UE -, costituirebbe un obbligo anche per l’apparato amministrativo dello Stato membro, qualora questo sia chiamato ad applicare una norma interna contrastante con il diritto comunitario. [1] Successivamente, il Presidente del Consiglio di Stato ha rimesso di ufficio all'Adunanza Plenaria la decisione in ordine alla questione della proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative . In particolare, essendo stato ritenuto che la fattispecie relativa alla doverosità o meno della disapplicazione, da parte dello Stato in tutte le sue articolazioni, delle leggi statali o regionali che prevedano proroghe automatiche e generalizzate delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative configuri « una questione di massima di particolare importanza », il Presidente del Consiglio di Stato ha deferito all'Adunanza Plenaria l'appello pendente presso la Quinta Sezione del Giudice amministrativo di appello, con il numero di r.g. 1975/2021, proposto dal Comune di Lecce, per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, sez. I, n. 73/2021 . La sentenza di primo grado oggetto della controversia deferita all'Adunanza Plenaria era stata peraltro emessa sulla scia della giurisprudenza inaugurata dal Tribunale amministrativo salentino proprio con la sentenza n. 1321 del 2020, sopra citata. Investita dunque della questione, l'Adunanza Plenaria ha ribadito il principio secondo cui il diritto dell'Unione europea impone che il rilascio o il rinnovo delle concessioni demaniali marittime (o lacuali o fluviali) avvenga all'esito di una procedura di evidenza pubblica , con conseguente incompatibilità, sia rispetto all' art. 49 del TFUE che rispetto all' art. 12 della cosiddetta "direttiva servizi" (anche nota come direttiva "Bolkestein" ) della disciplina nazionale che prevede(va) la proroga automatica ex lege fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni in essere. In particolare, l’Adunanza plenaria ha deciso di non disporre rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE in merito alla questione esaminata, ricorrendo, nel caso di specie, una delle situazioni in presenza delle quali, in base alla c.d. “giurisprudenza Cilfit”, i giudici nazionali di ultima istanza non sono sottoposti all’obbligo di rinvio pregiudiziale. La questione controversa era stata, infatti, già oggetto di interpretazione da parte della Corte di giustizia e gli argomenti invocati per superare l’interpretazione prcedentemente resa dal giudice europeo non erano in grado di sollevare ragionevoli dubbi, come confermato anche dal fatto che i principi espressi dalla sentenza Promoimpresa sono stati recepiti da tutta la giurisprudenza amministrativa nazionale sia di primo che di secondo grado, con l’unica isolata eccezione del T.a.r. Lecce, il quale, peraltro, più che mettere in discussione l’esistenza di un regime di evidenza pubblica comunitariamente imposto cui sottoporre il rilascio o il rinnovo della concessioni demaniali, aveva negato la sussistenza di un potere di non applicazione in capo agli organi della P.A., toccando, quindi, una questione sulla quale esistono orientamenti giurisprudenziali (elaborati dai giudici europei e nazionali) ancor più consolidati e granitici. In effetti, quanto alla doverosità o meno della disapplicazione , da parte della Repubblica Italiana, delle leggi statali o regionali che prevedano proroghe automatiche e generalizzate delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative (con particolare riferimento alla sussistenza dell’obbligo, per l’apparato amministrativo e per i funzionari dello Stato membro, di disapplicare la norma nazionale confliggente col diritto dell’Unione europea, e all'interrogativo se detto obbligo, qualora sussistente, si estenda a tutte le articolazioni dello Stato membro, compresi gli enti territoriali, gli enti pubblici in genere e i soggetti ad essi equiparati), l’Adunanza plenaria ha ribadito che l’obbligo di non applicare la legge anticomunitaria gravi in capo all’apparato amministrativo, anche nei casi in cui il contrasto riguardi una direttiva self-executing . Una previsione importante della sentenza riguardava poi la fissazione al 31.12.2023 del termine in cui sarebbero rimaste vigenti le concessioni demaniali marittime già efficaci. Secondo l'Adunanza plenaria, tale termine teneva conto del fatto che una dichiarazione immediata di illegittimità delle concessioni in atto avrebbe comportato effetti negativi sui concessionari. Scaduto il termine, tutte le concessioni demaniali sarebbero state prive di effetto, indipendentemente dal fatto se vi fosse stato o meno un subentrante nella relativa concessione. Successivamente, tuttavia, Il Parlamento ha introdotto, in sede di conversione del cosiddetto decreto milleproroghe per l’anno 2023 (“ Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi ”), alcune norme che hanno di fatto sterilizzato il dictum del Consiglio di Stato (e di tutti gli altri Giudici che fino ad oggi si sono pronunciati), così come recepito nella legge annuale per il mercato e la concorrenza promulgata nell’agosto del 2022. Erano due, in particolare, le norme che apparivano direttamente e frontalmente in contrasto con il diritto dell’Unione europea, così come faticosamente compendiato nelle pronunce dell’Adunanza Plenaria n. 17 e 18 del 2021. La L. n. 14 del 24 febbraio 2023 ha infatti disposto, da un lato, con l’ art. 10-quater, comma 3 , la proroga di un ulteriore anno del termine di scadenza delle concessioni in essere (che la legge n. 118 del 2022 aveva stabilito al 31 dicembre 2024, ma soltanto in caso di difficoltà oggettive legate all'espletamento della procedura selettiva di assegnazione della concessione), e, dall’altro, con l’introduzione del comma 4-bis nell’art. 4 della L. n. 118/2022, il divieto per gli enti concedenti di procedere all'emanazione dei bandi di assegnazione delle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali per finalità turistico-ricreative e sportive fino all'adozione dei decreti legislativi volti a riordinare e semplificare la disciplina in materia di tali concessioni. Anche la nuova norma contenuta nell’art. 10-quater, comma 3, del D.L. 29/12/2022, n. 198, conv. in L. 24/2/2023, n. 14, che prevede la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere, veniva peraltro disapplicata dal Consiglio di Stato, ponendosi in frontale contrasto con la sopra richiamata disciplina di cui all’art. 12 della direttiva Bolkesten . [2] Quando poi l’art. 1 comma 1 lett. a) n.1.1 del d.l. n. 131/2024, convertito in legge n. 166/2024 interviene per differire al 30.09.2027 il termine finale di durata dei titoli concessori, ecco che il Tar Liguria, investito di una controversia nata dalla decisione della Giunta comunale di Zoagli di confermare la scadenza al 31.12.20023 delle concessioni "balneari" [3] , si produce in un’applicazione lineare e piana delle norme attualmente vigenti e degli orientamenti della Corte di Giustizia UE che sono diritto vivente e vincolante nel nostro ordinamento. Difatti, il TAR opta ancora una volta per la disapplicazione della norma che consente la proroga delle concessioni demaniali marittime, in quanto contrastante con il diritto unionale e non coperta da altre fonti normative in grado di darle legittimazione (né da presunti accordi tra Commissione europea e Stato italiano). Una disapplicazione che garantisce l’effettività dell’azione della pubblica amministrazione, semplificando la vicenda e consentendo al Comune di proseguire il suo iter. La scelta del TAR, che del resto è in linea con l’attuale andamento della giurisprudenza amministrativa in materia, risolve nella pratica uno dei problemi che affligge il diritto amministrativo italiano: la superfetazione normativa e il continuo proliferare di leggi che si sovrappongono nella medesima materia non dando certezza alle pubbliche amministrazioni e agli operatori del settore. Una sovraproduzione normativa che, perlomeno nel settore delle concessioni demaniali, è frutto di almeno due ordini di ragioni. Da una parte, la necessità dell’esecutivo di adeguarsi ai dictat della Corte di Giustizia UE e della Commissione europea, dall’altra, la difficoltà di adeguare le scelte politiche al sistema delle concessioni balneari e alle esigenze di operatori del settore che per decenni hanno agito in un certo modo e, ora, si ritrovano a doversi riorganizzare e a ripianificare la loro attività nel rispetto dei principi di concorrenza . Nel contesto appena descritto, un ruolo fondamentale è giocato dalle pubbliche amministrazioni che, sempre più spesso, si ritrovano a dover agire nel rispetto di una normativa poco chiara e che non sempre consente di attuare gli interessi pubblici. Non a caso, si sta assistendo in molti luoghi ad aree demaniali che vengono chiuse dalle amministrazioni locali per la stagione in corso, in quanto non si è stati in grado di portare a compimento le gare o di avere soggetti in grado di gestire il compendio concessorio conformemente alle condizioni richieste dagli Enti locali stessi. E ciò, anche in considerazione del fatto che la varietà della morfologia delle coste italiane rende difficile immaginare una disciplina unitaria ed effettivamente paritaria che riguarda criteri selettivi, indennizzi, gestione del bene. Ad ogni modo, la soluzione seguita nel recente arresto del Tar Liguria a favore della gara pubblica e della concorrenza è condivisibile, in quanto tali principi debbono sempre prevalere su norme che pongono deroghe o proroghe. Difatti, nell’attuale sistema del diritto amministrativo in materia di beni demaniali , deve accettarsi il cambiamento di paradigma del sistema, orientato non alla continuità dello stesso concessionario, ma al ricambio e alla ricerca della qualità attraverso la competizione concorrenziale. Leggendo in tali termini le norme di questa materia, i Giudici aditi non fanno altro che certificare questo mutamento di visuale e di approccio al mondo delle concessioni, con decisioni che valorizzano una lettura teleologica delle norme che consentono le proroghe, ritenendole eccezionali e applicabili solo in presenza di particolari e oggettive condizioni ostative all'organizzazione di una gara pubblica. D’altronde, se gli Enti locali sono stati virtuosi e hanno correttamente avviato le procedure di gara, non si rileva alcuna ragione per cui l’interesse a proseguire in proroga del privato concessionario uscente debba prevalere sull’interesse pubblico ad affidare la medesima concessione tramite procedure competitive e trasparenti. [1] Sentenza n. 1321 del 27/11/2020, commentata su questo sito al seguente link: https://www.primogrado.com/concessioni-demaniali-il-tar-puglia-lecce-mette-in-discussione-il-primato-e-lefficacia-diretta-delle-norme-del-diritto-dellunione-europea [2] Consiglio di Stato, sentenza n. 1192 del 1 marzo 2023 [3] Si tratta della sentenza n. 183 del 2025, commentata sul sito al seguente link: https://www.primogrado.com/concessioni-demaniali-e-proroga-al-2027-il-caso-liguria
Autore: a cura di Vittorio Russo, Avvocato e consulente parlamentare 27 marzo 2025
La diplomazia onoraria si configura quale istituto peculiare nell’ambito delle relazioni internazionali, assumendo un ruolo di supporto complementare alla diplomazia di carriera e contribuendo significativamente alla rappresentanza, all’assistenza consolare e alla promozione degli interessi strategici di uno Stato all’estero. Essa si colloca in una dimensione ibrida, a metà strada tra la rappresentanza ufficiale e la funzione di collegamento con le realtà locali, risultando di cruciale importanza soprattutto in contesti geopolitici caratterizzati da una presenza consolare frammentata o limitata. La regolamentazione della diplomazia onoraria si inscrive nell’alveo del diritto internazionale convenzionale e consuetudinario, trovando il proprio fondamento nella Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 1963 , che disciplina con precisione l’assetto normativo e giuridico delle funzioni consolari, attribuendo ai consoli onorari prerogative e immunità significativamente ridotte rispetto ai diplomatici di carriera. Nella sua storicità, continua a rappresentare un ambito molto peculiare e di grande rilievo nel panorama delle relazioni internazionali , posizionandosi tra la diplomazia ufficiale e le esigenze pragmatiche dei rapporti bilaterali fra Stati. Sebbene la disciplina giuridica e normativa di tale istituto risieda principalmente nella Convenzione di Vienna sopra citata, numerosi aspetti sollevano questioni di particolare importanza in termini di legittimità, praticabilità e necessità di aggiornamento normativo. L’istituto della diplomazia onoraria si radica in una lunga tradizione storica che risale a tempi in cui la diplomazia ufficiale era limitata nella sua capacità di proiettarsi oltre i confini nazionali. I consoli onorari, originariamente figura di rappresentanza limitata a funzioni di natura commerciale o amministrativa, si sono evoluti nel tempo in attori con un ruolo che va oltre la mera assistenza ai propri connazionali. La funzione di rappresentanza, che inizialmente era circoscritta a contesti commerciali, ha progressivamente abbracciato anche la diplomazia culturale, il rafforzamento delle relazioni economiche e, negli ultimi decenni, il soft power come strumento di proiezione della politica estera. Storicamente, la diplomazia onoraria è nata come risposta alle esigenze pratiche degli Stati di mantenere una presenza minima ma efficace nei territori esteri, laddove le risorse per inviare diplomatici di carriera o aprire consolati permanenti erano limitate. In un contesto geopolitico di costante mutamento, la figura del console onorario ha quindi cominciato a ricoprire funzioni più ampie, espandendosi verso la tutela degli interessi nazionali e la promozione di iniziative culturali e commerciali. Il fondamento normativo della diplomazia onoraria, come detto, si trova principalmente nella Convenzione di Vienna del 1963 sulle relazioni consolari, che stabilisce i diritti e i doveri dei consoli e definisce le prerogative dei consoli onorari, e fissa i principi generali che guidano le loro attività, stabilendo una netta distinzione tra costoro e i consoli di carriera. In particolare, l' articolo 71 della Convenzione di Vienna stabilisce che i consoli onorari godono di una limitata immunità rispetto alle funzioni svolte, esclusivamente nelle operazioni ufficiali legate alla funzione consolare, ma non per le attività personali. Ciò implica che i consoli onorari, sebbene godano di una certa protezione diplomatica in caso di conflitti legali derivanti dalle loro funzioni, non sono soggetti agli stessi privilegi e immunità di un diplomatico di carriera. Nonostante le limitazioni, essi sono tutelati nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali e non possono essere arrestati o sottoposti a procedimenti giuridici senza il consenso del Governo che li ha designati, se non in circostanze eccezionali. Tuttavia, il trattamento giuridico dei consoli onorari presenta delle differenze significative da Stato a Stato. La mancanza di un quadro normativo globale vincolante ha dato luogo a una molteplicità di prassi applicative che variano in funzione della legislazione nazionale, creando così disparità e incertezze giuridiche. Mentre alcuni Stati conferiscono ai consoli onorari un ampio ventaglio di prerogative, altri sono più restrittivi e limitano l’estensione delle loro funzioni. Pertanto, il diritto internazionale convenzionale e consuetudinario, pur avendo definito il quadro generale delle relazioni consolari, non ha mai fornito una codifica completa della diplomazia onoraria, lasciando ampio margine di discrezionalità agli Stati nel suo esercizio. Tra le prerogative giuridiche dei consoli onorari rientrano la protezione dei propri connazionali e l’assistenza consolare, ma vi sono in linea generale limitazioni evidenti, come detto, sia nell’immunità giuridica che nell’esenzione da imposte o da altre obbligazioni fiscali, che generalmente non si applicano ai consoli onorari. Inoltre, la possibilità per i consoli onorari di esercitare funzioni ufficiali, come l'emissione di visti o la stipula di trattati, è strettamente limitata dalle leggi dello Stato ospitante e dalla prassi internazionale. Un altro aspetto cruciale riguarda la nomina e l’accreditamento dei consoli onorari . Sebbene gli Stati godano di una piena libertà nella scelta dei propri rappresentanti onorari, tale nomina è soggetta a controllo e approvazione da parte dello Stato ospitante, che può rifiutare la designazione di un console onorario se lo ritiene inadeguato o incompatibile con gli interessi locali. E' pacifico il diritto sovrano degli Stati di stabilire le proprie politiche in materia di rappresentanza diplomatica, a condizione che queste non violino i principi fondamentali del diritto internazionale, come il principio di non ingerenza e la protezione dei diritti dei cittadini. Il concetto di soft power ha trovato una straordinaria applicazione nel contesto della diplomazia onoraria. A differenza dell' hard power , che si basa su strumenti coercitivi come il potere militare o economico, il soft power fa leva su risorse non coercitive, come la cultura, i valori, l’immagine internazionale e la diplomazia pubblica. In questo scenario, i consoli onorari svolgono un ruolo cruciale come ambasciatori della cultura e della politica del loro paese. Essi facilitano la costruzione di reti internazionali di influenze che si traducono in vantaggi economici, culturali e politici per il paese che rappresentano. I consoli onorari, infatti, agiscono come moltiplicatori di relazioni, creando un ambiente favorevole per le esportazioni, per l’attrazione di investimenti stranieri e per la promozione delle relazioni culturali. Il loro ruolo si estende a settori che spaziano dall'arte e dalla scienza, fino alle politiche commerciali ed economiche. In questo contesto, l’attività consolare onoraria diventa un importante strumento per l’esercizio del soft power , in quanto il console onorario non è solo un intermediario, ma spesso un leader di opinione che aiuta a consolidare la proiezione dell’immagine di un paese. Il soft power si esplica in una molteplicità di forme, tra cui: -diplomazia culturale, che si realizza attraverso scambi culturali, mostre, eventi artistici e accademici; -diplomazia economica, che mira alla promozione di investimenti, scambi commerciali e partenariati strategici tra Paesi; -diplomazia scientifica e tecnologica, che promuove la cooperazione internazionale in ambiti di ricerca e sviluppo; -diplomazia pubblica, che coinvolge il rafforzamento della comunicazione tra Paesi e tra cittadini dei vari Stati. In tale contesto, i consoli onorari, pur operando in una posizione non ufficiale, si trovano ad essere attori chiave nel facilitare le relazioni internazionali. Grazie alla loro conoscenza delle realtà locali e alla loro capacità di costruire ponti tra le istituzioni del loro Paese d'origine e quelle del Paese ospitante, i consoli onorari sono tra i principali promotori di politiche di soft diplomacy . Il concetto di soft diplomacy diventa cruciale per i consoli onorari, che, pur non godendo dello status ufficiale di diplomatici di carriera, svolgono una funzione che si inserisce perfettamente in questo ambito. La diplomazia onoraria, infatti, è frequentemente orientata alla promozione pacifica degli interessi nazionali, all'intensificazione delle relazioni bilaterali, e al rafforzamento della proiezione culturale di uno Stato all’estero. I consoli onorari, pur operando in un contesto informale, sono i rappresentanti ideali per la diffusione dei valori e degli interessi del loro Stato, in quanto inseriti nel tessuto sociale ed economico del Paese ospitante. La loro posizione, che li pone tra il mondo istituzionale e quello economico e culturale, consente loro di svolgere un ruolo fondamentale nel migliorare l’immagine e la reputazione del Paese che rappresentano, facendo leva su una serie di strumenti tipici della soft diplomacy , quali, le iniziative culturali, la facilitazione dei legami economici e commerciali, la promozione delle relazioni scientifiche e accademiche. Poiché la soft diplomacy si fonda su una serie di strumenti e approcci che richiedono una gestione sensibile e articolata delle relazioni internazionali, è di cruciale importanza che i consoli onorari siano adeguatamente formati sulle regole basilari che governano questa particolare forma di diplomazia. Alcuni degli aspetti essenziali che i consoli onorari devono padroneggiare includono l'etica della diplomazia culturale, la capacità di comunicazione strategica, la costruzione e il mantenimento di reti solide di alleanze locali e la p romozione di politiche di cooperazione Internazionale Ma ci può essere soft power senza adeguata conoscenza dell’attività di lobbyng ? In effetti, grazie alla loro conoscenza profonda delle dinamiche politiche ed economiche del paese ospitante, i consoli onorari possono svolgere un ruolo decisivo nella promozione degli interessi economici, commerciali e politici del loro paese. Essi, infatti, agiscono da mediatori tra il settore pubblico e privato, facilitando accordi, negoziati e la creazione di politiche favorevoli agli scambi internazionali. Tuttavia, però, l’attività di lobbying non è regolamentata in maniera uniforme a livello internazionale, il che può generare conflitti di interesse e preoccupazioni circa la trasparenza dell’attività dei consoli onorari. In alcuni casi, i consoli onorari possono essere visti come agenti privilegiati di specifici interessi economici, soprattutto quando provengono da settori strategici o da aziende di rilevanza internazionale. La regolamentazione di queste attività, con l'introduzione di norme etiche e di trasparenza , potrebbe contribuire a evitare il rischio di conflitti di interesse, garantendo che le azioni dei consoli onorari siano sempre orientate al bene pubblico. La frammentazione normativa e l’assenza di un corpus giuridico uniforme che regoli la diplomazia onoraria sollevano interrogativi circa la necessità di un approccio più strutturato e coordinato a livello internazionale. Seppur la Convenzione di Vienna del 1963 rimanga il riferimento principale per la regolamentazione delle funzioni consolari, compresa quella onoraria, la realtà delle pratiche internazionali ha evidenziato l’esigenza di un aggiornamento delle norme, in particolare per quanto riguarda le nuove dinamiche del soft power e della diplomazia pubblica. In quest’ottica, la creazione di linee guida internazionali , sotto l'egida di organizzazioni multilaterali come le Nazioni Unite o l’Unione Europea o altri Organismi internazionali, potrebbe rappresentare un passo importante per garantire una maggiore coerenza e uniformità nell’applicazione delle norme riguardanti la diplomazia onoraria. L’introduzione di standard comuni potrebbe contribuire a rafforzare la trasparenza, la responsabilità e l’affidabilità dei consoli onorari, evitando situazioni di opacità che possano minare la loro legittimità. In sintesi, la diplomazia onoraria non può più essere considerata una funzione accessoria, ma deve essere riconosciuta come un elemento fondamentale e complementare alla diplomazia di carriera. La sua importanza cresce in un contesto globale in cui la proiezione di soft power e la promozione di relazioni economiche e culturali sono sempre più determinanti per il successo delle politiche estere degli Stati. L’adozione di un quadro normativo più strutturato a livello internazionale, unitamente a una maggiore regolamentazione delle attività di lobbying e dei public affairs , rappresenta la chiave per rafforzare l’efficacia della diplomazia onoraria e per garantire il rispetto delle norme di buona condotta internazionale. Solo con una normazione adeguata e con una chiara definizione delle sue funzioni, la diplomazia onoraria potrà continuare a contribuire in modo significativo alla costruzione di relazioni internazionali stabili e produttive. Nell'attuale scenario geopolitico globale, caratterizzato da una crescente interconnessione tra Stati, organizzazioni internazionali, enti privati e attori non statali, la capacità di gestire efficacemente le attività di public affairs e di relazioni internazionali istituzionali assume un'importanza strategica fondamentale per il successo delle politiche estere di un paese. Le sfide moderne richiedono non solo competenze diplomatiche tradizionali, ma anche una solida preparazione nella gestione delle relazioni con i diversi attori locali e globali, nell'ambito di un sistema sempre più complesso e multidimensionale. In questo contesto, emerge la necessità di figure professionali altamente qualificate, capaci di interpretare al meglio le dinamiche globali e le specifiche necessità interne degli Stati, integrando i principi di diplomazia tradizionale con le sfide legate al contesto socio-politico ed economico contemporaneo. Le attività di advocacy e lobbying , in particolare, sono centrali nell’interazione con gli altri Stati e con le organizzazioni internazionali, e sono essenziali per la gestione di crisi diplomatiche, l’apertura di nuovi mercati o la promozione di iniziative culturali, politiche e commerciali. In questo contesto, è fondamentale disporre di esperti capaci non solo di rappresentare un Paese nelle sedi internazionali, ma anche di interpretare e mediare tra le esigenze politiche interne e le dinamiche globali. Le figure chiamate a svolgere questa funzione devono essere in grado di analizzare la complessità del contesto, costruire reti di alleanze strategiche e, al contempo, promuovere una visione coerente delle politiche pubbliche estere. La gestione dei public affairs e delle relazioni internazionali istituzionali richiede competenze specialistiche che vanno oltre la semplice conoscenza della politica internazionale. Le figure coinvolte devono possedere una vasta gamma di abilità, tra cui la negotiation skills , la capacità di analisi geopolitica, e un approccio multidisciplinare che le consenta di interagire con una varietà di interlocutori, tra cui governi, imprese, ONG, enti sovranazionali e la società civile. In particolare, risultano fondamentali la conoscenza approfondita delle dinamiche internazionali e il costante aggiornamento sulle evoluzioni delle relazioni internazionali, sullo scenario geopolitico globale e sulle politiche estere dei Paesi con cui sono chiamati a interagire. D'altra parte, la mediazione diplomatica richiede l'abilità di comprendere le esigenze di tutte le parti coinvolte e di trovare soluzioni che tutelino gli interessi dello Stato, ma anche quelli degli altri attori coinvolti nel processo negoziale. Il fatto poi che le attività di public affairs si svolgano in contesti multiculturali implica la conoscenza delle differenze culturali e la capacità di operare in ambienti diversi, con costruzione di reti di alleanze politiche, economiche e culturali che consente di ampliare l’influenza di un Paese e di promuovere le proprie politiche all'interno di contesti internazionali complessi. La capacità di interpretare il ruolo di mediatore in contesti internazionali è cruciale per il successo della diplomazia moderna. In situazioni di interazione tra Stati, organizzazioni internazionali e altri attori non statali, il professionista di public affairs deve possedere la capacità di conciliare posizioni diverse, trovare punti di incontro e ottenere risultati tangibili attraverso negoziati efficaci. Questo processo richiede una profonda comprensione delle priorità strategiche, politiche ed economiche degli altri attori, così come la capacità di adattare le proprie posizioni in modo flessibile, pur mantenendo la coerenza con gli interessi nazionali. Vista la crescente complessità e l’importanza delle attività di public affairs e delle relazioni internazionali istituzionali, la formazione delle figure professionali che operano in questo campo è cruciale, di modo che università e istituzioni accademiche, così come enti di formazione specializzati, sono chiamati a sviluppare curricula che rispondano alle esigenze di un mondo globale sempre più interconnesso e dinamico, in cui alla preparazione in discipline giuridiche, politiche ed economiche si accompagni anche una solida base culturale.
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Sistema giustizia


Autore: a cura di Roberto Lombardi 30 luglio 2025
PREMESSA Prima della disciplina organica stabilita dal d.lgs. n. 45 del 2024 , il collocamento fuori ruolo dei magistrati (in particolare, di quelli ordinari) era disciplinato in maniera non sistematica dall’ art. 50 d.lgs n. 160/2006 e dalla legge n. 190/2012 . Più in generale, la fonte normativa primaria del collocamento fuori ruolo dei pubblici dipendenti è costituita dall’ art. 58 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 ; tale norma, in forza della disposizione di cui all’ art. 276, comma 3 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 , era estensibile anche ai magistrati appartenenti all’ordine giudiziario. Di fatto, alcuni incarichi extragiudiziari, per il tipo di impegno che richiedono, presuppongono che il magistrato sia collocato fuori dal ruolo organico della magistratura. L’istituto del collocamento fuori ruolo prevede che il magistrato chiamato a esercitare funzioni ontologicamente diverse dalle attribuzioni proprie della qualifica giudiziaria si distacca dalla struttura istituzionale d’origine e, pur conservando lo status di cui godeva presso l’amministrazione di appartenenza, lascia vacante l’ufficio del quale era titolare, che può essere assegnato, così, a un altro magistrato. Si tratta in altri termini di una modifica oggettiva e temporanea del rapporto di lavoro , per effetto della quale il dipendente viene destinato a svolgere, presso un’amministrazione diversa da quella di appartenenza, compiti speciali che presentano un qualche interesse (anche) per l’amministrazione originaria, senza recidere con quest’ultima ogni rapporto. Vi sono sempre stati, d’altra parte, molteplici discussioni in merito all’opportunità del collocamento fuori ruolo dei magistrati, in quanto le critiche rivolte a tale istituto sono essenzialmente tre: - l’amministrazione della giustizia non ne trarrebbe in concreto alcun vantaggio; - la destinazione ad altri incarichi avrebbe conseguenze negative in termini di organico e di sottrazione di energie lavorative agli uffici giudiziari; - una prolungata assenza dai ruoli potrebbe determinare una diminuzione del sapere professionale, con ricadute negative sul sistema giustizia al momento del ritorno alla giurisdizione. Si è, per altro verso, e in senso contrario, ritenuto che i magistrati fuori ruolo costituiscano una risorsa indispensabile e strategica sia per il miglioramento dell’efficienza di importanti settori dell’amministrazione sia per l'accrescimento del prestigio che la magistratura nel suo complesso riceve per la qualità dell’opera che la professionalità dei magistrati sa rendere anche al di fuori dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali. Sotto questo profilo, il problema sarebbe consistito, più che altro, nell’introdurre o rendere più efficaci, nella normativa primaria e secondaria, alcuni principi di fondo volti a contemperare le esigenze delle amministrazioni “di destinazione” con quelle dell’amministrazione giudiziaria. E’ stato evidenziato, a tale riguardo, che le norme introdotte dalla legge 6 novembre 2012, n. 190 avevano lasciano insoddisfatte alcune esigenze avvertite dalla magistratura come necessarie per la razionalizzazione del sistema, con particolare riferimento all’accesso agli incarichi, alla durata degli stessi, alla valutazione dell’attività prestata fuori ruolo e alla disciplina del rientro in ruolo. LA DISCIPLINA DEI FUORI RUOLO NELL’AMBITO DELLA MAGISTRATURA AMMINISTRATIVA L’ art. 1, comma 1 della L. n. 71 del 2022 ha delegato Il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi recanti disposizioni finalizzate alla trasparenza e all'efficienza dell'ordinamento giudiziario. Tra le materie da modificare, nel rispetto dei criteri direttivi previsti dalla stessa legge delega, vi era anche il riordino della disciplina del collocamento fuori ruolo dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili . Il Governo, nell’attuare tale delega, avrebbe dovuto individuare, tra l’altro, le tipologie di incarichi extragiudiziari da esercitare esclusivamente con contestuale collocamento fuori ruolo per tutta la durata dell'incarico, rispettare il principio secondo cui condizione dell'incarico da conferire è che lo stesso corrisponda a un interesse dell'amministrazione di appartenenza e prevedere la necessità di valutare sempre puntualmente le possibili ricadute che lo svolgimento dell'incarico fuori ruolo potrebbe determinare sotto i profili dell'imparzialità e dell'indipendenza del magistrato. Sono stati poi previsti limiti di rilevanza e di tempo degli incarichi, con possibilità di individuazione di tassative deroghe, oltre che la necessità di individuazione della soglia di scopertura di organico della sede di servizio del magistrato oltre la quale non può essere autorizzato il fuori ruolo e la necessità di riduzione del numero massimo di fuori ruolo autorizzabili, con previsione della “ possibilità di collocamento fuori ruolo dei magistrati per la sola copertura di incarichi rispetto ai quali risultino necessari un elevato grado di preparazione in materie giuridiche o l'esperienza pratica maturata nell'esercizio dell'attività giudiziaria o una particolare conoscenza dell'organizzazione giudiziaria ”. La delega è stata infine attuata, seppure tardivamente rispetto al limite temporale stabilito per legge, dal d.lgs. n. 45 del 2024 . Facendo un passo indietro, per ciò che concerne la magistratura amministrativa , e prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina, vi era una delibera interna del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa ( delibera del 10 maggio 2013 ) che, nel richiamare la normativa all’epoca vigente, distingueva tra fuori ruolo obbligatorio senza limiti, fuori ruolo obbligatorio con limiti e collocamento in fuori ruolo facoltativo . Con riferimento a quest’ultimo tipo di fuori ruolo, lo stesso veniva disposto in “ conseguenza della ritenuta impossibilità o inopportunità del contemporaneo svolgimento delle funzioni istituzionali e dell’incarico extra-istituzionale ”. Il totale dei magistrati collocati fuori ruolo non poteva superare, nel vecchio regime, il numero massimo di 26 (dal 2026 tale numero scenderà a 25), ad eccezione dei fuori ruolo obbligatorio “senza limiti” (a titolo esemplificativo: Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro, Sottosegretario di Stato, Giudice costituzionale), i quali dovevano sempre essere autorizzati, con eventuale contestuale rientro in ruolo dei fuori ruolo facoltativi e via via, secondo specifici criteri, dei fuori ruolo meno “vincolati” e vincolanti. La nuova disciplina ha di fatto posto il problema dell’abrogazione implicita della delibera interna che si era data l’organo di autogoverno in materia, ed è stata allo scopo designata una Commissione speciale che possa riordinare – specie nei punti in cui vengono affidate all’organo di autogoverno alcune scelte strategiche (ad esempio, individuazione della scopertura di organico degli Uffici oltre il quale non è consentibile il collocamento in fuori ruolo) – la cornice normativa applicabile ai magistrati amministrativi. Pare in ogni caso vincolante, rispetto a ogni altra "indicazione interna", la volontà del legislatore, espressa all' art. 2 del d.lgs. n. 45 del 2024 , secondo cui il magistrato deve sempre essere collocato in fuori ruolo, qualora l'incarico da svolgere presso altro ente pubblico non garantisca " l'integrale svolgimento ordinario del lavoro giudiziario ". Nel frattempo, è prevalsa nel tempo l’interpretazione secondo cui anche i “fuori ruolo” possono essere autorizzati per lo svolgimento di ulteriori incarichi extraistituzionali, entro i limiti di cui all’ art. 4 comma 3, lett. h) della delibera del 18 dicembre 2001 del Consiglio di Presidenza (preesistenza di un incarico continuativo presso l’amministrazione interessata all’incarico stesso o presso altra amministrazione, qualora, nel secondo caso, il magistrato abbia in corso di svolgimento anche un altro incarico non continuativo). E anche il limite originariamente stabilito dalla delibera in materia di autorizzazione di incarichi di Presidente di collegio consultivo tecnico (secondo cui il magistrato fuori ruolo o in aspettativa non poteva assumere tale incarico) è stato rimosso dal Consiglio di Presidenza nella seduta del 19 dicembre 2024. I CASI PIU’ RILEVANTI TRATTATI DAL CPGA DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DELLE NUOVE NORME Pur nell’assenza perdurante della nuova disciplina interna imposta dal d.lgs. n. 45 del 2025, e dopo l’entrata in vigore di tale decreto legislativo, il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa si è trovato ad affrontare, negli ultimi mesi, alcune delicate questioni sistematiche afferenti a richieste di collocamento in fuori ruolo (o di prosecuzione dello status di fuori ruolo presso la stessa o presso altra amministrazione). Si sono presentate, in particolare, cinque particolari situazioni rispetto alle quali il Consiglio ha dovuto riflettere a fondo sulla valutazione puntuale da effettuare, anche alla luce delle nuove norme. In un primo caso, un magistrato amministrativo in servizio presso il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano – Ufficio già gravato dalla presenza di tre giudici con sgravio di 2/3 in quanto componenti dell’organo di autogoverno – ha chiesto l’autorizzazione a svolgere in fuori ruolo l’incarico di coordinatore del Gruppo di Lavoro sulla digitalizzazione dei contratti pubblici (Gruppo DIGIT) istituito presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Nel dibattito che si è svolto in Plenum da un lato è stata fatta rilevare l’esplicita richiesta di fuori ruolo avanzata con missiva dal Ministro competente, dall’altro si è evidenziata la rilevante scopertura di organico del Tribunale di appartenenza. In particolare, è stato fatto notare che il d.lgs. n. 45 del 2024, all’ art. 6, comma 1 , ponga una condizione ostativa oggettiva e assoluta al collocamento fuori ruolo (“ Non può essere collocato fuori ruolo il magistrato la cui sede di servizio presenti un rilevante indice di scopertura dell'organico stabilita in via generale dall'organo di governo autonomo ”) e che il fatto che il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa non avesse ancora stabilito tale indice di scopertura non avrebbe dovuto esimere il Consiglio stesso ad esercitare una discrezionalità conferita per legge. Ciò, anche in considerazione del fatto che, quasi contestualmente, l’Organo di autogoverno in parola aveva adottato una delibera che aveva fissato alcuni criteri per lo svolgimento dell’incarico di componente della Commissione di concorso per magistrato tributario, prevedendo in tale ambito che l’esonero totale dal carico di lavoro, previsto dalla norma di legge, non potesse essere consentito ai magistrati che prestassero servizio in Tribunali qualificati come “sedi PNRR”, ovvero in Tribunali in cui altri colleghi hanno già uno sgravio del carico di lavoro per lo svolgimento di incarichi interni, ovvero ancora in Uffici con un indice di scopertura del 20%. In senso contrario, è stato opinato che, in assenza della determinazione da parte dell’organo di autogoverno della percentuale di indice di scopertura “ostativa”, gli unici elementi da prendere in considerazione fossero le eventuali ricadute negative che il collocamento fuori ruolo della richiedente avrebbero avuto sull’organizzazione e la funzionalità del T.A.R. Milano, ricadute negative che peraltro erano state escluse dallo stesso Presidente dell’Ufficio giudiziario interessato. E’ stato inoltre fatto notare che una richiesta basata sul rapporto fiduciario (tra Ministro e magistrato) fosse sufficiente a giustificare tanto l’incarico quanto la richiesta di fuori ruolo e che l’ art. 6, comma 3 stabilisce, in deroga alla regola dell’ ostatività di un “rilevante indice di scopertura”, che l'organo di governo autonomo “ può sempre valutare, tenendo conto delle esigenze dell'ufficio di provenienza e dell'interesse dell'amministrazione di appartenenza, la possibilità di concedere il collocamento fuori ruolo in ragione del rilievo costituzionale dell'organo conferente (…) ”. Il conferimento in fuori ruolo è stato infine concesso con deliberazione a maggioranza; da notare che trattasi di ipotesi che le nuove norme collocano – in termini di resistenza e priorità – al gradino più basso ( lett. g), comma 1 dell’art. 7 del d.lgs.n. 45 del 2024 : “altri incarichi”). Un secondo caso ha riguardato la richiesta di un Consigliere di Stato ad essere autorizzato allo svolgimento dell’incarico di assistente di studio di uno dei Giudici costituzionali, con servizio a tempo pieno, dopo averlo svolto fino a quel momento a tempo parziale. In questo caso, la scopertura organica del Consiglio di Stato, pari al 13 per cento al momento della deliberazione, non sarebbe risultata ostativa, e l’unico rilievo di interesse sarebbe stata l’individuazione dell’orizzonte temporale entro cui autorizzare la durata del fuori ruolo. Sotto questo profilo, vi era un potenziale disallineamento tra le nuove norme introdotte dal d.lgs. n. 45 del 2024 (che nulla prevedono sulla necessità di rientro in servizio entro un determinato arco temporale) e la vigente disciplina interna, che consente in questi casi il collocamento fuori ruolo del magistrato per un massimo di tre anni, con obbligo del rientro e successiva permanenza in ruolo per almeno un biennio con effettivo esercizio delle funzioni di istituto ( articolo 4, comma 2, lettera a) della delibera C.P.G.A. del 10 maggio 2013 ). Il Plenum ha deciso di ritenere ancora applicabile la normativa interna vigente – in attesa di una modifica di essa da parte dell’istituita Commissione speciale - e ha dunque concesso all’unanimità il fuori ruolo, limitandolo ad una durata “iniziale” di tre anni. Il terzo caso “particolare” ha riguardato una Consigliera di Stato – transitata dai TAR nelle more dello svolgimento dell’incarico – che ha fatto istanza di rinnovo dell’incarico di Direttore del Servizio giuridico dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. La vicenda è stata caratterizzata dal succedersi di richieste tra di loro non coerenti: prima, di autorizzazione con fuori ruolo, poi, di autorizzazione ad un incarico di consulenza di contenuto analogo a quello dell'iniziale richiesta con rientro in ruolo, infine ancora – ma stavolta sulla base di diversa disciplina giuridica – domanda di prosecuzione dello stesso incarico già svolto, e ancora una volta in fuori ruolo. Mancava in particolare, con riferimento alla prima istanza, il parere obbligatorio prescritto dall’ art. 9, comma 3, lett. b) del d.lgs. n. 45 del 2024 ; nella fattispecie concreta, essendo il magistrato richiedente transitato dai TAR al Consiglio di Stato in posizione di fuori ruolo, tale parere avrebbe dovuto essere rilasciato dal Presidente del Consiglio di Stato stesso, in assenza di assegnazione formale della Giudice ad una Sezione. Inizialmente, il Consiglio di Presidenza ha autorizzato la prosecuzione dell’incarico, prevedendo contestualmente il rientro in ruolo della richiedente, e respingendo la tesi secondo cui, trattandosi di incarico rientrante tra quelli presupponenti il “fuori ruolo obbligatorio”, secondo la Tabella B della delibera del 10 maggio 2023, punto b), fosse da ritenersi incompatibile con lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali la prosecuzione del lavoro di Direttore del Servizio giuridico dell’Autorithy . Tale orientamento si era in effetti consolidato in passato proprio con riferimento al medesimo incarico svolto dalla richiedente, e non sarebbe stato scalfito, secondo questa tesi, dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 45 del 2024, il cui articolo 16 del decreto, nello stabilire la linea di compatibilità tra la disciplina precedente e quella attuale, lascia espressamente in vigore l’ art. 1, comma 66 della legge Severino , sulla cui base è fondata la Tabella “B” sopra citata. D’altra parte, anche qualora non si fosse voluta applicare la norma sull’obbligo di fuori ruolo, vi sarebbe stato pur sempre l’ articolo 2, comma 1, del decreto legislativo n. 45 del 2024 , il quale stabilisce che: " Tutti gli incarichi presso Enti pubblici o Pubbliche Amministrazioni la cui assunzione non può garantire l'integrale svolgimento ordinario del lavoro giudiziario possono essere svolti nel rispetto delle previsioni del presente decreto soltanto a seguito del collocamento fuori ruolo o nei casi specificamente previsti dalla legge del collocamento in aspettativa ", dovendosi probabilmente dubitare che la tipologia di incarico ricoperto dalla richiedente non avesse carattere assorbente sotto il profilo del tempo impiegato nello svolgimento di esso. Successivamente al rilascio di tale autorizzazione, peraltro, una nota del Presidente dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni aveva investito nuovamente della questione l’Organo di autogoverno, affinché lo stesso riesaminasse la deliberazione assunta in punto di rientro in ruolo della Consigliera di Stato, sulla base della legge istitutiva dell’Authority, secondo cui sarebbe stato possibile avvalersi di dipendenti dello Stato o di altre amministrazioni pubbliche per svolgere incarichi di tipo dirigenziale, qualora non fosse possibile reperire al proprio interno professionalità dotate delle necessarie competenze, come nel caso in esame, ma soltanto se tali dipendenti “esterni” risultassero “collocati in posizione di fuori ruolo” nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti. Il Consiglio di Presidenza ha a questo punto accolto l’istanza di riesame così avanzata, non prima però di acquisire il parere del Presidente titolare della Sezione del Consiglio di Stato a cui nel frattempo la richiedente era stata formalmente assegnata. Tale parere non era né positivo né negativo, limitandosi il Presidente in questione a sottolineare che era stato talmente poco il tempo di rientro in servizio del magistrato alla sua Sezione assegnato da rendere impossibile l’individuazione in concreto dell’eventuale pregiudizio eventualmente derivante dalla nuova vacanza di organico. D’altra parte, erano nel frattempo pervenute due note da una rappresentanza sindacale del personale impiegato presso l’A.G.C.O.M., che denunciavano una situazione di disagio asseritamente occasionata da comportamenti del magistrato svolgente l’incarico di Direttore di Servizio. Su questo fronte, mentre la maggioranza del Consiglio ha ritenuto di non poter attribuire rilievo a tali segnalazioni, in quanto il loro contenuto non atterrebbe ai profili alla cui verifica è chiamato il Consiglio di Presidenza, una tesi dissenziente ha rimarcato che le evidenziate problematiche di carattere lavorativo e relazionale potrebbero suggerire una potenziale incompatibilità inerente alla permanenza del magistrato nell’amministrazione di destinazione, e che, anche alla luce della normativa interna in materia di autorizzazioni agli incarichi, avrebbe dovuto essere necessaria una valutazione in concreto, al fine di porsi, prima di autorizzare l’incarico, il problema della lesione del prestigio non solo del plesso, ma anche del magistrato stesso, nel caso in cui fossero infondate le accuse implicitamente contenute nella lettera del sindacato. D’altra parte, il comma 4 dell’art. del d.lgs. n. 24 del 2024 stabilisce che “ in ogni caso l'organo di governo autonomo deve valutare le ricadute provenienti dallo svolgimento dell'incarico fuori ruolo sotto il profilo della possibile lesione della immagine di imparzialità e indipendenza del magistrato o del pregiudizio derivante al prestigio delle magistrature ”. L'autorizzazione alla "ripresa" dello svolgimento dell'incarico in posizione di fuori ruolo è stata infine concessa, seppure a maggioranza. Un'ulteriore fattispecie ha riguardato il caso di un magistrato TAR che ha partecipato ad una selezione pubblica in seno al Consiglio di Europa per assurgere al compito di legal advisor del GRECO, organismo internazionale che si occupa di contrasto alla corruzione – tramite monitoraggio del rispetto da parte degli Stati aderenti di determinati standard in materia - e che è stato istituito dallo stesso Consiglio di Europa. Il magistrato richiedente ha evidenziato l' interesse dell'amministrazione a consentirgli un incarico ritenuto prestigioso e di sicura attinenza con materie interferenti anche con il diritto amministrativo (in considerazione della trasversalità della materia “corruzione”), mentre il Capo dell'Ufficio dove egli presta servizio, nel rendere il richiamato parere di cui all'art. 9, comma 3, lett. b) del d.lgs. n. 45 del 2024, ha evidenziato che il venir meno del suo Collega avrebbe determinato una scopertura di organico molto rilevante (circa il 30%) e si sarebbe posto in contrasto con la necessità, a carico dell'interessato, di recuperare l'arretrato individuale di lavoro accumulatosi per via della fruizione di alcuni congedi parentali “frazionati”. Quanto al primo aspetto, è stato peraltro fatto rilevare che la norma di riferimento del d.lgs. n. 45 del 2024 a cui "appoggiare" la richiesta di fuori ruolo fosse l' art. 5, comma 5 e non l'a rt. 11, comma 3 , posto che l'incarico da ricoprire era di esperto amministrativo (incarico non riservato a magistrati) e non afferiva direttamente all'esercizio di funzioni giurisdizionali. D’altra parte, mentre l’art. 5, comma 5 dispone che “ L'interesse dell'amministrazione è sempre sussistente per gli incarichi che la legge affida esclusivamente a magistrati, per gli incarichi presso organi costituzionali o di rilevanza costituzionale, per gli incarichi apicali, anche di diretta collaborazione, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e i Ministeri o per incarichi presso organismi dell'Unione europea o organizzazioni internazionali di cui l'Italia è parte”, il comma 6 dello stesso articolo dispone che “L'interesse dell'amministrazione di appartenenza non si ritiene sussistente quando l'incarico non richieda un elevato grado di preparazione in materie giuridiche ovvero una particolare conoscenza dell'organizzazione giudiziaria o esperienza pratica maturata nell'esercizio dell'attività giurisdizionale, giudiziaria, consultiva o di controllo ”. Quanto al secondo aspetto, la natura non vincolante, rispetto alla decisione del Consiglio, del parere del Capo dell'ufficio, non eliminava il dato oggettivo di una rilevantissima scopertura dell'organico di tale Ufficio, una volta che fosse stato autorizzato il fuori ruolo. L'organo di autogoverno ha dapprima respinto, a voto segreto, la proposta della Commissioni congiunte di accogliere la richiesta autorizzazione in fuori ruolo. Tuttavia, una volta emesso il preavviso di diniego ed esaminate le osservazioni dell'interessato, lo stesso Consiglio è tornato sui suoi passi, e ha infine concesso il fuori ruolo, nonostante alcuni Consiglieri abbiano fatto notare la contraddittorietà interna della decisione, non essendo emerso alcun elemento di fatto nuovo rispetto a quelli già presi in considerazione nell'esprimere il primo voto sfavorevole. Altro caso di rilievo affrontato dall'organo di autogoverno dei magistrati amministrativi nel presente anno è quello di un magistrato Tar che dopo vari anni in fuori ruolo presso il Garante della Privacy è stato proposto e nominato dal Ministro della difesa in qualità di Segretario generale del suo Ministero. La peculiarità di questa fattispecie sta nella assenza di soluzione di continuità tra le attività prestate al di fuori dei ranghi giurisdizionali da parte del magistrato interessato, con conseguente "costruzione" di una sorta di carriera parallela rispetto a quella di Giudice, carriera che pare implicitamente osteggiata dalle nuove norme, in teoria più restrittive della disciplina anteriormente vigente. Tuttavia, in presenza di una serie di eccezioni continue alla regola - così come contenute nel testo del d.lgs. n. 45 del 2024 - e in assenza di obblighi espliciti di rientro dal precedente incarico, prima di assumerne uno diverso, il Consiglio ha anche in questo caso autorizzato la permanenza di fuori ruolo, con un solo voto contrario.
Autore: dott.ssa Elettra Papaccio 14 aprile 2025
[NDR: la dott.ssa Papaccio, che ha già collaborato con questo sito quando svolgeva l'attività di tirocinio presso il Tribunale amministrativo regionale, è in procinto di assumere adesso le funzioni di MOT presso la Corte di appello di Napoli, dopo avere superato brillantemente le prove (e per ben due volte gli scritti) del concorso in magistratura ordinaria] PREMESSA La riforma Cartabia ha introdotto nel corpo del codice di procedura civile un istituto inedito nel nostro ordinamento, ossia il rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di cassazione, per la risoluzione di una questione di diritto nuova e controversa, prima della decisione del giudice del merito . Fino alla recente modifica, invero, la Suprema Corte quale giudice di legittimità interveniva sulle questioni di diritto, al fine di enunciare il principio da applicare da parte del giudice del merito al caso concreto, solo in via successiva in sede di impugnazione, avverso una pronuncia in grado unico o di appello, censurata dal ricorrente sulla base dei motivi tassativi di cui all’ art 360 c.p.c. . In disparte la ipotesi del regolamento preventivo di giurisdizione, in tutti gli altri casi, la Corte di cassazione si è sempre pronunciata su un provvedimento già adottato da parte del giudice del merito, in funzione di giudizio di pura legittimità ed in veste nomofilattica, come previsto dalla legge sull’ordinamento giudiziario. L’ art 65 del Regio decreto numero 12 del 1941 , in proposito, statuisce che la Corte di cassazione “ assicura l’esatta osservanza e la uniforme interpretazione ed applicazione della legge, garantisce la unità del diritto oggettivo, vigila sul rispetto dei limiti delle giurisdizioni e regola i conflitti di competenza ”, così indentificando i tratti caratteristici del giudice di legittimità, garante della corretta applicazione del diritto oggettivo e della uniformità della sua applicazione nell’ordinamento da parte dei giudici di merito. In tale ottica dispone anche l’ art 111 Costituzione , che proietta il singolo giudizio di legittimità verso una funzione più ampia della risoluzione del caso concreto in punto di diritto, e più precisamente nella dimensione di un processo avente come scopo l’unità del sistema giuridico e la osservanza della legge. In analoga ottica nomofilattica si inscrive anche la norma di recente introduzione di cui all’ art 363 bis c.p.c. , significativamente collocata subito dopo l’ articolo 363 c.p.c. che disciplina le ipotesi in cui, su richiesta del Procuratore generale, o di ufficio, viene enunciato il principio di diritto nell’interesse della legge. L’inedito istituto del rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di cassazione accentua la funzione di cui all’art 65 della legge sull’ordinamento giudiziario, e precisamente ciò si realizza mediante la sottoposizione della questione giuridica controversa alla Suprema Corte, prima che il giudice del merito si pronunci, al fine di fornire allo stesso il principio di diritto da applicare, vincolante nel caso in esame. Lo scopo dell’istituto è quello di fornire al giudice del merito, in via anticipata rispetto alla decisione, la corretta interpretazione della legge da applicare al caso concreto, su una questione di diritto nuova e controversa. In tal modo si consente di realizzare, da un lato, un risparmio di energie processuali , e dall’altro di potenziare la funzione nomofilattica, fornendo ex ante al giudice a quo una pronuncia della Corte di cassazione, che dirima una controversia, in punto di diritto, suscettibile di dar luogo a orientamenti differenti e non uniformi davanti a più giudici di merito. Infatti i presupposti e requisiti, per la attivazione della richiesta alla Suprema Corte, sono: 1-che la questione, “esclusivamente di diritto ”, sia necessaria alla definizione anche parziale del giudizio, ponendosi come passaggio logico indispensabile da compiere per addivenire alla decisione. 2-che la stessa non sia ancora stata risolta dalla Corte di cassazione, ovvero che sia inedita perché non si è ancora posta all’attenzione del giudice di legittimità. 3-che la questione presenti gravi difficoltà interpretative , richiedendo un impegno ermeneutico apprezzabile , per individuare la soluzione adeguata al caso concreto tra una pluralità di potenziali interpretazioni. 4-la serialità , ossia la circostanza che la questione è suscettibile di porsi in numerosi giudizi, non predeterminati a priori e appunto molteplici. Ciò significa che, se non risolta una tantum in sede di rinvio pregiudiziale, la medesima questione potrebbe riproporsi davanti a giudici diversi, producendo una proliferazione di differenti interpretazioni e - come il delta di un fiume - moltiplicando le decisioni a scapito della armonia e uniformità tra i decisioni. La norma appena descritta, che ha già trovato applicazioni nel processo civile, sebbene in un numero limitato di casi, ha consentito alla Suprema Corte di risolvere questioni interpretative, prevenendo contrasti giurisprudenziali in materie che presentano oggettive difficoltà ermeneutiche, ovvero riguardanti questioni inedite. LA NORMA E LE SUE APPLICAZIONI “EXTRA VAGANTI” La disposizione sembrava posta per rimanere circoscritta al processo civile , considerata la sua funzione endoprocessuale e dunque focalizzata sulla risoluzione di questioni suscettibili di concretizzarsi, se non preventivamente risolte, in una impugnativa afferente al vizio ex art 360 numero 3), ovvero cd. error in iudicando . Tuttavia si è già riscontrata la prima richiesta di “esportazione” dell’istituto al processo tributario , con l’ordinanza di rinvio della Corte di Giustizia tributaria di Agrigento, che ha dato origine alle recenti Sezioni Unite del dicembre 2023. Con tale rinvio è stata sottoposta alla Suprema Corte una questione di giurisdizione, cui era sotteso il controverso inquadramento della fattispecie sostanziale oggetto di lite: in una controversia inerente al diniego di contributo a fondo perduto ex d.l. 34 del 2020, ha assunto carattere pregiudiziale ai fini della determinazione della giurisdizione, l’esatto inquadramento della natura giuridica della posizione soggettiva sottesa. Le Sezioni Unite – con sentenza 13 dicembre 2023 n. 34851 -, in tale occasione, hanno ritenuto utilizzabile il nuovo strumento ermeneutico anche da parte del giudice tributario, rilevando che “ è proprio la funzione nomofilattico-deflattiva assegnata al rinvio pregiudiziale ad avvalorarne … l’utilità .. in una materia come quella tributaria, nell’ambito della quale si rivela particolarmente pressante l’esigenza di assicurare l’uniforme interpretazione del diritto, anche al fine di contenere la proliferazione di un contenzioso notoriamente assai consistente sotto il profilo quantitativo e spesso connotato da caratteri di serialità, nonché di consentire una più rapida definizione delle controversie pendenti. ” La stessa relazione di accompagnamento alla riforma, osservano le Sezioni Unite, menziona la esigenza, particolarmente avvertita in materia tributaria, di « rendere più tempestivo l’intervento nomofilattico, con auspicabili benefici in termini di uniforme interpretazione della legge, quale strumento di diretta attuazione dell’art. 3 della Costituzione, prevedibilità delle decisioni e deflazione del contenzioso ». Aggiunge la Suprema Corte che « una interpretazione autorevole e sistematica della Corte resa con tempestività, in poco tempo ed in concomitanza alle prime pronunzie della giurisprudenza di merito, può svolgere un ruolo deflattivo significativo, prevenendo la moltiplicazione dei conflitti e con essa la formazione di contrastanti orientamenti territoriali ». Una volta ammessa - con la pronuncia del 2023 - la esportazione dell’istituto al di fuori dei confini del processo civile, il TAR Liguria, con la ordinanza del 28 febbraio 2025, n. 230 ha attivato per la prima volta il rinvio nel giudizio amministrativo . Anche in questa fattispecie il rinvio è stato operato al fine di risolvere una questione di giurisdizione. Il ricorso è originato dall’impugnativa degli atti di una procedura concorsuale per il conferimento dell’incarico quinquennale di Direzione della Struttura Complessa “Chirurgia Generale ad Alta Complessità” - disciplina di Chirurgia Generale - Area di Chirurgia e delle Specialità Chirurgiche, dell’Azienda Sociosanitaria Ligure 5. Si tratta di procedure di conferimento di incarichi direttivi di strutture caratterizzate da maggiore autonomia nella gestione, in base a quanto previsto dall’atto organizzativo adottato dalla ASL ( cfr. ex art 15, comma 6, del d.lgs. 502/1992 ). Sul conferimento di tali incarichi dirigenziali è divenuta controversa la giurisdizione , a seguito di una recente modifica normativa, che ha riformato l’art. 15, comma 7 bis del d.lgs 502/92, sostituito dall’ art. 20, comma 1, l. 5 agosto 2022 n. 118 . Per effetto della richiamata novella legislativa, l’art 15 sopra citato ora prevede una maggiore procedimentalizzazione della procedura di scelta del dirigente. Precedentemente, infatti, la procedura era basata su un’analisi comparativa dei titoli, posseduti dai candidati “ai fini della predisposizione di una terna di candidati idonei formata sulla base dei migliori punteggi attributi”; poi si passava alla “individuazione da parte del direttore generale, del candidato da nominare, tra i due che avessero ottenuto il punteggio più elevato”. In tale contesto la giurisdizione ordinaria era fondata – cfr. ex multis Cass., SU, n. 13491/2021- sulle stesse modalità della selezione, articolate in “uno schema che non prevede lo svolgimento di prove selettive, con la formazione di graduatoria finale e l’individuazione del candidato vincitore, ma soltanto la scelta, di carattere essenzialmente fiduciario”. Di qui, in applicazione dell’ art 63 del TU del pubblico impiego , le controversie si ritenevano devolute al giudice ordinario, escludendo la natura concorsuale della procedura e ritenendo la stessa integrata da atti adottati con i poteri del privato datore di lavoro. Infatti è pacifico ormai che , in tema di impiego pubblico privatizzato, il g.a. mantiene una riserva ex art 63 del TU pubblico impiego, solo per le procedure concorsuali finalizzate alla assunzione, o anche alla progressione in un’area o fascia superiore quella di appartenenza. Per contro, il conferimento di un incarico dirigenziale , ivi compresa la dirigenza sanitaria, non costituisce un concorso avendo come destinatari personale già in servizio ed in possesso della relativa qualifica, e rappresentando una scelta tra curricula e non una valutazione comparativa. Con la recente modifica normativa, gli incarichi di direzione di struttura sanitaria complessa sono ora attribuiti sulla base dell’ analisi comparativa dei curricula e dei titoli professionali posseduti dai candidati “secondo criteri prefissati preventivamente”, in modo tale da far prescegliere il candidato con il punteggio migliore. Le interpretazioni di queste novità procedurali, in giurisprudenza, hanno dato origine a due opposte soluzioni in punto di giurisdizione. Secondo un primo orientamento sussiste tuttora la giurisdizione del giudice ordinario, anche dopo la modifica normativa. Infatti la procedura attiene al “conferimento degli incarichi di direzione” , le cui controversie sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario per espressa previsione ex art. 63, comma 1, del d.lgs n. 165/01 ( come ha già affermato ex multis Cass., SU, nn. 13491/2021) e le modifiche del 2022 nulla mutano in ordine alla natura dell’incarico, essendo la procedura selettiva finalizzata all’attribuzione di un incarico dirigenziale e non avendo natura concorsuale. La giurisdizione del giudice amministrativo è per contro configurabile solo nelle ipotesi di concorsi finalizzati alla “assunzione” del dipendente, mentre l’incarico di direttore di struttura complessa è conferibile a chi sia già stato assunto nel ruolo della dirigenza medica mediante concorso pubblico ai sensi dell’art. 15, comma 7, primo periodo del d.lgs n. 502/92 e s.m.i.. In tali termini la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che “ la riserva stabilita in favore del giudice amministrativo concerne soltanto le procedure concorsuali strumentali all’assunzione o alla progressione in un’area o fascia superiore a quella di appartenenza, laddove gli atti di conferimento d’incarichi dirigenziali - i quali non concretano procedure concorsuali ed hanno come destinatari persone già in servizio nonché in possesso della relativa qualifica - conservano natura privata in quanto rivestono il carattere di determinazioni negoziali assunte dall’Amministrazione con i poteri e le capacità del comune datore di lavoro ” (Cass., SU, nn. 13491/2021). In sintesi, secondo tale tesi, la novella legislativa, pur incrementando la procedimentalizzazione della selezione, nulla innoverebbe sul riparto di giurisdizione. (Consiglio di Stato sezione III, 4 giugno 2024, n. 5017; C. S. III, 19 luglio 2024, n. 6534). Secondo un secondo orientamento , più recente, del Consiglio di Stato, tali controversie sarebbero attratte alla giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto, per effetto della riforma, sarebbe venuto meno il carattere fiduciario del conferimento dell’incarico e la procedura sarebbe ora inscritta nel modello concorsuale. Ciò si desumerebbe dal fatto che la selezione non è limitata ai medici in servizio presso l’Asl interessata, ma “aperta e pubblica” e quindi assume i connotati di una procedura per l’immissione in servizio di un sanitario, in posto qualificato: la stessa sarebbe finalizzata all’assunzione del sanitario sub specie di “progressione in un'area o fascia superiore a quella di appartenenza” ovvero all’acquisizione di uno “status” professionale più elevato (Consiglio di Stato sentenza 18 ottobre 2024 n. 8344). In ordine alla questione così inquadrata, il TAR Liguria ha ravvisato la sussistenza di tutti i presupposti di cui all’art 363 bis c.p.c., ovvero la natura esclusivamente di diritto del quesito, la possibilità che la questione si ponga in molteplici giudizi, come dimostra la giurisprudenza in materia, la novità della questione e il contrasto giurisprudenziale ancora irrisolto, sia in seno alla giurisprudenza amministrativa sia da parte della Suprema Corte in sede di regolamento della giurisdizione. Trattandosi di una questione che indubbiamente condiziona la risoluzione della controversia, in particolare in quanto la scelta tra le diverse opzioni ermeneutiche viene a riflettersi sulla sussistenza in radice della potestas decidendi del g.a., il Collegio, ha operato il rinvio di interpretazione alla Corte di cassazione, rilevando che occorre in limine risolvere una questione da cui dipende la sussistenza della propria giurisdizione. OSSERVAZIONI FINALI La circostanza centrale nel caso in esame è proprio inerente alla utilizzabilità dello strumento del rinvio pregiudiziale da parte del giudice amministrativo , e quindi alla possibilità, anche in tali casi, di sua esportazione al di fuori del contesto del codice di procedura civile. Quanto alla possibilità di operare il rinvio ex art 363 bis c.p.c. da parte dei giudici speciali , occorre rifarsi alla sopra richiamata pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione che ha risolto il problema favorevolmente, rispetto al rinvio operato dal giudice tributario ( SSUU sentenza 13 dicembre 2023 n. 34851). Nell’ottica della estensibilità dell’istituto anche al processo amministrativo, il Tar Liguria rileva come la questione che intende sottoporre alla Cassazione sia relativa alla giurisdizione sulla controversia, la quale ex art. 111, comma 7 Cost. e art. 110 c.p.a. è scrutinabile dalla Suprema Corte, quale organo regolatore della giurisdizione, anche rispetto alle decisioni dei giudici speciali. Ancora, argomenta il TAR Liguria come il rinvio esterno contenuto nell’ art. 39 comma 1, c.p.a. – secondo cui “Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali”- consenta l’opzione ermeneutica prescelta. In ciò giova richiamare la similitudine con il processo tributario, ove è presente analogo rinvio esterno al codice di procedura civile, e precisamente all’ art. 1, comma 2, d.lgs. 546/92, norma che è stata adoperata per ritenere consentito il rinvio pregiudiziale da parte del giudice tributario, come affermato dalla Cassazione nel precedente sopra citato ( SSUU sentenza del 13 dicembre 2023 n. 34851). La circostanza che il Tribunale amministrativo regionale appartenga a una giurisdizione speciale non sarebbe ostativa ex se alla facoltà per i giudici amministrativi di sollevare rinvio pregiudiziale ex art 363 bis c.p.c., atteso che il rinvio è operato proprio ai fini della determinazione della giurisdizione, ambito in cui “la Cassazione costituisce l’organo di vertice, con il compito di assicurare l'esatta osservanza, l'uniforme interpretazione della legge e l'unità del diritto oggettivo”. Inoltre tale istituto - “ essendo volto a sollecitare un responso anticipato della Corte in ordine ad una questione di diritto, non ancora risolta dalla giurisprudenza di legittimità ed avente carattere seriale, che presenti gravi difficoltà interpretative ed appaia rilevante ai fini della decisione della controversia ” - sembra specialmente adeguato laddove la questione di giurisdizione sottenda una delicata e complessa questione di diritto afferente l’inquadramento sistematico dell’istituto di diritto sostanziale su cui si fonda l’attribuzione della giurisdizione. A favore della possibilità di applicare l’istituto anche al processo amministrativo, va rilevato l’inquadramento dato allo stesso dalle Sezioni Unite nella richiamata pronuncia 34851/2023, e precisamente le rilevanti differenze che “lo strumento ex art 363 bis c.p.c. presenta” rispetto al regolamento preventivo di giurisdizione, in quanto opera ad iniziativa del giudice, che può utilizzarlo non solo nel giudizio primo grado ma anche in quello di appello. In tal sede è significativa la definizione del rinvio pregiudiziale quale “strumento complementare” di definizione delle questioni di giurisdizione, rispetto a quelli già disciplinati dal c.p.c., il regolamento preventivo ad istanza di parte ex art 41 c.p.c. , e il regolamento di ufficio che è solo successivo. Questo inquadramento consente quindi di dare maggiore spazio ad un rinvio pregiudiziale anche in un’ottica di definizione della giurisdizione, proprio per evitare un inutile dispendio di energie processuali, deflazionando il contenzioso, mediante la enunciazione di un principio suscettibile di essere applicato in controversie seriali. Tuttavia le apprezzabili ragioni favorevoli alla ammissibilità dell’istituto vanno confrontate con le possibili obiezioni, specifiche per il processo amministrativo, che non sembrano essere state ancora vagliate nella fattispecie già esaminata dalla Cassazione, relativa al processo tributario. Può osservarsi che il rapporto tra giudice amministrativo e Corte di cassazione è delineato all’art 111 Costituzione , secondo cui le decisioni del Consiglio di Stato sono sindacabili dalla Suprema Corte solo per “motivi di giurisdizione”, con esclusione dei vizi costituenti errores in procedendo o in iudicando compiuti dal giudice speciale. Di qui occorre porre una particolare cautela alla estensibilità dell’istituto al processo amministrativo, onde evitare che venga piegato ad un surrettizio ampliamento delle cosiddette questioni di giurisdizione conoscibili dalla Cassazione. Il riferimento è alle posizioni espresse dalla Corte costituzionale, in riguardo alla diversa problematica del sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale, che focalizzano la necessità di intendere in senso stretto le questioni di giurisdizione (Corte costituzionale n. 6 del 2018), preservando una autonomia di decisione e procedura del giudice speciale. In tal sede la Consulta ha quindi ridimensionato un'eccessiva dilatazione del concetto di eccesso di potere giurisdizionale , che avrebbe consentito un sindacato sugli errores in iudicando o in procedendo , con una torsione del vizio di cui all’art 360 numero 1 c.p.c. inerente ai motivi di giurisdizione. Nel caso del rinvio pregiudiziale per motivi di giurisdizione questa torsione sembra escludersi, dal momento che la Corte di cassazione è chiamata ad una sorta di actio finium regundorum , che ha lo stesso contenuto del sindacato svolto in sede di regolamento di giurisdizione, o ex post in sede di ricorso per motivi di giurisdizione; può dunque condividersi la tesi per cui l’istituto si pone in linea con l’esigenza del giusto processo , in quanto finalizzato ad ottenere pronunce orientate a garantire la certezza e prevedibilità del diritto. In ultima analisi va condivisa l’osservazione secondo cui il rinvio pregiudiziale, più che destabilizzare le garanzie di autonomia riconosciute ad ogni giudice dall’ art 101, secondo comma Costituzione , rappresenta un’opportunità in più offerta al giudice di merito per rivolgersi alla Corte regolatrice della giurisdizione. Non sembra di ostacolo la osservazione, formulata da una parte della dottrina, secondo cui il rinvio pregiudiziale, anche se limitato ai fini di una questione di giurisdizione, troverebbe una barriera nella circostanza che in tale questione i profili di diritto sono inscindibilmente connessi a quelli di fatto . Al riguardo la Suprema Corte, nella citata sentenza concernente il Giudice tributario, ha osservato che tale inscindibilità contraddistingue tutte le questioni di carattere processuale, ove la Corte è chiamata ad operare come giudice anche del fatto. In ogni caso, in tali questioni è ben possibile distinguere l’aspetto riguardante la interpretazione della norma giuridica astrattamente applicabile, dalla ricostruzione della concreta vicenda processuale, che rimane “ affidata al giudice di merito, sia in via preventiva , ai fini della motivazione in ordine alla rilevanza della questione, che in via successiva, ai fini della applicazione del principio di diritto enunciato da questa Corte ”. In altri termini si è rilevato che, fermo che i profili fattuali sono riservati in via esclusiva al giudice di merito, a quello di legittimità può demandarsi il profilo giuridico consistente non già nell’individuare il giudice a cui spetta la giurisdizione, ma nella “interpretazione delle norme sostanziali e processuali dalle quali dipende il riparto di giurisdizione”(cfr. sempre Cassazione, Sezioni Unite numero 34851/2023). Vale sottolineare che in ogni caso la Suprema Corte ha già chiarito nella citata sentenza che la sua pronuncia non sarà mai nel senso di statuire in via diretta a chi spetti la giurisdizione, bensì di qualificare la posizione giuridica sottesa alla questione di giurisdizione , rimanendo nel campo del giudice del merito il compito di trarne le conseguenze, benché entro il vincolo del principio di diritto. In attesa di conoscere la decisione della Suprema Corte in ordine all’estensibilità del rinvio sollevato al processo amministrativo, si rileva come l'ordinanza del giudice di primo grado , nel solco della giurisprudenza di altri giudici speciali, abbia colto la possibilità, offerta dal codice di rito in virtù del rinvio esterno, di dialogo anticipato con la Corte regolatrice della giurisdizione. In tal modo, il giudice amministrativo contribuirebbe a realizzare lo scopo della norma di recente introduzione, ossia una previa risoluzione di questioni di diritto rispetto alla decisione di merito, nell’ottica di economia processuale, ragionevole durata del processo e dell’armonia tra decisioni di diversi giudizi, al fine di assicurare l’uniformità del diritto oggettivo.
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