“Se talvolta inclinassi la bilancia della giustizia, 

fa' che ciò avvenga non sotto il peso dei doni,

ma per un impulso di misericordia” 

(Miguel de Cervantes)
 

"LA TUTELA AMMINISTRATIVA: DAL SINDACATO INCIDENTALE DEL GIUDICE PENALE ALLA POSSIBILE ESTENSIONE DEL SINDACATO DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO"

Convegno in presenza a Bergamo:

Venerdì 15 novembre 2024 ore 15.00

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L’angolo dell’attualità 

Autore: a cura di Roberto Lombardi 13 novembre 2024
(Viaggio in uno scontro tra poteri tipicamente italico) La moderna questione dei migranti evoca tempi antichi e storie che si ripetono. [1] Tecnicamente, la parola migrazione può significare sia emigrazione che immigrazione, ma il suo significato si definisce meglio con riferimento a quei “processi di mobilità internazionale” dei gruppi umani che incidono strutturalmente sulle società dei Paesi di destinazione. Negli ultimi due secoli, l’Europa è passata ad essere da terra di emigrazione a terra di immigrazione. La chiusura delle frontiere agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, anziché realizzare un sostanziale blocco dell’immigrazione, ha prodotto un’alterazione qualitativa dei movimenti migratori, determinando da un lato l’aumento delle domande di ricongiungimento familiare degli immigrati già presenti sul territorio, delle richieste di asilo e degli ingressi clandestini e irregolari, dall’altro, l’implementazione di programmi di inserimento sociale degli immigrati nelle comunità nazionali. L’ integrazione , intesa come un percorso che coinvolge ogni istante della vita dell’immigrato, è ormai ritenuta una necessità, anche se l’approccio istituzionale varia considerevolmente a seconda di quali siano gli Stati di accoglienza, secondo i due fondamentali modelli assimilazionista e multiculturalista . Tuttavia, il processo di integrazione registra una sensibile quota di insuccessi nei Paesi in cui si accompagna, accanto alla sostanziale preclusione agli immigrati della sfera politica delle società di accoglienza, un difficile accesso alla cittadinanza. Per altri versi, il dispiegamento massiccio delle azioni negative di contrasto dell’immigrazione , mirate non già a un razionale controllo quantitativo e qualitativo dei flussi, quanto al proposito di conseguire un azzeramento tendenziale della mobilità internazionale, costituisce un obiettivo anacronistico e probabilmente non realizzabile, in relazione al fatto che le migrazioni continueranno a rivestire nel tempo un ruolo centrale, coerentemente con tendenze di lungo periodo quali gli squilibri tra il tasso di sviluppo economico e l’andamento demografico nei Paesi c.d. poveri, da un lato, e l’invecchiamento delle popolazioni dei Paesi c.d. ricchi, dall’altro. Di certo, oggi, a fronte di un flusso migratorio scarsamente regolamentato nelle sue “regole di ingaggio” di base, la visione “centralizzata” dell’Unione europea sul concreto esercizio dei diritti di asilo ha creato più di un problema ai singoli Paesi maggiormente esposti alle ondate dei nuovi arrivi, limitandone le capacità operative di “blocco”. Quanto all’Italia, è ormai molto tempo che la questione dei migranti è stata inserita nell'agenda politica dei partiti e dei Governi di turno. E ciò non tanto perché l'afflusso massiccio di cittadini extracomunitari abbia messo per davvero in sistematica crisi la sicurezza del Paese o tolto occasioni di lavoro agli italiani, quanto invece perché la caoticità del fenomeno e l'incapacità delle istituzioni di gestirlo efficacemente ha profondamente turbato la percezione della situazione di "protezione" individuale e collettiva che ciascuno di noi ha in ordine al suo territorio di nascita o di appartenenza. L'effetto più rilevante che ha prodotto questo intenso fenomeno di "spaesamento" delle nostre individualità geografiche e lato sensu nazionalistiche è stato senz'altro il consenso di un elevato numero di elettori a iniziative politiche di forte impatto bloccante o comunque ridimensionante verso i flussi migratori, iniziative che si sono però a volte poste, per essere realmente efficaci e concretamente percepite dalla collettività, in netta tensione con l'ordinamento giuridico vigente, cosi come modellato dalla Carta costituzionale e dal diritto sovranazionale. Corollario principale di questa strategia di contrasto è stato, inevitabilmente, il conflitto con chi regole e norme deve farle rispettare: i giudici. In linea teorica non sbaglia chi ritiene che il principio di separazione dei poteri e di primato della Politica - con la P maiuscola - debbano tendenzialmente impedire alla magistratura di orientare nel merito le scelte del legislatore, ma in concreto l'espansione giuridica e normativa del controllo giudiziario sui cd. diritti umani (ivi compreso il diritto di asilo) - favorita anche dal nostro inserimento “a pieno titolo" nell'Unione europea - prevale ad oggi su qualsivoglia scelta politico-amministrativa che prescinda dal rispetto di tali diritti, anche laddove tale scelta sia fatta per perseguire fini strategicamente corretti (sicurezza e controllo dei confini) e sicuramente graditi a una grande fetta di elettorato. Prendiamo ad esempio di quanto appena detto due vicende di scottante attualità: il rimpatrio dall'Albania dei migranti "distaccati" dai nostri confini di ingresso e la vicenda del sequestro di persona contestato all'ex Ministro dell'Interno Salvini nel caso Open Arms . La “ questione albanese " è in realtà più semplice di quanto possa apparire. Il governo italiano ha stipulato un protocollo con il governo albanese per trasferire su territorio estero fino a 3.000 migranti. Condizione per rendere legale e aderente al protocollo stesso tale trasferimento, è l'adozione di una procedura accelerata per decidere sull'eventuale diritto di asilo del migrante richiedente; condizione per accedere a tale procedura è che il migrante provenga da un Paese sicuro, ai sensi della lett. b-bis, comma 2 dell’art. 28-bis del d.lgs. n. 25/2008 . Orbene, la definizione di “Paese sicuro” - che derivi da atti amministrativi o da disposizioni di legge - deve rispettare, a sua volta, secondo la direttiva 2013/32/UE del 26 giugno 2013 , alcune essenziali condizioni, tra cui l’ assenza di minacce alla vita ed alla libertà dello straniero per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale e la possibilità di dimostrare che non si ricorre mai alla persecuzione quale definita all’art. 9 della direttiva 2011/95. Secondo il Giudice del Tribunale di Roma che ha applicato tale normativa in sede di convalida del trattenimento di un cittadino egiziano – e la cui decisione tanto scalpore ha destato nell’opinione pubblica più vicina al Governo in carica -, una recente sentenza della Corte di Giustizia interpretativa della suddetta direttiva (le sentenze della CGUE definiscono pacificamente principi direttamente applicabili alle controversie nazionali) avrebbe chiarito che il concetto di Paese sicuro dovrebbe valere per l’intero Stato considerato e non potrebbe essere limitato né a determinate regioni interne allo Stato né a determinate categorie di persone. Di conseguenza, non potendosi considerare del tutto e per tutti sicuro l'Egitto, nessuna procedura accelerata, nessun trattenimento in Albania, e rientro immediato in Italia degli stranieri richiedenti protezione internazionale. Il Governo è subito corso ai ripari emanando un decreto legge ( d.l. n. 158 del 2024 del 23 ottobre 2024 ) in cui ha iscritto di ufficio tra i Paesi sicuri lo stesso Egitto che i giudici avevano ritenuto, alla luce della giurisprudenza eurounitaria, non sicuro; contestualmente, è stato precisato, all’ art. 2-bis, comma 2 del d.lgs. n. 25 del 2008 (che regola, come visto, la materia) che la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta anche con l' eccezione di categorie di person e , ma non più, com’era prima, con l'eccezione di parti del territorio. Partita conclusa? Neanche per sogno. L’appartenenza all’ordinamento UE ci impone di disapplicare normative anche primarie (come leggi e decreti leggi), qualora siano in contrasto con le regole eurounitarie direttamente applicabili, e così hanno fatto negli ultimi giorni altri Tribunali. [2] Nel frattempo, il processo Open Arms si avvia al suo epilogo, con i Giudici che devono decidere se condannare o meno per sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio il Senatore Salvini: la Procura della Repubblica di Palermo ha chiesto sei anni di reclusione. [3] Qui la questione giuridica si intreccia ancora di più con le priorità della politica ed è un tantino più complicata. Nell'agosto del 2019, un'imbarcazione battente bandiera straniera e noleggiata da un’associazione non governativa soccorreva diversi migranti che viaggiavano su natanti in distress nelle acque internazionali di competenza SAR libiche e maltesi. Nonostante la nave con a bordo i migranti fosse stata autorizzata, sulla base di un decreto cautelare del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, ad entrare in acque territoriali italiane, fino al 20 agosto non le fu consentito lo sbarco nel porto di Lampedusa. All'imputato ex Ministro dell'Interno (e ora Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti) è stato contestato, pertanto, di avere privato della libertà, per alcuni giorni, 107 migranti di varie nazionalità (tra cui minori di età) giunti in prossimità delle coste di Lampedusa, trattenendoli, in violazione di convenzioni internazionali e di norme interne in materia di soccorso in mare e di tutela dei diritti umani, sulla nave che li aveva salvati da un naufragio, e omettendo, senza giustificato motivo, di esitare positivamente le reiterate richieste di indicare il POS ( place of safety ) inoltrate al suo Ufficio di Gabinetto dalla competente autorità marittima di coordinamento, nonostante ciò dovesse essere fatto senza ritardo per ragioni di ordine, sicurezza pubblica, igiene e sanità. Uno dei problemi fondamentali da risolvere per i Giudici, in questo caso, una volta individuato un chiaro obbligo a carico delle Autorità italiane, è se l'indicazione di un POS (luogo di sbarco sicuro) sia da qualificarsi come un atto amministrativo o un atto politico libero nei fini. Qualora si tratti di un atto amministrativo , ovvero di un atto esecutivo di una complessa procedura stabilita a monte, adottato in coerenza con la pari dignità costituzionale delle norme internazionali convenzionali che stabiliscono il principio secondo cui la garanzia di incolumità e di rispetto dei diritti umani dei soggetti soccorsi in mare costituisce un obbligo non derogabile dall’autorità politica, il Ministro non avrebbe dovuto impedire che ai soggetti soccorsi in mare fosse offerto un luogo sicuro in cui avere riparo e in cui avvalersi immediatamente delle facoltà che il diritto internazionale loro consente (come ad esempio, la richiesta e l’ottenimento del diritto di asilo ). Quid iuris ? Non resta che aspettare la decisione finale dei Giudici aditi, perché soltanto a costoro, in un ordinamento democratico, spetta interpretare il dato giuridico decisivo, posto che in Italia il principio di indipendenza da ogni altro potere dei singoli giudici e della Magistratura nel suo complesso è stato sancito espressamente dalla Costituzione agli artt. 101, 104 e 111 . Comunque la si voglia vedere, si tratta, in ogni caso, di due vicende che hanno posto e pongono in grave tensione due poteri dello Stato, e che alimentano ulteriormente un caos istituzionale che deriva da troppi anni di diffidenza e reciproco sospetto, dall'incapacità di qualcuno di restare negli argini del rispetto delle regole e dall'insofferenza di qualche altro verso quelle stesse regole. Di certo, e al di là dei casi di mala giustizia - da punire senza se e senza ma, con il massimo rigore -, non può "tenere" a lungo un sistema in cui a pagare siano sempre gli ultimi, unici non beneficiari di un ombrello del potere troppo ampio, costruito appositamente per ridurre drasticamente le capacità operative della magistratura. Così come appare fin troppo ovvio che la politica non dovrebbe farsi (anche) sulla pelle di alcuni poveri disgraziati che fuggono dai loro Paesi per una vita migliore, sfidando umiliazioni, torture, discriminazioni e infine la morte. Ecco, forse questo non bisognerebbe dimenticarlo mai, quando si disegnano azioni di contrasto all'immigrazione, né bisogna essere talmente arroganti e stupidi da pensare che noi non potremmo mai essere come loro, nelle loro stesse condizioni: i recenti disastri climatici ci consigliano prudenza nel disegnare lo scenario del nostro futuro e dei nostri figli, in un contesto in cui basta un'alluvione per sconvolgere la quotidianità. E se mai dovessimo un giorno raccogliere in uno zaino le poche cose che ci sono rimaste e andare lontano alla ricerca di un nuovo inizio, una cosa che senz'altro ci augureremmo è quella di trovarvi un Giudice indipendente e terzo dinanzi al quale esporre le nostre ragioni umanitarie . [1] In alcuni significativi passaggi contenuti nei volumi della " Storia della civiltà europea " a cura di Umberto Eco sono spiegate molto accuratamente le dinamiche correlate al fenomeno dell'immigrazione, di cui si dà sintetico conto nel presente articolo. Lo stesso Eco faceva una sottile distinzione tra migrazione e immigrazione , affermando che soltanto le prima è paragonabile ai fenomeni naturali, in quanto avviene in misura statisticamente rilevante rispetto al proprio gruppo d’origine: violente o pacifiche che esse siano, le migrazioni avvengono e nessuno le può controllare. [2] Si legga, tra le altre, l'interessante motivazione del Tribunale di Catania, Sezione Immigrazione, del 4 novembre 2024 . [3] Per una ricostruzione più accurata della vicenda giuridica e fattuale da cui è scaturito il processo si veda anche il seguente contributo apparso su questo sito: https://www.primogrado.com/il-caso-open-arms-quando-la-politica-si-fa-processo
Autore: a cura di Silvana Bini 18 settembre 2024
Al di là di figure di peculiare professionalità, ovvero al di là dei ruoli in cui è necessario il rapporto fiduciario , nelle piante organiche delle amministrazioni sono previste figure professionali che possono svolgere attività spesso affidate a soggetti esterni. E se non vi fossero nelle piante organiche, sono queste che vanno adeguate e aggiornate. Il fenomeno della nomina di “esterni” è invece una costante. Nel sito del Ministero della Cultura alla voce “incarichi e consulenze” vi sono 21 pagine contenenti i dati dei 410 soggetti esterni all’Amministrazione ai quali sono stati conferiti incarichi con differenti e svariati contenuti. Oltre alla genericità di alcuni incarichi (“ altre tipologie ”), colpisce che le attività affidate sono riconducibili ad attività amministrative o tecniche ordinarie; sono sufficienti questi esempi: esperto di gare e contratti; collaboratore geometra con l’ufficio progettazione architettonica; collaborazione parziale per di una settimana al mese, per consentire di portare avanti alcuni progetti importanti ancora in fase di realizzazione; incarico di bibliotecario; incarico di studio e ricerca; consulenza specialistica in ambito giuridico (patrocinio legale). La prassi consolidata di ricorrere a professionalità esterne sembra un trend in crescita, tale da ignorare i richiami della Corte Costituzionale (si vedano, ad esempio, le recenti sentenze nn. 5 e 36 del 2020 ), di rispettare l’ art. 97 della Costituzione , secondo cui la selezione concorsuale costituisce la forma generale e ordinaria di reclutamento per le amministrazioni pubbliche, quale strumento per assicurare efficienza, buon andamento e imparzialità. La Corte ha poi anche evidenziato come il legislatore può introdurre deroghe a tale regola, con la previsione di un diverso meccanismo di selezione per il reclutamento del personale pubblico, ma tale facoltà deve essere delimitata in modo rigoroso alla sola ipotesi in cui esse siano strettamente funzionali al buon andamento dell’amministrazione e sempre che ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle Una domanda nasce spontanea, soprattutto dopo il caso Boccia-Sangiuliano, e al di là dell'effettivo inserimento della donna nello staff del Ministro: le 410 consulenze del Ministero della Cultura (e in generale le nomine di consulenti e di esperti) sono tutte riconducibili a ipotesi derogatorie previste dalla legge e funzionali al buon andamento? Questa “ caccia alla professionalità esterna ” riduce in realtà la possibilità di assunzioni per i giovani, che oggi hanno una ampia scelta formativa anche molto settoriale e di alta qualità. Basta vedere i nuovi percorsi formativi che le Università Italiane hanno proposto negli ultimi anni, proprio nel settore della Cultura: cultura, turismo e management ; economia e management per arte e cultura, arte ed eventi culturali; economia e gestione dei beni culturali, sono solo una limitata parte di corsi triennali o biennali proposti. E allora forse risulta difficile sostenere che le professionalità esterne siano tutte riconducibili a ipotesi derogatorie previste dalla legge e funzionali al buon andamento, che rispondono a peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico. Anzi, l’incarico, in questo modo, preclude la selezione di nuove professionalità attraverso un concorso e l’ingresso strutturato nelle amministrazioni. Sorge ancora una domanda: viene controllato in concreto che la scelta del professionista risponda al buon funzionamento? In altri termini, viene controllato che all’interno dell’Amministrazione non vi siano le medesime professionalità? Recentemente la Corte dei Conti della Lombardia ha pronunciato una sentenza in materia di nomina di un dirigente in assenza di idoneo titolo di studio (la laurea). Il caso è complesso: un Comune di medie dimensioni della Provincia di Brescia, modifica il regolamento per la partecipazione ai concorsi, al fine di permettere ad un funzionario (privo di laurea) la partecipazione al concorso per dirigente. Il funzionario è unico partecipante al concorso e viene dichiarato vincitore e quindi assume la qualifica dirigenziale. In qualità di dirigente ottiene il trasferimento al Comune capoluogo della medesima Provincia. A fronte di segnalazione, la Procura della Corte dei Conti di Milano indaga e chiede il rinvio a giudizio di amministratori e funzionari di entrambi i Comuni. La Corte dei Conti condanna gli amministratori e i funzionari del Comune che ha indetto il procedimento di concorso e attribuito la qualifica dirigenziale Quanto invece al Comune capoluogo di Provincia in cui il funzionario si è trasferito, viene condannato solo il capo del personale, a cui viene riconosciuta una grave negligenza nella procedura di trasferimento, per non aver verificato il possesso del titolo di studio, prima di instaurare il rapporto lavorativo, controllo che poteva essere svolto molto facilmente attraverso la lettura del curriculum . Il giudice contabile configura una responsabilità omissiva in capo a colui che deve controllare la sussistenza dei requisiti. E questo, seppure sotto diverso versante, ci riporta al solito quesito sull'efficienza del sistema di controlli interni all'amministrazione. La verifica del titolo di un dirigente assunto per concorso presuppone a maggior ragione una rigorosa valutazione, più in generale, sull’inserimento di consulenti ed esperti "esterni" nelle amministrazioni pubbliche, e sulla necessità che tale inserimento risponda a peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico, e soprattutto ricada su professionalità qualificate. Se nella prassi i diversi incarichi fossero assegnati rispettando i criteri indicati e il curriculum vitae del consulente fosse esaminato funditus , formalizzando da subito quale sia il ruolo di ciascun componente dello staff governativo, l'ex Ministro Sangiuliano sarebbe forse ancora al suo posto. Parafrasando una simpatica pubblicità degli anni '80 nata per promuovere i prodotti caseari, e la migliore nutrizione ad essi associata, dal triste affaire Boccia potrebbe scaturire allora la seguente pubblicità-progresso, nell'ottica di una maggiore efficienza e trasparenza del lavoro nella pubblica amministrazione: “ e se ricominciassimo a fare concorsi: scritto, orale, (eventuale) prova pratica, selezione e qualità? ”.
Autore: a cura di Roberto Lombardi 14 agosto 2024
Secondo la corrispondente voce dell'enciclopedia Treccani “ per legalità si intende il principio che obbliga gli organi dello Stato a esercitare i loro poteri nel rispetto della legge. (...) Fin dall’antichità classica, è stato elaborato un criterio preciso per distinguere il governante buono da quello cattivo, il governante corretto – come si dice – da quello corrotto. Secondo questo criterio, corrotto è il governante che esercita i propri poteri capricciosamente, secondo l’estro del momento, senza cioè che nessuna regola disciplini la sua attività. Per converso, il governante buono è colui che svolge i suoi compiti nel rispetto di norme fisse e prestabilite, che per loro natura non consentono alcun arbitrio (..) ”. In altri termini, la legalità è il rimedio contro l’arbitrio. Anche nel gergo comune di tutti i giorni si sente spesso dire che un'attività è legale o illegale, restando intuitivo ai più, perfino oggi, il limite entro il quale non ci si può spingere. Più in generale, la legalità si può descrivere come una grande coperta che deve ricoprire tutte le scelte non solo degli individui ma anche dell' agere pubblico, ivi comprese le scelte politiche. Perfino gli atti più discrezionali, più liberi da ogni vincolo precostituito, devono rispettare alcune regole di metodo e di procedura, devono adattarsi ed "entrare" nella grande coperta della legalità. E quando non c'è nessun tipo di regola a disciplinare il potere, esiste pur sempre il limite dello sviamento, dell'eccesso, dell'abuso del potere medesimo, a impedire che la libera volontà di chi agisce si trasformi in arbitrio. Questo limite, quando è il legislatore a usare il suo potere, si chiama ragionevolezza . Il nostro Paese ha spesso vissuto di strappi alla legalità, generalmente motivati con esigenze straordinarie e imprevedibili. Si sta facendo però ultimamente strada un sotterraneo ma costante rifiuto del sistema precostituito - tradizionalmente basato su regole e limiti -, che nasconde, dietro alla bandiera un po’ logora della libertà, l’intento di non dovere rispondere a nessun altro potere di controllo ( in primis alla magistratura) delle proprie scelte politiche e amministrative, con l’inevitabile conseguenza di sottrarre al giudizio e di attrarre nell’ opacità anche comportamenti fraudolenti o contigui al crimine. Si dice che l’approvazione finale di queste scelte spetta soltanto al popolo e/o ai loro rappresentanti, ma non si analizza a dovere la gravità dei danni al tessuto sociale e alla sua coesione che possono provocare i continui strappi all’ordinamento. E invero, l'allargamento delle maglie della legalità, la deformazione di questa calda coperta che garantisce a ciascuno di noi una piccola grande chance di controllo sull'esercizio del potere pubblico e privato, affinché non divenga "assoluto", porta con sé delle conseguenze disastrose sul comportamento e sul sentire collettivo, che forse neanche i “temporanei” padroni della cosa pubblica hanno messo in conto. Salvo non volere riservare - ma qui saremmo al crimine deliberato - la soluzione dei problemi conseguenti allo slabbramento delle regole fondamentali del nostro vivere comune (scioperi, manifestazioni, disordine sociale, odio verso il “diverso”) ad una successiva prova di forza e repressione. D'altra parte, se i vertici burocratici del Paese si liberano sfacciatamente delle regole che ne limitano l'abuso, perché mai tutte le altre "ruote del carro" dovrebbero essere da meno? Recentemente, l’attuale maggioranza politica ha dato due discutibili esempi di difesa della legalità. La prima vicenda è ancora una volta legata alla questione delle proroghe delle “ concessioni balneari ”. Dopo un lungo braccio di ferro tra Parlamento e Giudici amministrativi, “rei” di volere rispettare i principi di concorrenza stabiliti dall’Unione europea (vedi nota apparsa su questo sito un anno fa), con le sentenze nn. 4479, 4480 e 4481 pubblicate il 20 maggio 2024 , il Consiglio di Stato ha analizzato le novità normative nel frattempo intervenute, confermando nella sostanza l’assunto dell’Adunanza Plenaria, che con le sentenze nn. 17 e 18 del 2021 aveva statuito l’illegittimità delle proroghe automatiche e la cessazione delle concessioni illegittimamente prorogate al 31 dicembre 2023, con obbligo per le amministrazioni di indire procedure selettive per il loro affidamento. E’ stato ribadito che tutte le proroghe delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative sono illegittime e che le stesse devono essere disapplicate dalle amministrazioni ad ogni livello, anche comunale; dovendosi poi considerare la risorsa certamente scarsa - in assenza di risultati, ancorché parziali e provvisori, che dimostrino in modo serio e attendibile, tanto a livello nazionale che a livello locale, il contrario, secondo i criteri obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionati, indicati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, e in forza di una valutazione che deve essere anzitutto necessariamente qualitativa della risorsa stessa - i giudici di Palazzo Spada hanno affermato che deve essere disapplicato anche l’ art. 10-quater, comma 2, del d.l. n. 198 del 2023 , nella parte in cui ha previsto che un apposito “Tavolo” avrebbe dovuto definire i criteri tecnici per la sussistenza della scarsità della risorsa naturale disponibile , tenendo conto anche della “ rilevanza economica transfrontaliera ”. Tale elemento (la rilevanza transfrontaliera) non può rivestire infatti alcun “peso” ai fini della valutazione della scarsità della risorsa, dato che, secondo la costante giurisprudenza della Corte europea, il capo III della Dir. 2006/123/CE – compreso, dunque, anche il suo articolo 12 – si applica anche a situazioni puramente nazionali. Secondo il Consiglio di Stato dunque, a differenza di quanto ha dato mostra di "pensare" il nostro Legislatore, si può ritenere compatibile con il diritto dell’Unione la sola proroga “tecnica” – funzionale allo svolgimento della gara – prevista dall’ art. 3, commi 1 e 3, della l. n. 118 del 2022 nella sua originaria formulazione, che consente alle autorità amministrative competenti di prolungare la durata della concessione, con atto motivato, per il tempo strettamente necessario alla conclusione della procedura competitiva e, comunque, non oltre il termine del 31 dicembre 2024. D’altra parte, tale proroga è compatibile con i principi europei solo quando le autorità amministrative comunali abbiano già indetto la procedura selettiva o comunque abbiano deliberato di indirla in tempi brevissimi, emanando atti di indirizzo in tal senso e avviando senza indugio l’ iter per la predisposizione dei bandi. In definitiva, è stato ribadito, seppure ad esito di importanti e puntuali ricostruzioni del dato normativo di derivazione unionale, un concetto giuridico molto semplice: la concessione di un bene pubblico che attribuisce vantaggi economici al privato è legittima solo se l’atto di proroga e il titolo concessorio originario sono stati assunti sulla base di procedure selettive trasparenti e comparative. E, tuttavia, qualche esponente di spicco dell’attuale maggioranza politica che sostiene il Governo non l’ha presa molto bene, arrivando addirittura ad ipotizzare che il Consiglio di Stato, con le sue ultime pronunce, abbia travalicato i poteri della giustizia amministrativa, finendo con l’invadere la sfera legislativa propria del Parlamento. E’ dunque partita una richiesta formale all’Ufficio di Presidenza della Camera affinché sia sollevato conflitto di attribuzione presso la Corte costituzionale , che già nel recente passato, peraltro, si era dovuta occupare di una questione similare – stavolta eccepita da singoli parlamentari -, concludendo per l’inammissibilità del proposto ricorso [1] . Va in ogni caso detto che, nel frattempo, la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 109 depositata il 24 giugno 2024 - che ha bocciato la legge con cui la Regione Sicilia aveva esteso il termine per la domanda di proroga delle concessioni balneari attualmente in essere sul suo territorio -, ha aderito pienamente alla ricostruzione giuridica dei Giudici amministrativi, evidenziando che si è al cospetto del protrarsi ingiustificato di una violazione dei principi del diritto UE in materia di concorrenza causata da una sostanziale “chiusura del mercato di riferimento” a danno degli operatori economici estranei all’attuale gestione del demanio marittimo. [2] Chissà se riuscirà, a questo punto, l’intervento del più autorevole e incisivo organo giurisdizionale del nostro ordinamento a chiudere definitivamente la vicenda e a scoraggiare altre improvvide iniziative di Governo e Parlamento a difesa di un’illegalità ormai conclamata. Per il momento, il “colpo di mano” studiato dai parlamentari della maggioranza ha subito un brusco rallentamento - si mirava a fermare il caos delle concessioni prima della stagione estiva, cioè il riordino della materia secondo i criteri di legalità richiesti dall’Unione europea -, in quanto serviranno ulteriori approfondimenti prima di affidare una proposta “precisa” al Presidente della Camera. Magari non farebbe male anche un veloce ripasso del diritto amministrativo, eurounitario e costituzionale. Nel frattempo, ha terminato “felicemente” la sua corsa il disegno di legge del Ministro Nordio che prevede, tra l’altro, l’ abolizione dell’abuso di ufficio . Come un treno senza guida che ha preso velocità folle su un binario morto, la guerra ideologica a un reato-spia ritenuto da molti autorevoli penalisti come indispensabile per combattere e arginare illegalità e corruzione si è tramutata in una specifica proposta parlamentare di origine governativa che ha bruciato in modo inesorabile tutte le tappe del suo iter . Contemporaneamente, l'Unione Europea, nel report della Commissione UE sullo stato di diritto, ci ha ricordato che l’abrogazione del reato di abuso di ufficio potrebbe avere implicazioni negative per l’individuazione e l’investigazione di frodi e corruzioni. Ma, come già evidenziato in altro contributo apparso su questo sito, il Governo italiano è stato irremovibile nel perseguire, dati alla mano, l'eliminazione di un reato considerato non solo inutile, perché quasi mai giunge a condanna (un po'come un attaccante che non segna), ma anzi addirittura dannoso, in quanto la sua sola esistenza spaventa i "poveri" amministratori pubblici (in particolare i sindaci), che nella giungla di leggi che regolano l'esercizio del loro potere rischiano di sbagliare la norma da applicare. Anche se, a dirla tutta, nel vecchio art. 323 del codice penale c'era già la chiave interpretativa tipizzata del senso complessivo dell'obbligo di condotta proveniente dalla relativa fattispecie penale: astenersi quando è necessario astenersi ovvero quando è coinvolto, nella definizione di un affare pubblico che può cagionare personale vantaggio o svantaggio, un interesse proprio o di un prossimo congiunto. Ed era talmente inutile la previsione del reato di abuso di ufficio che il legislatore si è affrettato ad inserire, prima che il Presidente Mattarella firmasse il disegno di legge Nordio così come approvato dal Parlamento, e in un decreto-legge con oggetto obliquo – misure urgenti in materia penitenziaria e di giustizia -, un nuovo reato che ha molte assonanze con il vecchio (e ormai prossimo all’estinzione) art. 323 del codice penale [3] . Si è deciso infatti di punire con una sanzione che va da sei mesi a tre anni di reclusione il peculato per distrazione - per l'occasione ribattezzato "Indebita destinazione di denaro o cose mobili" - ovvero la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che " avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, li destina ad un suo diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità e intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri un danno ingiusto ". Perché questa improvvisa scelta, dal momento che lo stesso legislatore ha contemporaneamente rinunciato a perseguire penalmente ogni tipo di abuso del pubblico ufficiale che non costituisca un reato più grave (quali corruzione e concussione), con chiara scelta di politica giudiziaria? D’altra parte, facendo un passo indietro con la memoria (che in Italia è sempre molto corta) bisogna ricordare che il reato di peculato per distrazione esisteva già, e fu formalmente soppresso nel maggio del 1990. Altri tempi. A quell’epoca – prima della soppressione – la formulazione della condotta di peculato per distrazione era molto lineare: nello stesso art. 314 del codice penale conviveva infatti, insieme al peculato semplice, anche la fattispecie della “ distrazione a profitto proprio o di altri ” del denaro o della cosa mobile posseduta dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio per ragioni di ufficio. E, dopo lo stralcio dall’art. 314 dell’ipotesi di peculato per distrazione, la giurisprudenza ravvisò in ogni caso continuità normativa tra tale condotta e quella punita dal reato di abuso di ufficio, così come contestualmente modificato, ricomprendendovi anche la "distrazione" dell'uso di beni immobili (fattispecie di illecito di pari gravità rispetto a quello della distrazione del denaro , e che invece non risulterebbe più punibile alla luce delle ultimissime modifiche normative), e l'uso "distorto" del bene pur se funzionale alla realizzazione, oltre che di indebiti interessi privati, anche di interessi pubblici obiettivamente esistenti. Viene dunque oggi reintrodotta, dopo trent’anni di modifiche e di piccole e grandi “sevizie” alla tipizzazione dei reati contro la pubblica amministrazione, una fattispecie ibrida e monca , che deve necessariamente tenere conto anche del mutamento formalistico e garantista che ha segnato nel frattempo la definizione dell’abrogando abuso di ufficio. Ne è derivata una formulazione ambigua e arzigogolata, frutto di sovrapposizioni terminologiche, in cui una fattispecie in verità molto semplice (la condotta del funzionario che maneggia denaro pubblico e ne cambia la destinazione per avvantaggiare economicamente o se stesso o un altro soggetto non avente diritto) viene accompagnata da quegli stessi “paletti” (lo specifico uso del denaro deve essere previsto da un atto avente forza di legge “univoco” e deve essere sorretto da dolo intenzionale) che avevano già reso “inutile”, con il tempo, la contestazione del vecchio abuso di ufficio. Riassumendo. Siamo nel mirino della Commissione dell’Unione europea per l’eccesso di corruzione che ammorba il Paese e cancelliamo il reato di abuso di ufficio, con la conseguenza, tra le altre – alcune delle quali ben individuate dal prof. Gian Luigi Gatta [4] -, che un funzionario pubblico che fa “passare” una delibera o un’ammissione concorsuale con cui procura a se stesso o all’ amico di turno un personale vantaggio economico senza astenersi (comportamento molto grave e “parente stretto” di fatti corruttivi), non deve più risponderne davanti al giudice penale. Senza parlare della sopravvenuta non punibilità dell'odiosissimo abuso di danno: si pensi, ad esempio, alla fattispecie della negazione del bene della vita all'avente diritto per motivi di inimicizia personale. Se poi la legittimità della delibera o dell’atto si consolida per mancata contestazione dinanzi a un Tribunale non si vede davvero quale argine resti per bloccare il dilagare della mala gestio nella pubblica amministrazione. Per evitare una violazione di obblighi di incriminazione previsti dal diritto UE, però, il Governo introduce per decreto-legge (in ossequio ad una odiosa prassi degli ultimi anni) una nuova fattispecie incriminatrice che verosimilmente non produrrà risultati dissimili, in termini di ridottissimo contrasto alla criminalità dei colletti bianchi ma di persistente potenziale “spauracchio” per il funzionario onesto che deve firmare l’atto, da quelli che hanno infine portato all’abolizione del reato di abuso di ufficio. Nel complesso ne deriva una complessiva sensazione di indebolimento del sistema di prevenzione e repressione degli illeciti, in un Paese che già vive di forti sperequazioni causate anche, tra l'altro, da un mix di inefficienze burocratiche e di consolidati blocchi di potere che tendono all’autoconservazione. Qualcuno adesso proverà a suggerire ai vecchi, nostalgici fautori della legalità che nel mondo moderno dell'amministrazione il principio del risultato prevale su tutto, e trova compensazione su piani diversi da quelli del rispetto formale della legge. Al di là dei facili estremismi ideologici - e della spesso fuorviante contrapposizione tra sostanzialismo e formalismo - non appare un paradosso opporre a questo modo di pensare il richiamo alla teoria dei buchi neri , immaginando la legalità come una stella ad altissima densità la cui luce, dopo il collasso, rimane intrappolata e non più visibile in superficie, con tutto ciò che ne consegue in termini di adattamento comportamentale dei singoli individui e della società nel suo insieme. [1] Corte cost, ordinanza n. 154 del 2022 . [2] Il Governo, espressione della stessa maggioranza che ha inserito nel decreto mille-proroghe per il 2023 l'art. 10-quater con la legge di conversione n. 14 del 2023, ha poi impugnato, con ricorso notificato il 29 aprile dello stesso anno, non la norma della Regione Sicilia che aveva stabilito, nel 2018, di estendere la validità delle concessioni fino al 31 dicembre 2033 su domanda degli interessati (norma ormai inoppugnabile in via principale per intervenuto decorso dei termini), ma la disposizione tramite cui la scadenza entro cui chiedere la proroga era stata ulteriormente prorogata fino al 30 aprile 2023. Tale norma, come detto, è stata ritenuta costituzionalmente illegittima, " per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alle previsioni interposte dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE ". [3] Art. 314-bis del codice penale, così come introdotto dal d.l. n. 92 del 2024 . [4] Illuminante e molto approfondito è il suo contributo apparso sulla rivista online Sistema Penale, al cui link si rimanda per l'integrale lettura: https://www.sistemapenale.it/it/documenti/morte-dellabuso-dufficio-recupero-in-zona-cesarini-del-peculato-per-distrazione-art-314-bis-cp-e-obblighi-non-pienamente-soddisfatti-di-attuazione-della-direttiva-ue-2017-1371
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*Il riferimento alle riviste ha il solo scopo di segnalazione dei contenuti, e il lavoro dell'autore carattere meramente compilativo



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Diritto e società


Autore: a cura di Silvana Bini 9 settembre 2024
PREMESSA L’Università degli studi di Brescia indice una procedura ex art. 24, comma 6, legge n. 240/2010, per il reclutamento di un professore di prima fascia nel settore concorsuale 12/F1 – Diritto processuale civile, settore scientifico disciplinare IUS/15. Si tratta quindi della chiamata diretta di un professore interno in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale. Alla procedura partecipano due professori e la scelta viene effettuata esaminando i curricula e assegnando il punteggio secondo criteri predeterminati. Due sono i candidati e il secondo classificato propone ricorso, che viene accolto con sentenza del Tar Brescia n. 1139/2022, in cui si dà atto dell’errata attribuzione dei punteggi. Nella decisione di accoglimento, il TAR ha puntualmente rilevato la non corretta assegnazione dei punteggi rispetto a due sottovoci della voce “attività didattica”, procedendo ad annullare gli atti della Commissione e disponendo, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 34 c.p.a., che “ la Commissione giudicatrice si riunisca entro sessanta giorni dalla comunicazione della presente decisione, affinché – fermi i curricula a suo tempo presentati dai candidati (che quindi non potranno essere integrati) e fermi gli altri punteggi, e, comunque, gli atti pregressi, nella parte non annullata – ridetermini il punteggio per la sottovoce “volume e continuità delle attività didattiche” e quello della sottovoce “attività didattiche integrative e di servizio agli studenti” secondo un criterio di proporzionalità, aggiornando conseguentemente la graduatoria finale; essa dovrà quindi concludere i propri lavori entro dieci giorni dalla prima riunione, trasmettendone in quel termine l’esito all’Università" . L’Università avrebbe poi dovuto concludere la procedura adottando gli atti consequenziali, e procedere, entro trenta giorni dal ricevimento dei nuovi atti formati dalla Commissione, alla nuova chiamata e nomina del vincitore della procedura de qua . Proposto appello alla sentenza di primo grado, lo stesso viene respinto con sentenza n. 5860/2023. L’Università quindi riapre la procedura, rideterminando i punteggi e aggiornando la graduatoria finale: tuttavia, a maggioranza di due commissari su tre, primo classificato è confermato il professore già prescelto nel procedimento annullato. A questo punto il secondo classificato, già ricorrente nel giudizio sopra descritto, propone ricorso ex art. 117 c.p.a. al Giudice di prime cure chiedendo l'accertamento della nullità degli atti impugnati in quanto violativi o elusivi del giudicato, e in subordine il loro annullamento in quanto illegittimi. Il ricorso viene accolto con la sentenza n. 10/2024, che qui si va a commentare, congiuntamente alle pronunce che l'hanno preceduta. Il contenuto delle decisioni e i profili di interesse Nella prima decisione di merito il Tar esamina la natura della procedura svolta dall’Università di Brescia, soffermandosi sui limiti del sindacato giurisdizionale sugli atti assunti dall’Amministrazione nell’ambito di tali procedure e sulla graduazione dei motivi di impugnazione. Il Giudice afferma che “ La procedura a chiamata prevista dal comma 6 dell’articolo 24 della L. n. 240/2010 costituisce una deroga alla regola generale, fissata dall’articolo 97 Cost. e dall’articolo 18 della precitata L. n. 240/2010, del concorso pubblico aperto a tutti coloro che sono in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale nel settore di riferimento. La procedura a chiamata – ammessa negli stretti limiti della normativa sopra richiamata – consente all’Ateneo di valorizzare le risorse interne, attraverso un percorso riservato, che non si conclude con una valutazione comparativa, per individuare il migliore tra i candidati, ma con una valutazione di idoneità dell’interno, in relazione ai profili individuati dal D.M. n. 243/2011: e proprio perché ha come destinatario un soggetto che già svolge la propria attività all’interno dell’Università e che si intende far progredire nella carriera accademica in ragione dei risultati così conseguiti, il servizio reso all’Ateneo che bandisce la procedura ha necessariamente un peso rilevante nella valutazione di idoneità ”. Nel caso in esame alla chiamata indetta dall’Università di Brescia non ha risposto un solo candidato, bensì due, con la conseguenza che su di una procedura di idoneità si è innestata una procedura comparativa-selettiva . La procedura tuttavia non si è conclusa con due giudizi di idoneità, di cui uno positivo (quello del primo classificato) e l’altro negativo (quello del ricorrente), ma con un giudizio di maggior idoneità (la Commissione infatti qualifica il primo classificato come “più idoneo” a ricoprire il posto di professore di prima fascia). Da ciò è conseguito che avrebbe dovuto trovare applicazione la giurisprudenza sulle procedure concorsuali, sebbene nel caso in esame si tratti di “ una procedura sui generis, ad accesso riservato ”. Ulteriore conseguenza è che “ la valutazione comparativa operata anche nel caso di specie dalla Commissione giudicatrice costituisce atto di esercizio di discrezionalità tecnico-amministrativa, e, come tale, è sindacabile dal Giudice amministrativo nei ben noti limiti della manifesta arbitrarietà e illogicità, o del palese travisamento del dato di fatto, o, ancora, dei vizi procedimentali (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. V, sentenza n. 7134/2022). Così, esemplificativamente, è ammessa la contestazione giudiziale delle modalità di nomina e composizione della Commissione giudicatrice, della scelta dei criteri sulla scorta dei quali graduare i concorrenti e del peso da attribuire a ciascuno di essi, del mancato rispetto dei criteri ai quali la Commissione si è vincolata, della coerenza e logicità dei punteggi attribuiti ai concorrenti. Di contro, non è consentito al Giudice amministrativo, sconfinare nel merito amministrativo, sostituendo la propria opinabile valutazione a quella, parimenti opinabile, della Commissione di concorso (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, sentenza n. 3856/2022) ”. Quanto al profilo della graduazione dei motivi di ricorso da parte del ricorrente, il Giudice “ resta libero di decidere l’ordine di trattazione delle singole questioni in ragione della loro natura, del rapporto logico-giuridico tra le medesime (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. V, sentenza n. 1662/2014; T.A.R. Lombardia – Milano, Sez. IV, sentenza n. 1633/2019), e della portata più o meno satisfattiva dell’interesse fatto valere. Infine, a seconda del tipo di vizio dedotto, variano gli effetti conformativi di un’eventuale sentenza di accoglimento, in termini di soddisfazione dell’interesse sostanziale di cui è portatore il ricorrente: si potrà andare dall’integrale riedizione della procedura, al rinnovo del segmento procedimentale viziato, alla modifica della graduatoria finale in senso ovviamente favorevole al ricorrente ”. Sulla base di queste premesse, viene esaminato l’operato della Commissione rispetto all’attività didattica svolta dai due candidati e alle due sottovoci in contestazione: la Commissione aveva previsto di attribuire sino a 25 punti per “il volume e la continuità delle attività”, misurata sulla base del “numero anni, numero insegnamenti e/o moduli, continuità dell’insegnamento”, e sino a 8 punti per le “attività didattiche integrative e di servizio agli studenti, quali: predisposizione tesi di laurea, magistrale e non, tesi di dottorato, seminari, esercitazioni, tutoraggio”. Trattandosi di due criteri puramente quantitativi, per i quali la Commissione ha escluso qualunque valutazione di tipo qualitativo, il Giudice ha ritenuto di poter “ verificare se il punteggio attribuito ai due candidati è coerente sia in termini assoluti, sia in termini compartivi, all’attività didattica svolta da ciascuno di essi ”. Dopo aver rilevato che i “punteggi non riflettano la diversità del servizio reso”, in quanto proprio per ragioni logico-matematiche il punteggio del ricorrente avrebbe dovuto essere necessariamente maggiore, ha accolto il ricorso, disponendo, come sopra detto, la ripetizione della valutazione. L'OTTEMPERANZA ALLA SENTENZA DI PRIMO GRADO Il giudice chiamato ad eseguire la regola stabilita nel giudizio di merito ( proporzionalità dei punteggi rispetto ai diversi servizi resi ), prima di statuire sulla domanda principale di nullità, ha precisato che il ricorso segue la regola stabilita dalla giurisprudenza per cui, nei confronti di atti amministrativi adottati in seguito a una sentenza di annullamento, è consentito proporre, in un unico ricorso, diretto al giudice dell'ottemperanza, domande tipologicamente distinte, le une proprie di un giudizio di cognizione e le altre di un giudizio di ottemperanza, le quali ultime vanno peraltro esaminate dal giudice con priorità rispetto alle prime, rispondendo di norma il loro eventuale accoglimento ad un più celere e compiuto conseguimento del bene della vita già riconosciuto con la precedente decisione. Nel merito, il Giudice dell'ottemperanza ha accertato che la Commissione non aveva operato la valutazione secondo le prescrizioni della sentenza 1139/2022, e si è dunque sostituito alla Commissione, attribuendo direttamente i punteggi per l’attività didattica, “secondo le prescrizioni contenute nella sentenza cui occorre ottemperare", con riformulazione conseguente della graduatoria, ai sensi dell’art. 114, comma 4, lett. a, c.p.a., "come espressamente chiesto dal ricorrente”. Il Collegio, in particolare, ha ritenuto " di fare proprie le attribuzioni di punteggi suggerite dal commissario nell’opinione dissenziente espressa nella riunione della Commissione del 14.7.2023 ”. Una volta rivalutati i titoli e riformulata la graduatoria, in cui il primo classificato è risultato il ricorrente, il Giudice ha ordinato all’Università di “ adottare tutti gli atti conseguenti alla nuova graduatoria per la chiamata del ricorrente a professore di prima fascia, completando l’intero procedimento entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione della presente sentenza ”. Il dispositivo della sentenza è plurimo: contiene la dichiarazione di nullità della nomina del prescelto e la dichiarazione di nullità per elusione del giudicato dichiarata d’ufficio, ex art. 31, comma 4, c.p.a., degli atti presupposti. Quindi è lo stesso Giudice a rideterminare i punteggi dei due candidati per le sottovoci delle quali la sentenza cui ottemperare aveva imposto la rivalutazione, oltre che a riformulare la graduatoria, lasciando all'Università degli Studi di Brescia soltanto l'adozione degli atti conseguenti alla nuova graduatoria per la chiamata del professore di prima fascia. In altri termini, all'amministrazione è residuato il mero potere - di natura squisitamente burocratica ed esecutiva - di completare l’intero procedimento entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza. Si tratta di un esempio di giudizio in cui il Giudice, con l’attribuzione diretta del punteggio e la riformulazione della graduatoria, adotta provvedimenti in luogo dell'Amministrazione inadempiente, sostituendosi al soggetto obbligato ad adempiere. Viene così esercitato un potere integrativo, che contribuisce alla definizione dell'effettivo contenuto del giudicato, oltre che esecutivo, e che dà luogo al fenomeno comunemente noto come "giudicato a formazione progressiva" Infatti, sia l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cons. Stato, Ad. Plen., 15 marzo 1989, n. 7; Cass., SS.UU., 30 giugno 1999, n. 376) hanno da tempo ritenuto che il giudice dell'ottemperanza, in caso di sentenze del Giudice amministrativo - diversamente da quanto accade in caso di sentenze rese dal giudice di un altro ordine - ha la possibilità di integrare il giudicato, nel quadro degli ampi poteri, tipici della giurisdizione estesa al merito (idonei a giustificare anche l'emanazione di provvedimenti discrezionali), che in tal caso egli può esercitare ai fini dell'adeguamento della situazione al comando rimasto inevaso. Va anche precisato che nel caso in esame il Giudice dell’Ottemperanza ha garantito la tutela sostanziale grazie al contenuto puntuale, chiaro e ben preciso della sentenza oggetto di ottemperanza, in cui si afferma che l’attribuzione di punteggio non è un’operazione qualitativa, ma quantitativa. In tal modo non vi è stata alcuna invasione della sfera riservata al potere discrezionale della P.A., con conseguente esclusione di ogni profilo di eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo. D'altra parte, al fine di attuare il principio dell'effettività della tutela giuridica, il giudizio di ottemperanza è finalizzato a soddisfare pienamente l'interesse sostanziale del ricorrente, per cui non può arrestarsi di fronte ad adempimenti parziali, incompleti o addirittura elusivi del contenuto della decisione. Non era dunque tollerabile, nel caso di specie, la violazione operata dalla Commissione del criterio di proporzionalità nella valutazione quantitativa delle due sottovoci, al quale il TAR aveva prescritto di conformarsi. La suddivisione delle due sottovoci in una pluralità di ulteriori sottovoci, e l'attribuzione ad esse di specifici punteggi, avevano infatti ridotto, secondo il Giudice dell'ottemperanza, il peso proporzionale dei fattori per i quali vi era una manifesta superiorità dal punto di vista quantitativo del ricorrente, né la riedizione del potere era stata riconnessa, in questa particolare fattispecie, ad un difetto di motivazione - come, ad esempio, qualora non fossero stati precisati i criteri per la valutazione in concreto -, bensì ad un semplice difetto di proporzionalità nell’applicare i criteri quantitativi di valutazione che la Commissione aveva già originariamente ed esaustivamente fissato, e che la stessa, pertanto, era tenuta ad utilizzare anche successivamente al ricorso e al dictum del Giudice di primo grado, senza alcuna possibilità di modificarli.
Autore: Maria Abbruzzese, Presidente di Sezione di TAR 5 luglio 2024
(Il seguente scritto costituisce rielaborazione della relazione tenuta dall’autrice nel contesto del Confronto sulla giustizia amministrativa … in occasione della presentazione del volume "Il giudizio amministrativo. Principi e regole ”, svoltosi a Napoli il 21 giugno 2024) Il principio del risultato L’attuale “mantra” del diritto amministrativo sembra essere l’invocazione, sempre più frequente, del “principio del risultato”, da ultimo espressamente codificato nel nuovo codice degli appalti [1] . Già la Corte Costituzionale [2] avvertiva che devono essere considerati “ principii dell’ordinamento giuridico quegli orientamenti e quelle direttive di carattere generale e fondamentale che si possono desumere dalla connessione sistematica, dal coordinamento e dalla intima razionalità delle norme che concorrono a formare, in un dato momento storico, il tessuto dell’ordinamento giuridico vigente ”. Si tratta della tradizionale idea della origine “induttiva” dei principi, ricavabili per successive e progressive generalizzazioni, dalle norme particolari. La stessa Corte, tuttavia, osservava, nel medesimo contesto, che “ i principi generali che scaturiscono da questa coerente e vivente unità logica e sostanziale del diritto positivo possono riflettere anche determinati settori per convergere poi in sempre più elevate direttive generali coerenti allo spirito informatore di tutto l’ordinamento ”. I principi, in quanto tali, posseggono dunque forza espansiva, tale da determinarne l’estensione anche ad altri settori dell’ordinamento, diversi da quelli nei quali si sono affermati, per conformare anch’essi. Per parte sua, il Consiglio di Stato [3] osservava che “ i principi generali di un settore esprimono valori e criteri di valutazione immanenti all’ordine giuridico, che hanno una memoria del tutto che le singole e specifiche disposizioni non possono avere e ai quali esse sono riconducibili; sono inoltre caratterizzati da una eccedenza di contenuto deontologico in confronto con le singole norme, anche ricostruite nel loro sistema, con la conseguenza che essi, quali criteri di valutazione che costituiscono il fondamento giuridico della disciplina considerata, hanno anche una funzione genetica (“nomogenetica”) rispetto alle singole norme ”. L'indicazione esplicita dei principi nel codice dei contratti, e in particolare del principio “apicale” [4] del risultato , obbliga dunque l’interprete a chiedersi se il “principio del risultato”, per effetto della sua positivizzazione, non costituisca, anche per il sistema del processo amministrativo, un “criterio di valutazione immanente” e non possegga anch’esso una “memoria del tutto” alla quale poter e dover far ricorso nei casi concreti. La domanda pare persino retorica. Parafrasando quanto osservato da un illustre Autore [5] , può mai ipotizzarsi un processo amministrativo che non sia diretto ad un risultato? [ 6] Sempre che sia chiaro quale è il “risultato” del processo amministrativo. Qui sia consentita una piccola digressione. Studiando il “principio di buon andamento” di cui all’ art 97 Cost. , altro illustre Autore richiamava una risalente affermazione [7] secondo la quale l’azione pubblica doveva essere utile alla comunità, “ non per essere un atto di amministrazione, ma per essere un atto di buona amministrazione quale il diritto lo vuole ”, dalla quale poi traeva un precipitato di rilevanza organizzativa del principio “in una dimensione non più meramente statica, bensì relazionale” [8] , e cioè, in definitiva, funzionale all’obiettivo e ad essa “adeguata”. Il buon andamento , per la rilevanza organizzatoria che riveste, è principio giuridico sostanziale quale espressione tipica di “efficienza pubblica”, ossia necessità di doverosa ed effettiva tutela di tutti gli interessi affidati alla considerazione di ciascun livello di governo [9] e, come insegna la Corte Costituzionale, “cardine della vita amministrativa e quindi condizione dello svolgimento della vita sociale” [10] in termini di “efficacia”, quale capacità del potere pubblico di realizzare esattamente quei fini che ad essa l’ordinamento assegna. Orbene, il fine del processo è definito dall’ art. 1 del codice del processo amministrativo , secondo cui “ La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo ”. Dunque, la tutela “piena ed effettiva” deve essere il “risultato” del processo, e non può esservi dubbio alcuno che tale “risultato” possa e debba essere perseguito quale concreto obiettivo, anche in quanto “principio” informatore e ragione d’essere del processo stesso. Così come il risultato, correlato al principio di buon andamento, informa (“deve” informare) l’attività amministrativa, così lo stesso, declinato in termini di effettività della tutela, risulta innestato e “immanente” al sistema del processo. Effettività della tutela come risultato del processo “ Quanto più rapida, coerente, comprensibile e adeguata alla realtà è la risposta data alla domanda di giustizia, tanto maggiore è la sua efficacia ” [11] . Tanto, sul presupposto che “ il diritto amministrativo ha il ruolo preminente di contrastare i fenomeni di disgregazione che hanno indebolito negli ultimi anni la struttura sociale della comunità e di dare prospettive per il superamento delle diseguaglianze ” (quelle generazionali, socio-economiche, territoriali e di genere) [12] . Tale indirizzo pare del tutto allineato con quanto osservato dalla dottrina, ancora in relazione al principio del risultato, il quale, “ lungi dal consistere nella necessaria soddisfazione materiale della pretesa del cittadino, si realizza piuttosto nella necessaria presa in considerazione dei suoi interessi giuridici e delle sue istanze, nonché della soddisfazione delle sue pretese in termini di adeguatezza della risposta (non necessariamente positiva), in quanto è in esse che – fra l’altro – si collocano le giuste esigenze di certezza del diritto ” [13] e ancora che “ la logica del risultato, espressiva del buon andamento, nulla ha a che vedere con il risultato a tutti i costi, o con la necessaria soddisfazione materiale della pretesa del cittadino. ” [14] . La tradizionale configurazione del processo quale “strumento” finalizzato ad assicurare tutela alle pretese legittime e a dirimere controversie si arricchisce per effetto dell’innegabile “mutamento di paradigma” rappresentato dalla riconfigurazione delle posizioni soggettive nei confronti dei pubblici poteri conseguente, tra l’altro, al riconoscimento dei diritti sociali di prestazione quali diritti della persona “situata” in una comunità verso la quale la persona ha doveri di solidarietà verso gli altri o che discendono dal rispetto dei diritti degli altri [15] . La giurisdizione non può quindi sottrarsi alla propria funzione di assicurare un “risultato”, funzione “doverosa” perché volta a tutelare interessi a soddisfazione “necessaria” [16] . E tali interessi sono non più semplicemente “legittimi”, ma oramai “pluriqualificati” [17] e non realizzabili senza la mediazione del potere amministrativo, che si esplica in una dimensione dinamica e diacronica nella sede naturale del procedimento. Il risultato del processo, sopra definito come “effettività” della tutela in esso assicurata, non può non tener conto delle nuove situazioni da regolare e va declinato secondo il progressivo sviluppo delle stesse. Interessi e potere reciprocamente si conformano e di questa continua dinamica evolutiva è “arbitro” [18] il giudice amministrativo. Le forme della tutela adeguata ed effettiva Non c’è diritto se non vi è la possibilità di affermarlo in via giudiziaria attraverso le tutele assicurate, né può esservi diritto se non possa essere fatto valere in executivis . Questo ha da essere il “risultato” del processo, la possibilità di utilizzo concreto di uno “strumento” necessario per l’affermazione e l’attualizzazione del proprio diritto. Nel volume “Il giudizio amministrativo. Principi e regole”, a cura di Maria Alessandra Sandulli [19] vi sono, in pressoché tutti i suoi capitoli, rimandi all’idea che ha ispirato queste riflessioni. A partire del capitolo introduttivo della curatrice del volume, in cui costei, alla luce di quanto osservato sul campo durante la recente pandemia, definisce icasticamente il giudice amministrativo come una “risorsa”, fin dall’esercizio della funzione cautelare, strumentale alla tutela dei merito, disegnata allo scopo di “dar tempo la giustizia di compiere efficacemente l’opera sua” [20] , e segnala che l’efficienza della macchina è “condicio sine qua non” dell’effettività (efficacia) della tutela, progressivamente arricchita dello strumento risarcitorio in via sussidiaria rispetto al proprium della tutela innanzi al giudice amministrativo, che resta l’effetto annullatorio costitutivo [21] . In maniera più esplicita, si occupa del tema l’intenso capitolo terzo di Anton Giulio Pietrosanti, specificamente riservato ai principi di effettività , alla cui lettura ovviamente si rimanda, ma che è opportuno richiamare soprattutto in relazione all’approfondimento riservato al concetto di “adeguatezza” della decisione rimessa al giudice [22] . Dal punto di visto etimologico, l’idea di adeguatezza rimanda a quella del necessario allineamento del risultato rispetto alla iniziativa da cui il procedimento ha avuto avvio [23] . Il ragionamento svolto da Pietrosanti conduce a ribadire la natura immanente del principio di effettività “per guidare gli interpreti nella risoluzione di particolari problemi processuali, ivi inclusi quelli di adeguamento (dei singoli istituti) alle peculiarità delle controversie”, e dunque nella logica del progressivo affinamento della capacità dei provvedimenti del giudice di soddisfare la pretesa della parte vittoriosa, vincolando l’amministrazione alla sua realizzazione. Da qui l’affermazione, oramai consolidata in via teorica, ma ancora suscettibile di ulteriori sviluppi in concreto, della natura elastica, ovvero flessibile, del sistema, che crea autonomamente strumenti “adeguati” per tutelare le diverse situazioni azionate [24] e sperimenta quotidianamente l’integrazione tra cognizione ed esecuzione [25] . Si tratta, a ben vedere, di quanto già ipotizzato in sede di relazione al Codice del processo, che definiva l’effettività quale capacità del processo di conseguire “risultati” nella sfera sostanziale e ciò “per quanto più è possibile (quindi quando non vi ostino sicure preclusioni sostanziali)” [26] . Gli strumenti sono i più vari. A partire della mancata tipizzazione del contenuto delle pronunce del giudice, contenuta all’ art. 34, comma 1, lett. c) [27] in combinato con l’ art. 55, comma 1 [28] , ma senza escludere meccanismi più raffinati, quali la graduazione degli effetti della decisione [29] o la riqualificazione delle domande proposte in riassunzione [30] e la stessa possibilità di “conversione” di cui all’ art. 32 del codice ; e, prima ancora, il riconoscimento della legittimazione processuale anche oltre gli stretti confini dell’interesse immediato e diretto [31] . Nella sostanzialmente identica direzione si pongono sentenze (e l’elencazione è ovviamente solo esemplificativa) che: a) esaminano nel merito domande risarcitorie espresse in forma solo dubitativa [32] ; b) consentono la transizione processuale tra tutela diretta e tutela strumentale dell’interesse, discorrendo di mera “gradualità satisfattiva”, essendo entrambe le tutele funzionali alla realizzazione, con diverso grado di immediatezza, di un interesse sostanziale unitario [33] ; c) ammettono l’azione di accertamento in diretta applicazione del principio di effettività della tutela, laddove manchino nel sistema azioni tipizzate e strumenti giurisdizionali a protezione di interessi sicuramente riconosciuti dall’ordinamento [34] ; d) valutano con rigore il profilo motivazionale della sentenza resa in primo grado, richiedendone espressamente l’idoneità, sul piano funzionale, a dare ragione degli argomenti spesi in giudizio [35] . Si è dunque compreso che “ la soddisfazione dell’interesse non è più passibile di essere garantita dal (solo) giudizio cassatorio (formalisticamente inteso), ma anche che la congerie di interessi presenti nell’ordinamento e il loro costante divenire inducono a non prefissare modelli tipici di azione, ma di lasciare all’interpretazione degli operatori giuridici ampi ambiti di adattabilità nel complesso compito di individuazione dei più adeguati rimedi atti a garantire, ancora una volta pienezza ed effettività della tutela “ [36] . La progressiva riduzione della tempistica di risoluzione, anche grazie all’ulteriore bacino di possibile definizione offerto dalle udienze straordinarie per l’arretrato, va senz’altro, sotto altro profilo, nella direzione auspicata, sempre che se ne garantisca l’operatività a regime. OSSERVAZIONI FINALI Molto è ancora da fare, ovviamente. Il giudice amministrativo, che è di volta in volta giudice della complessità, ma anche dell’economia, degli interessi pluriqualificati, e ancora degli interessi legittimi “fondamentali” [37] , in un’ottica “multipolare” degli interessi amministrati [38] , deve acquisire sempre maggiore consapevolezza del suo ruolo in un sistema in continua evoluzione. Come gli appalti non sono più solo mezzi per acquisire beni e servizi, ma diventano strumenti di politica economica e segmento dell’economia circolare [39] , così il processo non è un mezzo neutro di definizione delle controversie, ma piuttosto lo strumento indispensabile per attuare l’effettività della tutela alla quale il conferimento dei poteri giurisdizionali è finalizzato. Per parafrasare ancora il Consiglio di Stato, la nozione di risultato “non ha riguardo unicamente alla rapidità e alla economicità, ma anche alla qualità della prestazione …” [40] . Questo è l’interesse pubblico primario che in una logica di risultato deve essere perseguito e soddisfatto, anche rispetto a pretese finora non avanzate e neppure teorizzate. Di questo i magistrati amministrativi sono pienamente avvertiti e coscienti, oltre che attivi e consapevoli interpreti. [1] cfr. art. 1 DLGS 36/2023: “ 1. Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti perseguono il risultato dell’affidamento del contratto e della sua esecuzione con la massima tempestività e il migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo, nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza e concorrenza. 2. La concorrenza tra gli operatori economici è funzionale a conseguire il miglior risultato possibile nell’affidare ed eseguire i contratti. La trasparenza è funzionale alla massima semplicità e celerità nella corretta applicazione delle regole del presente decreto, di seguito denominato “codice” e ne assicura la piena verificabilità. 3. Il principio del risultato costituisce attuazione, nel settore dei contratti pubblici, del principio dl buon andamento e dei correlati principi di efficienza, efficacia ed economicità, esso è perseguito nell’interesse della comunità e per il raggiungimento degli obiettivi dell’Unione europea. 4. Il principio del risultato costituisce criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto, nonché per: a) valutare la responsabilità del personale che svolge funzioni amministrative o tecniche nelle fasi di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione dei contratti; b) attribuire gli incentivi secondo le modalità previste dalla contrattazione collettiva.” “Mantra” è un sostantivo sanscrito che indica, nel suo significato proprio, il “veicolo o strumento del pensiero o del pensare” ovvero un’espressione sacra, e corrisponde a un verso del Veda, a una formula sacra indirizzata a un deva (divinità), a una formula mistica o magica, a una preghiera, a un canto sacro o a una pratica meditativa e religiosa. Si tratta in sostanza di una “formula”, ripetuta molte volte come pratica meditativa e propria delle credenze religiose dell’India e delle culture che vanno sotto il nome di Vedismo, Brahmanesimo, Buddismo, Giainismo, Induismo e Sikhismo. La parola incorporata nel mantra o i suoni da cui è composta possono avere la proprietà di interagire con altri aspetti del mondo, nel che si ritiene costituisca la sua potenza (Fonte Wikipedia, voce “Mantra”). [2] cfr. Sentenza 26 giugno 1956, n. 6 [3] cfr. Ad. Plenaria, 7 maggio 2013, n. 13, resa sulla questione della possibile applicazione dell’epoca vigente art. 84 del codice degli appalti anche alle concessioni, risolta in senso positivo. [4] La natura “apicale” del principio è resa evidente dalla sua collocazione logistica (art. 1 del nuovo codice dei contratti) e dal rafforzamento esplicito contenuto nel successivo art. 4 (titolato “Criterio interpretativo e applicativo”), secondo cui “le disposizioni del codice si interpretano e si applicano ai base ai principi di cui agli articoli 1, 2 e 3.”. [5] cfr. F. G. Scoca, nella prefazione a “Le procedure ad evidenza pubblica”, Pacini Giuridica, 2024; l’Autore, ovviamente, poneva la questione con riferimento alle procedure di gara. [6] Ovviamente no, e lo stesso Autore, nel contesto dato (cfr. nota precedente), osservava che l’enunciazione del principio del risultato avrebbe avuto, a tacer d’altro, l’effetto di scuotere la vecchia mentalità dei funzionari pubblici, tradizionalmente orientati ad assicurare la legittimità dell’azione amministrativa anziché il raggiungimento tempestivo e completo del suo obiettivo concreto. [7] Risalente a Guido Falzone, in un’opera del 1953. [8] cfr. M.R. Spasiano, “Il principio di buon andamento”, in “Principi e regole dell’azione amministrativa”, pag. 122 e segg. [9] cfr. ancora M.R. Spasiano, cit. [10] cfr. Corte Cost., n. 123/1968. [11] cfr. L. Maruotti, nella relazione 2024 sull’attività della giustizia amministrativa. [12] cfr. nota precedente; pag, 8 della relazione citata. [13] cfr. M.R. Spasiano, cit., pag. 135. [14] cfr. nota precedente. [15] cfr. F. P. Griffi, “Per un franco dialogo tra giurisdizioni alla luce delle trasformazioni del potere pubblico”, pubblicato sul sito della G.A., pag. 2. Forse anche “pluridirezionali”, se si considera non solo la pluralità soggettiva ma il concorrere di istanze diversificate tendenti a fini diversi, ovvero “pluridimensionali”, ove si riguardi il profilo diacronico della tutela, rivolta anche agli interessi delle future generazioni. [16] cfr. ancora F. P. Griffi, cit., pag. 3. Ma vedi anche F. Goggiamani, in “La doverosità della pubblica amministrativa”, Torino, 2004, pag. 6: “solo se si recupera la posizione del dovere quale prius logico, e quindi, simultaneamente, di causa e scopo del potere, può derivare un interesse maggiore per la doverosità, che in questi termini vincola la potestà da due estremi: l’amministrazione più che detentrice di un potere vincolato nel fine è obbligata da un dovere eventualmente potestativo nel mezzo”. [17] Secondo la definizione di F. P. Griffi, cit., pag. 8. [18] Secondo la illuminante immagine utilizzata da L. Maruotti nella relazione citata; cfr. nota 12. [19] “Il giudizio amministrativo. Principi e regole”, a cura di M.A. Sandulli, Editoriale Scientifica, 2024. [20] Con la perspicua citazione di P. Calamandrei, riportata alla pag. 7. [21] cfr. Corte cost, n. 171/2023. [22] cfr. op. cit., pagg. 113 e segg. [23] Il termine risulta utilizzato in letteratura da Torquato Tasso per descrivere il “pareggiamento” delle ali in volo: “Indirizzossi all’ime Parti del mondo il messaggero celeste (l’arcangelo Gabriele; n.d.e.) (…) Prima sul Libano monte ei si ritenne, E si librò sulla’adeguate penne …”; cit. da vocabolario Treccani on line, voce “adeguato”. [24] cfr. Cons. di Stato, IV, n. 4003/2020, in sede di ottemperanza. [25] cfr. F. Francario, La cosa giudicata, pagg. 651 e segg. del volume; in particolare, pagg. 660-662: e anche G. Mari, Il giudizio di ottemperanza, pagg. 663 e segg. del volume, con la ricca raccolta giurisprudenziale a corredo del capitolo. [26] cfr. Relazione al Codice del processo amministrativo. [27] cfr. art. 34, comma 1, lett. c): “condanna …all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio”; art. 34, comma 1, lett. e), che ricalca la stessa previsione con riferimento all’ottemperanza, consentendo le “misure più idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese”. [28] Ove si fa riferimento alle “misure cautelari … più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso”. [29] Su cui, tra le più recenti, Cons. di Stato, IV, n. 2133/2018. [30] cfr. TAR Friuli-Venezia Giulia, n. 10/2020. [31] Si pensi alla ipostatizzazione degli interessi diffusi o alla estensione del concetto di “vicinitas” per la tutela di interessi commerciali o ambientali, il che porta alla ridefinizione del concetto di interesse “immediato e diretto”. [32] cfr. Cons. di Stato, IV, n. 4801/2024, punto 10 della motivazione. [33] cfr. Cons. di Stato, IV, n. 4739/2024, punto 19.2 della motivazione. [34] cfr. Cons. di Stato, IV, n. 4456/2024, punto 9 della motivazione. [35] cfr. Cons. di Stato, IV, n. 4069/2024, punto 8 della motivazione; dove è ancor più evidente la logica del “risultato”, declinata nel senso di necessaria presa in carico delle ragioni esposte, prima ancora e indipendentemente dall’esito finale del giudizio. [36] M.R. Spasiano, cit., pag. 210. [37] Si tratta, come noto, di una categoria frequentemente utilizzata e cara al presidente Maruotti. [38] cfr. Cons. di Stato, n. 4701/2024. [39] Vedi nota precedente. [40] cfr. Cons. di Stato, n. 11322/2023.
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Sistema giustizia


Autore: a cura di Stefano Tenca 8 novembre 2024
(I contenuti della presente nota sono condivisi e sottoscritti anche da Maria Barbara Cavallo, Silvana Bini, Nicola Fenicia, Francesco Tallaro, Roberto Valenti, Paolo Nasini, Mara Bertagnolli e Carmine Spadavecchia, oltre che, fuori dalla Redazione, da Maria Abbruzzese, Presidente di Sezione presso il TAR per la Campania, sede di Napoli ) 1) Un quotidiano ha pubblicato il 21 ottobre l’intervista [1] di un componente in carica del CPGA (organo di autogoverno dei magistrati amministrativi), che ha affermato di esprimere una “ personale convinzione, da cittadino e da giurista ”, anche se poi è stato (correttamente) qualificato dal giornalista quale membro del CPGA e Presidente della sez. II del T.A.R. Puglia Lecce. Nell’articolo si censura espressamente l’errore della sentenza del Tribunale di Roma, il quale avrebbe “ esondato dai propri poteri ”. Quest’ultimo, come è noto, ha recentemente ha negato la convalida del trattenimento di alcuni migranti presso il centro italiano di permanenza per il rimpatrio in Albania. Il contesto generale di questi giorni è molto teso, poiché alcuni esponenti politici sembrano andati oltre il limite della legittima critica ad una pronuncia giurisdizionale, attaccando i singoli magistrati ed anche la magistratura nel suo insieme, accusata di essere di parte, alimentando in questo modo un forte discredito nei confronti dell’istituzione, al punto che la maggioranza dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura ha depositato la richiesta di apertura di una pratica a tutela dell'indipendenza e dell'autonomia dei magistrati [2] . Il magistrato intervistato aveva ottenuto, l’11 settembre scorso, l’autorizzazione ad assumere un incarico di diretta collaborazione con il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (quale esperto per il monitoraggio della giurisprudenza euro-unionale). 2) Va premesso che la collaborazione da parte di magistrati in qualsiasi forma a giornali e riviste costituisce certamente espressione di diritti fondamentali quali la libertà di manifestazione del pensiero, e quindi non può e non deve essere messa in discussione. Recentemente anche il CSM (delibera I Commissione del 18/6/2024) , ha ribadito che rientrano tra gli incarichi extragiudiziari liberamente espletabili, le attività che costituiscono espressione di diritti fondamentali, tra l’altro, la libertà di manifestazione scritta e verbale del pensiero, di associazione, di esplicazione della personalità, la pubblicistica, la collaborazione in qualsiasi forma a giornali, riviste, enciclopedie e simili, la partecipazione, come relatori, a seminari, convegni, incontri di studio o attività similari se non retribuita. La domanda che ci si pone è se l’opinione espressa nell’intervista, al di là del suo contenuto, sia suscettibile di appannare l’ immagine di imparzialità , in quanto esternata da un magistrato che appartiene all’organo di autogoverno della giustizia amministrativa ed è dunque chiamato a compiere scelte a tutela dell’istituzione: la sua carica deve infatti presiedere alla difesa delle prerogative di autonomia e indipendenza dei magistrati, nel loro ruolo di garanzia del cittadino contro abusi e arbitri dell’esercizio del potere pubblico. L’intervento sulla stampa, nella sua oggettività, si espone al rischio di una strumentalizzazione in quanto interpretabile dal lettore come di sostegno alle posizioni politiche espresse contro la magistratura. A tal proposito il quotidiano – forse per rafforzare l’opinione terza e imparziale del giurista – non dà conto del suo ruolo di collaborazione diretta con il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per la durata del Governo. Paradossalmente, un quadro distorto è stato rappresentato nei confronti dei lettori. 3) La regola 1 del Codice etico dei magistrati amministrativi è la seguente: “ Nello svolgimento delle sue funzioni ed in ogni comportamento professionale il magistrato si ispira a valori di disinteresse personale, di indipendenza e di imparzialità ”. Filippo Patroni Griffi, già Presidente del Consiglio di Stato e oggi giudice costituzionale, in occasione del 1° congresso magistrati amministrativi tenutosi nel 2019, disquisendo sul tema dell’etica pubblica ha sostenuto che il magistrato deve sempre essere percepito dalla collettività come retto e indipendente. Il Codice etico (specifico) dei componenti del CPGA al par. 2 statuisce che “ Il componente osserva nella vita sociale una condotta ispirata a dignità e decoro adeguati al prestigio della funzione esercitata; adotta un comportamento discreto e riservato, evitando esternazioni e collegamenti con la stampa ed altri mezzi di comunicazione ”, mentre l’ultimo par. sancisce che il componente si “ impegna a non assumere, durante il suo mandato: … b) incarichi che, in relazione all’organo che li conferisce, possano comportare condizionamenti per l’attività di componente ”. Invero, le disposizioni del codice etico sono caratterizzate da un limite interno, poiché ai sensi del par. 1 “ non hanno natura ed efficacia di norme giuridiche; esse costituiscono patrimonio ideale e pratico affidato alla coscienza individuale dei componenti il Consiglio di Presidenza. La forza del codice risiede solo nella spontanea adesione di ciascuno alle regole in esso contenute ”. Ad ogni modo questo episodio può fornire uno spunto di riflessione, visto che il quadro regolatorio di soft law vigente si rivela insufficiente a garantire riserbo e self restraint a cui dovrebbe improntarsi il comportamento di chi ricopre la carica di componente dell’organo di autogoverno. Si noti altresì che l’ art. 3, comma 1, del Regolamento interno di funzionamento del Consiglio di Presidenza , pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13/2/2004, prevede già espressamente che non possano essere autorizzati ai componenti del Consiglio di Presidenza gli incarichi di segretario generale, capo dipartimento, capo di gabinetto e capo ufficio legislativo presso gli enti e le istituzioni previsti dall’art. 3, comma 3, lettere a) e b), del D.P.R. n. 418 del 1993 (ossia la Presidenza della Repubblica, il Parlamento, la Corte costituzionale, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, i Ministeri, gli altri organi di rilevanza costituzionale, le cariche e gli incarichi presso autorità amministrative indipendenti, ovvero presso soggetti, enti e istituzioni, che svolgono compiti di alta amministrazione e di garanzia). 4) Il delineato panorama consacra il principio di carattere generale dell’indipendenza e dell’imparzialità del magistrato , che potrebbe ritenersi leso nel caso in discussione, per il pregiudizio arrecato all’immagine di terzietà di chi esercita una funzione soggetta soltanto alla legge. Peraltro, sarebbe auspicabile una declinazione del superiore principio con l’elaborazione di una serie comportamenti virtuosi da promuovere, vere e proprie best practice del magistrato amministrativo. A tal proposito, la delibera del 25/3/2021 n. 40 del CPGA , riguardante l’ uso dei social media da parte del magistrato, richiama i codici etici e le norme disciplinari “ al fine di salvaguardare il prestigio e l’imparzialità dei singoli magistrati e della giustizia amministrativa nel suo insieme e la fiducia di cui sia i singoli che l’Istituzione devono godere nell’opinione pubblica ”. Viene aggiunto (art. 5) che “ I magistrati amministrativi adottano elevati parametri di continenza espressiva, utilizzando un linguaggio adeguato e prudente rispetto a tutte le interazioni in essere sulle piattaforme di social media, nonché con riferimento al rischio della perdita di controllo del o dei contenuti immessi ed alla tipologia di contenuto oggetto di pubblicazione e diffusione ”. Se sono state elaborate raccomandazioni puntuali circa l’utilizzo dei social media da parte dei magistrati, finalizzate a salvaguardare il prestigio e l’imparzialità come singoli e della giustizia amministrativa nel suo insieme (nonché la fiducia di cui devono godere nell’opinione pubblica), il comportamento di coloro che ricoprono il delicato ruolo di componente dell’organo di autogoverno non può restarne esente, così da lasciare, ad esempio, una generalizzata deregulation nei rapporti con la stampa. 5) Un tale approfondimento è indubbiamente di competenza del CPGA. Anzitutto andrebbe elaborato un quadro regolatorio puntuale di incarichi extragiudiziari non compatibili con il ruolo di componente togato del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa , trattandosi di carica che presuppone lo svolgimento delle funzioni in una condizione di assoluta indipendenza ed imparzialità. Molto delicato si rivela il tema della partecipazione e collaborazione con tv, giornali, riviste anche telematiche. Posto che è incontroversa l’ampia libertà di discussione e dibattito scientifico in un convegno o su una rivista specializzata, si pone l’interrogativo circa l’opportunità di scrivere articoli di commento a sentenze sui quotidiani, oppure di rilasciare interviste o di partecipare a trasmissioni televisive su questioni giuridiche (di diritto amministrativo e non) di forte impatto socio-politico. Già alla luce del codice etico, i componenti del CPGA assumono condotte improntate alla continenza e al riserbo con divieto di conferire con la stampa, e non accettano incarichi suscettibili di influenzare il sereno svolgimento dell’attività. Se il semplice richiamo alla “coscienza individuale” e alla “spontanea adesione” può rivelarsi debole, non è il caso di intervenire quanto meno con raccomandazioni e linee-guida appropriate? [1] Questo il testo: https://www.ilgiornale.it/news/politica/giurista-dico-appellarsi-corte-europea-stato-errore-2383886.html [2] Questa la notizia dell’Ansa: https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2024/10/22/toghe-csmaprire-pratica-a-tutela-giudici-sezione-migranti_0228154e-02e0-4e88-a605-f99e096d7302.html
Autore: a cura di Francesco Tallaro 22 settembre 2024
(Tra giurisdizione soggettiva e controllo di legalità) 1. – Il Procuratore Generale della Corte dei Conti esercita l’ azione disciplinare nei confronti di un magistrato contabile . Il Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, riunito senza la partecipazione del Procuratore Generale – che pure ne è membro di diritto, ma che in forza del regolamento sul procedimento disciplinare non può comporre il collegio destinato a decidere del procedimento disciplinare da lui stesso avviato –, manda il magistrato prosciolto dall’addebito disciplinare. Il Procuratore Generale decide, quindi, di impugnare la decisione, di carattere amministrativo [1] , dapprima con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica; quindi, dopo l’opposizione del Consiglio di Presidenza, all’uopo costituitosi, trasferendo l’azione d’annullamento d’innanzi al TAR del Lazio, sede di Roma. 2. – Il ricorso viene deciso dalla Sezione I del Tribunale, con sentenza del 28 agosto 2023, n. 13461, la quale dichiara inammissibile l’azione per difetto di legittimazione attiva e di interesse da parte dell’Ufficio di Procura. L ’iter motivazionale del giudice di primo grado, estremamente lineare, pone l’accento su due aspetti. Sotto il profilo della legittimazione , il Procuratore Generale, pur essendo titolare di «una posizione normativamente qualificata e differenziata nella sua qualità di organo al quale tanto la legge quanto il Regolamento di disciplina per i magistrati della Corte dei conti riconoscono il potere di promozione dell’azione disciplinare nonché di parte pubblica nel relativo procedimento», non è titolare di una situazione giuridica soggettiva, personale e differenziata. Egli partecipa al procedimento quale membro di diritto del Consiglio di Presidenza, e non già in quanto portatore di una propria posizione giuridica sostanziale. Sotto il secondo profilo, quello dell’ interesse , il TAR sottolinea che l’azione del Procuratore Generale appare avere carattere palesemente oggettivo, ossia finalizzata unicamente alla tutela degli interessi pubblici della collettività di cui egli è espressione: in altre parole, egli si muove al pari di un pubblico ministero ordinario in un processo penale. Quindi, il Procuratore Generale non ricaverebbe alcuna utilità personale dalla pronuncia giurisdizionale. 3. – La decisione non meriterebbe particolari commenti. Da un lato, infatti, essa si pone nel solco di un precedente definito dal Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza del 24 dicembre 1999, n. 1946, la quale aveva statuito espressamente che « il Procuratore Generale della Corte dei Conti non riveste la funzione di organo pubblico dell’ordinamento giuridico nei suoi valori generali e indifferenziati, ma concorre alla tutela dell’interesse particolare e concreto, sotteso al procedimento disciplinare », sicché non ha legittimazione ad impugnare la delibera del Consiglio di Presidenza che dichiari la decadenza di un procedimento disciplinare nei confronti di un magistrato contabile. Dall’altro lato, la sentenza appare applicare correttamente gli insegnamenti dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. Infatti, nell'ambito del processo amministrativo impugnatorio, è stato ripetutamente affermato che la legittimazione e l'interesse al ricorso integrano condizioni dell'azione necessarie per consentire al giudice adito di pronunciare sul merito della controversia, condizioni che devono esistere al momento della proposizione della domanda processuale e persistere fino alla decisione della vertenza (Consiglio di Stato, Ad. Plen., 25 febbraio 2014, n. 9). La legittimazione e l'interesse al ricorso trovano giustificazione nella natura soggettiva della giurisdizione amministrativa , che non risulta preordinata ad assicurare la generale legittimità dell'operato pubblico, bensì tende a tutelare la situazione soggettiva del ricorrente, correlata ad un bene della vita coinvolto nell'esercizio dell'azione autoritativa oggetto di censura (Consiglio di Stato, Ad. Plen., 7 aprile 2011, n. 4; Cons. Stato, Ad. Plen., 28 gennaio 2022, n. 3). Il giudice procedente, in particolare, deve pregiudizialmente verificare l'esistenza in capo alla parte ricorrente: a) di una posizione qualificata e differenziata (avente consistenza di interesse legittimo), correlata al bene della vita oggetto di esercizio del pubblico potere, idonea a distinguere il ricorrente da ogni altro consociato (accertamento strumentale alla verifica della legittimazione al ricorso); b) di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente, il quale è pertanto suscettibile di essere beneficiato - e, dunque, di trarre un'utilità effettiva - da un'eventuale sentenza di accoglimento della propria impugnazione (Cons. Stato, Ad. Plen., 7 aprile 2011, n. 4; Cons. Stato, Ad. Plen., 9 dicembre 2021, n. 22). 4. – Nondimeno, la decisione di prime cure sull’impugnazione da parte del Procuratore Generale è stata riformata in appello dalla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. III, del 5 febbraio 2024, n. 1192 . 4.1. – Per quanto sia possibile sintetizzare in questa sede una motivazione piuttosto articolata, il Consiglio di Stato sottolinea come, nell’attuale procedimento disciplinare contabile, il Procuratore Generale sia l’organo titolare dell’azione disciplinare e goda, dunque, di una posizione qualificata e differenziata rispetto all’esito del procedimento disciplinare, del quale egli è parte promotrice. Egli è portatore di un interesse ampio e generale, perché la correttezza deontologica dei comportamenti tenuti dai magistrati, quantomeno in quel minimum etico ritenuto passibile di sanzione disciplinare, non solo costituisce fondamento di responsabilità verso l’ordine magistratuale di appartenenza e non è solo dunque, per così dire, un mero “affare interno” alla singola magistratura, ma si riverbera sull’intero ordinamento, ove si consideri che la serietà e la professionalità del ruolo essenziale svolto dalla magistratura – di qualsiasi magistratura – e, con essa, la sua imparzialità ed indipendenza, anche con riferimento alle giurisdizioni speciali, riposano anzitutto su questo minimum etico esigibile dall’ordinamento nei confronti dei magistrati tutti. Dunque, quale portatore di un interesse pubblico di ordine generale avente rilevanza autonoma e fondamento costituzionale , il Procuratore Generale della Corte dei Conti gode di una piena legittimazione ad impugnare le decisioni dell’organo di autogoverno in materia disciplinare avanti al giudice amministrativo, e ciò non meno dell’incolpato, a differenza di un qualsiasi quivis de populo che non abbia posizione distinta rispetto all’esercizio del potere disciplinare se non per il mero, generico, ripristino della legalità violata. 4.2. – Quanto al profilo dell’interesse ad agire, il cuore del ragionamento del Consiglio di Stato risiede nell’affermazione che l’interesse attuale e concreto del Procuratore Generale non è quello al mero ripristino della legalità violata, così finendo per coincidere sostanzialmente con la legittimazione ad agire e, dunque, fondando una giurisdizione c.d. di tipo oggettivo, bensì è l’aspirazione a quel fondamentale bene della vita – l’inflizione o meno della dovuta e proporzionata sanzione nei confronti del magistrato incolpato per i comportamenti in concreto tenuti – che solo il corretto esercizio del potere disciplinare da parte dell’organo di autogoverno può soddisfare. È lo stesso bene della vita e, dunque, lo stesso concreto interesse che avrebbe perseguito l’incolpato, laddove fosse stato ingiustamente sanzionato con una misura disciplinare infondata nell’ an o sproporzionata nel quantum , ma è un interesse riguardato ex parte public a, che sostiene la meritevolezza della censura, e non già ex parte privata , quando essa invece sostiene la immeritevolezza della censura. In questo senso, il Consiglio di Stato ritiene che la soddisfazione dell’interesse concreto fatto valere dal Procuratore – la inflizione della “giusta” sanzione disciplinare nei confronti del magistrato , a tutela dell’integrità morale della magistratura contabile e, per essa e con essa, della imparzialità e indipendenza di tale giurisdizione speciale nel complessivo e superiore quadro dei valori costituzionali vigenti – costituisce un indubbio vantaggio per l’interesse pubblico che egli persegue, dovendo necessariamente essere commisurata la concretezza di questo vantaggio alla natura della posizione – pubblica – che egli riveste e, per il tramite di questa posizione, in ultima analisi al beneficio concreto che ne trae l’intero Stato-comunità, oltre che in via immediata l’onorabilità, il prestigio e l’immagine, della magistratura stessa. Proprio per questo, secondo i giudici dell’appello è evidente che, se un simile interesse non fosse salvaguardato anche ex parte publica e dunque tutelabile con il riconoscimento della impugnabilità in sede giurisdizionale, le decisioni amministrative assolutorie – o eccessivamente miti – rese in sede disciplinare dall’organo di autogoverno rimarrebbero insindacabili e, cioè, sarebbero sostanziale esercizio di “autodichia” o, se si preferisce, un affare tutto interno all’ordinamento della giustizia contabile, sulla quale l’organo di autogoverno avrebbe l’ultima, insindacabile, parola in caso di esito assolutorio, quale unico e inappellabile titolare di questo interesse pubblico, riducendo il titolare dell’azione disciplinare ad un mero organo interno alla pubblica amministrazione decidente. 5. – Orbene, le argomentazioni adoperate dal Consiglio di Stato, che pure hanno prestato formale ossequio alla ricostruzione in termini soggettivi della giurisdizione amministrativa, disvelano, in realtà, una concezione del ruolo del giudice amministrativo non solo quale organo in grado di assicurare ai paciscenti tutela contro gli arbìtri nell’esercizio del potere pubblico, ma anche di organo che assicura una funzione di controllo della legalità dell’azione amministrativa, inteso nella sua dimensione oggettiva [2] . Le tracce, nell’ordinamento, della persistenza di tale concezione sono più che evidenti. 6. – In alcuni casi, tale fenomeno si manifesta attraverso l’incorporazione dell’interesse in un soggetto giuridico. Il legislatore, come noto, introducendo nel 2011 l’ art. 21-bis l. 10 ottobre 1990, n. 267 [3] , ha attribuito all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato la legittimazione straordinaria ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato. La giurisprudenza ha interpretato tale disposizione escludendo che configuri un’ipotesi di giurisdizione oggettiva, delineando piuttosto un potere d’azione, riconducibile alla giurisdizione a tutela di situazioni giuridiche qualificate e differenziate, di matrice quindi soggettiva, sebbene provenga da un soggetto pubblico ad hoc che agisce a tutela di un determinato bene giuridico, la tutela della concorrenza e del mercato [4] . Rimane, comunque, che l’Autorità è un soggetto dell’ordinamento creato ad hoc da una scelta legislativa, che prima gli ha attribuito i poteri tipici anche delle altre Autorità indipendenti; e che successivamente ha coagulato in esso l’interesse – di natura evidentemente pubblica – al rispetto dei princìpi della concorrenza, interesse sul quale poi riposa la legittimazione straordinaria [5] . Il modello è stato replicato in materia di contratti pubblici, dove la legittimazione straordinaria è stata attribuita all’Autorità Nazionale Anti Corruzione. L’ art. 220, comma 2 d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36 [6] , infatti, prevede che l'ANAC è legittimata ad agire in giudizio per l'impugnazione dei bandi, degli altri atti generali e dei provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi stazione appaltante, qualora ritenga che essi violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture. Qui, la natura oggettiva dell’esercizio di giurisdizione attivato dal ricorso dell’ANAC appare ancora più accentuato, atteso che opera in un ambito in cui il (non irrilevante) contenzioso d’innanzi al giudice amministrativo è mosso dagli interessi squisitamente soggettivi degli operatori economici. 7. – Diversa è stata, in passato, la scelta legislativa con riferimento all’interesse, di per sé adespota, alla tutela dell’ambiente . Non è stata attribuita la legittimazione straordinaria a una pubblica amministrazione, ma, ai sensi del combinato disposto dell’art. 13 e dell’art. 18, comma 5 l. 8 luglio 1986, n. 349 , la possibilità di ricorrere avverso i provvedimenti amministrativi lesivi dell’interesse ambientale è stata affidata alle associazioni ambientali riconosciute dal Ministero dell’Ambiente. In tal senso, sono state riconosciute e legittimate le scelte interpretative della giurisprudenza amministrativa, peraltro rimaste ferme anche dopo l’intervento legislativo, per la quale i comitati spontanei e alle associazioni di cittadini sono legittimati a ricorrere nei confronti dei provvedimenti amministrativi ritenuti lesivi di un interesse di carattere collettivo. Ovviamente, essendovi comunque la necessità di selezionare, in una platea potenzialmente innumerevole di soggetti, quelli sufficientemente affidabili da svolgere questa preziosa funzione sollecitatoria del controllo giurisdizionale, sono state elaborate delle condizioni da soddisfare, e cioè: a) che sussista una previsione statutaria del comitato o della associazione che qualifichi questo obiettivo di protezione come compito istituzionale dell'ente; b) che il comitato o l'associazione dimostri di avere consistenza organizzativa, adeguata rappresentatività e collegamento stabile con il territorio ove svolgono l'attività di tutela degli interessi collettivi; c) che il comitato o l'associazione dimostri di aver svolto la propria attività per finalità statutarie per un certo arco di tempo e non debbono essere stati costituiti al solo scopo di procedere all'impugnazione di singoli atti o provvedimenti [7] . 8. – In effetti, anche in ambito internazionale ha trovato successo l’idea di attribuire alle organizzazioni private il compito di attivare il controllo giurisdizionale in materia ambientale. La Convenzione di Århus del 25 giugno 1998 [8] , sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, riconosce alle organizzazioni non governative che promuovono la tutela dell'ambiente, purché soddisfino i requisiti prescritti dal diritto nazionale, lo status di « pubblico che subisce o può subire gli effetti dei processi decisionali in materia ambientale o che ha un interesse da far valere al riguardo » [9] . Quindi, riconosce a dette ONG l’accesso «a una procedura di ricorso dinanzi a un organo giurisdizionale e/o ad un altro organo indipendente ed imparziale istituito dalla legge, per contestare la legittimità sostanziale o procedurale di decisioni, atti od omissioni» relative ad alcune attività, specificamente enumerate, suscettibili di danneggiare l’ambiente, e che dunque sono assoggettate a procedure partecipative [10] . In sostanza, nelle ONG sono incarnati quegli interessi non individualizzabili, la cui tutela sostanziale e processuale, non avendo un titolare nel mondo sensibile, è demandata a un’entità associativa. 9. – Non a caso, anche la Corte europea dei Diritti dell’Uomo [11] ha di recente riconosciuto a una ONG, e in particolare alla Verein KlimaSeniorinnen Schweiz , cioè a un’associazione elvetica di anziane donne per la lotta ai cambiamenti climatici, il locus standi (cioè la legittimazione attiva) con riferimento all’azione volta al riconoscimento dell’inadempimento, da parte della Confederazione Elvetica, degli obblighi assunti sul piano del diritto internazionale per la riduzione delle emissione di Co2, inadempimento che finirebbe per integrare una violazione dell’art. 8 della Convenzione, che garantisce il rispetto della vita privata e familiare. La Corte ha ribadito che la legittimazione al ricorso deriva dall’essere stato personalmente e direttamente colpito dalla condotta omissiva dello Stato, ma ha comunque ritenuta ammissibile l’azione proposta da un’associazione rappresentativa di una categoria di soggetti, le donne anziane, particolarmente sensibili ai rischi del cambiamento climatico, e dunque colpite direttamente dalla condotta omissiva dello Stato. In effetti, proprio richiamando la citata Convenzione di Århus, la Corte ha valorizzato il ruolo dei «collectives bodies», laddove i cittadini si confrontino con decisione amministrative particolarmente complesse, sicché solo attraverso la mediazione di detti enti esponenziali può essere assicurato l’accesso alla giustizia [12] . 10. – Tornano a livello di contenzioso nazionale, non di rado, d’innanzi al giudice amministrativo, vengono in rilievo controversie tra pubbliche amministrazioni, spesso quale proiezione processuale dei conflitti non risulti in fase procedimentale [13] . Come efficacemente notato [14] , vi sono due grandi categorie in cui dividere questa tipologia di contenzioso: da un lato, vi sono i casi in cui l’amministrazione ricorrente lamenta la violazione delle proprie attribuzioni, con limitazione della capacità di esercizio dei poteri attribuiti dalla legge; dall’altro lato, vi sono i casi in cui l’Ente intende far valere gli interessi della collettività che è chiamato a rappresentare, che sarebbero lesi dal provvedimento illegittimo. Nella prima ipotesi, la controversia muove formalmente dall’allegata lesione di una posizione giuridica soggettiva dell’Ente ricorrente; nella sostanza, si risolve in un conflitto intersoggettivo sul quomodo dell’esercizio delle pubbliche potestà, in cui evidentemente prevale la natura oggettiva dell’esercizio della giurisdizione. Anche nella seconda ipotesi non manca la possibilità di scorgere un contenzioso di natura oggettiva . Invero, l’Ente esponenziale non pone in essere una forma di sostituzione processuale dei singoli componenti comunità che in esso si riconoscono, facendo valere gli interessi individuali di questi; ciò perché le posizioni individuali possono essere ben diversificate. Si immagini l’ipotesi di un Comune che impugni il piano regionale dei rifiuti che preveda l’allocazione di una discarica sul suo territorio, ritenendo la scelta lesiva dell’interesse alla salute dei cittadini residenti. È tuttavia evidente che, nella collettività stanziata nel territorio, ben vi potrà essere la presenza di soggetti che invece nutrono interesse a che la discarica sia autorizzata, perché magari coinvolti nella sua realizzazione o, più modestamente, perché interessati a trovare impiego a servizio di questa. Dunque, è una fictio iuris affermare che l’amministrazione esprime l’interesse collettivo dei cittadini. Piuttosto, a prescindere dalle ragioni di carattere politico che si pongono alla base di tali ricorsi, è chiaro che al giudice amministrativo non si chiede di proteggere un interesse di spessore sostanziale dei privati dall’esercizio arbitrario del potere amministrativo, quanto invece di verificare, su un piano di oggettività, che il potere pubblico sia stato correttamente utilizzato. 11. – Occorre, a questo punto, trarre le fila delle disorganiche osservazioni sin qui svolte. La dimensione soggettiva della giurisdizione amministrativa è una conquista preziosa, che ha consentito il passaggio da una tutela meramente interna alla funzione amministrativa (la «giustizia nell’amministrazione» che ancora echeggia nell’art. 100 Cost. [15] ) a un sistema di tutele effettive, d’innanzi a organi giurisdizionali indipendenti e imparziali, che, come ricordato anche dalla Corte costituzionale, svolgono la funzione di giudice ordinario dell’esercizio della funzione pubblica [16] . Non sembra che vi siano spazi per recedere da questa costruzione generale del sistema di giustizia amministrativa, pena la diminuzione del grado di effettività delle tutele. Infatti, un plesso giurisdizionale di regola chiamato ad assicurare la legittimità dell’azione amministrativa, eventualmente su sollecitazione di un organo pubblico, una sorta di promotore di giustizia [17] , rappresenterebbe un certo arretramento verso una dimensione di controllo, più che pienamente giurisdizionale. Nondimeno, il compito dell’interprete è quello di guardare all’ordinamento per quello che è, non per quello che si vorrebbe che fosse. E non si può allora negare che d’innanzi al giudice amministrativo vi siano chiari spazi di giurisdizione oggettiva [18] , in quelle ipotesi in cui sono stati individuati, dal legislatore o dal lavorio degli interpreti, interessi sensibili, eppure adespoti, altrimenti esclusi dalla tutela giurisdizionale. In questa prospettiva, lascia perplessi il fatto che il Consiglio di Stato disconosca, anche nella vicenda da cui hanno preso il via queste brevi riflessioni, l’esistenza di spazi di giurisdizione in cui il giudice amministrativo non è chiamato a tutelare situazioni giuridiche soggettive, bensì ad assicurare la legittimità dell’azione amministrativa . Solo riconoscendo questo fenomeno si può cercare di individuare una trama comune alle svariate forme di giurisdizione oggettiva, previste dal legislatore o riconosciute da consolidata giurisprudenza, che serva da criterio per attribuire o meno dignità giuridica a quella che appare, a tutti gli effetti, una nuova ipotesi di giurisdizione oggettiva [19] . In simile prospettiva, la pronuncia del Consiglio di Stato non risponde adeguatamente all’interrogativo se l’attribuzione al Procuratore Generale presso della Corte dei Conti della legittimazione a impugnare i provvedimenti di proscioglimento di un magistrato contabile da un’imputazione contestatagli sia effettivamente omogenea rispetto agli altri casi di giurisdizione oggettiva, oppure non comporti una smagliatura alla coerenza ordinamentale capace di pregiudicare la tenuta del sistema. [1] Corte cost. 27 marzo 2009, n. 87. [2] Nell’interessante saggio di M. Renna – S. Vaccari, La proiezione processuale dei dissensi tra gli enti territoriali, in Dir. Proc. Amm. 2021, p. 677 ss., si parla di «’frammenti’ di giurisdizione oggettiva», che necessiterebbero pur sempre un fondamento normativo esplicito e, in ogni caso, dovrebbero risultare numericamente eccezionali, onde evitare l’alterazione complessiva del sistema processuale. A. Massera, «Giustizia nell’amministrazione» e «ingiustizie amministrative» tra passato e presente, in Riv. Trim. dir. pubbl., 2020, 33 ss., nota la tendenza all’introduzione di elementi di oggettivizzazione del processo, con due distinte modalità. L’una, affrontata nel testo, riguarda l’estensione della legittimazione al ricorso per la tutela di interessi pubblici a carattere generale, attribuiti – quale centro di imputazione di interessi – a pubbliche amministrazione. L’altra, per l’esame della quale non vi è spazio in questa sede, mercé l’attribuzione al giudice di poteri officiosi. [3] L’inserimento è avvenuto con d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, con. con mod. con l. 22 dicembre 2011, n. 214. [4] Si veda, da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 21 febbraio 2023, n. 1760. [5] Per un approfondimento, con respiro più ampio anche sul tema della natura del sindacato giurisdizionale, si rimanda a N. Pica, La tutela processuale dell’interesse pubblico: considerazioni a partire dalla legittimazione ad agire dell’AGCM, in Dir. Proc. Amm., 2019, 807 ss. [6] E, in precedenza, l’art. 211 d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50. [7] Solo a mo’ d’esempio, si richiama, nella giurisprudenza costante, TAR Lazio – Roma, Sez. III, 5 gennaio 2024, n. 264. [8] Ratificata e resa esecutiva con l. 16 marzo 2001, n. 108. [9] Art. 2, paragrafo 5. [10] Art. 9 e Allegato 1 alla Convenzione di Århus. [11] ECtHR, Grand Chamber, 9 aprile 2024, Case of Verein KlimaSeniorinnen Schweitz v. Switzerland. [12] Merita di essere trascritto il passaggio motivazionale, invero derivante dalla sentenza ECtHR, Fourth Chamber, 27 aprile 2004, in case Gorraiz Lizarraga and others v. Spain: « in modern-day societies, when citizens are confronted with particularly complex administrative decisions, recourse to collective bodies such as associations is one of the accessible means, sometimes the only means, available to them whereby they can defend their particular interests effectively. This is especially true in the context of climate change, which is a global and complex phenomenon. It has multiple causes and its adverse effects are not the concern of any one particular individual, or group of individuals, but are rather “a common concern of humankind” (see the Preamble to the UNFCCC). Moreover, in this context where intergenerational burden-sharing assumes particular importance (see paragraph 420 above), collective action through associations or other interest groups may be one of the only means through which the voice of those at a distinct representational disadvantage can be heard and through which they can seek to influence the relevant decision-making processes ». [13] M. Renna – S. Vaccari, La proiezione cit, p. 687. Da un punto di vista storico, si veda M. Mazzamuto, Liti tra OA e vicende della giustizia amministrativa nel secolo diciannovesimo, in Dir. Proc. Amm., 2019, p. 344 ss. [14] M. Renna – S. Vaccari, La proiezione cit,, p695. [15] Formula che appare «misteriosa» ad H. Simonetti, L’art. 21 bis della Legge 287/1990 ed il potere di impugnazione dell’Agcm: è ancora il secolo della «giustizia nell’amministrazione»?, in www.giustamm.it , n. 2, 2014. [16] Cfr. Corte cost. 6 luglio 2004, n. 204; Corte cost. 11 maggio 2006, n. 191 [17] Sull’idea di istituire un pubblico ministero amministrativo, si veda C. Biagini, Istituzione del Pubblico Ministero presso il Consiglio di Stato e presso i Tribunali Amministrativi Regionali, in AA.VV., Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, III, Roma, 1981,pp. 1715 ss. [18] In effetti, lo studio comparativistico rivela come anche in altri Paesi, ed in particolare in Spagna, in Francia e in Germania, si rinvenga la dicotomia tra la dimensione soggettiva e quella oggettiva del sindacato sull’attività amministrativa. Si veda, in proposito, B. Marchetti, Il giudice amministrativo tra tutela soggettiva e oggettiva: riflessioni di diritto comparato, in Dir. Proc. Amm., 2014, 74 ss. [19] In dottrina è stato notato come la ricostruzione del concetto di legittimazione a ricorrente pone problemi di tenuta complessiva del sistema, rilevanti soprattutto nell’ottica della dicotomia giurisdizione soggettiva/giurisdizione oggettiva: si veda, in proposito, S. Mirate, La legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo: un’analisi alla luce della dicotomia giurisdizione soggettiva/giurisdizione oggettiva, in Dir. Proc. Amm., 2020, n. 602 ss.
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