I principi dell'Adunanza Plenaria

I principi dell'Adunanza Plenaria

a cura della Redazione


5 settembre 2024
A FRONTE DEL QUESITO SU QUALE SIA LA DISCIPLINA GIURIDICA APPLICABILE ALLE OPERE PARZIALMENTE ESEGUITE IN VIRTU’ DI UN TITOLO EDILIZIO DECADUTO E CHE NON SONO STATE OGGETTO DI COMPLETAMENTO TRAMITE ULTERIORE TITOLO EDILIZIO, L’ADUNANZA PLENARIA HA PRELIMINARMENTE DISTINTO TRA OPERE INCOMPLETE AUTONOME E FUNZIONALI E OPERE INCOMPLETE NON AUTONOME E FUNZIONALI. NEL SECONDO CASO, IL COMUNE DEVE DISPORRE LA DEMOLIZIONE E LA RIDUZIONE IN PRISTINO AI SENSI DELL’ART. 31 DEL D.P.R. N. 380/2001, IN QUANTO ESEGUITE IN TOTALE DIFFORMITA’ RISPETTO AL PERMESSO DI COSTRUIRE. NEL CASO INVECE DI UNA PLURALITA’ DI COSTRUZIONI FUNZIONALMENTE AUTONOME (ES.: VILLETTE), RISPONDENTI IN MODO FRAZIONATO AL PERMESSO DI COSTRUIRE, GLI IMMOBILI EDIFICATI, SUSSISTENDO GLI ALTRI PRESUPPOSTI IN TEMA DI ONERI DI URBANIZZAZIONE, DEVONO INTENDERSI SUPPORTATI DA TIOLO IDONEO, QUALORA NECESSITINO PER IL COMPLETAMENTO SOLO OPERE MINORI NON IMPLICANTI IL RILASCIO DI UN NUOVO PERMESSO DI COSTRUIRE; IN QUESTA IPOTESI, LA PRESENZA DI DIFFORMITA’ NON QUALIFICABILI COME GRAVI ABILITA L’AMMINISTRAZIONE AD ADOTTARE LA SANZIONE PREVISTA DALL’ART. 34 DEL TESTO UNICO IN MATERIA EDILIZIA. ( Adunanza Plenaria n. 14 ). L’art. 31 del testo unico si riferisce agli “ interventi eseguiti in assenza del permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali ” e, al comma 1, dispone che “ Sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche plano-volumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso ” Il permesso di costruire è qualificato, in base all’art. 10 del testo unico, come il provvedimento che legittima le trasformazioni urbanistiche ed edilizie ivi individuate (nuove costruzioni, ristrutturazioni urbanistiche ed edilizie nei limiti indicati nella disposizione). La sottoposizione del potere di edificazione al previo rilascio del permesso di costruire assolve alla funzione di consentire che gli interventi edilizi siano realizzati in conformità con la disciplina pianificatoria, contemperando l’interesse privato allo sfruttamento della proprietà con l’interesse pubblico alla regolare trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio e, quindi, in definitiva, assolve alla funzione di garantire il corretto inserimento del manufatto sul territorio. Il permesso di costruire non abilita, infatti, il titolare a realizzare qualunque manufatto, ma gli consente l’edificazione di quello specifico fabbricato descritto nel progetto (quanto all’area di sedime, al perimetro, alla sagoma, ai volumi, alle altezze, ecc.). Qualunque realizzazione dell’edificio difforme dal progetto, anche se sia ridotta la volumetria o ne siano modificati il perimetro, le sagome e le altezze, comporta una ‘divergenza tra consentito e realizzato’ che in quanto tale – affinché vi sia la ‘regolarità urbanistica’ – o deve essere previamente autorizzata dal Comune o necessita di un atto di ‘accertamento di conformità’, qualora questo sia consentito dall’ordinamento. L’edificazione deve quindi avvenire nel rigoroso rispetto del principio di conformità tra l’opera risultante dal progetto assentito con il permesso di costruire e quella concretamente realizzata. L’art. 31 del testo unico sanziona allo stesso modo le ipotesi di edificazione in assenza del permesso di costruire con le ipotesi dell’edificazione in totale difformità o con variazioni essenziali, provvedendo a disciplinare le singole fattispecie, equiparando la carenza del titolo edificatorio con la totale difformità del bene edificato con quello autorizzato. La ‘totale difformità’ si verifica non solo in caso di ampliamento non autorizzato, ma anche nel caso di mancato completamento della costruzione e vi sia un aliud pro alio . Il permesso di costruire consente di realizzare solo l’opera descritta nel progetto e avente caratteristiche fisiche e funzionali ben determinate: l’abuso per totale difformità sussiste nel caso di realizzazione di “un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche e planivolumetriche”. Ciò è ravvisabile quando il manufatto sia stato parzialmente edificato con il cd. ‘scheletro’ e anche quando sia oggettivamente diverso rispetto a quello progettato, dovendosi un'opera qualificare abusiva per totale difformità ogni qual volta il risultato finale consista in una struttura che non è riferibile a quella assentita. Nei casi di ‘divergenza tra consentito e realizzato’ rientra il “non finito architettonico”, il quale è ravvisabile quando le opere realizzate sono incomplete strutturalmente e funzionalmente, tanto da far individuare un manufatto diverso da quello autorizzato, oppure quando vi è stata la modifica dello stato dei luoghi con la realizzazione di un quid che neppure consenta di ravvisare un ‘volume’. Ne consegue che sussiste il fondamento normativo per disporre la restituzione in pristino - in caso di decadenza del permesso di costruire - qualora siano state eseguite solo opere parziali, non riconducibili al progetto approvato sotto il profilo strutturale e funzionale. Se non sono completate, e neppure possono esserle, in quanto non può essere rilasciato un nuovo permesso di costruire, il mancato completamento – e cioè la cd opera incompiuta – comporta di per sé un degrado ambientale e paesaggistico. In altri termini, rileva un principio di simmetria, per il quale, così come l’Amministrazione non può di certo rilasciare un permesso per realizzare uno ‘scheletro’ o parte di esso (titolo che di certo non è consentito dalla legislazione vigente) o una struttura di per sé non abitabile per assenza di solai o tamponature, scale o tetto o di elementi portanti, corrispondentemente l’Amministrazione deve ordinare la rimozione dello ‘scheletro’, che risulti esistente in conseguenza della decadenza del permesso di costruire. Peraltro, nel caso di opere parzialmente edificate, autonome funzionalmente, che però presentino variazioni rispetto al titolo abilitativo, spetta al Comune stabilire, nell’esercizio del proprio potere di gestione del territorio, se esse risultino realizzate in conformità con il permesso di costruzione, ovvero se ricadano nella fattispecie ex art. 34, ovvero se possano essere sanate in base all’art. 36.
5 settembre 2024
QUALORA LA CORTE COSTITUZIONALE FONDI L’IRRILEVANZA DELLA QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE SU UN PROFILO DI RITO DEL GIUDIZIO PRINCIPALE NON ANCORA DELIBATO, NE’ ESPRESSAMENTE AFFRONTATO DAL GIUDICE RIMETTENTE, OCCORRE VERIFICARE SE CIO’ IMPEDISCA AL GIUDICE A QUO DI SOLLEVARE NUOVAMENTE LA QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE, QUALORA QUESTI, DI FRONTE AD UNA DECISIONE DI INAMMISSIBILITA’, CONTINUI TUTTAVIA A DUBITARE DELL’INCOSTITUZIONALITA’ DELLA LEGGE DI CUI DEVE FARE APPLICAZIONE, ADDUCENDO MOTIVAZIONI ATTE A SUPERARE GLI ARGOMENTI FORNITI DALLA CORTE. TALE EFFETTO PER COSI’ DIRE PRECLUSIVO SI HA SOLTANTO PER LE DECISIONI DI INAMMISSIBILITA’ CHE HANNO NATURA DECISORIA, COME AD ESEMPIO PER QUELLE INCENTRATE SULLA PRECLUSIONE DA GIUDICATO. TALE EFFETTO NON SI HA INVECE QUANDO LA PRONUNCIA DI INAMMISSIBILITA’ SIA FONDATA SU MOTIVI RIMOVIBILI DAL RIMETTENTE, COME AD ESEMPIO IN CASO DI RILEVATA CARENZA DI MOTIVAZIONE SULLA RILEVANZA O SULLA NON MANIFESTA INFONDATEZZA. ( Adunanza Plenaria n. 12 ). Giudizio principale e giudizio di costituzionalità, pur avvinti da un rapporto di pregiudizialità, sono distinti nella funzione e nell’oggetto: nel giudizio a quo si fanno valere posizioni soggettive, la cui tutela è dipesa dalla verifica di costituzionalità della legge da applicare; nel giudizio costituzionale l’interesse perseguito dall’ordinamento è quello di ripristinare la legalità costituzionale. I due giudizi, strutturalmente autonomi, sono coordinati tra di loro attraverso il dispositivo tecnico della «rilevanza», previsto dall’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (esplicitando quanto contenuto nell’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1), secondo cui il giudice ha l’obbligo di sollevare questione di costituzionalità «qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale». Tale requisito esprime il nesso di necessaria strumentalità e diretta incidenza che deve intercorrere tra la questione di legittimità costituzionale e la risoluzione della causa principale. Pur essendo il giudice del giudizio principale ‒ nella sua veste istituzionale di ‘intermediario’ tra legge e Costituzione ‒ a dover valutare la rilevanza della questione in relazione ad una norma e la necessità della applicazione per decidere, spetta alla Corte costituzionale non solo stabilire in cosa consista effettivamente la «rilevanza» ma anche presidiare il rispetto delle condizioni di proponibilità delle questioni incidentali. Proprio in ragione dell’autonomia del giudizio incidentale di costituzionalità rispetto a quello principale, la verifica della Corte su presupposti e condizioni del giudizio a quo (giurisdizione, interesse a ricorrere e altri aspetti comunque concernenti la legittima instaurazione del giudizio) consiste in un sindacato «esterno», esaurendosi nella verifica che gli stessi «non risultino manifestamente e incontrovertibilmente carenti», e fermo restando che la relativa indagine deve arrestarsi laddove il rimettente abbia espressamente motivato sul punto in «maniera non implausibile». Su queste basi, la decisione processuale di inammissibilità, impiegata dalla Corte per rilevare l’assenza delle condizioni previste dalla legge per la legittima instaurazione del giudizio in via incidentale, non spiega una rilevanza ‘diretta’ sul giudizio principale ‒ come invece la pronuncia di accoglimento o di rigetto, vertente «sulla questione di costituzionalità» ‒ e, pertanto, non preclude al giudice rimettente, che non condivida l’assunto della Corte, di decidere comunque nel merito la causa principale. Se però sussiste l’effetto preclusivo ad ottenere la pronuncia sulla incostituzionalità di una norma, perché la Corte costituzionale rileva che una determinata questione decisiva per il Giudice a quo è ormai coperta da giudicato e dunque non può più essere rimessa in discussione, allo stesso Giudice rimettente non rimane altra scelta se non quella di decidere nel merito applicando la norma della cui legittimità costituzionale dubita.
5 settembre 2024
IL RICORSO STRAORDINARIO E’ UN RIMEDIO GIUSTIZIALE ALTERNATIVO A QUELLO GIURISDIZIONALE, DI CUI CONDIVIDE SOLTANTO ALCUNI PROFILI STRUTTURALI E FUNZIONALI. IN PARTICOLARE, E’ CONDIVISIBILE L’ORIENTAMENTO ESPRESSO DA ALCUNE PRONUNCE DELLA CORTE COSTITUZIONALE, SECONDO CUI LE INNOVAZIONI INTERVENUTE CON LEGGE N. 69 DEL 2009, PUR AVENDO DETERMINATO L’AMPLIAMENTO DELLE GARANZIE E DEGLI STRUMENTI DI TUTELA A DISPOSIZIONE DI CHI SI AVVALE DI TALE RIMEDIO, NON HANNO COMPORTATO ALCUNA “GIURISDIZIONALIZZAZIONE” DELL’ISTITUTO. OCCORRE DUNQUE SEGUIRE, PER DIRIMERE IL CONTRASTO PRATICO TRA DUE STATUIZIONI DI SEGNO OPPOSTO SULLA STESSA CONTROVERSIA (UNA RESA CON DECRETO EMESSO A SEGUITO DI RICORSO STRAORDINARIO E UN’ALTRA DERIVANTE DALLA DECISIONE IN SEDE GIURISDIZIONALE A SEGUITO DI TRASPOSIZIONE) L’IMPOSTAZIONE TRADIZIONALE CHE VEDE NEL RICORSO STRAORDINARIO UN RIMEDIO DI NATURA AMMINISTRATIVA, E NON LA TESI CHE INVECE LO CONFIGURA COME RIMEDIO SOSTANZIALMENTE GIURISDIZIONALE; IN QUESTO SECONDO CASO, INVERO, LA PRONUNCIA SUL RICORSO STRAORDINARIO SAREBBE IDONEA A PASSARE IN GIUDICATO IN MODO NON DISSIMILE ALLA SENTENZA ASSUNTA DAL GIUDICE AMMINISTRATIVO, SOGGIACENDO COSI’ AL RELATIVO REGIME PROCESSUALE. SEGUENDO INVECE LA PRIMA IMPOSTAZIONE, DA RITENERSI PIU’ ADERENTE AL DATO LETTERALE DELLE NORME IN MATERIA, LA DECISIONE RESA SU RICORSO STRAORDINARIO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, SEBBENE IL GIUDIZIO FOSSE STATO RITUALMENTE TRASPOSTO IN SEDE GIURISDIZIONALE, E’ DA CONSIDERARSI NULLA AI SENSI DELL’ART. 21-SEPTIES DELLA L. N. 241 DEL 1990, IN QUANTO ATTO AMMINISTRATIVO EMANATO IN DIFETTO ASSOLUTO DI ATTRIBUZIONE. ( Adunanza Plenaria n. 11, come corretta materialmente dal decreto collegiale n. 13 ). L’unica definizione attendibile di attività giurisdizionale non è di tipo ontologico o «a priori», bensì di tipo soggettivo. La giurisdizione è l’attività di accertamento e decisoria che l’ordinamento imputa ai «giudici», come individuati dalle norme costituzionali sulla competenza (art. 101, 102, 103). A questa stregua, gli organi statali qualificabili formalmente come giurisdizionali sono dunque l’autorità giudiziaria ordinaria, istituita e regolata «dalle norme sull’ordinamento giudiziario», le «sezioni specializzate per determinate materie» da istituirsi «presso gli organi giudiziari ordinari» e gli altri organi di giurisdizione contemplati nella Costituzione, tra cui i Tribunali amministrativi regionali ed il Consiglio di Stato. Si tratta di un ‘numero chiuso’, in quanto l’art. 102 vieta di istituire giudici straordinari o giudici speciali, mentre la sesta disposizione transitoria imponeva (e consentiva) la sola revisione degli organi speciali di giurisdizione già esistenti al tempo dell’entrata in vigore della Costituzione. I caratteri che devono accompagnare l’organizzazione della giurisdizione (in termini di indipendenza, imparzialità e terzietà) e la sua azione (il c.d. giusto processo) sono predicati costituzionalmente necessari della qualificazione formale di «giudice». ll regime della decisione resa su ricorso straordinario, per tutto quanto non previsto dal d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, e dalle pertinenti norme del codice del processo amministrativo, è invece dettato dalle disposizioni in materia di procedimento amministrativo, per cui il caso della decisione resa su ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, nonostante il giudizio fosse stato ritualmente trasposto in sede giurisdizionale, va ricondotto alle norme sull’invalidità amministrativa. L’art. 21-septies della legge 7 agosto 1990, n. 241 ‒ secondo cui è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge ‒ ha confermato le precedenti acquisizioni giurisprudenziali circa l’inserimento a pieno titolo della nullità nell’ambito dell’invalidità del provvedimento amministrativo, che diviene così una categoria composita e idonea a ricomprendere i diversi stati vizianti entro una cornice sistematica unitaria. Tra i vizi che determinano la nullità, la norma contempla il difetto assoluto di attribuzione, il quale è il portato del principio di tipicità del potere amministrativo, a sua volta corollario del principio di legalità cui è soggetta l’attività amministrativa di diritto pubblico. Il difetto assoluto di attribuzione è ravvisabile nell’ipotesi in cui venga esercitato un potere non previsto né attribuito dall’ordinamento (c.d. carenza di potere in astratto), nonché come conseguenza del divieto, da parte di un’Amministrazione, di esercitare un potere che, ancorché definito dall’ordinamento, sia attribuito ad una diversa Amministrazione (incompetenza assoluta) ovvero per il quale sussista un impedimento legale assoluto al suo esercizio. La fattispecie della decisione resa su ricorso straordinario, pur in presenza di un rituale atto di trasposizione in sede giurisdizionale, ricade nell’ipotesi del difetto assoluto di attribuzione. Invero, l’intervenuta opposizione e la rituale riassunzione del giudizio in sede giurisdizionale spogliano l’amministrazione del potere di definire la controversia (l’art. 10 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, inibisce qualsiasi pronuncia, nel rito e nel merito, sul ricorso straordinario che sia stato trasposto in sede giurisdizionale), di modo che l’istruzione dell’affare da parte del Ministero competente, il parere del Consiglio di Stato ed il decreto stesso di definizione del ricorso, sono assolutamente preclusi dall’atto con il quale si opera la trasposizione del ricorso dalla sede straordinaria a quella giurisdizionale.
5 settembre 2024
SPETTA AL GIUDICE CIVILE LA GIURISDIZIONE CON RIFERIMENTO ALL’OPPOSIZIONE PROPOSTA DALL’AUSILIARIO DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO RISPETTO ALLA LIQUIDAZIONE DA QUEST’ULTIMO EFFETTUATA, PERCHE’ IL RELATIVO GIUDIZIO – COME NEL CASO DELL’OPPOSIZIONE DEL DIFENSORE DELLA PARTE AMMESSA AL PATROCINIO A SPESE DELLO STATO – HA CARATTERE CIVILISTICO, HA AD OGGETTO DIRITTI SOGGETTIVI DI NATURA PATRIMONIALE E VERTE INTORNO ALLA SPETTANZA, NELL’AN E NEL QUANTUM, DEI COMPENSI AL PROFESSIONISTA PER LE PRESTAZIONI RESE COME AUSILIARIO, SENZA CHE SI POSSA ISTITUIRE NEL RIPARTO DELLA GIURISDIZIONE UNA CONNESSIONE ONTOLOGICA TRA IL CONTENZIOSO VOLTO AL RECUPERO DEL COMPENSO PROFESSIONALE E LA CONTROVERSIA DI BASE. INVERO, LA LIQUIDAZIONE DEI COMPENSI AGLI AUSILIARI DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO NON HA UNA STRUTTURA BIFASICA, DI MODO CHE NON E’ SOSTENIBILE RITENERE CHE LA FASE (EVENTUALE) DI OPPOSIZIONE DEBBA SVOLGERSI SEMPRE DINANZI ALLO STESSO GIUDICE NATURALE DELLA PRIMA FASE, IN QUANTO FUNZIONALMENTE E INTIMAMENTE COLLEGATA ALLA PRIMA. ( Adunanza Plenaria n. 10 del 2024 ). La liquidazione del compenso al verificatore, ai sensi dell’art. 66, comma 4, c.p.a., o al consulente tecnico d’ufficio, ai sensi dell’art. 67, comma 5, c.p.a. (che richiama l’art. 66, comma 4, primo e terzo periodo), deve essere effettuata con separato decreto dal Presidente del Collegio, mentre spetta alla sentenza che definisce il giudizio regolare l’onere economico del mezzo istruttorio, ponendolo a carico secondo l’esito del giudizio, in base alla soccombenza, di una o di alcune o di tutte le parti. La circostanza che la liquidazione del compenso venga decisa in sentenza anziché con decreto non muta né la natura della liquidazione, che non ha il contenuto decisorio proprio della sentenza, né il regime dei rimedi contro essa esperibili. La relativa decisione non costituisce, quindi, un autonomo capo della sentenza di merito (ai sensi dell’art. 329, comma secondo, c.p.c.), ma va considerata come se fosse stata emessa secondo la forma prescritta e, di conseguenza, il mezzo di impugnazione esperibile avverso la stessa resta in ogni caso quello suo proprio. Questo strumento, nell’ordinamento processuale della giustizia amministrativa, non è l’opposizione di terzo di cui all’art. 108 c.p.a., solo perché tale liquidazione è stata erroneamente decisa con sentenza, ma l’opposizione di cui agli artt. 84 e 170 del d.P.R. n. 115 del 2002, applicabile a tutte le giurisdizioni e, in particolare, anche al processo amministrativo. Tale opposizione introduce un nuovo e autonomo giudizio e non è una seconda “fase” accessoria al giudizio in cui è stata effettuata la liquidazione.
5 settembre 2024
I CERTIFICATI RILASCIATI DALLE AUTORITA’ FISCALI COMPETENTI, IN ORDINE ALLA REGOLARITA’ FISCALE O CONTRIBUTIVA DEL CONCORRENTE, HANNO NATURA DI DICHIARAZIONI DI SCIENZA E SI COLLOCANO TRA GLI ATTI DI CERTIFICAZIONE O DI ATTESTAZIONE FACENTI PROVA FINO A QUERELA DI FALSO. ESSI SI IMPONGONO ALLA STAZIONE APPALTANTE, SOTTO IL PROFILO PROBATORIO, E LA ESONERANO DA ULTERIORI ACCERTAMENTI. NON SI CONTRAPPONE A TALE ORIENTAMENTO, LA TESI SECONDO CUI E’ NECESSARIO, SOTTO IL PROFILO DEL REGIME SOSTANZIALE DEI REQUISITI DI AMMISSIONE PREVISTI DALLA LEX SPECIALIS, CHE TALI REQUISITI SIANO POSSEDUTI DAL CONCORRENTE A PARTIRE DAL MOMENTO DELLA PRESENTAZIONE DELL’OFFERTA E SINO ALLA STIPULA DEL CONTRATTO E POI ANCORA FINO ALL’ADEMPIMENTO DELL’OBBLIGAZIONE CONTRATTUALE. AD OGNI MODO, INDIPENDENTEMENTE DALLE VERIFICHE COMPIUTE DALLA STAZIONE APPALTANTE, IL CONCORRENTE CHE IMPUGNA L’AGGIUDICAZIONE PUO’ SEMPRE DIMOSTRARE, CON QUALUNQUE MEZZO IDONEO ALLO SCOPO, O CHE L’AGGIUDICATARIO FOSSE PRIVO FIN DAL PRINCIPIO DEL REQUISITO DELLA REGOLARITA’ FISCALE O CHE ABBIA PERSO TALE ULTIMO REQUISITO IN CORSO DI GARa ( Adunanza Plenaria n. 7 del 2024 ). Il concorrente che partecipa a una procedura a evidenza pubblica deve possedere, continuativamente, i necessari requisiti di ammissione e ha l’onere di dichiarare, sin dalla presentazione dell’offerta, l’eventuale carenza di uno qualunque dei requisiti e di informare, tempestivamente, la stazione appaltante di qualsivoglia sopravvenienza tale da privarlo degli stessi. L’art. 85, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 – norma applicabile alla fattispecie esaminata dall'Adunanza Plenaria ratione temporis - dispone che il concorrente, al momento della presentazione della domanda di partecipazione, autodichiari, attraverso il documento di gara unico europeo (DGUE), l’assenza di cause di esclusione di cui al precedente art. 80. Pur se l’art. 85 non prevede espressamente il dovere di comunicare alla stazione appaltante le eventuali cause di esclusione dalla gara verificatesi in un momento successivo alla presentazione dell’offerta, il relativo onere dichiarativo deve ricollegarsi alla necessità, sancita dall’art. 1, comma 2-bis, della L. 7 agosto 1990, n. 241, che: “ I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione (siano) improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede ”. Tale disposizione, infatti, ha posto un principio generale sull’attività amministrativa e si estende indubbiamente anche allo specifico settore dei contratti pubblici. D’altra parte, dal momento che i requisiti di partecipazione devono sussistere per tutta la durata della gara e sino alla stipula del contratto (e poi ancora fino all’adempimento delle obbligazioni contrattuali), discende, de plano , il dovere della stazione appaltante di compiere i relativi accertamenti con riguardo all’intero periodo. La regola si desume anche dall’art. 80, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016, il quale stabilisce che: “ Le stazioni appaltanti escludono un operatore economico in qualunque momento della procedura, qualora risulti che l'operatore economico si trova, a causa di atti compiuti o omessi prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni di cui ai commi 1,2, 4 e 5 ”. A tal fine, con specifico riguardo al requisito concernente l’assenza di debiti tributari, la certificazione rilasciata dall’amministrazione fiscale competente (Agenzie delle Entrate o eventualmente altra amministrazione titolare di poteri impositivi), ai sensi dell’art. 86, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 50/2016, deve coprire l’intero lasso temporale rilevante, ovvero quello che va dal momento di presentazione dell’offerta sino alla stipula del contratto.

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5 settembre 2024
A FRONTE DEL QUESITO SU QUALE SIA LA DISCIPLINA GIURIDICA APPLICABILE ALLE OPERE PARZIALMENTE ESEGUITE IN VIRTU’ DI UN TITOLO EDILIZIO DECADUTO E CHE NON SONO STATE OGGETTO DI COMPLETAMENTO TRAMITE ULTERIORE TITOLO EDILIZIO, L’ADUNANZA PLENARIA HA PRELIMINARMENTE DISTINTO TRA OPERE INCOMPLETE AUTONOME E FUNZIONALI E OPERE INCOMPLETE NON AUTONOME E FUNZIONALI. NEL SECONDO CASO, IL COMUNE DEVE DISPORRE LA DEMOLIZIONE E LA RIDUZIONE IN PRISTINO AI SENSI DELL’ART. 31 DEL D.P.R. N. 380/2001, IN QUANTO ESEGUITE IN TOTALE DIFFORMITA’ RISPETTO AL PERMESSO DI COSTRUIRE. NEL CASO INVECE DI UNA PLURALITA’ DI COSTRUZIONI FUNZIONALMENTE AUTONOME (ES.: VILLETTE), RISPONDENTI IN MODO FRAZIONATO AL PERMESSO DI COSTRUIRE, GLI IMMOBILI EDIFICATI, SUSSISTENDO GLI ALTRI PRESUPPOSTI IN TEMA DI ONERI DI URBANIZZAZIONE, DEVONO INTENDERSI SUPPORTATI DA TIOLO IDONEO, QUALORA NECESSITINO PER IL COMPLETAMENTO SOLO OPERE MINORI NON IMPLICANTI IL RILASCIO DI UN NUOVO PERMESSO DI COSTRUIRE; IN QUESTA IPOTESI, LA PRESENZA DI DIFFORMITA’ NON QUALIFICABILI COME GRAVI ABILITA L’AMMINISTRAZIONE AD ADOTTARE LA SANZIONE PREVISTA DALL’ART. 34 DEL TESTO UNICO IN MATERIA EDILIZIA. ( Adunanza Plenaria n. 14 ). L’art. 31 del testo unico si riferisce agli “ interventi eseguiti in assenza del permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali ” e, al comma 1, dispone che “ Sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche plano-volumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso ” Il permesso di costruire è qualificato, in base all’art. 10 del testo unico, come il provvedimento che legittima le trasformazioni urbanistiche ed edilizie ivi individuate (nuove costruzioni, ristrutturazioni urbanistiche ed edilizie nei limiti indicati nella disposizione). La sottoposizione del potere di edificazione al previo rilascio del permesso di costruire assolve alla funzione di consentire che gli interventi edilizi siano realizzati in conformità con la disciplina pianificatoria, contemperando l’interesse privato allo sfruttamento della proprietà con l’interesse pubblico alla regolare trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio e, quindi, in definitiva, assolve alla funzione di garantire il corretto inserimento del manufatto sul territorio. Il permesso di costruire non abilita, infatti, il titolare a realizzare qualunque manufatto, ma gli consente l’edificazione di quello specifico fabbricato descritto nel progetto (quanto all’area di sedime, al perimetro, alla sagoma, ai volumi, alle altezze, ecc.). Qualunque realizzazione dell’edificio difforme dal progetto, anche se sia ridotta la volumetria o ne siano modificati il perimetro, le sagome e le altezze, comporta una ‘divergenza tra consentito e realizzato’ che in quanto tale – affinché vi sia la ‘regolarità urbanistica’ – o deve essere previamente autorizzata dal Comune o necessita di un atto di ‘accertamento di conformità’, qualora questo sia consentito dall’ordinamento. L’edificazione deve quindi avvenire nel rigoroso rispetto del principio di conformità tra l’opera risultante dal progetto assentito con il permesso di costruire e quella concretamente realizzata. L’art. 31 del testo unico sanziona allo stesso modo le ipotesi di edificazione in assenza del permesso di costruire con le ipotesi dell’edificazione in totale difformità o con variazioni essenziali, provvedendo a disciplinare le singole fattispecie, equiparando la carenza del titolo edificatorio con la totale difformità del bene edificato con quello autorizzato. La ‘totale difformità’ si verifica non solo in caso di ampliamento non autorizzato, ma anche nel caso di mancato completamento della costruzione e vi sia un aliud pro alio . Il permesso di costruire consente di realizzare solo l’opera descritta nel progetto e avente caratteristiche fisiche e funzionali ben determinate: l’abuso per totale difformità sussiste nel caso di realizzazione di “un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche e planivolumetriche”. Ciò è ravvisabile quando il manufatto sia stato parzialmente edificato con il cd. ‘scheletro’ e anche quando sia oggettivamente diverso rispetto a quello progettato, dovendosi un'opera qualificare abusiva per totale difformità ogni qual volta il risultato finale consista in una struttura che non è riferibile a quella assentita. Nei casi di ‘divergenza tra consentito e realizzato’ rientra il “non finito architettonico”, il quale è ravvisabile quando le opere realizzate sono incomplete strutturalmente e funzionalmente, tanto da far individuare un manufatto diverso da quello autorizzato, oppure quando vi è stata la modifica dello stato dei luoghi con la realizzazione di un quid che neppure consenta di ravvisare un ‘volume’. Ne consegue che sussiste il fondamento normativo per disporre la restituzione in pristino - in caso di decadenza del permesso di costruire - qualora siano state eseguite solo opere parziali, non riconducibili al progetto approvato sotto il profilo strutturale e funzionale. Se non sono completate, e neppure possono esserle, in quanto non può essere rilasciato un nuovo permesso di costruire, il mancato completamento – e cioè la cd opera incompiuta – comporta di per sé un degrado ambientale e paesaggistico. In altri termini, rileva un principio di simmetria, per il quale, così come l’Amministrazione non può di certo rilasciare un permesso per realizzare uno ‘scheletro’ o parte di esso (titolo che di certo non è consentito dalla legislazione vigente) o una struttura di per sé non abitabile per assenza di solai o tamponature, scale o tetto o di elementi portanti, corrispondentemente l’Amministrazione deve ordinare la rimozione dello ‘scheletro’, che risulti esistente in conseguenza della decadenza del permesso di costruire. Peraltro, nel caso di opere parzialmente edificate, autonome funzionalmente, che però presentino variazioni rispetto al titolo abilitativo, spetta al Comune stabilire, nell’esercizio del proprio potere di gestione del territorio, se esse risultino realizzate in conformità con il permesso di costruzione, ovvero se ricadano nella fattispecie ex art. 34, ovvero se possano essere sanate in base all’art. 36.
5 settembre 2024
QUALORA LA CORTE COSTITUZIONALE FONDI L’IRRILEVANZA DELLA QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE SU UN PROFILO DI RITO DEL GIUDIZIO PRINCIPALE NON ANCORA DELIBATO, NE’ ESPRESSAMENTE AFFRONTATO DAL GIUDICE RIMETTENTE, OCCORRE VERIFICARE SE CIO’ IMPEDISCA AL GIUDICE A QUO DI SOLLEVARE NUOVAMENTE LA QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE, QUALORA QUESTI, DI FRONTE AD UNA DECISIONE DI INAMMISSIBILITA’, CONTINUI TUTTAVIA A DUBITARE DELL’INCOSTITUZIONALITA’ DELLA LEGGE DI CUI DEVE FARE APPLICAZIONE, ADDUCENDO MOTIVAZIONI ATTE A SUPERARE GLI ARGOMENTI FORNITI DALLA CORTE. TALE EFFETTO PER COSI’ DIRE PRECLUSIVO SI HA SOLTANTO PER LE DECISIONI DI INAMMISSIBILITA’ CHE HANNO NATURA DECISORIA, COME AD ESEMPIO PER QUELLE INCENTRATE SULLA PRECLUSIONE DA GIUDICATO. TALE EFFETTO NON SI HA INVECE QUANDO LA PRONUNCIA DI INAMMISSIBILITA’ SIA FONDATA SU MOTIVI RIMOVIBILI DAL RIMETTENTE, COME AD ESEMPIO IN CASO DI RILEVATA CARENZA DI MOTIVAZIONE SULLA RILEVANZA O SULLA NON MANIFESTA INFONDATEZZA. ( Adunanza Plenaria n. 12 ). Giudizio principale e giudizio di costituzionalità, pur avvinti da un rapporto di pregiudizialità, sono distinti nella funzione e nell’oggetto: nel giudizio a quo si fanno valere posizioni soggettive, la cui tutela è dipesa dalla verifica di costituzionalità della legge da applicare; nel giudizio costituzionale l’interesse perseguito dall’ordinamento è quello di ripristinare la legalità costituzionale. I due giudizi, strutturalmente autonomi, sono coordinati tra di loro attraverso il dispositivo tecnico della «rilevanza», previsto dall’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (esplicitando quanto contenuto nell’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1), secondo cui il giudice ha l’obbligo di sollevare questione di costituzionalità «qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale». Tale requisito esprime il nesso di necessaria strumentalità e diretta incidenza che deve intercorrere tra la questione di legittimità costituzionale e la risoluzione della causa principale. Pur essendo il giudice del giudizio principale ‒ nella sua veste istituzionale di ‘intermediario’ tra legge e Costituzione ‒ a dover valutare la rilevanza della questione in relazione ad una norma e la necessità della applicazione per decidere, spetta alla Corte costituzionale non solo stabilire in cosa consista effettivamente la «rilevanza» ma anche presidiare il rispetto delle condizioni di proponibilità delle questioni incidentali. Proprio in ragione dell’autonomia del giudizio incidentale di costituzionalità rispetto a quello principale, la verifica della Corte su presupposti e condizioni del giudizio a quo (giurisdizione, interesse a ricorrere e altri aspetti comunque concernenti la legittima instaurazione del giudizio) consiste in un sindacato «esterno», esaurendosi nella verifica che gli stessi «non risultino manifestamente e incontrovertibilmente carenti», e fermo restando che la relativa indagine deve arrestarsi laddove il rimettente abbia espressamente motivato sul punto in «maniera non implausibile». Su queste basi, la decisione processuale di inammissibilità, impiegata dalla Corte per rilevare l’assenza delle condizioni previste dalla legge per la legittima instaurazione del giudizio in via incidentale, non spiega una rilevanza ‘diretta’ sul giudizio principale ‒ come invece la pronuncia di accoglimento o di rigetto, vertente «sulla questione di costituzionalità» ‒ e, pertanto, non preclude al giudice rimettente, che non condivida l’assunto della Corte, di decidere comunque nel merito la causa principale. Se però sussiste l’effetto preclusivo ad ottenere la pronuncia sulla incostituzionalità di una norma, perché la Corte costituzionale rileva che una determinata questione decisiva per il Giudice a quo è ormai coperta da giudicato e dunque non può più essere rimessa in discussione, allo stesso Giudice rimettente non rimane altra scelta se non quella di decidere nel merito applicando la norma della cui legittimità costituzionale dubita.
5 settembre 2024
IL RICORSO STRAORDINARIO E’ UN RIMEDIO GIUSTIZIALE ALTERNATIVO A QUELLO GIURISDIZIONALE, DI CUI CONDIVIDE SOLTANTO ALCUNI PROFILI STRUTTURALI E FUNZIONALI. IN PARTICOLARE, E’ CONDIVISIBILE L’ORIENTAMENTO ESPRESSO DA ALCUNE PRONUNCE DELLA CORTE COSTITUZIONALE, SECONDO CUI LE INNOVAZIONI INTERVENUTE CON LEGGE N. 69 DEL 2009, PUR AVENDO DETERMINATO L’AMPLIAMENTO DELLE GARANZIE E DEGLI STRUMENTI DI TUTELA A DISPOSIZIONE DI CHI SI AVVALE DI TALE RIMEDIO, NON HANNO COMPORTATO ALCUNA “GIURISDIZIONALIZZAZIONE” DELL’ISTITUTO. OCCORRE DUNQUE SEGUIRE, PER DIRIMERE IL CONTRASTO PRATICO TRA DUE STATUIZIONI DI SEGNO OPPOSTO SULLA STESSA CONTROVERSIA (UNA RESA CON DECRETO EMESSO A SEGUITO DI RICORSO STRAORDINARIO E UN’ALTRA DERIVANTE DALLA DECISIONE IN SEDE GIURISDIZIONALE A SEGUITO DI TRASPOSIZIONE) L’IMPOSTAZIONE TRADIZIONALE CHE VEDE NEL RICORSO STRAORDINARIO UN RIMEDIO DI NATURA AMMINISTRATIVA, E NON LA TESI CHE INVECE LO CONFIGURA COME RIMEDIO SOSTANZIALMENTE GIURISDIZIONALE; IN QUESTO SECONDO CASO, INVERO, LA PRONUNCIA SUL RICORSO STRAORDINARIO SAREBBE IDONEA A PASSARE IN GIUDICATO IN MODO NON DISSIMILE ALLA SENTENZA ASSUNTA DAL GIUDICE AMMINISTRATIVO, SOGGIACENDO COSI’ AL RELATIVO REGIME PROCESSUALE. SEGUENDO INVECE LA PRIMA IMPOSTAZIONE, DA RITENERSI PIU’ ADERENTE AL DATO LETTERALE DELLE NORME IN MATERIA, LA DECISIONE RESA SU RICORSO STRAORDINARIO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, SEBBENE IL GIUDIZIO FOSSE STATO RITUALMENTE TRASPOSTO IN SEDE GIURISDIZIONALE, E’ DA CONSIDERARSI NULLA AI SENSI DELL’ART. 21-SEPTIES DELLA L. N. 241 DEL 1990, IN QUANTO ATTO AMMINISTRATIVO EMANATO IN DIFETTO ASSOLUTO DI ATTRIBUZIONE. ( Adunanza Plenaria n. 11, come corretta materialmente dal decreto collegiale n. 13 ). L’unica definizione attendibile di attività giurisdizionale non è di tipo ontologico o «a priori», bensì di tipo soggettivo. La giurisdizione è l’attività di accertamento e decisoria che l’ordinamento imputa ai «giudici», come individuati dalle norme costituzionali sulla competenza (art. 101, 102, 103). A questa stregua, gli organi statali qualificabili formalmente come giurisdizionali sono dunque l’autorità giudiziaria ordinaria, istituita e regolata «dalle norme sull’ordinamento giudiziario», le «sezioni specializzate per determinate materie» da istituirsi «presso gli organi giudiziari ordinari» e gli altri organi di giurisdizione contemplati nella Costituzione, tra cui i Tribunali amministrativi regionali ed il Consiglio di Stato. Si tratta di un ‘numero chiuso’, in quanto l’art. 102 vieta di istituire giudici straordinari o giudici speciali, mentre la sesta disposizione transitoria imponeva (e consentiva) la sola revisione degli organi speciali di giurisdizione già esistenti al tempo dell’entrata in vigore della Costituzione. I caratteri che devono accompagnare l’organizzazione della giurisdizione (in termini di indipendenza, imparzialità e terzietà) e la sua azione (il c.d. giusto processo) sono predicati costituzionalmente necessari della qualificazione formale di «giudice». ll regime della decisione resa su ricorso straordinario, per tutto quanto non previsto dal d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, e dalle pertinenti norme del codice del processo amministrativo, è invece dettato dalle disposizioni in materia di procedimento amministrativo, per cui il caso della decisione resa su ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, nonostante il giudizio fosse stato ritualmente trasposto in sede giurisdizionale, va ricondotto alle norme sull’invalidità amministrativa. L’art. 21-septies della legge 7 agosto 1990, n. 241 ‒ secondo cui è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge ‒ ha confermato le precedenti acquisizioni giurisprudenziali circa l’inserimento a pieno titolo della nullità nell’ambito dell’invalidità del provvedimento amministrativo, che diviene così una categoria composita e idonea a ricomprendere i diversi stati vizianti entro una cornice sistematica unitaria. Tra i vizi che determinano la nullità, la norma contempla il difetto assoluto di attribuzione, il quale è il portato del principio di tipicità del potere amministrativo, a sua volta corollario del principio di legalità cui è soggetta l’attività amministrativa di diritto pubblico. Il difetto assoluto di attribuzione è ravvisabile nell’ipotesi in cui venga esercitato un potere non previsto né attribuito dall’ordinamento (c.d. carenza di potere in astratto), nonché come conseguenza del divieto, da parte di un’Amministrazione, di esercitare un potere che, ancorché definito dall’ordinamento, sia attribuito ad una diversa Amministrazione (incompetenza assoluta) ovvero per il quale sussista un impedimento legale assoluto al suo esercizio. La fattispecie della decisione resa su ricorso straordinario, pur in presenza di un rituale atto di trasposizione in sede giurisdizionale, ricade nell’ipotesi del difetto assoluto di attribuzione. Invero, l’intervenuta opposizione e la rituale riassunzione del giudizio in sede giurisdizionale spogliano l’amministrazione del potere di definire la controversia (l’art. 10 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, inibisce qualsiasi pronuncia, nel rito e nel merito, sul ricorso straordinario che sia stato trasposto in sede giurisdizionale), di modo che l’istruzione dell’affare da parte del Ministero competente, il parere del Consiglio di Stato ed il decreto stesso di definizione del ricorso, sono assolutamente preclusi dall’atto con il quale si opera la trasposizione del ricorso dalla sede straordinaria a quella giurisdizionale.
5 settembre 2024
SPETTA AL GIUDICE CIVILE LA GIURISDIZIONE CON RIFERIMENTO ALL’OPPOSIZIONE PROPOSTA DALL’AUSILIARIO DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO RISPETTO ALLA LIQUIDAZIONE DA QUEST’ULTIMO EFFETTUATA, PERCHE’ IL RELATIVO GIUDIZIO – COME NEL CASO DELL’OPPOSIZIONE DEL DIFENSORE DELLA PARTE AMMESSA AL PATROCINIO A SPESE DELLO STATO – HA CARATTERE CIVILISTICO, HA AD OGGETTO DIRITTI SOGGETTIVI DI NATURA PATRIMONIALE E VERTE INTORNO ALLA SPETTANZA, NELL’AN E NEL QUANTUM, DEI COMPENSI AL PROFESSIONISTA PER LE PRESTAZIONI RESE COME AUSILIARIO, SENZA CHE SI POSSA ISTITUIRE NEL RIPARTO DELLA GIURISDIZIONE UNA CONNESSIONE ONTOLOGICA TRA IL CONTENZIOSO VOLTO AL RECUPERO DEL COMPENSO PROFESSIONALE E LA CONTROVERSIA DI BASE. INVERO, LA LIQUIDAZIONE DEI COMPENSI AGLI AUSILIARI DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO NON HA UNA STRUTTURA BIFASICA, DI MODO CHE NON E’ SOSTENIBILE RITENERE CHE LA FASE (EVENTUALE) DI OPPOSIZIONE DEBBA SVOLGERSI SEMPRE DINANZI ALLO STESSO GIUDICE NATURALE DELLA PRIMA FASE, IN QUANTO FUNZIONALMENTE E INTIMAMENTE COLLEGATA ALLA PRIMA. ( Adunanza Plenaria n. 10 del 2024 ). La liquidazione del compenso al verificatore, ai sensi dell’art. 66, comma 4, c.p.a., o al consulente tecnico d’ufficio, ai sensi dell’art. 67, comma 5, c.p.a. (che richiama l’art. 66, comma 4, primo e terzo periodo), deve essere effettuata con separato decreto dal Presidente del Collegio, mentre spetta alla sentenza che definisce il giudizio regolare l’onere economico del mezzo istruttorio, ponendolo a carico secondo l’esito del giudizio, in base alla soccombenza, di una o di alcune o di tutte le parti. La circostanza che la liquidazione del compenso venga decisa in sentenza anziché con decreto non muta né la natura della liquidazione, che non ha il contenuto decisorio proprio della sentenza, né il regime dei rimedi contro essa esperibili. La relativa decisione non costituisce, quindi, un autonomo capo della sentenza di merito (ai sensi dell’art. 329, comma secondo, c.p.c.), ma va considerata come se fosse stata emessa secondo la forma prescritta e, di conseguenza, il mezzo di impugnazione esperibile avverso la stessa resta in ogni caso quello suo proprio. Questo strumento, nell’ordinamento processuale della giustizia amministrativa, non è l’opposizione di terzo di cui all’art. 108 c.p.a., solo perché tale liquidazione è stata erroneamente decisa con sentenza, ma l’opposizione di cui agli artt. 84 e 170 del d.P.R. n. 115 del 2002, applicabile a tutte le giurisdizioni e, in particolare, anche al processo amministrativo. Tale opposizione introduce un nuovo e autonomo giudizio e non è una seconda “fase” accessoria al giudizio in cui è stata effettuata la liquidazione.
5 settembre 2024
I CERTIFICATI RILASCIATI DALLE AUTORITA’ FISCALI COMPETENTI, IN ORDINE ALLA REGOLARITA’ FISCALE O CONTRIBUTIVA DEL CONCORRENTE, HANNO NATURA DI DICHIARAZIONI DI SCIENZA E SI COLLOCANO TRA GLI ATTI DI CERTIFICAZIONE O DI ATTESTAZIONE FACENTI PROVA FINO A QUERELA DI FALSO. ESSI SI IMPONGONO ALLA STAZIONE APPALTANTE, SOTTO IL PROFILO PROBATORIO, E LA ESONERANO DA ULTERIORI ACCERTAMENTI. NON SI CONTRAPPONE A TALE ORIENTAMENTO, LA TESI SECONDO CUI E’ NECESSARIO, SOTTO IL PROFILO DEL REGIME SOSTANZIALE DEI REQUISITI DI AMMISSIONE PREVISTI DALLA LEX SPECIALIS, CHE TALI REQUISITI SIANO POSSEDUTI DAL CONCORRENTE A PARTIRE DAL MOMENTO DELLA PRESENTAZIONE DELL’OFFERTA E SINO ALLA STIPULA DEL CONTRATTO E POI ANCORA FINO ALL’ADEMPIMENTO DELL’OBBLIGAZIONE CONTRATTUALE. AD OGNI MODO, INDIPENDENTEMENTE DALLE VERIFICHE COMPIUTE DALLA STAZIONE APPALTANTE, IL CONCORRENTE CHE IMPUGNA L’AGGIUDICAZIONE PUO’ SEMPRE DIMOSTRARE, CON QUALUNQUE MEZZO IDONEO ALLO SCOPO, O CHE L’AGGIUDICATARIO FOSSE PRIVO FIN DAL PRINCIPIO DEL REQUISITO DELLA REGOLARITA’ FISCALE O CHE ABBIA PERSO TALE ULTIMO REQUISITO IN CORSO DI GARa ( Adunanza Plenaria n. 7 del 2024 ). Il concorrente che partecipa a una procedura a evidenza pubblica deve possedere, continuativamente, i necessari requisiti di ammissione e ha l’onere di dichiarare, sin dalla presentazione dell’offerta, l’eventuale carenza di uno qualunque dei requisiti e di informare, tempestivamente, la stazione appaltante di qualsivoglia sopravvenienza tale da privarlo degli stessi. L’art. 85, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 – norma applicabile alla fattispecie esaminata dall'Adunanza Plenaria ratione temporis - dispone che il concorrente, al momento della presentazione della domanda di partecipazione, autodichiari, attraverso il documento di gara unico europeo (DGUE), l’assenza di cause di esclusione di cui al precedente art. 80. Pur se l’art. 85 non prevede espressamente il dovere di comunicare alla stazione appaltante le eventuali cause di esclusione dalla gara verificatesi in un momento successivo alla presentazione dell’offerta, il relativo onere dichiarativo deve ricollegarsi alla necessità, sancita dall’art. 1, comma 2-bis, della L. 7 agosto 1990, n. 241, che: “ I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione (siano) improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede ”. Tale disposizione, infatti, ha posto un principio generale sull’attività amministrativa e si estende indubbiamente anche allo specifico settore dei contratti pubblici. D’altra parte, dal momento che i requisiti di partecipazione devono sussistere per tutta la durata della gara e sino alla stipula del contratto (e poi ancora fino all’adempimento delle obbligazioni contrattuali), discende, de plano , il dovere della stazione appaltante di compiere i relativi accertamenti con riguardo all’intero periodo. La regola si desume anche dall’art. 80, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016, il quale stabilisce che: “ Le stazioni appaltanti escludono un operatore economico in qualunque momento della procedura, qualora risulti che l'operatore economico si trova, a causa di atti compiuti o omessi prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni di cui ai commi 1,2, 4 e 5 ”. A tal fine, con specifico riguardo al requisito concernente l’assenza di debiti tributari, la certificazione rilasciata dall’amministrazione fiscale competente (Agenzie delle Entrate o eventualmente altra amministrazione titolare di poteri impositivi), ai sensi dell’art. 86, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 50/2016, deve coprire l’intero lasso temporale rilevante, ovvero quello che va dal momento di presentazione dell’offerta sino alla stipula del contratto.
5 settembre 2024
LA SOSPENSIONE IMPROPRIA DEL PROCESSO SI DISTINGUE IN: - SOSPENSIONE IMPROPRIA IN SENSO STRETTO, OVVERO DISPOSTA NEL GIUDIZIO IN CUI VIENE SOLLEVATA QUESTIONE DI COSTITUZIONALITA’ O QUESTIONE PREGIUDIZIALE EUROUNITARIA; - SOSPENSIONE IMPROPRIA IN SENSO LATO, OVVERO DISPOSTA, IN UN DATO GIUDIZIO, NELLE MORE DELLA SOLUZIONE, IN UN DIVERSO GIUDIZIO, DI UN INCIDENTE DI COSTITUZIONALITA’, O DI UNA PREGIUDIZIALE EUROUNITARIA, O DI UNA RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA DEL CONSIGLIO DI STATO; TALE TIPO DI SOSPENSIONE COSTITUISCE ANCH’ESSA UNA SOSPENSIONE NECESSARIA AI SENSI DELL’ART. 295 C.P.C., PER LA DEFINIZIONE DI UNA QUESTIONE AVENTE CARATTERE PREGIUDIZIALE, AVUTO RIGUARDO ALLA PORTATA “NORMATIVA” DELLE DECISIONI DI CORTE COSTITUZIONALE E CORTE DI GIUSTIZIA, E AL VALORE DI PRECEDENTE PARZIALMENTE VINCOLANTE DELLE PRONUNCE DELL’ADUNANZA PLENARIA. QUANTO ALLA SOSPENSIONE IMPROPRIA IN SENSO LATO, LA STESSA VA ADOTTATA PREVIO CONTRADDITTORIO AI SENSI DELL’ART. 73 COMMA 3 C.P.A. E PUO’ ESSERE ANCHE CONSEGUITA A SEGUITO DI ACCORDO DELLE PARTI EX ART. 296 C.P.C.; IN TALE ULTIMO CASO, INOLTRE, E’ POSSIBILE DISPORRE LA SOSPENSIONE ANCHE ALLORCHE’ LA QUESTIONE RILEVANTE NEL GIUDIZIO DE QUO SIA ANALOGA, MA NON IDENTICA, A QUELLA GIA’ PENDENTE DAVANTI LA CORTE COSTITUZIONALE, LA CGUE E LA PLENARIA, NEL RISPETTO DEI RELATIVI PRESUPPOSTI NORMATIVI, E TENENDO CONTO CHE IL TERMINE MASSIMO DI DURATA DELLA SOSPENSIONE EX ART. 296 C.P.C. NON DEVE CONSIDERARSI PERENTORIO E VA MODULATO CASO PER CASO SULLA SCORTA DI UNA VALUTAZIONE PROGNOSTICA CIRCA IL TEMPO NECESSARIO PER LA DEFINIZIONE DELLA QUESTIONE PREGIUDIZIALE PENDENTE IN UN DIVERSO GIUDIZIO. L’UTILITA’ PRATICA DELLA SOSPENSIONE IMPROPRIA IN SENSO LATO QUALE ALTERNATIVA ALLA SOSPENSIONE IMPROPRIA IN SENSO STRETTO O A UNA ULTERIORE ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA SI BASA SUI PRINCIPI DI ECONOMIA PROCESSUALE E DELLA RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO. LE ESIGENZE SOTTESE A TALI PRONCIPI POSSONO ESSERE SODDISFATTE ANCHE A MEZZO DEL RINVIO DEL’UDIENZA A DATA FISSA O DELLA CANCELLAZIONE DELLA CAUSA DAL RUOLO, NEL RIGOROSO RISPETTO DEI RELATIVI PRESUPPOSTI NORMATIVI. QUALORA CON LA SOSPENSIONE NON SIA STATA FISSATA LA DATA DELLA NUOVA UDIENZA – COME AVVIENE NORMALMENTE PER QUELLA EX ART. 295 C.P.C. – LE PARTI HANNO L’ONERE DI PRESENTARE ISTANZA DI FISSAZIONE DI UDIENZA AL FINE DELLA PROSECUZIONE DEL PROCESSO AI SENSI DELL’ART. 80, COMMA 1, C.P.A. – CON TERMINE, QUELLO DI NOVANTA GIORNI DALLA COMUNICAZIONE DELL’ATTO CHE FA VENIR MENO LA CAUSA DI SOSPENSIONE, DA CONSIDERARSI DI NATURA PERENTORIA, ANCHE OVE SI TRADUCA, NELL’INERZIA DELLE PARTI, IN UN OSTACOLO DI FATTO ALL’APPLICAZIONE DEL DIRITTO EUROUNITARIO -, MENTRE NEL CASO DELLA CANCELLAZIONE DELLA CAUSA DAL RUOLO IL PROCESSO PROSEGUE SE LA PARTE PRESENTA ISTANZA DI FISSAZIONE DI UDIENZA ENTRO IL TERMINE DI PERENZIONE ORDINARIA. ( Adunanza Plenaria n. 4 del 2024 ). L’art. 79, comma 1, c.p.a., dispone che “la sospensione del processo è disciplinata dal codice di procedura civile, dalle altre leggi e dal diritto dell’Unione europea”, limitandosi, laddove non vi sia incidente di falso, ad operare un triplice rinvio, di tipo mobile, al c.p.c., alle altre leggi, e al diritto eurounitario. Sono così recepiti i seguenti casi di sospensione del processo contemplati dal c.p.c.: - la sospensione necessaria di cui all’art. 295 c.p.c., in ragione della necessità della previa risoluzione di una “controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa”; - la sospensione facoltativa di cui all’art. 296 c.p.c., “su istanza di tutte le parti, ove sussistano giustificati motivi (…) per un periodo non superiore a tre mesi” e con fissazione dell’ “udienza per la prosecuzione del processo”; - la sospensione facoltativa di cui all’art. 337, secondo comma, c.p.c., quando in un processo è invocata l’autorità di una sentenza che è oggetto di impugnazione; - la sospensione discrezionale di cui all’art. 367, primo comma, c.p.c., in pendenza del regolamento preventivo di giurisdizione; - la sospensione necessaria in pendenza di un regolamento di competenza ai sensi dell’art. 48 c.p.c. Quanto ai casi di sospensione previsti “dalle altre leggi”, un rilievo specifico ha l’art. 23 della legge 11.3.1953 n. 87, sulla rimessione alla Corte costituzionale, da parte di un giudice, di una questione di legittimità costituzionale, con contestuale sospensione del giudizio a quo. Quanto al richiamo del diritto eurounitario operato dall’art. 79, comma 1, c.p.a., il par. 25 delle Raccomandazioni della Corte di giustizia dell’Unione europea ai giudici nazionali (2019/C 380/01), in connessione con il rinvio pregiudiziale alla CGUE previsto dall’art. 267 TFUE, dispone che il giudizio a quo venga sospeso. I casi di sospensione del processo sono tassativi, poiché la sospensione determina una potenziale lesione del principio di ordine costituzionale della ragionevole durata del processo, oggi sancito per il processo amministrativo dall’art. 2, comma 2, c.p.a. La sospensione del giudizio può dirsi necessaria, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., soltanto quando la previa definizione di “un’altra” controversia civile, penale o amministrativa pendente davanti ad altro giudice, sia imposta da un’espressa disposizione di legge ovvero quando, per il suo carattere pregiudiziale, costituisca l'indispensabile antecedente logico - giuridico dal quale dipenda la decisione della causa pregiudicata ed il cui accertamento sia richiesto con efficacia di giudicato; la “pregiudizialità” può concernere, d’altra parte, oltre che “cause”, anche “questioni”, ove si consideri l’ampia formulazione letterale dell’art. 295 c.p.c. che fa riferimento a “una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”. L’espressione “controversia” può ritenersi riferita non solo ad una causa autonoma pregiudiziale, ma anche a una questione pregiudiziale sorta nella causa de quo. È quanto accade nel caso di rimessione, in un dato giudizio, di una questione alla Corte costituzionale, alla CGUE, questione che, in quel giudizio, ha appunto portata “pregiudiziale”, vale a dire nel caso della sospensione impropria “in senso stretto”. E’ dunque da ritenersi che la c.d. sospensione impropria “in senso stretto” disposta nel giudizio de quo in cui viene sollevata questione di legittimità costituzionale o questione pregiudiziale eurounitaria (e prevista da fonti normative puntuali, sopra enunciate), sia da qualificare come una species della sospensione necessaria di cui all’art. 295 c.p.c. Stesso discorso vale per la sospensione impropria in senso lato, la quale, per come si atteggia nella prassi applicativa, non può essere considerata una sospensione facoltativa praeter o contra legem , frutto di giurisprudenza creativa, ma deve essere qualificata come una species della c.d. sospensione impropria “in senso stretto” normata espressamente dall’art. 23, l. 11.3.1953 n. 87, e dal par. 25 delle Raccomandazioni della Corte di giustizia dell’Unione europea ai giudici nazionali (2019/C 380/01). Sicché va anche essa ricondotta all’art. 295 c.p.c., al pari della sospensione impropria “in senso stretto”, fintanto che venga disposta per la rilevanza, nel giudizio de quo, della medesima questione già pendente davanti la Corte costituzionale o la CGUE. Posto che una volta che il processo sia stato sospeso ai sensi dell’art. 295 c.p.c. è necessario formulare istanza di prosecuzione del processo, il termine entro cui presentare tale istanza è sempre da considerarsi perentorio – sulla base della formulazione letterale della norma e in base al canone dell’interpretazione sistematica – e questo anche ove si traduca, nell’inerzia delle parti, in un ostacolo di fatto all’applicazione del diritto eurounitario, dal momento che il diritto eurounitario riconosce l’autonomia processuale degli Stati membri a condizione del rispetto dei principi di equivalenza ed effettività, e non impedisce la previsione di termini processuali perentori, purché proporzionati e non discriminatori. D’altra parte, alla luce della giurisprudenza eurounitaria, il termine di cui all’art. 80, comma 1, c.p.a. è da considerarsi proporzionato e non discriminatorio, né la complessiva disciplina contenuta nell’art. 80 c.p.a. può essere definita come ambigua.
5 settembre 2024
L’ART. 33, COMMA 2, DEL D.P.R. n. 380/2001 SANCISCE – NEI CASI IVI PREVISTI – L’IRROGAZIONE DI UNA “ SANZIONE PECUNIARIA PARI AL DOPPIO DELL’AUMENTO DEL VALORE DELL’IMMOBILE, CONSEGUENTE ALLA REALIZZAZIONE DELLE OPERE, DETERMINATO, CON RIFERIMENTO ALLA DATA DI ULTIMAZIONE DEI LAVORI, IN BASE AI CRITERI PREVISTI DALLA LEGGE 27 LUGLIO 1978, N. 392, E CON RIFERIMENTO ALL’ULTIMO COSTO DI PRODUZIONE DETERMINATO CON DECRETO MINISTERIALE, AGGIORNATO ALLA DATA DI ESECUZIONE DELL’ABUSO, SULLA BASE DELL’INDICE ISTAT DEL COSTO DI COSTRUZIONE ”. LA CORRETTA INTERPRETAZIONE DI TALE NORMA E’ NEL SENSO CHE VA INDICIZZATO NON L’IMPORTO INDICATO NEL DECRETO MINISTERIALE, MA QUELLO AGGIORNATO ALLA DATA DI ESECUZIONE DELL’ABUSO. QUESTA SOLUZIONE, DA UN LATO, CONSENTE DI SPECIFICARE QUALE DEVE ESSERE IL DECRETO MINISTERIALE DA UTILIZZARE, DALL’ALTRO SPIEGA PERCHE’ NELLA FRASE UTILIZZATA DALLA NORMA VI SIA UNA VIRGOLA DOPO IL TERMINE “ABUSO”. POSTO POI CHE, QUANTO ALLA LOCUZIONE “DATA DI ESECUZIONE DELL’ABUSO”, RILEVA IL SUO DATO TESTUALE, NE DERIVA CHE, AI FINI DELLA DETERMINAZIONE DELLA SANZIONE PECUNIARIA DA APPLICARE EX ART. 33, COMMA 2, DEL D.P.R. N. 380 DEL 2001, DEVE PROCEDERSI ALLA DETERMINAZIONE DELLA SUPERFICIE CONVENZIONALE AI SENSI DELL’ART. 13 DELLA LEGGE N. 392/1978 ED ALLA DETERMINAZIONE DEL COSTO UNITARIO DI PRODUZIONE, SULLA BASE DEL DECRETO MINISTERIALE AGGIORNATO ALLA DATA DI ESECUZIONE DELL’ABUSO. SUCCESSIVAMENTE, IL COSTO COMPLESSIVO DI PRODUZIONE, DATO DALLA MOLTIPLICAZIONE DELLA SUPERFICIE CONVENZIONALE CON IL COSTO UNITARIO DI PRODUZIONE, DEVE ESSERE ATTUALIZZATO SECONDO L’INDICE ISTAT DEL COSTO DI COSTRUZIONE. ( Adunanze Plenarie n. 1, 2 e 3 del 2024 ). Il comma 2 dell’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001 può essere interpretato in due modi. In particolare, l’ultimo costo di produzione, per una prima interpretazione, va determinato secondo quanto stabilito dal decreto ministeriale e poi il relativo importo va aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso sulla base dell'indice ISTAT del costo di costruzione; per una alternativa interpretazione, va determinato con riferimento all’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso, e l’importo così ottenuto va incrementato sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione. Questa seconda lettura – che valorizza la virgola che segue la parola “abuso” – rileva che il termine ‘aggiornato’ fa riferimento all'ultimo costo di produzione determinato con il decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso, ossia al decreto ministeriale emesso in prossimità all’esecuzione dell’abuso. Resta inoltre da capire cosa si intenda per “data di esecuzione dell’abuso”, e se tale data coincida con il momento in cui sono ultimati i lavori edilizi abusivi, con il momento in cui l’abuso è accertato da parte dell’amministrazione, con il momento in cui l’abuso è autodichiarato da parte dell’interessato o addirittura con il momento in cui è irrogata la sanzione pecuniaria. Secondo l’Adunanza Plenaria, tale data coincide con il momento di realizzazione delle opere abusive, in quanto, nel contemperare gli interessi in conflitto, il legislatore ha disposto che la sanzione pecuniaria in concreto erogata tenga conto dell’unico valore significativo per la definizione del caso concreto, e non di quello inferiore e risalente al passato, non più ancorato all’effettivo valore del bene.
7 gennaio 2024
Sotto il profilo amministrativo, a seguito della commissione di un illecito edilizio, il Comune è titolare dei poteri previsti dagli articoli 27 (demolizione di ufficio delle opere abusive) e 31 (ordine di demolizione) del d.P.R. n. 380 del 2001. Se il responsabile non ottempera all’ordine di demolizione entro il termine perentorio di 90 giorni, si verificano le conseguenze previste dai commi 2, 3 e 4 del testo originario dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 ed aventi per oggetto le opere abusive, nonché quelle previste dai commi 4-bis, 4-ter e 4-quater, introdotti nell’articolo 31 con la legge n. 164 del 2014, relative all’irrogazione delle sanzioni pecuniarie. Il responsabile dell’illecito, il proprietario ed i suoi aventi causa hanno sempre il dovere di rimuoverne le conseguenze. Gli stessi, in particolare, fino a quando scade il termine fissato nell’ordinanza di demolizione, hanno il dovere di effettuare la demolizione, che, se viene posta in essere, evita il trasferimento della proprietà al patrimonio pubblico. Quando poi il termine per demolire è scaduto infruttuosamente, e tranne il caso in cui sia stata formulata l’istanza prevista dall’art. 36 del d.P.R. n. 380/01 o sia stata dedotta e comprovata la non imputabilità dell’inottemperanza, i destinatari dell’ordinanza di demolizione sono responsabili di un secondo illecito di natura omissiva, che comporta, da un lato, la perdita ipso iure della proprietà del bene con la conseguente e connessa irrogazione della sanzione pecuniaria e, dall’altro, la novazione oggettiva dell’obbligo propter rem, perché all’obbligo di demolire il bene si sostituisce l’obbligo di rimborsare l’Amministrazione, per le spese da essa anticipate per demolire le opere abusive entrate nel suo patrimonio, risultanti contra ius (qualora essa non abbia inteso eccezionalmente utilizzare il bene ai sensi dell’art. 31, comma 5, del d.P.R.n. 380 del 2001). Decorso infine il termine per demolire, qualora l’Amministrazione non decida di conservare il bene, resta la possibilità di un’ulteriore interlocuzione con il privato per un adempimento tardivo dell’ordine di demolire, che non comporta il sorgere di un diritto di quest’ultimo alla “retrocessione” del bene, né fa venire meno la sanzione pecuniaria irrogata, ma può evitargli, da un lato, la perdita dell’ulteriore proprietà sino a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita se non è già stata individuata in sede di ordinanza di demolizione, nonché gli eventuali maggiori costi derivanti dalla demolizione in danno. Il proprietario non ha dunque alcun diritto a porre in essere la demolizione dopo la scadenza del termine dei 90 giorni, spettando alla discrezionalità dell’Amministrazione di valutare se coinvolgerlo ulteriormente nella demolizione. Per quanto infine riguarda la natura degli illeciti edilizi previsti dalle lettere a) e b) del comma 1 dell’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, va evidenziata la diversità delle qualificazioni rilevanti nel diritto penale e nel diritto amministrativo. Sotto il profilo penale il termine di prescrizione del reato edilizio comincia a decorrere dalla data di ultimazione delle opere. Si tratta di reato istantaneo che protrae la sua DIMENSIONE illecita, ai fini dell’inizio del termine di prescrizione, fino all’interruzione o all’ultimazione dei lavori, e la cui condotta ha natura commissiva, mentre sotto il profilo amministrativo l’inottemperanza all’ordinanza di demolizione comporta un illecito di natura omissiva che si aggiunge a quello di natura commissiva, consistente nella realizzazione delle opere abusive, e che comporta la perdita del diritto di proprietà. L’atto di acquisizione del bene al patrimonio comunale, emesso ai sensi dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura dichiarativa e comporta l’acquisto ipso iure del bene identificato nell’ordinanza di demolizione alla scadenza del termine di 90 giorni fissato con l’ordinanza di demolizione. Qualora per la prima volta sia con esso identificata l’area ulteriore acquisita, in aggiunta al manufatto abusivo, l’ordinanza ha natura parzialmente costitutiva in relazione solo a quest’ultima (comportando una fattispecie a formazione progressiva). ( Adunanza Plenaria n. 16 del 2023 ) L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, oltre a chiarire l’ambito applicativo dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, ha evidenziato la soluzione di due ulteriori dubbi di natura interpretativa. In primo luogo, con riferimento alla posizione del nudo proprietario che sia stato coinvolto nella commissione dell’illecito edilizio, è stato specificato che il Comune deve emanare l’ordine di demolizione (e poi l’atto di acquisizione) anche nei confronti di costui, sia nel caso in cui sia divenuto tale dopo l’abuso, sia nel caso in cui fosse già titolare del diritto reale al momento dell’abuso. Invero, posto che gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o dell’occupante l’immobile, applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell’irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell’ordine giuridico violato, soccorrono nel senso dell’interpretazione sposata dall’Adunanza plenaria plurimi ordini di considerazioni: - il nudo proprietario di un terreno non perde la disponibilità del bene, sebbene concesso in usufrutto a terzi; - la giurisprudenza della Cassazione riconosce la legittimazione del nudo proprietario ad agire in giudizio contro tutti coloro che mettono in atto ingerenze sulla cosa oggetto di usufrutto; - il nudo proprietario può opporsi alla realizzazione, sull’immobile concesso in usufrutto, di opere abusive, e può agire direttamente, o per via giudiziale, per procedere al ripristino dello stato dei luoghi; - l’ordine di demolizione – allorquando sia emesso nei confronti del nudo proprietario, oltre che nei confronti dell’usufruttuario autore dell’illecito - radica un dovere in capo allo stesso nudo proprietario, consentendogli di attivarsi per ripristinare l’ordine giuridico violato dal responsabile dell’abuso e per evitare di perdere il proprio diritto reale a causa dell’illecito comportamento altrui. In secondo luogo, con riferimento alla sanzione pecuniaria prevista dall’art. 31, comma 4-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001 – sanzione di natura afflittiva, applicata nel caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione, la cui ratio si basa anch’essa sull’esigenza di salvaguardare i valori tutelati dagli articoli 9, 41, 42 e 117 della Costituzione, e con l’intento di stimolare il responsabile ad eliminare le conseguenze dell’illecito edilizio -, la stessa non può essere irrogata nei confronti di chi, prima dell’entrata in vigore della legge n. 164 del 2014, abbia già fatto decorrere inutilmente il termine di 90 giorni e sia risultato inottemperante all’ordine di demolizione, pur se tale inottemperanza sia stata accertata dopo la sua entrata in vigore. In caso contrario, infatti, l’irrogazione di tale sanzione si porrebbe in contrasto con il principio di irretroattività, desumibile nella materia sanzionatoria dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981, con il principio di certezza dei rapporti giuridici e con il principio di tipicità e di coerenza, sottostanti alla circostanza per cui con il decorso del termine di 90 giorni di cui all’ordine di demolizione si consuma definitivamente la fattispecie di illecito omissivo, e non può dunque applicarsi l’ulteriore sanzione pecuniaria stabilita da una legge entrata in vigore successivamente allo scadere del termine per ottemperare e che è stata concepita proprio per evitare un’omissione che si è in realtà già verificata e che non è più in atto.
18 agosto 2023
L’Adunanza plenaria ha dato risposta negativa al quesito se – nel caso di accertamento della perdita del requisito attitudinale di un appartenente alle forze dell’ordine (in particolare, alla Polizia di Stato) - il rapporto di lavoro possa continuare presso altri ruoli della stessa amministrazione di pubblica sicurezza o presso altre amministrazioni. Invero, l’art. 36, punto XX), della legge n. 121 del 1981 ha delegato il Governo ad adottare disposizioni sul passaggio a qualifiche equivalenti di altri ruoli dell’amministrazione di pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato, consentito solo in caso di particolare infermità e, comunque, in dipendenza del grado di idoneità all’assolvimento dei servizi di polizia accertato. Le disposizioni regolamentari attuative hanno previsto il mutamento del rapporto di impiego in caso di “inidoneità per motivi di salute”, demandandone l’accertamento alle “commissioni mediche”. Per il chiaro significato delle parole utilizzate dal legislatore – parole che consentono di definire in modo univoco la portata precettiva della norma, precludendo all’organo giudiziario di richiamare altri criteri di interpretazione -, non può dubitarsi che tali disposizioni abbiano considerato le sole vicende di sopravvenuta menomazione dell’integrità psicofisica del lavoratore. E’ stata inoltre esclusa l’incostituzionalità di tale “limitazione”, in quanto la scelta del legislatore di disporre la cessazione del rapporto di impiego dell’appartenente alla Polizia di Stato per il caso di perdita del requisito attitudinale - e non anche di perdita parziale della idoneità psicofisica - non è irrazionale, perché, rispetto alla perdita della idoneità psicofisica – che può essere parziale –, la perdita del requisito attitudinale all’attività lavorativa è necessariamente ‘integrale’, sicché, se per la prima si può affermare che il requisito di accesso sia mantenuto sia pure in parte nel corso del rapporto di lavoro, nel secondo caso esso è integralmente perduto. Non è stata ravvisata dall’Adunanza plenaria, inoltre, alcuna ingiustificata disparità di trattamento, dal momento che i requisiti attitudinali costituiscono doti individuali differenti dall’idoneità psicofisica allo svolgimento della prestazione lavorativa, per cui si è in presenza di situazioni non omogenee e, per questa ragione, non comparabili. La perdita degli uni non è equiparabile alla perdita (parziale) degli altri, anche perché la vicenda sopravvenuta che incida sullo stato di salute del lavoratore determina un certo grado di inabilità al lavoro – ad ogni lavoro – che fa ritenere particolarmente difficoltosa per chi l’abbia subita la ricollocazione nel mercato del lavoro; diversamente, la perdita attitudinale non ha incidenza sulla capacità lavorativa, poiché esclude solamente la predisposizione a quella particolare attività professionale ( Adunanza Plenaria n. 12 del 2023 ) Il riferimento al concetto di “ invalidità ” richiama con tutta evidenza profili d’ordine fisico (o, al più, psico-fisico), ma non certo attitudinale: “invalido”, infatti, è concetto riferibile (e conseguente) al riscontro di una patologia che incide sulla capacità materiale di fare qualcosa, mentre l’ attitudine attiene all’idoneità personale e soggettiva a svolgere bene, con profitto e in sicurezza una certa attività o funzione, a prescindere dalla sussistenza di profili patologici. Deve dunque escludersi la continuazione del rapporto in caso di sopravvenuta mancanza delle attitudini – come se si trattasse di una sopravvenuta invalidità -, anche perché il legislatore ha demandato l’accertamento dell’idoneità al servizio ad un organo tecnico con competenze mediche (e non alle commissioni di verifica). Né è possibile procedere ad un’applicazione analogica delle disposizioni, tale da estendere la disciplina della perdita dei requisiti psichici e fisici alla diversa fattispecie della perdita dei requisiti attitudinali, difettando in questo caso il requisito della eadem ratio , in presenza della già rilevata diversità tra i requisiti psicofisici e quelli attitudinali: ciò non consente di disciplinare identicamente le due situazioni di perdita sopravvenuta degli uni e degli altri nel corso del rapporto di impiego. D’altra parte, in caso di perdita dei requisiti attitudinali, non è possibile ipotizzare una graduazione della residuale capacità che consenta di distinguere tra perdita parziale e perdita totale, come accade, invece, per i requisiti psicofisici. In linea di principio, infatti, il lavoratore o ha o non ha l’attitudine a svolgere una certa attività: non si può affermare che esso ne sia fornito ‘solo in parte’, perché ciò significherebbe non avere l’attitudine a compiere quell’attività. Nel caso di accertamento dei requisiti attitudinali, allora, non si può ipotizzare, neppure in astratto, un esito di perdita parziale che possa far dire ancora presenti quei requisiti richiesti per l’accesso al rapporto di lavoro (che, in quanto richiesti, devono permanere per l’intera sua durata). Per gli appartenenti alla Polizia di Stato, il cui rapporto di impiego è costituito solo se sussistono i requisiti attitudinali richiesti dalla normativa sopra richiamata, il venir meno di questi non può comportare la prosecuzione del rapporto di lavoro con la sola modificazione oggettiva della prestazione, poiché per quell’ordinamento settoriale il possesso dei requisiti attitudinali è richiesto per tutti i ruoli nei quali si articola la struttura. L’unica modalità di continuazione del rapporto di lavoro sarebbe, dunque, quella della novazione soggettiva, vale a dire presso ruoli di altre amministrazioni che non richiedano per l’accesso l’accertamento di (peculiari) requisiti attitudinali. Tale possibilità, però, non è prevista dalla legge.
18 agosto 2023
L’appello proposto avverso una sentenza del Tar per la Sicilia (Sede di Palermo o Sezione staccata di Catania) può essere deciso unicamente dalla sezione giurisdizionale del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, la quale a tutti gli effetti è una sezione del Consiglio di Stato. Nel caso di proposizione al Consiglio di Stato con sede in Roma di un appello proponibile alla Sezione giurisdizionale staccata di Palermo, la competenza funzionale della Sezione staccata di Palermo deve considerarsi inderogabile, in quanto prevista da una disposizione attuativa dello Statuto regionale, avente rango costituzionale, e non può dunque dar luogo alla definizione del giudizio con una pronuncia del Consiglio di Stato con sede in Roma. D’altra parte, l’art. 6, comma 6, del codice del processo amministrativo ha previsto che ‘gli appelli avverso le pronunce del Tribunale amministrativo regionale della Sicilia sono proposti al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, nel rispetto delle disposizioni dello statuto speciale e delle relative norme di attuazione’ ( Adunanze Plenarie n. 9 e 10 del 2023 ) Con riferimento alla natura delle Sezioni del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana quali “Sezioni staccate del Consiglio di Stato”, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto di dover ribadire quanto già affermato con la sentenza n. 13 del 2022, per la quale “i compilatori del codice del processo amministrativa hanno tenuto conto del principio fondamentale affermato dall’art. 1, comma 2, del d.lgs n. 373 del 2003, per il quale ‘il Consiglio di giustizia amministrativa … è composto da due Sezioni, con funzioni, rispettivamente, consultive e giurisdizionali, che costituiscono Sezioni staccate del Consiglio di Stato’”. La questione della ammissibilità o meno dell’appello – come ogni altra questione concernente il giudizio – può essere decisa peraltro esclusivamente dal Consiglio di giustizia amministrativa, tenendo conto del principio enunciato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 14 settembre 2016, n. 18121, per la quale non va dichiarato inammissibile – e può esservi quindi la translatio iudicii – l’appello proposto ad una incompetente Corte d’appello civile.
18 agosto 2023
La pendenza del controllo giudiziario a domanda ex art. 34-bis, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, non è causa di sospensione del giudizio di impugnazione contro l’informazione antimafia interdittiva. Il dubbio si è posto in giurisprudenza in ragione degli effetti sospensivi derivanti dall’ammissione al controllo giudiziario, previsti dall’art. 34-bis, comma 7, del CITATO decreto legislativo; in particolare, è stato sostenuto che per consentire di portare a conclusione il controllo giudiziario disposto dal Tribunale della prevenzione penale occorrerebbe la pendenza del giudizio amministrativo, non solo al momento in cui l’impresa formula la domanda di ammissione al Tribunale della prevenzione penale, ai sensi delL'art. 34-bis (comma 6), ma per tutta la durata della procedura, fissata dal medesimo Tribunale. In contrario avviso, secondo l’Adunanza plenaria, e sulla base delle disposizioni vigenti, deve essere affermata la tesi dell’autonomia dei procedimenti, in quanto sia sotto il profilo logico che sotto il profilo giuridico l’ammissione al controllo giudiziario - a domanda dell’impresa destinataria di un’interdittiva antimafia - non impedisce che vada definito senza ritardo il giudizio amministrativo di impugnazione contro quest’ultima. D’altra parte, dall’esame della giurisprudenza della Cassazione non emerge una ricostruzione del rapporto tra l’interdittiva e il controllo giudiziario volontario in termini di pregiudizialità-dipendenza di intensità maggiore rispetto alla connessione genetica ricavabile dal richiamato art. 34-bis, comma 6, del codice delle leggi antimafia e delle misure di sicurezza. Come infatti precisato dalle Sezioni unite penali nella sentenza 19 novembre 2019, n. 46898, la connessione tra i due istituti si manifesta in relazione al «grado di assoggettamento dell’attività economica alle descritte condizioni di intimidazione mafiosa e la attitudine di esse alla agevolazione di persone pericolose pure indicate nelle fattispecie». D’altra parte, a differenza di quanto avviene ai fini dell’informazione antimafia, ai sensi dell’art. 34-bis del codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, l’agevolazione mafiosa, in questo caso, deve essere «occasionale», per cui, in difetto del citato requisito, l’impresa non dovrebbe essere ammessa al controllo giudiziario. In particolare, posto che dalla ricognizione giurisprudenziale operata dall’Adunanza plenaria non è stato possibile trarre conferma dell’esistenza di un rapporto di pregiudizialità processuale tra il giudizio di impugnazione dell’interdittiva antimafia e il controllo giudiziario, ulteriore rispetto a quello previsto al momento genetico dall’art. 34-bis, comma 6, la tesi estensiva prospettata da parte della giurisprudenza - secondo cui la pregiudizialità opererebbe fino alla definizione della procedura di cui alla disposizione da ultimo citata –, oltre a non basarsi su una disposizione di legge (rilevando in materia il principio di legalità), non è neanche imposta da ragioni di ordine logico-sistematico. L’espediente della sospensione del giudizio di impugnazione contro l’interdittiva prefettizia giungerebbe infatti a snaturare la funzione tipica del processo, da ‘strumento di tutela’ delle situazioni giuridiche soggettive ed attuazione della legge, a mero ‘strumento per l’attivazione di ulteriori mezzi di tutela”. Inoltre, verrebbe alterata la funzione della sospensione del processo, che, in tal caso, da strumento preventivo rispetto al rischio di contrasto di giudicati, secondo una logica interna all’ordinamento processuale basata sulla sua unitarietà e sul principio di non contraddizione, diventerebbe uno strumento processuale in grado di porre impropriamente a carico del contenzioso giudiziario, contraddistinto dall’autonomia dell’azione rispetto alla situazione sostanziale che con essa si vuole tutelare, la realizzazione di obiettivi di politica legislativa, esorbitanti dai compiti del giudice, nella sua soggezione alla legge. Si determinerebbe così un’applicazione dell’istituto eccedente il presupposto della pregiudizialità-dipendenza previsto dall’art. 295 del cod. proc. civ., da considerarsi tassativo nella misura in cui con la sospensione si determina una potenziale lesione del principio di ordine costituzionale della ragionevole durata del processo (oggi sancito per il processo amministrativo dall’art. 2, comma 2, cod. proc. amm.), tale per cui essa viene disposta in ogni caso e solo quando il giudice davanti cui è stata proposta una domanda o un altro giudice «deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa». Considerazioni analoghe alle precedenti vanno infine estese, secondo l’Adunanza, al rapporto tra il controllo giudiziario e il commissariamento dell’impresa appaltatrice previsto dall’art. 32, comma 10, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese per il completamento dell’esecuzione dei contratti stipulati con la pubblica amministrazione dall’impresa destinataria un’informazione antimafia interdittiva). L’assenza di disposizioni di coordinamento tra i due istituti, e la non ultrattività «di una gestione separata “ad contractum”» in caso di sopravvenienza del controllo giudiziario, non costituisce ragione sufficiente per sospendere il giudizio di impugnazione delle misure previste dalla disposizione da ultimo richiamata, non solo – ed ovviamente – in caso di accoglimento del ricorso, ma anche in caso di rigetto, anche in considerazione della prevalenza della misura, più favorevole per l’impresa, prevista dall’art. 34-bis del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione ( Adunanze Plenarie n. 6, 7 e 8 del 2023 ) Non possono essere condivise né la tesi della «pregiudizialità processuale» tra il giudizio di impugnazione dell’interdittiva antimafia e il procedimento di controllo giudiziario, per cui «gli effetti del controllo giudiziario presupporrebbero la pendenza del giudizio amministrativo», né la tesi dell’acquiescenza. La prima tesi postula che il giudizio di impugnazione contro l’interdittiva antimafia dovrebbe essere ancora pendente non solo quando l’impresa domanda al tribunale della prevenzione penale di essere sottoposta al controllo giudiziario, come prevede testualmente l’art. 34-bis, comma 6, del codice, ma per tutta la durata di quest’ultimo. Tuttavia, tale tesi non ha base testuale e non è nemmeno imposta da ragioni di ordine sistematico, dal momento che l’interdittiva svolge la sua funzione preventiva rispetto alla penetrazione nell’economia delle organizzazioni di stampo mafioso di tipo “statico”, e cioè sulla base di accertamenti di competenza dell’autorità prefettizia rivolti al passato, mentre il controllo giudiziario persegue anche finalità di carattere “dinamico” di risanamento dell’impresa interessata dal fenomeno mafioso e quindi, secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia, oltre al presupposto dell’occasionalità dell’agevolazione mafiosa previsto dall’art. 34-bis, comma 6, del medesimo codice, richiede una prognosi favorevole del tribunale della prevenzione penale sul superamento della situazione che ha in origine dato luogo all’interdittiva. Nondimeno, quand’anche quest’ultima non sia annullata all’esito del giudizio di impugnazione devoluto al giudice amministrativo, e dunque si accerti in chiave retrospettiva l’esistenza di infiltrazioni mafiose nell’impresa, non per questo può ritenersi venuta meno l’esigenza di risanare la stessa. Al contrario, questa esigenza si pone in massimo grado una volta accertata in via definitiva che l’impresa è permeabile al fenomeno mafioso. Posta l’autonomia degli accertamenti di competenza del Tribunale della prevenzione penale rispetto a quelli svolti dall’autorità prefettizia in sede di rilascio delle informazioni antimafia, deve a fortiori escludersi la tesi dell’acquiescenza derivante dalla domanda di sottoposizione a controllo giudiziario da parte dell’impresa destinataria dell’interdittiva.
18 agosto 2023
Il "vincolo di destinazione d’uso del bene culturale" può essere imposto quando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione da cui risulti l’esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato. Tale vincolo può altresì essere imposto a tutela di beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza. L’Adunanza plenaria aderisce così all’orientamento che propugna la maggiore ampiezza possibile con riguardo al potere di tutela del bene culturale, e che non tipizza la legittimità del vincolo di destinazione d’uso sulla base di fattispecie derogatorie predeterminate in via astratta, ma CHE ha semplice riguardo all’adeguatezza della motivazione alla base della decisione amministrativa concretamente assunta. Tale orientamento è basato sulla legislazione vigente ed è anche maggiormente conforme agli obiettivi di interesse generale sottesi alla tutela dei beni culturali, oltre che coerente con il quadro costituzionale di riferimento. Invero, il potere di imporre limiti all’uso del bene culturale discende dal combinato disposto degli articoli 18, comma 1, 20, comma 1, e 21, comma 4, del Codice approvato con il decreto legislativo n. 42/04, che valorizza l’uso del bene culturale quale strumento per consentirne la conservazione materiale, mentre negare la possibilità di imporre vincoli culturali di destinazione d’uso - come il limitare un tale potere a fattispecie eccezionali, predeterminate in via astratta o correlate all’avvenuta trasformazione della res in relazione ad eventi culturali di particolare importanza - vanificherebbe le esigenze di tutela alla base delLO STESSO D. Lgs. n. 42/04, in tutte le ipotesi in cui un mutamento di destinazione d’uso possa comunque, tenuto conto delle particolarità concrete, essere pregiudizievole per la conservazione del bene e del relativo valore culturale che esso esprime. D’altra parte, l’impostazione sposata dall’Adunanza plenaria non produce neanche un’irragionevole o sproporzionata limitazione del diritto di proprietà o della libertà di iniziativa economica, dal momento che i vincoli culturali hanno natura non espropriativa, bensì conformativa, e POSTO che gli stessi non POSSONO IMPORRE alcun obbligo di esercizio o prosecuzione dell’attività commerciale e imprenditoriale, né l’attribuzione di una riserva di attività in favore di un determinato gestore, al quale non può essere attribuita una sorta di “rendita di posizione”. Di conseguenza, il provvedimento di imposizione di un vincolo che giunga a individuare un solo uso compatibile sarebbe illegittimo per sviamento ove venisse apposto, qualora mirasse non alla conservazione ed alla salvaguardia della res in cui è incorporato il valore storico culturale particolarmente importante, ma a far continuare la prosecuzione di una specifica attività commerciale o imprenditoriale. Premesso dunque che quel che può essere imposto è un divieto di usi diversi da quello attuale, a tutela tanto del bene culturale quanto dei valori in esso incorporati, la motivazione del provvedimento dovrà essere adeguata e sorretta dalla rappresentazione delle ragioni per le quali il valore culturale espresso dalla res non possa essere salvaguardato e trasmesso se non attraverso la conservazione del suo pregresso uso, che, compenetratosi nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale, è divenuto ad esso ‘consustanziale’. Tali valutazioni potranno poi essere oggetto di sindacato giurisdizionale nei consueti limiti previsti per gli atti implicanti esercizio di discrezionalità tecnica riservata all’Amministrazione in merito alla qualitas di bene culturale ( Adunanza Plenaria n. 5 del 2023 ) La nozione di bene culturale , in una visione dinamica e moderna, deve essere intesa in senso ampio: essa, pur presupponendo res quae tangi possunt , può anche ricomprendervi un quid pluris di carattere immateriale. A fronte di tale ampiezza di significato deve corrispondere la maggior estensione possibile, a legislazione vigente, delle forme di tutela previste dall’ordinamento, che consentano una protezione "elastica" ed efficace al bene culturale, senza limitarsi alla sua consistenza materiale, ma considerandolo globalmente, per i valori culturali che esso esprime e reca in sé. Il bene culturale viene così integralmente salvaguardato nell’insieme unitario e inscindibile dei suoi specifici aspetti: il valore culturale ‘estrinseco’, correlato a fatti della storia e della cultura, ma anche quello ‘intrinseco’, che, immedesimatosi con la cosa stessa, rende necessario tutelare non soltanto il ‘contenente’ ma anche il ‘contenuto’ del bene culturale, materiale o immateriale che esso sia. Infatti, declinando i principi di diritto enunciati dalla Corte Costituzionale, la legislazione vincolistica non può che essere interpretata se non facendo riferimento al concetto di ‘compenetrazione’ del valore culturale con i beni che ne costituiscono il supporto materiale, trasformati, per l’effetto, nelle loro stesse intrinseche caratteristiche. Pertanto, come l’avviamento di un’azienda non è un bene a sé stante, ma una sua qualità, che non può essere trasferita separatamente dall’azienda stessa e dal complesso di beni da cui questa è costituita, così in tali ipotesi, l’uso pregresso che contribuisce al valore culturale immateriale insito nella cosa non può venir meno, perché altrimenti andrebbe dispersa l’essenza del bene protetto e la sua stessa ragione di tutela. Nel complesso di tali beni, tangibili e intangibili, si concretizza e si esplica anche l’“espressione di identità culturale collettiva”, tutelato dal Codice del 2004 per la conservazione del bene materiale e per la continua condivisione e trasmissione della manifestazione culturale di cui la cosa costituisce testimonianza. Qualora un bene abbia il valore che gli è proprio anche per il collegamento con una determinata attività, la sola conservazione del bene materiale mediante il provvedimento di vincolo è condizione necessaria, ma non sufficiente per la sua adeguata protezione, in quanto la destinazione a un uso incompatibile o diverso da quello cui esso è stato nel tempo stabilmente destinato finirebbe per obliterare proprio il valore storico-culturale che è alla base del provvedimento di vincolo, vanificando gli interessi pubblici che ne sono alla base. Un tale vincolo di destinazione può operare soltanto sul piano oggettivo, regolando l’uso della res, senza disporre alcun obbligo di prosecuzione dell’attività svolta né la riserva di una tale attività, a prescindere dagli accordi conclusi tra le parti, in favore dell’attuale gestore. Così intesa, la previsione di un vincolo di destinazione finalizzata alla conservazione dell’uso del bene - riferito alla sola res e inidoneo ad imporre obblighi di prosecuzione dell’attività o a riservarne soggettivamente la gestione - da un lato, non viola la libera iniziativa economica (stante l’assenza di obblighi di esercizio), dall’altro, limita in maniera proporzionata e ragionevole il diritto di proprietà, perché, senza svuotare le facoltà dominicali, ne assicura la funzione sociale per la tutela di interessi pubblici prevalenti, correlati alla salvaguardia ed alla conservazione del patrimonio culturale della Nazione.
18 agosto 2023
L’ordinanza resa nel corso del processo di primo grado sull’istanza di accesso documentale ai sensi dell’art. 116, secondo comma, cod. proc. amm., è appellabile innanzi al Consiglio di Stato. Per giungere a questa conclusione, l’Adunanza plenaria ha speso le seguenti argomentazioni: - sulla base del criterio di interpretazione letterale, il rimedio di cui all’art. 116 cod. proc. amm. comma 2, per il rinvio effettuato all’accesso richiesto con ricorso autonomo, depone per la sostanziale unitarietà del rimedio; - l’istanza deve essere notificata all’Amministrazione e agli eventuali controinteressati, che potrebbero anche essere diversi dalle parti già evocate in giudizio, il che evidenzia come il rispetto delle regole del contraddittorio sia coerente con la logica della natura decisoria dell’ordinanza; - sulla base del criterio di interpretazione storica, le norme vigenti, rispetto a quelle contenute nell’art. 17 della legge n. 15 del 2005, non qualificano più l’ordinanza in esame come «ordinanza istruttoria»; - in via di interpretazione sistematica, il codice del processo amministrativo ha disciplinato distintamente la fase dell’istruttoria e l’istanza di accesso in corso del giudizio, con la conseguenza che non si possono sovrapporre gli istituti in esame; - sulla base dei criteri di interpretazione conforme a Costituzione, è necessario assicurare il diritto di difesa dei controinteressati e della stessa pubblica amministrazione, qualora nel corso del processo sia emessa una ordinanza che accolga il ricorso ex art. 116, comma 2, cod. proc. amm. e SI consenta l’ostensione dei documenti richiesti, anche perché, se ciò non fosse possibile, potrebbe derivare, a seguito dell’ordine di esibizione e del conseguente obbligo della sua esecuzione, un pregiudizio irreversibile per il diritto alla riservatezza privata dei controinteressati e per le prerogative pubbliche dell’autorità che detiene i documenti; - d’altra parte, il principio del doppio grado di giudizio (art. 125 Cost.) impone, in presenza di provvedimenti aventi contenuto decisorio, di consentire alle parti di proporre appello ( Adunanza Plenaria n. 4 del 2023 ) Sulla portata applicativa del comma 2 dell’art. 116 cod. proc. amm., si erano formati nel tempo tre diversi orientamenti. Un primo orientamento, accolto poi dall'Adunanza plenaria, riteneva che si trattasse di una vera e propria domanda di accesso ai documenti amministrativi, con qualificazione dell’ordinanza come avente natura decisoria . Tale ricostruzione valorizzava la previsione che impone la notificazione dell’istanza all’Amministrazione e ai controinteressati. Un secondo orientamento riteneva trattarsi di una istanza istruttoria, con qualificazione dell’ordinanza come avente anch’essa natura istruttoria. Tale ricostruzione valorizzava il riferimento, contenuto nell’art. 116, alla «connessione» dell’istanza con il giudizio in corso, che presuppone sempre un rapporto di “strumentalità in senso stretto” della documentazione richiesta per la definizione del giudizio principale e tiene conto dell’esigenza di evitare il «rischio di impugnazioni autonome su ordinanze istruttorie che in seguito potrebbero rivelarsi comunque superflue, qualora l’esito del giudizio di primo grado fosse favorevole a prescindere» (Cons. Stato, sez. VI, ord. n. 8367 del 2022, cit.). Un terzo orientamento, intermedio, distingueva tra tue tipologie di ordinanze: la prima, di natura decisoria e appellabile, che applicava la normativa in materia di accesso ai documenti senza passare al vaglio della pertinenza dei documenti in relazione al giudizio in corso; la seconda, di natura natura istruttoria e non appellabile, che era adottata avendo riguardo alla rilevanza della documentazione ai fini della decisione.
18 agosto 2023
L’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010 va interpretato nel senso che, in caso di raggruppamento c.d. misto, l’importo a base di gara, previsto quale riferimento utile per applicare l’incremento del quinto, deve riferirsi ai singoli importi della categoria prevalente e delle altre categorie scorporabili della gara. Ne discende che gli orientamenti interpretativi “restrittivi” o “ampliativi/correttivi” della norma non possono essere condivisi, nella misura in cui, seppure con esiti interpretativi del tutto divergenti, muovono entrambi dal presupposto – non previsto da alcuna disposizione di legge - secondo cui, al cospetto di un raggruppamento misto, bisognerebbe averE riguardo alla base d’asta comprensiva di tutti i lavori, anche appartenenti a categorie eterogenee, al fine di determinare se l’impresa appartenente al sub-raggruppamento orizzontale possa ritenersi qualificata per una classifica pari ad almeno un quinto dell’importo dei “lavori a base d’asta” e porre al denominatore il complesso di tutti i lavori posti a base d’asta. D’altra parte, che questi lavori non possano essere intesi, nella loro totalità, come comprensivi di lavorazioni del tutto eterogenee, per i raggruppamenti misti, è reso evidente non solo dal fatto che l’art. 61, comma 2, ha inteso disciplinare la sola o, comunque, prevalente ipotesi del c.d. raggruppamento orizzontale (con esclusione di ogni forma di raggruppamento verticale c.d. puro, con suddivisione di singoli lavori per singole imprese in base alle diverse categorie), ma anche dal fatto che il beneficio del c.d. aumento del quinto, evidentemente, si riferisce sempre e comunque ad imprese che siano in grado di svolgere un quinto dei lavori a base d’asta per cui siano già abilitate e, dunque, per quella sola tipologia di lavori rientranti nella categoria di lavori per la quale abbiano già l’attestazione SOA. Se è vero che la disposizione si riferisce all’ipotesi di raggruppamento orizzontale e non a quello di raggruppamento verticale (e, dunque, anche al raggruppamento c.d. misto, quale species del genus raggruppamento verticale), occorre tuttavia considerare che, nell’ambito del raggruppamento misto, per la categoria prevalente o scorporata, i cui lavori sono stati assunti da plurime imprese, si viene a creare, con riferimento al singolo sub-raggruppamento orizzontale, una ripartizione di compiti e competenze, non dissimile da quella del raggruppamento orizzontale c.d. totalitario, e questa situazione è del tutto assimilabile a quella del raggruppamento orizzontale, laddove la lex specialis consenta il ricorso al raggruppamento verticale con sub-raggruppamenti per singole lavorazioni scorporabili specificamente indicate. Sul piano teleologico e sistematico, poi, è evidente che negare l’interpretazione – quantomeno estensiva, se non, addirittura, il ricorso all’applicazione analogica – dell’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010 anche al sub-raggruppamento, con ovvio riferimento e con specifica limitazione – per le ragioni dette – alla singola categoria di lavorazione prevalente o scorporata, significherebbe frapporre un ostacolo ingiustificato all’esistenza stessa del c.d. raggruppamento misto, pur ammesso dal legislatore, e quindi disincentivare o addirittura impedire le aggregazioni imprenditoriali che possono concorrere alle gare anche nella forma del c.d. raggruppamento misto, benché espressamente riconosciute dalla legge e dalla stessa stazione appaltante nella lex specialis. Ciò verrebbe a creare una ingiustificata disparità di trattamento del sub-raggruppamento orizzontale rispetto alla disciplina stessa del raggruppamento orizzontale totalitario, nel quale – in via generale – il beneficio dell’incremento del quinto è ammesso proprio per consentire, entro certi limiti (la c.d. condizione del quinto), una più vasta partecipazione alle gare. L’ancoraggio del beneficio ad una classifica pari ad almeno un quinto degli specifici lavori – e non già, irragionevolmente, alla totalità indistinta ed eterogenea dei lavori posti a base d’asta – garantisce del resto una più specifica e mirata garanzia di professionalità dei singoli partecipanti al raggruppamento misto rispetto ad una classifica in ipotesi commisurata al complesso di tutti i lavori posti a base d’asta. L’interpretazione sposata dall’Adunanza plenaria è infine considerata quella maggiormente rispondente ai principi europei, che prevedono ampia partecipazione alle procedure di gara dei raggruppamenti temporanei, OLTRE CHE al principio europeo di massima libertà di autoorganizzazione delle imprese ( Adunanze Plenarie n. 2 e 3 del 2023 ) L’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010 prevede che « la qualificazione in una categoria abilita l’impresa a partecipare alle gare e ad eseguire i lavori nei limiti della propria classifica incrementata di un quinto; nel caso di imprese raggruppate o consorziate la medesima disposizione si applica con riferimento a ciascuna impresa raggruppata o consorziata, a condizione che essa sia qualificata per una classifica pari ad almeno un quinto dell’importo dei lavori a base di gara; nel caso di imprese raggruppate o consorziate la disposizione non si applica alla mandataria ai fini del conseguimento del requisito minimo di cui all’articolo 92, comma 2 ». Si tratta dell’istituto del c.d. incremento del quinto , istituto introdotto nel settore dei lavori pubblici dall’art. 5 della l. n. 57 del 1962, istitutiva dell’Albo Nazionale degli appaltatori, per quanto concerne l’impresa singola, e dall’art. 21 della l. n. 584 del 1977 sugli appalti pubblici, per quanto concerne le imprese riunite, con la c.d. condizione del quinto rapportato all’importo dei lavori a base d’asta. La norma, nel cristallizzare un lungo percorso normativo e giurisprudenziale, ha inteso codificare nella stessa disposizione le due distinte regole, relative, la prima, all’impresa singola, e, la seconda, al raggruppamento di imprese. La funzione della prima regola – secondo cui la qualificazione in una categoria abilita l’impresa a partecipare alle gare e ad eseguire i lavori nei limiti della propria classifica incrementata di un quinto – è quella di evitare che l’apertura al mercato degli appalti comunitari alle piccole e medie imprese possa attuarsi con pregiudizio delle condizioni basilari di affidabilità tecnica e finanziaria di ciascuna struttura aziendale e si traduce nell’apposizione di un limite alle capacità e dimensioni della singola impresa. La funzione della seconda regola – secondo cui, in caso di imprese raggruppate o consorziate, il beneficio dell’aumento del quinto si applica a condizione che l’impresa si qualificata per una classifica pari ad almeno un quinto dell’importo dei lavori a base di gara – è, invece, quella di garantire l’amministrazione sul fatto che la pur necessaria suddivisione dei compiti, congeniale allo strumento del raggruppamento di imprese, non comprometta la complessiva «efficienza ed adeguatezza della più vasta aggregazione imprenditoriale aggiudicataria dell’appalto, la quale deve offrire, nel sistema di qualifica affidato all’iscrizione all’albo costruttori, una classifica totale almeno pari a quella dell’importo dei lavori affidati» (Cons. St., sez. V, 15 febbraio 2000, n. 801, cit.). Quanto alla seconda regola, la norma prende in considerazione la prima e preminente ipotesi del c.d. raggruppamento orizzontale, costituito da imprese riunite per realizzare un appalto unitario, caratterizzato da un’unica lavorazione (e, quindi, da un’unica categoria richiesta), essendo esse portatrici delle medesime competenze per l’esecuzione delle prestazioni oggetto dell’appalto. L’ art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010 non si è invece espressamente riferito ai raggruppamenti “misti”, che consistono in una forma di associazione verticale al cui interno sono presenti – in ragione della eterogeneità dei lavori oggetto dell’affidamento, in cui vengono in rilievo una pluralità di diverse categorie di lavorazioni oltre alla prevalente – sub-raggruppamenti orizzontali. Si tratta di ipotesi ictu oculi estranea alla diretta applicazione dell’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010, non solo perché la disposizione fa riferimento ad imprese che eseguono lo stesso tipo di lavorazione e, dunque, ad un raggruppamento tipicamente e interamente orizzontale (c.d. totalitario), ma anche perché lo stesso meccanismo del beneficio dell’incremento del quinto presuppone, nel fare riferimento ad una impresa raggruppata e consorziata che «sia qualificata per una classifica pari ad almeno un quinto dell’importo dei lavori a base di gara» (c.d. condizione del quinto), che i lavori a base di gara siano gli stessi per tutte le imprese che possono, o vorrebbero, giovarsi del beneficio, non essendo possibile giovarsi di questo incremento premiale, evidentemente, per le imprese che non appartengano alla medesima categoria di lavori, proprio per il modo con il quale è congegnato il meccanismo delle qualifiche e delle classifiche per le opere generali e specializzate.
1 febbraio 2023
Risulta che in Romania – Paese UE - una laurea conseguita in Italia, e riconosciuta equivalente nel Paese straniero, sia un titolo che consente la frequenza dei percorsi di formazione degli insegnanti ed il conseguimento dei relativi SUCCESSIVI titoli, di modo che, a seguito di tale riconoscimento, del conseguimento del titolo nel Paese UE e del rilascio del relativo certificato, vi è la possibilità di insegnare. In particolare, il certificato rilasciato dal Ministero rumeno successivamente al su descritto percorso consentIREBBE alla cittadina italiana di lavorare in Romania in qualità di docente qualificato. Se, dunque, il titolo di cui si discute consente l’insegnamento in Romania, non vi è ragione per ritenerlo non riconoscibile ANCHE in Italia ai sensi della Direttiva 2005/36/CE ( Adunanze Plenarie n. 19, 20, 21 e 22 del 2022 ) L’articolo 13, comma 1, del d. lgs. n. 206 del 2007, attuativo della Direttiva 2005/36/CE dispone che « se, in uno Stato Membro Ospitante, l’accesso ad una professione regolamentata o il suo esercizio sono subordinati al possesso di determinate qualifiche professionali, l’autorità competente di tale Stato Membro dà accesso alla professione e ne consente l’esercizio alle stesse condizioni dei suoi cittadini, ai richiedenti in possesso dell’attestato di competenza o del titolo di formazione di cui all’art. 11, prescritto da un altro Stato Membro per accedere alla stessa professione ed esercitarla sul suo territorio ». Tale norma indica, dunque, il procedimento da seguire e prevede che chi chiede il riconoscimento deve essere in possesso solo dell’attestato di competenza o del titolo di formazione di cui all’art. 11, previsto da un altro Stato Membro per accedere alla stessa professione ed esercitarla nel suo territorio. Il competente Ministero italiano deve, dunque, valutare la corrispondenza del corso di studi effettuato, e dell’eventuale tirocinio, con quello italiano, e all’esito dell’istruttoria può disporre o il riconoscimento alle condizioni di cui all’art. 21 del d. lgs. 206 del 2007 ovvero misure compensative (il tirocinio triennale o l’esame) di cui al successivo art. 22 del d. lgs. n. 206 del 2007. Nello specifico caso trattato dall’Adunanza Plenaria, la certificazione rilasciata dall’Autorità rumena va qualificata come attestato di competenza, rilevante per l’ordinamento italiano così come è rilevante in quello rumeno, e qualificata altresì come ‘titolo assimilato’ ai sensi dell’art. 12 della Direttiva 2005/36/CE. La medesima attestazione è riconducibile alla ‘attestazione di qualifica’ ai sensi dell’art. 13 della Direttiva 2005/36/Ce, perché rilasciata all’esito del percorso formativo previsto nel Paese d’origine per l’accesso alla professione, ed è in quanto tale valutabile, sicché risulta sproporzionata la determinazione del Ministero appellante di disporre quale misura compensativa il tirocinio biennale di adattamento.
1 febbraio 2023
Così come il sistema automatico, anche quello generale di riconoscimento delle qualifiche professionali acquisite in ciascun Paese membro, attraverso la verifica amministrativa dei titoli di formazione o delle attestazioni di competenza, è funzionale alla circolazione in ambito sovranazionale dei lavoratori e dei servizi, e nello specifico all’accesso alle ‘professioni regolamentate’, soggette cioè in base alla legislazione nazionale al possesso di una necessaria qualificazione, in condizioni di parità con i cittadini dello Stato ospitante. I due regimi di riconoscimento sono dunque complementari e teleologicamente ordinati al medesimo obiettivo. La richiesta nel sistema generale di riconoscimento delle qualifiche professionali di una documentazione che comprovi la necessaria qualificazione costituisce lo strumento attraverso il quale l’autorità competente di ciascuno Stato ospitante è posta nelle condizioni di svolgere la necessaria verifica sul possesso dei requisiti minimi per l’accesso alla ‘professione regolamentata’. Al riguardo, il riconoscimento tipizzato dalla direttiva 2005/36/CE, normativamente predeterminato nel senso di una presa di atto del titolo professionale, dell’attestazione di competenza, o dell’esperienza professionale acquisita dall’interessato, si colloca comunque in un sistema che, nell'ottica di «facilitare il riconoscimento reciproco dei diplomi, dei certificati ed altri titoli stabilendo regole e criteri comuni che comportino, nei limiti del possibile, il riconoscimento automatico di detti diplomi, certificati ed altri titoli», ha valenza espansiva anche per il regime generale di riconoscimento, demandato ad una fase amministrativa di verifica dei percorsi di formazione e acquisizione delle necessarie competenze professionali seguiti dall’interessato in ciascun Paese dell’Unione. In tale prospettiva, la mancanza dei documenti necessari ai sensi dell'art. 13 della direttiva 2005/36/CE non può pertanto essere automaticamente considerata ostativa al riconoscimento della qualifica professionale acquisita in uno Stato membro dell’Unione europea, dovendosi verificare in concreto il livello di competenza professionale acquisito dall’interessato, e valutarlo per accertare se corrisponda o sia comparabile con la qualificazione richiesta nello Stato di destinazione per l’accesso alla ‘professione regolamentata’ ( Adunanza Plenaria n. 18 del 2022 ) La direttiva 2005/36/CE del 7 settembre 2005 (relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali), recepita in Italia con il decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206, ha istituito un sistema di riconoscimento delle qualifiche professionali conseguite in ciascun Paese dell’Unione europea, finalizzato a consentire ai cittadini europei di accedere a ‘professioni regolamentate’ presso gli altri Stati membri dell’Unione, in condizioni di parità con i cittadini del Paese estero, diverso da quello d’origine, presso il quale si intende esercitare l’attività. Come enunciato dall’art. 1 della direttiva 2005/36/CE, questa «fissa le regole» in base alle quali ciascuno Stato membro dell’Unione, «che sul proprio territorio subordina l’accesso a una professione regolamentata o il suo esercizio a possesso di determinate qualifiche professionali, riconosce, per l’accesso alla professione e il suo esercizio, le qualifiche professionali acquisite in uno o più Stati membri (…) e che permettono al titolare di tali qualifiche di esercitarvi la stessa professione». La direttiva definisce poi «professione regolamentata» quella per il cui accesso è richiesto «direttamente o indirettamente, in forza di norme legislative, regolamentari o amministrative, (i)l possesso di determinate qualifiche professionali» [art. 3, par. 1, lett. a)]. Le «qualifiche professionali» sono a loro volta quelle «attestate da un titolo di formazione, un attestato di competenza (…) e/o un’esperienza professionale» [art. 3, par. 1, lett. b)], In base al sistema di riconoscimento istituito dalla direttiva, la «Stato membro ospitante», cui è rivolta l’istanza dall’interessato qualificatosi in altro Paese membro dell’Unione, consente l’esercizio di una ‘professione regolamentata’ «alle stesse condizioni dei suoi cittadini», quando lo stesso richiedente sia «in possesso dell’attestato di competenza o del titolo di formazione prescritto, per accedere alla stessa professione o esercitarla sul suo territorio» (art. 13, par. 1). L’art. 13 precisa che gli attestati di competenza o i titoli di formazione sulla cui base deve svolgersi il riconoscimento della qualifica professionale conseguita in un altro Stato membro (Stato d’origine) devono «essere stati rilasciati da un’autorità competente» di quest’ultimo e devono inoltre attestare «un livello di qualifica professionale almeno equivalente al livello immediatamente anteriore a quello richiesto nello Stato membro ospitante». In mancanza dei necessari attestati di competenza o titoli di formazione, è nondimeno consentito il riconoscimento a favore dei «richiedenti che abbiano esercitato a tempo pieno la professione di cui a tale paragrafo per due anni nel corso dei precedenti dieci, in un altro Stato membro che non la regolamenti e abbiano uno o più attestati di competenza o uno o più titoli di formazione» (art. 13, par. 2). Secondo l’Adunanza plenaria, in conformità con quanto statuito dalla Corte di giustizia con la sentenza 8 luglio 2021, C-166/20 (resa in una vicenda analoga a quella trattata dall'Adunanza plenaria stessa), il Ministero dell’Istruzione è tenuto ad esaminare «l’insieme dei diplomi, dei certificati e altri titoli», posseduti da ciascun interessato al riconoscimento dei titoli conseguiti in altro Paese UE, senza peraltro prescindere dalle attestazioni rilasciate dalla competente autorità dello Stato d’origine, e previo confronto tra, da un lato, le competenze attestate da tali titoli e da tale esperienza e, dall’altro, le conoscenze e le qualifiche richieste dalla legislazione nazionale, onde accertare se gli stessi interessati abbiano o meno i requisiti per accedere alla ‘professione regolamentata’ di insegnante, eventualmente previa imposizione delle misure compensative di cui all'art. 14 della direttiva 2005/36/CE.
1 febbraio 2023
I periodi di riposo di cui all’articolo 39 del d. lgs. n. 151/2001 hanno natura non di “beneficio” concedibile dall’Amministrazione, bensì di diritto, e non possono essere riferiti ad un “istituto contrattuale a tutela della genitorialità”, ESSENDO previsti da una fonte primaria, in attuazione dI PRECISI parametri costituzionali, il che esclude la natura “eccezionale” della disposizione e la conseguente necessità di una sua interpretazione restrittiva. Ciò che, dunque, distingue la posizione della madre da quella del padre non è l’esclusività della titolarità del diritto in capo alla prima – di modo che la titolarità paterna dei diritti si porrebbe come subalterna o derivata da quella della madre –, quanto la modalità di esercizio del medesimo. Poiché il diritto-dovere di “mantenere, istruire, educare i figli” è posto dalla Costituzione in capo ad entrambi i genitori, la titolarità dei singoli diritti - teleologicamente orientati all’attuazione del valore costituzionalmente tutelato dall’articolo 30 COST. - non può che essere riconosciuta pariteticamente ad entrambi, ferma, come è ovvio, la titolarità in capo alla madre di quei distinti diritti che propriamente si riconnettono alla esclusività della funzione biologica ed alla sua tutela (poiché la tutela della maternità trova una sua specifica ed autonoma previsione di tutela nell’articolo 31, comma secondo, Cost.). Sul piano del concreto esercizio, invece, in presenza di una sola possibilità di fruizione dei periodi di riposo (il cui “peso” grava comunque sul datore di lavoro), il legislatore riconosce, ragionevolmente, una posizione poziore alla madre nel godimento del diritto, potendo il padre goderne o nel caso in cui, essendo unico titolare della potestà genitoriale, non si pone alcuna alternatività (articolo 40, lett. a) e d), o laddove la madre sia impossibilitata (articolo 40, lett. d), ovvero ancora nel caso in cui “non se ne avvalga” (lett. b). In tale contesto, risulta ragionevole la regola per la quale la fruizione dei periodi di riposo spetti al padre “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”. Una volta che la legge ha riconosciuto il diritto a periodi di riposo per il genitore lavoratore dipendente (in primis per la madre, in alternativa per il padre), ed in misura non cumulabile tra i due, la non considerazione – ai fini dell’esercizio del diritto - della presenza nel nucleo familiare della madre non lavoratrice dipendente comporterebbe una irragionevole esclusione dalla titolarità (ed esercizio) del diritto del padre lavoratore dipendente. Ciò che il legislatore ha inteso disporre, con la previsione della lett. c) dell’articolo 40, è la più completa attuazione del diritto del genitore lavoratore dipendente al periodo di riposo di cui all’articolo 39 del d.lgs. n. 151/2001. Depone in tal senso l’espressione (“nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”), che, nella sua chiarezza lessicale, non consente interpretazioni riduttive dell’ambito dei destinatari. In altre parole, perché si possa godere, nel caso di specie (articolo 40, lett. c), dei periodi di riposo durante il primo anno di vita del bambino da parte del padre, occorre solo il duplice presupposto che questi sia un lavoratore dipendente e che la madre non lo sia, null’altro essendo previsto dalla legge. L’interpretazione opposta - volta ad escludere dall’applicazione i casi in cui la madre sia ‘casalinga’ - risulterebbe in contrasto col testo della legge. Tale esclusione, più che seguire ad una interpretazione restrittiva (comunque non consentita per le ragioni innanzi esposte), risulterebbe in contrasto col dato testuale della disposizione, non potendo l’interprete richiedere la sussistenza di un ulteriore presupposto di fatto, rispetto a quelli chiaramente indicati dal legislatore. L’interpretazione letterale risulta coerente anche con l’esigenza di tenere conto dei principi costituzionali sulla parità tra il padre e la madre e sulla tutela del figlio ( Adunanza Plenaria n. 17 del 2022 ) Gli articoli 39 e 40 del testo unico n. 151 del 2001 hanno dato luogo a distinti orientamenti giurisprudenziali. Per un primo orientamento “positivo”, l’espressione («nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente») include, secondo il significato proprio delle parole, tutte le ipotesi di inesistenza di un rapporto di lavoro dipendente, e dunque non solo quella della donna che svolga attività lavorativa autonoma, ma anche quella di una donna che non svolga alcuna attività lavorativa o comunque svolga un’attività non retribuita da terzi (se a quest’ultimo caso si vuol ricondurre la figura della ‘casalinga’). Per un secondo orientamento “negativo”, poiché la formulazione letterale della disposizione non appare del tutto perspicua, si dovrebbe escludere in termini assoluti il principio di alternatività nella cura del minore e la scelta del legislatore non consentirebbe di ricondurre la ‘casalinga’ alla dizione di “non lavoratrice dipendente”, posto che la considerazione dell’attività domestica come vera e propria attività lavorativa prestata a favore del nucleo familiare non esclude, ma, al contrario, comprende, come è esperienza consolidata, anche le cure parentali; d’altronde, secondo questo orientamento, l’autonomia di gestione del tempo di attività nell’ambito familiare consente evidentemente alla madre di dedicare l’equivalente delle due ore di riposo giornaliero alle cure parentali. In definitiva, la scelta fatta dal legislatore, interpretata nel senso anzidetto, costituirebbe il necessario punto di equilibrio tra contrapposte esigenze, garantendo l’assistenza alternativamente di uno dei due genitori attraverso un delicato bilanciamento tra il diritto-dovere di entrambi i coniugi di assistere i figli (che ha anche indubbio rilievo sociale) e la necessità di iscrivere l’esercizio di tale diritto-dovere nel quadro delle specifiche esigenze del datore di lavoro (anch’esse aventi rilevanza sociale). Per un terzo orientamento “intermedio", poiché la legge non riconosce al padre «un diritto proprio», indipendente e parallelo a quello riconosciuto alla madre alla fruizione dei riposi giornalieri, egli «deve provare l’esistenza di concreti impedimenti che si frappongano alla possibilità per la moglie ‘casalinga’ (e dunque lavoratrice non dipendente, come si ritiene debba essere qualificata) di assicurare le necessarie cure al bambino. L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha scelto di aderire al primo orientamento, sulla base sia dell’interpretazione letterale della norma che del rispetto dei principi costituzionali regolanti la materia.
31 gennaio 2023
Nel diritto dei contratti pubblici, i commissari di gara a cui è affidato il compito di esprimere una preferenza o un coefficiente numerico, quando procedono alla valutazione degli elementi qualitativi dell’offerta tecnica, possono confrontarsi tra loro in ordine a tali elementi prima di attribuire individualmente il punteggio alle offerte, purché tale confronto non si presti ad una surrettizia introduzione del principio di collegialità, con la formulazione di punteggi precostituiti ex ante, laddove tali valutazioni debbano essere, alla luce del vigente quadro regolatorio, anzitutto di natura esclusivamente individuale. Con particolare riferimento al metodo del confronto a coppie, l’assegnazione di punteggi tutti o in larga parte identici e non differenziati da parte dei tutti i commissari annulla l’individualità della valutazione che, anche a seguito della valutazione collegiale, in una prima fase deve necessariamente mantenere una distinguibile autonomia preferenziale nel confronto tra la singola offerta e le altre, in modo da garantire l’assegnazione di coefficienti non meramente ripetitivi e il funzionamento stesso del confronto a coppie. IN PARTICOLARE, MENTRE Le valutazioni espresse dai singoli commissari, nella forma del coefficiente numerico non comparativo, possOno ritenersi assorbite nella decisione collegiale finale, per il confronto a coppie la manifestazione della preferenza deve essere in una prima fase individuale, nel senso sopra precisato, CON ESPRESSIONE SINGOLA risultante dalla verbalizzazione ( Adunanza Plenaria n. 16 del 2022 ) Il procedimento valutativo delle commissioni giudicatrici non è disciplinato compiutamente né dal codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 50 del 2016, né dalle altre fonti che regolano la materia, a differenza di quanto prevedeva l’abrogato d.P.R. n. 207 del 2010 L’art. 95 del d. lgs. n. 50 del 2016, rubricato “criteri di aggiudicazione dell’appalto”, stabilisce soltanto, al comma 8, che «i documenti di gara ovvero, in caso di dialogo competitivo, il bando o il documento descrittivo elencano i criteri di valutazione e la ponderazione relativa attribuita a ciascuno di essi, anche prevedendo una forcella in cui lo scarto tra il minimo e il massimo deve essere adeguato», precisando che «per ciascun criterio di valutazione prescelto possono essere previsti, ove necessario, sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi» (comma 8), mentre, al comma 9, si limita ad aggiungere che «le stazioni appaltanti, quando ritengono la ponderazione di cui al comma 8 non possibile per ragioni oggettive, indicano nel bando di gara e nel capitolato d’oneri o, in caso di dialogo competitivo, nel bando o nel documento descrittivo, l’ordine decrescente di importanza dei criteri» e che «per attuare la ponderazione o comunque attribuire il punteggio a ciascun elemento dell'offerta, le amministrazioni aggiudicatrici utilizzano metodologie tali da consentire di individuare con un unico parametro numerico finale l’offerta più vantaggiosa». Dopo l’abrogazione del d.P.R. n. 207 del 2010, l’ANAC ha emanato le Linee Guida n. 2/2016, in attuazione dell’art. 95, comma 9, del d. lgs. n. 50 del 2016. Ne consegue che, sulla base alle disposizioni vigenti al momento dell’instaurazione della controversia trattata dall’Adunanza plenaria, la stazione appaltante può determinare nel bando o nel capitolato il criterio di attribuzione dei punteggi per i criteri di natura qualitativa (nel rispetto dei principi di proporzionalità, trasparenza e razionalità) e le modalità con cui assegnarli, ma, come prevedono le Linee guida, nella prassi applicativa sono seguiti due metodi alternativi: a) l’attribuzione discrezionale di un coefficiente (da moltiplicare poi per il punteggio massimo attribuibile in relazione al criterio), variabile tra zero e uno, da parte di ciascun commissario di gara; b) il ‘confronto a coppie’ tra le offerte presentate, da parte di ciascun commissario di gara. Sulla base del primo criterio, ogni commissario attribuisce un punteggio a ciascuna offerta, le ragioni di tale attribuzione devono essere adeguatamente motivate e la motivazione deve essere collegata ai criteri presenti nel bando. In relazione a ciascun criterio o subcriterio di valutazione, la stazione appaltante deve indicare gli specifici profili oggetto di valutazione, in maniera analitica e concreta. Nel caso in cui si scelga di attribuire i coefficienti con il criterio del ‘confronto a coppie’, invece, il confronto avviene sulla base delle preferenze accordate da ciascun commissario a ciascun progetto in confronto con tutti gli altri, secondo i parametri contenuti nei documenti di gara. Ciascun commissario confronta l’offerta di ciascun concorrente, indicando quale offerta preferisce e il grado di preferenza, variabile tra 1 e 6, eventualmente utilizzando anche valori intermedi. Viene costruita una ‘matrice’ con un numero di righe e un numero di colonne pari al numero dei concorrenti meno uno, nel quale le lettere individuano i singoli concorrenti; in ciascuna casella viene collocata la lettera corrispondente all’elemento che è stato preferito con il relativo grado di preferenza e, in caso di parità, vengono collocate nella casella le lettere dei due elementi in confronto, assegnando un punto ad entrambe. Al termine dei confronti si attribuiscono i punteggi o trasformando, per ciascun commissario, la somma dei coefficienti attribuiti mediante il ‘confronto a coppie’ in coefficienti variabili tra zero e uno – e calcolandosi la media dei coefficienti di ciascun commissario, attribuendo uno al concorrente che ha ottenuto il coefficiente medio più alto e agli altri concorrenti un punteggio conseguentemente proporzionale al coefficiente raggiunto -, ovvero trasformando la somma dei coefficienti attribuiti dai singoli commissari mediante il confronto a coppie in coefficienti variabili tra zero ed uno. In alternativa si calcola la media dei coefficienti, variabili tra zero ed uno, calcolati dai singoli commissari mediante il ‘confronto a coppie’, seguendo il criterio fondato sul calcolo dell’autovettore principale della matrice completa dei ‘confronti a coppie’, modificando opportunamente la matrice sopra riportata, eventualmente utilizzando valori intermedi tra il punteggio 1 (parità) e il punteggio 2 (preferenza minima) della scala semantica, per tenere conto di offerte che differiscono poco dal punto di vista qualitativo. Tale metodo consente il calcolo di un indice di coerenza attraverso il quale si può valutare la qualità dei punteggi attribuiti a ciascun criterio e risulta perciò preferibile. L’orientamento maggioritario della giurisprudenza era nel senso di ritenere che, nell’assegnazione dei punteggi, sarebbe risultato maggiormente coerente con la natura, la funzione e con la stessa composizione (non perfettamente uniforme, quanto a competenze e conoscenze dei commissari) dell’organo collegiale, l’anticipazione del meccanismo di sintesi collegiale tra le opinioni dei singoli commissari alla fase precedente all’attribuzione del coefficiente da parte di ciascuno di essi, rispetto alla “conversione” collegiale dei giudizi individuali solo successivamente alla assegnazione “solitaria” dei coefficienti e sulla base di un criterio meramente matematico. Tali conclusioni sono condivise dall’Adunanza plenaria, ma solo nell'ipotesi in cui il bando o il capitolato abbiano previsto l’attribuzione discrezionale di un coefficiente (da moltiplicare poi per il punteggio massimo attribuibile in relazione al criterio), variabile tra zero e uno, da parte di ciascun commissario, giacché all’esito di una valutazione collegiale i singoli commissari ben possono ritenere, unanimemente, di assegnare il medesimo coefficiente ad ogni singola offerta, via via che essa viene esaminata. Al contrario, l'orientamento maggioritario suddetto non può essere condiviso quando si tratti del ‘confronto a coppie’ specificamente individuato dalla stazione appaltante, che ha una struttura, per così dire, bifasica, e si distingue nettamente in una prima fase di valutazione individuale e, successivamente, in una seconda fase di valutazione collegiale.
31 gennaio 2023
Il difetto di motivazione esplicita degli atti con cui è stato dato seguito alle richieste di assistenza giudiziaria internazionale è sindacabile, sotto il profilo delLA LEGITTIMITA' formale dell'atto, TRATTANDOSI DI ESERCIZIO DI UN potere discrezionale da parte del ministero, che è tenuto a valutare tutti i profili presi in considerazione dall’art. 723 cod. proc. pen.. La relativa motivazione deve essere contenuta nell’atto di accoglimento della richiesta formulata dallo Stato estero o va desunta per relationem da un precedente atto infraprocedimentale. Né è possibile postulare una rilevanza esclusiva delle medesime questioni nella fase giurisdizionale, ex art. 724 cod. proc. pen.. Infatti, in quest’ultima FASE, non sono valutabili profili di pericolo per la sovranità nazionale, demandati in via esclusiva all’autorità ministeriale, mentre l’art. 723, comma 5, cod. proc. pen. attribuisce anCHE A quest’ultimo, E NON SOLO ALL'AUTORITa' GIURISDIZIONALE, il potere di verificare se la richiesta di assistenza giudiziaria internazionale non sia evidentemente contraria alla legge o ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano. AL RIGUARDO, il differente grado di cognizione A LUI spettante in ordine ai presupposti DELLA CONTRARIETa' ALLA LEGGE O AI PRINCIPI FONDAMENTALI DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO, reso palese dal fatto che per l’art. 723 la richiesta del Paese estero può essere respinta quando «risulta evidente» TALE CONtrarieta', non impedisce al Ministro della giustizia di vagliare la richiesta in conformità al principio del ne bis in idem sancito dall’art. 649 cod. proc. pen., o alla necessità della doppia incriminazione con specifico riguardo all’imputazione di riciclaggio formulata dall’autorità giudiziaria indiana, sotto il profilo della sua conformità all’art. 648-bis cod. pen.. In entrambi i casi vengono infatti in rilievo possibili violazioni espresse della legge interna o di contrasto con principi fondamentali dell’ordinamento giuridico, astrattamente riconducibili all’ipotesi di “blocco” della richiesta di assistenza prevista dall’art. 723, comma 5, cod. proc. pen. ( Adunanza Plenaria n. 15 del 2022 ) L’art. 723 cod. proc. pen. attribuisce al Ministro della giustizia il potere «di non dare corso alla esecuzione della domanda di assistenza giudiziaria» in una serie di casi da essa previsti. Oltre al rinvio ai «casi e (ai) limiti stabiliti dalle convenzioni», o dagli atti adottati dalle competenti istituzioni dell’Unione europea (comma 2), per gli «Stati diversi da quelli membri dell’Unione europea», è consentito di non dare corso alla richiesta di assistenza anche in caso di «pericolo per la sovranità, la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato» (comma 3) ed ancora quando «risulta evidente» che gli atti richiesti dal Governo straniero che chiede assistenza «sono espressamente vietati dalla legge o sono contrari ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano», o vi è fondato pericolo di discriminazioni (comma 5). L’ipotesi di contrarietà alla legge e ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano è peraltro prevista anche per la successiva fase giurisdizionale dall’art. 724 cod. proc. pen., il cui comma 7, lett. a), prevede che l’esecuzione della domanda di assistenza giudiziaria è negata «se gli atti richiesti sono vietati dalla legge o sono contrari a principi dell’ordinamento giuridico dello Stato». Rispetto al corrispondente art. 723, comma 5, cod. proc. pen., la disposizione da ultimo richiamata comporta in questa fase un sindacato di maggiore intensità sulle richieste di assistenza giudiziaria internazionale rispetto a quello devoluto al Ministro della giustizia. Esclusa l’ “evidenza” sulla cui base deve essere esercitato il potere ministeriale, l’art. 724 cod. proc. pen. non richiede infatti né una contrarietà “espressa” dell’atto alla legge, né che i principi dell’ordinamento giuridico in ipotesi violati siano qualificabili come “fondamentali”. Da questa differente modulazione dei presupposti ostativi all’assistenza giudiziaria internazionale, un orientamento giurisprudenziale trae la conseguenza che la sede propria in cui esaminare le questioni sollevate nel presente giudizio dai ricorrenti sulla legittimità delle richieste di un altro governo sarebbe la fase giurisdizionale ex art. 724 cod. proc. pen., e non già quella amministrativa di competenza del Ministro della giustizia. La tesi si risolve tuttavia in una sottovalutazione dei poteri a quest’ultimo attribuiti dall’art. 723 cod. proc. pen.. Invero, se da un lato, ai sensi dell’art. 46, comma 23, della convenzione ONU, una motivazione è richiesta solo in caso di esercizio del potere di “blocco” sulla richiesta di assistenza giudiziaria internazionale («il rifiuto di prestare assistenza giudiziaria reciproca deve essere motivato»), dall’altro, l’assenza di motivazione della determinazione conforme alla richiesta dello Stato estero non si riflette sulla conformità rispetto al diritto internazionale pattizio, poiché nel medesimo ambito sovranazionale tale determinazione costituisce atto di adempimento agli obblighi assunti in sede convenzionale, configurato come ipotesi ordinaria, rispetto al quale l’opposto caso di rifiuto assume i connotati della residualità, rigidamente circoscritto alle ragioni ostative previste dal sopra menzionato art. 46. Diverse possono tuttavia essere le conseguenze sul piano del diritto interno, nella misura in cui l’atto ministeriale è soggetto alle regole generali della legge n. 241 del 1990. Né dall’assenza di motivazione è possibile dedurne la legittimità, considerando che il Ministero esercita un potere discrezionale, in forza del quale è tenuto a valutare tutti i profili presi in considerazione dall’art. 723 cod. proc. pen. La relativa motivazione deve dunque essere contenuta nell’atto di accoglimento della richiesta formulata dallo Stato estero o va desunta per relationem da un precedente atto infraprocedimentale.
31 gennaio 2023
Il termine per avviare o riaprire il procedimento disciplinare CONTRO I MILITARI decorre solo dalla conclusione dell’ ”intero” processo penale, senza quindi considerare sentenze parziali coperte da giudicato. A favore di tale soluzione vi è innanzitutto il dato letterale dell’art. 1392, co. 3 (valorizzato anche dall’ordinanza di rimessione) e dell’art. 1393, co. 1, del d.lgs. n. 66/2010, che fanno entrambi riferimento alla “conclusione” del processo penale, in tal modo segnalando l’esigenza di “voler evitare una valutazione spezzettata di una complessa vicenda fattuale”. D’altra parte, se il procedimento disciplinare può essere sospeso anche con riferimento a fatti non aventi rilevanza penale - quando ricorrano ULTERIORI fatti per i quali, invece, procede l’autorità giudiziaria (art. 1393, co.1, primo periodo) - appare evidente come ciò che il legislatore intende ottenere è una valutazione unitaria e complessiva di tutti i singoli fatti dei quali il dipendente pubblico è incolpato. Sul più generale piano logico-sistematico, la sospensione del procedimento penale costituisce un’eccezione, prevista CERTAMENTE nell’interesse dell’amministrazione, consentendole di avere una valutazione migliore dei fatti, MA ANCHE nell’interesse del dipendente, sottraendolo alle conseguenze di valutazioni disciplinari frutto di incompletezza o frettolosità e che, peraltro, potrebbero essere smentite dalle conclusioni del giudizio penale. Ambedue le esigenze che consentono, in quanto opportuno, di attendere l’esito del giudizio penale, verrebbero DUNQUE frustrate laddove l’amministrazione fosse costretta ad inseguire ogni esito parziale di quel giudizio, perdendo proprio quella esigenza di più approfondita, completa e complessiva valutazione dei “fatti” che, in via di eccezione, ha permesso di non avviare subito il procedimento disciplinare. Infine, La conoscenza della sentenza che conclude definitivamente il giudizio penale, perché possa determinare il dies a quo di decorrenza del termine di cui all’art. 1392, co. 3, e di cui all’art. 1393, co. 4, del codice dell’ordinamento militare, deve essere integrale e certa ( Adunanza Plenaria n. 14 del 2022 ) L’Adunanza Plenaria ritiene che il procedimento disciplinare debba essere instaurato o riaperto, ai sensi degli artt. 1392, co. 3, e 1393, co. 4, del d. lgs. 15 marzo 2010 n. 66 (codice dell’ordinamento militare), a decorrere dalla data di intervenuta conoscenza, integrale e certa, della sentenza che conclude definitivamente e complessivamente il processo penale, non assumendo alcun rilievo, ai fini della determinazione del dies a quo, il passaggio in giudicato di precedenti sentenze con riferimento a singoli capi di imputazione. In particolare, l’art. 1392 sopra citato prevede che il procedimento disciplinare di stato a seguito di giudizio penale deve essere istaurato “entro 90 giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto conoscenza integrale della sentenza o del decreto penale irrevocabili, che lo concludono, ovvero del provvedimento di archiviazione” (co. 1) e che il medesimo procedimento deve concludersi entro 270 giorni dal medesimo dies a quo (co.3), mentre il successivo art. 1393, co. 4, prevede che il procedimento disciplinare è “avviato o riaperto entro 90 giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto conoscenza integrale della sentenza ovvero dalla presentazione dell’istanza di riapertura”. I riferimenti alla conoscenza “integrale” della sentenza escludono che siano sufficienti, per la determinazione del dies a quo, la conoscenza del mero dispositivo o quella di estratti della sentenza. Inoltre, la conoscenza integrale della sentenza non può che essere “certa”, dovendo dunque intervenire – in adesione alla modalità individuata dall’ordinamento per attribuire certezza legale ai provvedimenti giurisdizionali - per mezzo di copia della sentenza conforme all’originale. La stessa irrevocabilità della sentenza deve risultare formalmente, non già da (pur oggettive) deduzioni dell’amministrazione o dell’incolpato, ma dalla sentenza medesima, posto che l’art. 27 reg. esec. c.p.p. prevede che “la cancelleria annota sull’originale della sentenza o del decreto di condanna l’irrevocabilità del provvedimento…”. D'altra parte, l’art. 55-ter d. lgs. n. 165/2001 prevede che “ il procedimento disciplinare è, rispettivamente, ripreso o riaperto, mediante rinnovo della contestazione dell'addebito, entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza, da parte della cancelleria del giudice, all'amministrazione di appartenenza del dipendente, ovvero dal ricevimento dell'istanza di riapertura ”. Tale comunicazione da parte della cancelleria del giudice, riferita alla sentenza nella sua integralità, priva di rilievo quanto previsto dall’art. 154-ter disp. att. c.p.p., in base al quale “l a cancelleria del giudice che ha pronunciato sentenza penale nei confronti di un lavoratore dipendente di un’amministrazione pubblica ne comunica il dispositivo all’amministrazione di appartenenza e, su richiesta di questa, trasmette copia integrale del provvedimento ”. Per effetto della successione delle norme, ciò che l’amministrazione pubblica deve ricevere dalla cancelleria del giudice penale è la sentenza integrale, non già il solo dispositivo.
31 gennaio 2023
L’art. 10, comma 5, DEL D.LGS n. 273/2003 stabilisce che “All'Adunanza plenaria, composta ai sensi del comma 4” (cioè integrata da due magistrati del Consiglio di giustizia), “è altresì devoluta la cognizione dei conflitti di competenza, in sede giurisdizionale, tra il Consiglio di giustizia amministrativa ed il Consiglio di Stato”. In tal modo viene assicurato che i conflitti di competenza che coinvolgano il Consiglio di giustizia amministrativa, le cui prerogative sono garantite dallo Statuto della Regione siciliana, trovino tutela nella composizione allargata dell'Adunanza Plenaria, che vede la presenza dei membri della Sezione giurisdizionale del massimo consesso siciliano. Analoga esigenza non si riscontra invece nei conflitti di competenza che vedano coinvolto il Tar Sicilia, I QUALI, pertanto, stante anche il chiaro e inequivoco tenore letterale del citato art. 10, comma 5, sono sottoposti alla disciplina del regolamento di competenza ordinariamente stabilita dal codice del processo amministrativo. Invero, l’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 373 del 2003 stabilisce che, in sede giurisdizionale, “il Consiglio di giustizia amministrativa esercita le funzioni di giudice di appello contro le pronunce del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia”. Pur non disponENdosi nulla in ordine alla delibazione dei regolamenti di competenza (che costituiscono un diverso mezzo di impugnazione rispetto all’appello), l’art. 16 del c.p.a. devolve al “Consiglio di Stato” la pronuncia sulla competenza resa in sede di regolamento, senza nulla specificare in ordine alle pronunce del TAR per la Sicilia. La questione sul se tale norma si sia riferita al Consiglio di Stato nella sua accezione complessiva, vale a dire comprensiva del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, qualificato dalla fonte normativa come sua Sezione staccata, ovvero al solo Consiglio di Stato, deve essere risolta sulla base del fondamentale principio per il quale il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana è una sezione del Consiglio di Stato. Di conseguenza, qualora il Tar per la Sicilia abbia declinato la propria competenza indicando la competenza di un altro Tar, il relativo regolamento di competenza va proposto dinanzi al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana. INVERO, Il codice del processo amministrativo non contiene specifiche disposizioni sul Consiglio di giustizia per la Regione siciliana, ad eccezione dell’art. 100, in cui è previsto che “Avverso le sentenze dei tribunali amministrativi regionali è ammesso appello al Consiglio di Stato, ferma restando la competenza del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana per gli appelli proposti contro le sentenze del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia”. Nessun’altra disposizione si è riferita al Consiglio di giustizia, le cui competenze sono state date per presupposte dal codice del processo amministrativo, proprio perché ESSO costituisce una sezione del Consiglio di Stato. E’ al riguardo emblematico l’art. 62, il quale – per gli appelli avverso le ordinanze cautelari – ha previsto che “contro le ordinanze cautelari è ammesso appello al Consiglio di Stato”: è ovvio, tuttavia, che gli appelli avverso le ordinanze cautelari del TAR per la Sicilia debbano essere proposti dinanzi al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana. D’altra parte, L’art. 4, comma 3, del d.lgs n. 373 del 2003 - che ha attuato lo Statuto della Regione siciliana, approvato con la legge costituzionale n. 2 del 1948, e CHE è dunque destinato a prevalere nella gerarchia delle fonti rispetto alla legge ordinaria, in ragione del carattere “riservato e separato” che lo Statuto speciale attribuisce a tale fonte - ha previsto che “In sede giurisdizionale il Consiglio di giustizia amministrativa esercita le funzioni di giudice di appello contro le pronunce del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia”. La formulazione è molto ampia e riguarda tutte le funzioni del giudice di appello da esercitare ratione loci , e non già Il solo mezzo dell’appello, BEN PRESTANDOSI dunque a ricomprendere anche il regolamento di competenza ( Adunanza Plenaria n. 13 del 2022 ) L’art. 10, comma 5, del d.lgs. n. 373 del 2003 si è riferito, quale presupposto per adire necessariamente l’Adunanza Plenaria, ad una situazione di “conflitto”, senza null’altro specificare. Si tratta di una disposizione speciale, contenuta in una fonte tra l’altro di rango sub costituzionale, e non trasfusa nel codice del processo amministrativo, ragion per cui non rileva, per la sua corretta interpretazione, il rinvio esterno alle disposizioni del codice di procedura civile, effettuato dall'articolo 39 del c.p.a., né la fattispecie può essere assimilata al conflitto di competenza disciplinato dall'articolo 45 del codice di procedura civile (riguardante il solo conflitto negativo virtuale, a prevenzione del conflitto reale). La formulazione dell'articolo 10, comma quinto, è di tale ampiezza da ricomprendere sia il conflitto positivo che quello negativo, sia il conflitto reale che quello virtuale; non è invece sufficiente il ‘mero rischio di conflitto virtuale’, per la pendenza di due procedimenti analoghi, in assenza di un provvedimento che possa considerarsi quale esplicita o implicita invasione della sfera di competenza dell’altro ufficio giudiziario.
31 gennaio 2023
Con riferimento al termine lungo di impugnazione calcolato a mesi (di sei), il periodo feriale dal 1° al 31 agosto che cade nel mezzo del termine lungo, ossia dopo che tale termine abbia già cominciato a decorrere, riguardando ancora un termine ‘a giorni’, com’era già prima della modifica del 2014, va aggiunto alla fine del periodo semestrale. Si cumulano così il termine di impugnazione, calcolato a mesi, ai sensi degli articoli 155, secondo comma, c.p.c. e 2963, quarto comma, c.c. (per cui il decorso del tempo si ha, indipendentemente dall'effettivo numero dei giorni compresi nel rispettivo periodo, allo spirare del giorno corrispondente a quello del mese iniziale coincidente con la data di pubblicazione della sentenza), e, in coda all’esaurimento di tale periodo temporale, il periodo di 31 giorni di sospensione previsto dalla l. n. 742 del 1969, come ribadito dall’art. 54, comma 2, del c.p.a., computato ex numeratione dierum ai sensi dell’art. 155, primo comma, c.p.c.. D’altra parte, l‘indirizzo tradizionale in materia, quanto alle modalità di computo, non innovatO da fatti normativi sopravvenuti, è suffragato anche da considerazioni di ordine pratico connaturate all’ambito di applicazione della materia de qua, in particolare con riferimento all’esigenza di uniforme applicazione del diritto nazionale su una questione comune al processo amministrativo ed al processo civile ( Adunanze Plenarie n. 11 e 12 del 2022 ) Nell’ambito dei termini processuali, i termini perentori di impugnazione delle sentenze (cfr. art. 326 c.p.c. e art. 92 c.p.a.) sono soggetti ad ipotesi particolari di sospensione, talune previste dal codice di procedura civile (43, 398, comma 4), altre da disposizioni speciali emanate dal legislatore, specie in occasione di eventi bellici o di calamità naturali o di eventi epidemiologici, che abbiano impedito o compromesso l’ordinario svolgimento delle attività processuali. La sospensione legata alla pausa estiva - stabilita dalla L. n. 742 del 1969 - costituisce un’ipotesi di sospensione dei termini processuali di carattere generale, sebbene con alcune eccezioni, ed è giustificata dall’intento di salvaguardare un periodo di ferie per gli avvocati, i quali sarebbero altrimenti vincolati al rispetto dei termini anche per tutto il periodo estivo. Si tratta, in questo senso, di una misura di sospensione generale, a tutela del diritto di difesa. L’art. 1 della L. n. 742 del 1969 - nel disporre la sospensione di diritto dei termini processuali dal 1° al 31 agosto di ciascun anno, e specificando che il loro decorso “riprende” dalla fine del periodo di sospensione - fa espresso riferimento ai termini relativi alla giurisdizione ordinaria ed a quelle amministrative. La sicura applicazione di tale sospensione anche al giudizio amministrativo dinanzi ai Tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato è confermata dall’art. 5 della medesima legge, dove l’eccezione prevista per il giudizio cautelare presuppone chiaramente che valga, altrimenti, la regola della sospensione per ogni altro rito dinanzi al giudice amministrativo D'altra parte, della nozione di termini processuali la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha sempre dato interpretazioni piuttosto ampie, riconoscendo tale carattere, ad esempio, anche ai termini per l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi. In questo quadro normativo, le disposizioni sopravvenute racchiuse nei commi 2 e 3 dell’art. 54 del c.p.a., nel ribadire per il giudizio amministrativo sia la regola che l’eccezione in tema di sospensione feriale dei termini processuali, non hanno introdotto elementi di differenza o di novità. Occorre dunque tenere conto dell’orientamento già sviluppatosi con riferimento alla legge n. 742 del 1969, e non rendere omogenei i due differenti sistemi di calcolo ad oggi seguiti dalla Corte di Cassazione (e anche dal giudice amministrativo) a seconda che il termine lungo di impugnazione inizi a decorrere durante o prima del periodo feriale. Infatti, per il caso in cui la data di deposito della sentenza cada nel (mezzo del) periodo feriale, la giurisprudenza consolidata, valorizzando il dato letterale dell’art. 1, comma 1, secondo periodo, della L. n. 742 del 1969 (“ Ove il decorso abbia inizio durante il periodo di sospensione, l'inizio stesso è differito alla fine di detto periodo ”), reputa che l’inizio della decorrenza del termine di impugnazione sia differito al 1° settembre e si calcoli unicamente a mesi, mentre, laddove il termine di impugnazione abbia cominciato a decorrere prima della sospensione, la giurisprudenza tradizionale, confermata adesso dall’Adunanza plenaria, è nel senso che il periodo della sospensione feriale vada invece prima "inglobato" nei sei mesi del termine di impugnazione, e poi sommato alla fine ad esso, con l’effetto così di prolungare il termine per l'impugnazione.
13 agosto 2022
Per le chiare indicazioni della Corte costituzionale, in consonanza con la Corte EDU, può escludersi ogni dubbio di contrasto con il principio del legittimo affidamento (come corollario del principio di certezza dei rapporti giuridici) della normativa di cui all’articolo 1, comma 458, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, in base alla quale, a seguito dell’abrogazione dell’articolo 202 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 e dell’articolo 3, commi 57 e 58, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, è terminata, dal primo febbraio 2014, la corresponsione dell’assegno personale riconosciuto prima di allora ai professori universitari al loro rientro nei ruoli dell’Università dopo avere ricoperto il ruolo di consigliere del C.S.M. in qualità di componente c.d. laico eletto dal Parlamento. Pur volendo dire legittimamente maturata l’aspettativa dei consiglieri c.d. laici alla conservazione del favorevole trattamento economico in godimento all’entrata in vigore dei commi 458 e 459 dell’articolo 1 della l. n. 147 del 2013, è certo che le nuove regole rispondano ad interessi generali (che hanno cioè “causa normativa adeguata”), ciò che rende ragionevole la decisione in punto di loro immediata applicazione. La nuova disciplina del trattamento economico del dipendente pubblico alla cessazione dell’incarico risponde INFATTI ad un’esigenza di contenimento della spesa pubblica, poiché porta alla soppressione di quel surplus di retribuzione (l’assegno ad personam) – non correlata all’attività svolta al rientro presso l’amministrazione di appartenenza né conseguente all’anzianità maturata – percepita per il solo fatto del pregresso svolgimento dell’incarico. Sussistono nel caso di specie sia ragioni di contenimento della spesa pubblica, le quali possono giustificare l’immediata modifica della disciplina dei rapporti in corso di svolgimento, dovendo il legislatore fronteggiare subito l’avvertito eccessivo dispendio di denaro pubblico, sia ragioni di eliminazione della differenziazione dei trattamenti economici all’interno della stessa amministrazione. INVERO, PREVEDENDO CHE ALLA cessazione dell’incarico sia corrisposto al dipendente “un trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianità”, il legislatore riconosce alle due carriere – quella che per un tratto si svolge fuori dall’amministrazione e l’altra integralmente al suo interno – pari dignità quanto alla maturazione del trattamento economico. D’altra parte, l’effetto abrogativo del comma 458 porta nel caso di specie a definire altresì un unico trattamento dei consiglieri eletti dal Parlamento alla cessazione dell’incarico, a fronte delle differenti discipline prima esistenti in ragione della categoria di provenienza al momento dell’elezione ( Adunanze Plenarie n. 9 e 10 del 2022 ) Lo scrutinio di ragionevolezza della norma sopravvenuta che appaia suscettibile di lesione del legittimo affidamento va svolto in tre momenti successivi; se è superato positivamente l’uno, è possibile passare all’altro. Preliminarmente è da verificare se l’aspettativa del privato nella conservazione inalterata della sua situazione soggettiva per l’intera durata del rapporto sia giustificata al momento in cui sopravviene la modifica normativa (e, per questo motivo, appunto legittima). Lo è se si tratta posizione adeguatamente consolidata per essersi protratta per un tempo ragionevolmente lungo (Corte cost. 9 maggio 2019 n. 108; 26 aprile 2018 n. 89; 1° dicembre 2017, n. 250; 20 maggio 2016, n. 108; 31 marzo 2015, n. 56) e se la modifica peggiorativa non era prevedibile; ciò che accade quanto la situazione soggettiva è sorta in un contesto giuridico atto a far sorgere nel destinatario una ragionevole fiducia nel suo mantenimento (cfr. Corte cost. 24 gennaio 2017, n. 16; 31 marzo 2015, n. 56). Se l’affidamento è realmente legittimo, occorre accertare se ricorra la “causa normativa adeguata”, ovvero della ragione dell’intervento legislativo che vale a giustificare la ripercussione della nuova norma su di uno stabile assetto di interessi. Infine, è pur sempre necessario – se anche ricorra una “causa normativa adeguata” – che sia rispettato il limite della proporzionalità, nel senso che l’intervento normativo deve essere coerente rispetto all’obiettivo perseguito dal legislatore. La suesposta elaborazione trova concordi la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo. L’intervento normativo modificativo può risultare lesivo dei principi costituzionali interni, ma anche dell’art. 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ove è stabilito, nella prima parte del par. 1, che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni” – qui da intendersi in senso ampio, non solo quale res materiale, ma come ogni attività che possa essere qualificata come “diritto patrimoniale” fino a comprendere anche la “aspettativa legittima” della sua acquisizione. Anche un diritto di credito rientra, pertanto, tra i beni protetti. Il pacifico godimento dei beni è tutelato dall’ingerenza dell’autorità pubblica; ingerenza che può avvenire anche mediante esercizio della funzione legislativa. La Corte considera l’ingerenza dei poteri pubblici nel godimento dei beni compatibile con l’art. 1 del Protocollo n. 1 se soddisfa il principio di legalità, se necessaria per una ragione legittima di pubblica utilità o per un interesse generale e sempre che abbia luogo mediante mezzi ragionevolmente proporzionati al fine che si intende realizzare. Disposizioni retroattive sono peraltro ritenute conformi al requisito di legalità; le finalità per le quali l’ingerenza può essere giustificata poiché rispondente ad una ragione di pubblica utilità o ad un interesse generale sono varie: in ogni caso, quando si tratta di misure generali di strategia economica o sociale la Corte riconosce allo Stato un ampio margine di apprezzamento, poiché, per la conoscenza diretta della loro società e delle sue esigenze, le autorità nazionali sono in linea di massima in una posizione migliore del giudice internazionale per decidere cosa sia nel “pubblico interesse”. Così, l’eliminazione delle disposizioni discriminatorie e il controllo della spesa pubblica sono considerati fini legittimi per meglio garantire la giustizia sociale e tutelare il benessere economico dello Stato. E’ inoltre necessario che vi sia il giusto equilibrio (fair balance) tra le esigenze dell’interesse generale e l’obbligo di proteggere i diritti fondamentali della persona; ciò che non sussiste se l’interessato sopporta un “onere individuale eccessivo”.
13 agosto 2022
L’art. 34, comma 3, cod. proc. amm. - il quale prevede che, quando nel corso del giudizio l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori - deve essere interpretato nel senso che è sufficiente, PER il RAGGIUNGIMENTO DI TALE SCOPO (MERO ACCERTAMENTO DI ILLEGITTIMITà), UNA DICHIARAZIONE PROCESSUALE della parte interessata. In particolare, non è necessario specificare i presupposti dell’eventuale domanda risarcitoria né tanto meno averla proposta nello stesso giudizio di impugnazione, e la dichiarazione deve essere resa nelle forme e nei termini previsti dall’art. 73 cod. proc. amm., a garanzia del contraddittorio nei confronti delle altre parti. Si tratta di una dichiarazione con la quale, a modifica della domanda di annullamento originariamente proposta, il ricorrente manifesta il proprio interesse affinché sia comunque accertata l’illegittimità dell’atto impugnato. Dal punto di vista processuale il fenomeno è inquadrabile come una emendatio della domanda, in senso riduttivo quanto al petitum immediato, non integrante pertanto un mutamento non consentito nell’ambito del principio della domanda, come evincibile dalla clausola di salvezza rispetto al divieto dei nova in appello previsto dall’art. 104, comma 1, c.P.A.. A sua volta, la dichiarazione di interesse risarcitorio in funzione dell’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato mira a provocare una pronuncia che, seppur non modificativa della realtà giuridica, come invece quella demolitoria di annullamento, verte comunque su un antecedente logico-giuridico dell’azione risarcitoria, per la quale è conseguentemente predicabile l’attitudine a divenire cosa giudicata in senso sostanziale ai sensi dell’art. 2909 del codice civile ( Adunanza Plenaria n. 8 del 2022 ) In epoca antecedente al codice del processo amministrativo, e dunque prima che fossero disciplinati i rapporti tra l’azione di annullamento e quella risarcitoria a tutela di interessi legittimi, si era affermata presso la giurisprudenza la tendenza a restringere le ipotesi di sopravvenuta carenza di interesse alla decisione sulla domanda di annullamento, quando non dichiarata dal ricorrente. Si era giunti in questa prospettiva a considerare procedibile il ricorso anche in assenza di utilità materiali ricavabili dalla sentenza, quando fosse comunque ravvisabile un interesse morale dello stesso a vedersi riconoscere le proprie ragioni. Ancora di recente, nell’ambito della tendenza tuttora presente presso la giurisprudenza, propria di una giurisdizione di tipo soggettivo quale quella amministrativa, si afferma che, al di fuori dei casi in cui la sopravvenuta carenza di interesse è dichiarata dallo stesso ricorrente, l’inutilità per lo stesso di una decisione di merito è ipotesi che va accertata con particolare rigore ed è ravvisabile solo in presenza di un radicale mutamento della situazione di fatto o di diritto esistente al momento della proposizione del ricorso. L’istituto previsto dall’art. 34, comma 3 del c.p.a., si colloca nella descritta tendenza. In un sistema evoluto di tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione, in cui alla tradizionale azione di annullamento si è affiancata con pari dignità rispetto ad essa l’azione risarcitoria, l’accertamento di illegittimità ai fini risarcitori previsto dalla disposizione processuale in esame risponde alla medesima esigenza sulla cui base era stato ristretto l’ambito di applicazione dell’improcedibilità del ricorso. Essa consiste nel conservare un’utilità alla decisione di merito sulla domanda di annullamento, pur a fronte di un mutamento della situazione di fatto e di diritto rispetto all’epoca in cui la stessa è stata azionata. Nondimeno, gli approdi sopra richiamati della giurisprudenza con riguardo all’azione di annullamento non possono essere estesi per intero con riguardo all’interesse risarcitorio. Quest’ultimo deve infatti essere manifestato in giudizio dalla parte interessata, e cioè dal ricorrente. Rispetto all’onere di parte non può invece supplire il rilievo ufficioso del giudice sulla persistenza delle condizioni dell’azione di annullamento fino alla decisione. L’esigenza che l’interesse sia dichiarato dalla parte si correla al fatto che, nell’ambito della sopra richiamata natura di giurisdizione di diritto soggettivo della giurisdizione amministrativa, come in precedenza accennato, è allo stesso ricorrente che è per legge rimessa l’iniziativa a tutela del suo interesse risarcitorio. La manifestazione dell’interesse risarcitorio, una volta venuto meno quello all’annullamento dell’atto impugnato, è dunque il presupposto indispensabile affinché il giudice possa pronunciarsi sulla legittimità dello stesso atto con pronuncia di mero accertamento. In questi termini va inteso l’inciso finale dell’art. 34, comma 3, cod. proc. amm. «se sussiste l’interesse ai fini risarcitori», posto a condizione della pronuncia di accertamento. Diversamente da quanto supposto dal più recente orientamento di giurisprudenza, che ha preteso dal ricorrente un maggiore sforzo ricostruttivo degli estremi della futura domanda di risarcimento da proporre, ai fini del mero accertamento di legittimità dell'atto impugnato, la dichiarazione è condizione necessaria ma nello stesso tempo sufficiente perché sorga l’obbligo per il giudice di accertare tale illegittimità. Non occorre a questo scopo né che siano esposti i presupposti dell’eventuale domanda risarcitoria né tanto meno che questa sia in concreto proposta. L’accertamento di cui all’art. 34, comma 3, cod. proc. amm. va infatti coordinato con la disciplina processuale dell’azione di risarcimento contenuta nel codice del processo amministrativo, ed in particolare con il sopra richiamato art. 30, comma 5, cod. proc. amm., che consente di proporre la domanda risarcitoria «nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza».
13 agosto 2022
La “garanzia provvisoria”, che correda l’offerta dei partecipanti alla procedura di gara copre soltanto i “fatti” che si verificano nel periodo compreso tra l’aggiudicazione e il contratto e non si estendE anche a quelli che si verificano nel periodo compreso tra la “proposta di aggiudicazione” e l’aggiudicazione STESSA. La conclusione RAGGIUNTA IN TAL SENSO dAll’Adunanza Plenaria è basata sui criteri di interpretazione delle leggi (CON particolare RIFERIMENTO A QUANTO DISPOSTO DALL'art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile). Sul piano dell’interpretazione letterale, il comma 6 dell’art. 93 del decreto legislativo n. 50 del 2016 è chiaro nello stabilire che «la garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all’affidatario (…)», di modo che il riferimento sia all’aggiudicazione, quale provvedimento finale della procedura amministrativa, sia al «fatto riconducibile all’affidatario», e non anche al concorrente destinatario della “proposta di aggiudicazione”, rende palese il significato delle parole utilizzate dal legislatore nel senso di delimitare l’operatività della garanzia al momento successivo all’aggiudicazione. Sul piano dell’interpretazione teleologica, il legislatore ha inteso ridurre l’ambito di operatività del sistema delle garanzie nella fase procedimentale, come risulta dall’analisi della successione delle leggi nel tempo. Sul piano dell’interpretazione sistematica, dall’analisi del contesto in cui la norma è inserita e, in particolare, dalla lettura coordinata di alcune disposizioni del Codice, risulta chiara la distinzione tra la fase procedimentale relativa alla “proposta di aggiudicazione” e la fase provvedimentale relativa all’“aggiudicazione”. Inoltre, la valutazione sistematica anche delle regole civilistiche impone di evitare che il terzo – che ha stipulato un contratto autonomo di garanzia collegato al rapporto principale tra amministrazione e partecipante alla procedura di gara – debba eseguire prestazioni per violazioni non chiaramente definite dalle regole di diritto pubblico. Sul piano dell’interpretazione analogica, infine, la diversità della disciplina e delle situazioni regolate Dalle due fasi, risultante dall’applicazione degli esposti criteri interpretativi, impedisce di estendere alla fase procedimentale le “garanzie provvisorie” della fase provvedimentale. D’altra parte, nel caso di “mancata aggiudicazione” a seguito di una “proposta di aggiudicazione”, i motivi di tale determinazione possono dipendere, oltre che da ragioni relative all’offerta, ANCHE dalla verifica negativa preventiva del possesso dei requisiti di partecipazione del concorrente individuato. In queste ipotesi, l’amministrazione non è affatto costretta a procedere all’aggiudicazione e poi ad esercitare il potere di annullamento in autotutela, potendosi limitare a non adottare l’atto di aggiudicazione e ad individuare il secondo classificato nei cui confronti indirizzare la nuova “proposta di aggiudicazione”. In tale contesto i pregiudizi economici, se esistenti, hanno portata differente rispetto a quelli che si possono verificare nella fase provvedimentale, con possibilità per l’amministrazione, ricorrendone i presupposti, di fare valere l’eventuale responsabilità precontrattuale del concorrente ai sensi degli artt. 1337-1338 cod. civ. ( Adunanza Plenaria n. 7 del 2022 ) Nella vigenza del Codice dei contratti pubblici del 2006, l’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa distingueva la “garanzia provvisoria” escussa nei confronti dei concorrenti di cui all’art. 48, comma 1, e la “garanzia provvisoria” escussa nei confronti dell’aggiudicatario di cui all’art. 75, comma 1. Alla prima tipologia di garanzia si assegnava natura sanzionatoria, con funzione punitiva, in quanto l’amministrazione poteva escutere la garanzia, incamerando la somma predeterminata, nei confronti di tutti gli offerenti sorteggiati che non fossero in possesso dei requisiti di partecipazione, con conseguenze economiche sovra-compensative. Ne conseguiva la necessità – in conformità con le regole convenzionali (art. 7 Cedu) – di assicurare il rispetto del principio di legalità e dei suoi corollari della prevedibilità, accessibilità e limiti di applicabilità delle norme nel tempo. Alla seconda tipologia di garanzia si assegnava natura non sanzionatoria, qualificando la “cauzione” quale garanzia avente una valenza analoga a quella della caparra confirmatoria e la “fideiussione” quale contratto di garanzia personale, con funzione di evidenziare la serietà ed affidabilità dell’offerta, nonché con funzione compensativa dei danni subiti dalla stazione appaltante. Nella vigenza del Codice dei contratti pubblici del 2016, l’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa, essendo stata eliminata la prima forma di garanzia, ha attribuito alla “garanzia provvisoria” natura esclusivamente non sanzionatoria. Secondo l’Adunanza Plenaria, entrambi gli istituti rimasti in vigore hanno natura non sanzionatoria, con differente qualificazione giuridica a seconda che venga in rilievo la “cauzione” o la “fideiussione”. La “cauzione” è una obbligazione di garanzia di fonte legale imposta ai fini della partecipazione alla gara, che deve essere eseguita dallo stesso debitore. Nella fase fisiologica, la “cauzione” assolve alla funzione di evidenziare la serietà e l’affidabilità dell’offerta, con obbligo dell’amministrazione di restituire la prestazione al momento della sottoscrizione del contratto. Nella fase patologica, la “cauzione” ha natura di rimedio di autotutela, con funzione compensativa, potendo l’amministrazione incamerare il bene consegnato a titolo di liquidazione forfettaria dei danni relativi alla fase procedimentale. In questa prospettiva, non è conferente il richiamo alla caparra confirmatoria di cui all’art. 1385 cod. civ., in quanto la stessa, nella configurazione del codice civile, presuppone la stipulazione di un contratto – che, nella specie, manca – con l’inserimento della clausola che consente, in caso di inadempimento, di recedere dal contratto stesso trattenendo la caparra. La “fideiussione” è invece una obbligazione di garanzia di fonte legale imposta ai fini della partecipazione alla gara, che sorge a seguito della stipulazione di un contratto tra un terzo garante e il creditore, che si può perfezionare anche mediante la sola proposta del primo non rifiutata secondo il meccanismo dell’art. 1333 cod. civ.. Tale forma di garanzia si caratterizza in modo peculiare rispetto al contratto di fideiussione disciplinato dal codice civile, agli artt. 1936 e ss.. L’art. 93, comma 4, del Codice dei contratti pubblici deroga alle disposizioni appena citate, disponendo che deve essere prevista la rinuncia: i) al beneficio della preventiva escussione del debitore principale; ii) al rapporto di accessorietà, dovendo operare questa forma di garanzia a semplice richiesta; iii) all’eccezione che consente di fare valere la garanzia anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale. Tale peculiare disciplina e, in particolare, la deroga al rapporto di accessorietà, comporta che il tipo contrattuale deve essere identificato nel contratto autonomo di garanzia. Nella fase fisiologica, la “fideiussione” assolve alla sola funzione di consentire la serietà e l’affidabilità dell’offerta, con obbligo dell’amministrazione di svincolare tale garanzia al momento della sottoscrizione del contratto. Nella fase patologica, la “fideiussione” consente all’amministrazione di azionare il rimedio di adempimento dell’obbligo di pagamento della somma predeterminata dalla legge, con funzione compensativa dei danni relativi alla fase procedimentale. L’operatività di entrambe le forme di garanzia presuppone un “fatto” del debitore principale che viola le regole di gara che comporta – a seguito dell’eliminazione del riferimento al dolo e alla colpa grave da parte del citato decreto legislativo n. 56 del 2017 – la configurazione di un modello di responsabilità oggettiva, con conseguente esclusione di responsabilità nei soli casi di dimostrata assenza di un rapporto di causalità.
13 agosto 2022
Posto che vi è mera irregolarità sanabile, con conseguente applicabilità del regime di cui all’art. 44, comma 2, Cod. proc. amm., nel caso di un ricorso notificato privo di firma digitale, il ricorrente può anche – in alternativa alla “regolarizzazione” per ordine del giudice - provvedere direttamente a rinotificare l’atto con firma digitale, in applicazione dei principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale amministrativa (art. 1 Cod. proc. amm.) e di ragionevole durata del processo (art. 2, comma 2 Cod. proc. amm.). In tal caso, il termine per il deposito del ricorso, di cui al combinato disposto degli artt. 94, comma primo e 45 Cod. proc. amm., andrà fatto decorrere dalla data dell’effettiva notifica dello specifico atto concretamente depositato, nel momento in cui ad essere depositato sia soltanto uno dei due ricorsi notificati. qualora invece gli atti depositati siano due, occorre rispettare il principio di consumazione del potere di impugnazione, ai sensi di quanto stabilito dall'art. 358 c.p.c., e nei limiti di applicazione di tale norma ( Adunanza Plenaria n. 6 del 2022 ) Ai sensi dell’art. 358 Cod. proc. civ., “L'appello dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto, anche se non è decorso il termine fissato dalla legge” (cosiddetto principio di consumazione del potere di impugnazione). Si è rilevato peraltro, in giurisprudenza, che - qualora l’atto invalido sia oggettivamente inidoneo a consumare il diritto di impugnazione -, la parte può proporre una nuova impugnazione sostitutiva della precedente, seppur a due condizioni: la prima è che i termini per l’appello non siano già decorsi e la seconda è che non sia stata già emessa una sentenza dichiarativa dell'inammissibilità o dell’improcedibilità della prima impugnazione proposta. Il principio in esame trova un presupposto logico nel divieto di frazionamento delle impugnazioni ed è affermato da costante giurisprudenza di legittimità nell’ambito del processo civile: comporta, in estrema sintesi, che l’impugnazione di una parte, una volta ritualmente proposta, preclude alla stessa di formulare in un successivo momento degli altri profili di gravame o di riproporre le stesse censure, anche se il relativo termine non sia ancora scaduto, attraverso un nuovo atto di impugnazione. Quest’ultimo, quindi, se proposto, andrà dichiarato inammissibile e della validità o invalidità dell’impugnazione si dovrà giudicare avuto riguardo esclusivamente al primo atto. A tale regola si farebbe eccezione in un solo caso, ossia quando il primo atto di impugnazione notificato presenti dei vizi che lo rendano addirittura inammissibile o improcedibile: in questo caso l’atto sarebbe oggettivamente inidoneo a consumare il diritto di impugnazione, ragione per cui sarebbe possibile per la parte proporre una nuova impugnazione sostitutiva della precedente, a condizione ovviamente che i relativi termini non siano decorsi e non sia nel frattempo intervenuta una sentenza dichiarativa dell'inammissibilità o improcedibilità della prima impugnazione proposta. D’altra parte, condicio sine qua non affinché un giudice possa dichiarare l’inammissibilità o improcedibilità del gravame – o, più in generale, pronunciarsi su di esso – è che quest’ultimo venga iscritto a ruolo, ossia depositato presso la Segreteria (o Cancelleria) del giudice medesimo. Deposito che, nel caso del processo amministrativo, ai sensi dell’art. 45 c.p.a., segue la notifica alle controparti e solo successivamente al quale può parlarsi di litispendenza, essendo la litispendenza, in tal caso, l’effetto di una fattispecie complessa, i cui co-elementi possono ritenersi costituiti dalla notifica e dal deposito: la sola notifica quindi, non seguita dal tempestivo deposito del ricorso, è inidonea a provocare la litispendenza. Sotto altro, concorrente profilo, per evidenti ragioni logiche e giuridiche, in tanto può parlarsi di “consumazione” del potere di impugnazione, in quanto alla proposizione del (primo) gravame la medesima parte processuale ne abbia fatti seguire degli altri, ossia uno o più ulteriori gravami che siano non solo – ovviamente – successivi al primo, ma anche in tutto o in parte diversi da questo, quanto a petitum o a causa petendi. Diversamente argomentando, non potrebbe parlarsi di nuovi atti di appello – solo relativamente ai quali può porsi il problema della persistenza o meno, in capo all’appellante, del potere di proporli in aggiunta al primo – ma solo, quanto ad effetti concreti, di rinnovazione degli incombenti processuali (notifica e deposito) relativi al medesimo atto, idonei non certo a modificare l’oggetto del giudizio – aspetto che il principio in esame mira in qualche modo a regolamentare – bensì, al più, a sanare eventuali vizi di carattere formale e/o processuale degli stessi.
13 agosto 2022
La nuova riforma del 2017 in materia di regime di titolarità e di gestione delle farmacie ha incluso tra le incompatibilità anche l’esercizio della professione medica, risultando ciò necessario dalla possibilità, contestualmente introdotta, che i soci non siano più farmacisti, laddove in precedenza (anche dopo il 1991) potevano ritenersi sufficienti – quanto all’esercizio della professione medica - i tradizionali divieti posti dal r.d. n. 1256 del 1934 (in specie agli artt. 102 e 112) dettati per i farmacisti persone fisiche titolari ovvero esercenti (da soli o in società di persone) di farmacia. Sono perciò attualmente esistenti due distinte e separate regole di incompatibilità. La prima, declinata in termini all’apparenza assoluti, definisce la partecipazione (societaria) alle società titolari di farmacie private incompatibile con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, nonché con l'esercizio della professione medica; la seconda, declinata in termini in teSI meno assoluti, LA QUALE, valorizzando l’inciso “per quanto compatibili”, fa rinvio alle disposizioni del successivo art. 8 che definiscono quella medesima partecipazione (societaria) incompatibile, tra le altre cose, “con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato”. Secondo l’Adunanza Plenaria, la nozione di “esercizio della professione medica”, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 7, comma 2, secondo periodo, della l. 362/1991 (come modificato dalla riforma del 2017, nel senso sopra esposto), deve ricevere un’interpretazione funzionale ad assicurare il fine di prevenire qualunque potenziale conflitto di interessi derivante dalla commistione tra questa attività e quella di dispensazione dei farmaci, in primo luogo a tutela della salute; in tal senso deve ritenersi applicabile la situazione di incompatibilità in questione anche ad una casa di cura, società di capitali e quindi persona giuridica, che abbia una partecipazione in una società, sempre di capitali, titolare di farmacia. Inoltre, una società concorre nella “gestione della farmacia”, per il tramite della società titolare cui partecipa come socio, qualora, per le caratteristiche quantitative e qualitative di detta partecipazione sociale, siano riscontrabili i presupposti di un controllo societario ai sensi dell’art. 2359 c.c., sul quale poter fondare la presunzione di direzione e coordinamento ai sensi dell’art. 2497 c.c. ( Adunanza Plenaria n. 5 del 2022 ) L’attività di vendita al pubblico di farmaci al dettaglio, che la giurisprudenza costituzionale inquadra nell’ambito dei servizi pubblici di natura economica dati in concessione, costituisce un’attività economica da molto tempo disciplinata e vigilata, soggetta a programmazione a partire dalla “storica” legge n. 468 del 1913, che modificò il regime tardo ottocentesco precedentemente nel segno di una sostanziale libertà nell’apertura e nell’esercizio delle farmacie (cfr. art. 26 della l. n. 5849 del 1888). La riforma del 1913, trasposta senza sostanziali modifiche nel testo unico delle leggi sanitarie del 1934 (il r.d. n. 1265, in particolare il Capo II del Titolo II, artt. 104 ss.), configurava il servizio farmaceutico secondo i crismi di una professione intellettuale “protetta”, riservata esclusivamente ad una persona fisica, il farmacista, che fosse in possesso di specifici requisiti di idoneità e risultasse titolare di un’autorizzazione amministrativa all’apertura e all’esercizio della farmacia, strettamente personale, non cumulabile e, almeno in origine, incedibile ad altri. In epoca repubblicana, la programmazione, effettuata in questo ambito anche in termini quantitativi e numerici, ha assunto i contorni di una vera e propria pianificazione, articolata su base comunale, attraverso la pianta organica delle farmacie (art. 2 della l. n. 475 del 1968), quale strumento in forza del quale affidare il servizio farmaceutico ai privati laureati in farmacia (art. 9 della l. 475/1968; art. 4 della l. n. 362 del 1991), ovvero ai Comuni (art. 9 della l. 475/1968), secondo un rapporto numerico tra esercizi ed utenti ed assegnando ad ogni farmacia una clientela o un bacino di utenza per così dire virtuale (art. 1 della l. 475/1968). Il nesso tra contingentamento, programmazione e sottoposizione del farmacista ad una serie di disposizioni imperative, in uno con il richiamo sin da allora all’art. 32 Cost. quale loro fondamento, era evidenziato in una delle prime pronunce della Corte costituzionale (la n. 29 del 1957), la quale ha osservato come “L'organizzazione del servizio farmaceutico, se da un lato ha creato al farmacista concessionario di una farmacia una posizione di privilegio con l'eliminare la concorrenza entro determinati limiti demografici e territoriali; dall'altro, trattandosi di un servizio di pubblica necessità, ha imposto allo stesso farmacista l'obbligo di svolgere la sua attività con l'adempimento delle prescrizioni dalle leggi stabilite per questa particolare professione”. All’indomani dell’istituzione del Servizio sanitario nazionale nel 1978 le farmacie, sia quelle private che quelle comunali (le seconde ritenute esercizio diretto di un servizio pubblico), ne sono divenute parte integrante e costituiscono lo strumento attraverso il quale è erogata l’assistenza farmaceutica alla popolazione, in ragione della loro capillarità e del loro obbligo di erogare i farmaci agli assistiti ed a chiunque intenda acquistarli e di non interrompere lo svolgimento del servizio soggetto ad ampi poteri di vigilanza e di controllo dell'amministrazione. Peraltro, la programmazione anche mediante il contingentamento numerico è stata oggetto di recenti modifiche apportate dall’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012, convertito in legge n. 27 del 2012. Con esse il rapporto tra numero degli esercizi e fattore demografico è stato rimodulato nella direzione di una parziale “liberalizzazione” e quindi di una distribuzione più capillare del servizio, attraverso l’apertura di nuove farmacie private da mettere a concorso, sicché la programmazione di turni ed orari è stata allentata, riconoscendo all’iniziativa del singolo farmacista maggiore voce in capitolo. Alle limitazioni quantitative, si cui si è appena detto, si sono affiancate tradizionalmente limitazioni soggettive, nel riservare alla (sola) categoria dei farmacisti la possibilità di esercitare l’attività di distribuzione e vendita al pubblico dei farmaci. L’apertura alle società di capitali, anche per le farmacie private, si è accompagnata inoltre, sempre nella riforma del 2017, al venir meno ovvero all’abolizione, per tutti i tipi societari, della previsione che in precedenza imponeva che i soci, delle società che gestiscono farmacie, dovessero essere a loro volta farmacisti, come anche alla rimozione del limite delle quattro licenze in capo ad una stessa società, limite sostituito dal divieto, meno pregnante, di controllare una quota superiore al 20 per cento delle farmacie della medesima regione o provincia autonoma ed il cui rispetto è sottoposto ai poteri di indagine, istruttoria e diffida dell’AGCM. Peraltro, le società titolari dell’esercizio di farmacie private devono avere questa attività come loro oggetto sociale esclusivo e, quand’anche i soci possano non essere farmacisti, è pur sempre necessario che la direzione della farmacia continui invece ad essere affidata ad un farmacista, anche non socio, che ne è responsabile.
13 agosto 2022
Ove il contribuente chieda accesso alla cartella di pagamento e questa rientri nel periodo di obbligatoria conservazione, è solo con il rilascio della copia della cartella di pagamento, e non con l’estratto di ruolo, che il concessionario adempie esattamente ai suoi obblighi di ostensione. In effetti, la mancata predisposizione di un assetto organizzativo che consenta il rilascio della copia a suo tempo notificata direttamente a mezzo posta costituisce una prassi contrastante con l’art. 26 quinto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, di modo che i concessionari devono porre rimedio con i necessari adattamenti e le opportune misure organizzative, anche in forza dell’art. 22 comma 6 della legge 241/90, che correla all’ “obbligo” di detenere (e non alla concreta detenzione) il diritto d’accesso. Ad ogni modo, deriva - quale conseguenza della violazione dell’obbligo di conservazione e detenzione, in forza della prassi organizzativa che rende non disponibile una copia della cartella suscettibile di ostensione -, l’obbligo per il concessionario di rilasciare specifica attestazione della mancata detenzione della cartella, avendo cura di specificarne le cause. E questo, fermo restando che l’obbligo di concreta ostensione incontra il limite della oggettiva possibilità ( Adunanza Plenaria n. 4 del 2022 ) La cartella di pagamento va considerata come documento amministrativo accessibile ai sensi dell’art. 22 della legge 241/90. Può parimenti escludersi che la stessa rientri nell’area dei procedimenti tributari per i quali l’art. 24 della medesima fonte “esclude” l’accesso: la cartella di pagamento, infatti, presuppone la conclusione del procedimento tributario e rappresenta piuttosto il primo atto dell’esecuzione esattoriale. In ogni caso, l’art. 24 de quo non esclude “tout court” l’accesso per gli atti del procedimento tributario, ma dispone che esso debba svolgersi secondo le “particolari norme che li regolano”. D’altra parte, la natura giuridica della cartella di pagamento influenza i passaggi argomentativi necessari a dirimere la quaestio iuris affrontata dall’Adunanza plenaria. Al riguardo, occorre sottolineare che la cartella ha una funzione composita che si riflette inevitabilmente sulla sua natura giuridica. Da una parte, è lo strumento che nel procedimento di esecuzione esattoriale serve a portare a conoscenza del contribuente, mediante notifica, l’esistenza del titolo esecutivo posto a base dell’esecuzione esattoriale e costituito dal ruolo. Ai sensi dell’art. 21 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, infatti, “la notificazione della cartella di pagamento vale anche come notificazione del ruolo”. Il contenuto minimo della cartella di pagamento è previsto dall’art. 6 del DM ed è costituito dagli elementi che “devono essere elencati nel ruolo…, ad eccezione della data di consegna del ruolo stesso al concessionario e del codice degli articoli di ruolo e dell'ambito”. Sotto l’altro aspetto, la cartella di pagamento incorpora anche il contenuto del “precetto” (tipico dell’esecuzione civile), nel contesto documentale di un modello conforme a quello previsto in via regolamentare (cfr. il DM, 3 settembre 1999, n. 321), nonché le ulteriori informazioni necessarie o comunque utili per il contribuente. In alcuni peculiari e tassativi casi, inoltre, la cartella di pagamento può addirittura rivestire funzione impositiva in senso sostanziale, in tutto assimilabile ad un atto di accertamento (si pensi a titolo di esempio, alla cartella di pagamento emessa nell’ambito della procedura di controllo automatizzato delle dichiarazioni reddituali, ai sensi dell’art. 36 bis dal dPR 600/1973). In altri termini, e salvo casi specifici, la notifica della cartella assolve uno actu le funzioni che nella espropriazione forzata codicistica sono svolte dalla notificazione del titolo esecutivo ex art. 479 c.p.c. e dalla notificazione del precetto, e costituisce l’emersione documentale di uno snodo indefettibile dell’esecuzione esattoriale. Secondo l’art. 26, quinto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, “Il concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell'avvenuta notificazione o l'avviso di ricevimento ed ha l'obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell'amministrazione”. Il dato testuale è chiaro: individua nel Concessionario l’amministrazione che deve conservare il documento e lo detiene ai fini dell’accesso, circoscrive temporalmente gli obblighi di conservazione, individua i titolari del diritto d’accesso nelle parti del rapporto tributario (contribuente e amministrazione). L’unico elemento di incertezza è costituito dall’alternativa che la stessa pone tra due modalità di conservazione del documento: a) la copia della cartella, oppure b) la “matrice”. Nel tempo, la modalità alternativa di conservazione dell’atto si è concentrata, di fatto, su una sola modalità: l’effettuazione della copia della cartella. Il sistema informatico consente oggi, tuttavia, la stampa di un unico originale, probabilmente per evitare la duplicazione accidentale o addirittura dolosa del titolo. Ne discende la necessità di un’azione informatica o umana che consenta di tenere traccia fedele e conforme del suddetto originale. Certamente può trattarsi di una copia digitale, ossia il prodotto di una copia generata direttamente dal sistema informatico oppure scannerizzata dall’operatore a valle della stampa, ma dev’essere la riproduzione conforme dell’atto, non essendo possibile, ai fini dell’accesso, adempiere alla richiesta a mezzo del rilascio di un estratto di ruolo, ossia della mera stampa di dati estrapolati dal ruolo informatizzato, ma non “organizzati” in cartella. L’estratto di ruolo infatti è l'atto del concessionario, relativo al singolo contribuente, che non contiene però alcuna pretesa impositiva, e non è specificamente previsto da alcuna disposizione di legge, costituendo un documento non avente un ruolo predeterminato nella scansione procedimentale dell’esecuzione esattoriale, caratterizzato semplicemente da una valenza ricognitiva del contenuto del ruolo in ordine a posizioni individuali. Il rilievo peculiare e autonomo che sia la giurisprudenza che il legislatore hanno dato all’estratto di ruolo conferma che esso è un atto ontologicamente diverso dalla cartella di pagamento: il primo è un mero strumento di conoscenza, la seconda è un atto fondamentale del procedimento di esecuzione esattoriale, che dev’essere notificato al contribuente e conservato in copia a cura del Concessionario.
13 agosto 2022
Non può rinvenirsi legittimazione attiva in capo agli amministratori ed ai soci della persona giuridica colpita da interdittiva antimafia. Invero, il decreto prefettizio può essere impugnato dal soggetto che ne patisce gli effetti diretti, e quindi, dal destinatario dell’atto, e cioè dalla società, in quanto solo il destinatario subisce la lesione immediata e diretta alla sua posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo che consente il ricorso dinanzi al giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 7, comma 1, c.p.a.. D’altra parte, laddove la lesione lamentata dal ricorrente riveste ed è stata da egli stesso qualificata come lesione del suo “diritto” alla reputazione, alla dignità - situazione giuridica soggettiva che non ha natura di interesse legittimo, ma di diritto soggettivo -, vi è carenza di titolarità di interesse legittimo. Se è vero che il carattere di persona giuridica attribuito alla società non può elidere la natura contrattuale e dunque il legame indissolubile con i contraenti, ossia i soci, o con le persone fisiche che, come gli amministratori, svolgono alcuni ruoli indispensabili perché la società possa determinarsi ad operare, è altresì vero che gli amministratori e/o i soci non sono i destinatari diretti dell’esercizio del potere amministrativo, essendovi relazione diretta solo tra potere amministrativo e persona giuridica. Il proprio (possibile e riflesso) pregiudizio emerge duque solo per effetto di un diverso rapporto (di natura contrattuale o di altro tipo) che li lega al destinatario diretto (la società). Ma questo rapporto, estraneo alla relazione intersoggettiva tra destinatario dell’atto e pubblica amministrazione, è inidoneo a far sorgere situazioni di interesse legittimo e impedisce, quindi, di configurare sul piano processuale la legittimazione ad agire nei confronti del provvedimento di interdittiva antimafia. Ciò non significa che tale provvedimento non possa produrre “pregiudizi” sulla loro sfera giuridica, ma QUESTI PREGIUDIZI, in ogni caso, non possono sorreggere la legittimazione ad impugnare, bensì solo, nell’ambito del sindacato giurisdizionale di legittimità, e ricorrendone i presupposti, un intervento in giudizio ( Adunanza Plenaria n. 3 del 2022 ) Nell’ambito del processo amministrativo impugnatorio, la legittimazione e l’interesse al ricorso integrano condizioni dell’azione necessarie per consentire al giudice adito di pronunciare sul merito della controversia, condizioni che devono esistere al momento della proposizione della domanda processuale e persistere fino alla decisione della vertenza. La legittimazione e l’interesse al ricorso trovano giustificazione nella natura soggettiva della giurisdizione amministrativa, che non risulta preordinata ad assicurare la generale legittimità dell’operato pubblico, bensì tende a tutelare la situazione soggettiva del ricorrente, correlata ad un bene della vita coinvolto nell’esercizio dell’azione autoritativa oggetto di censura. Il giudice procedente, in particolare, deve quindi pregiudizialmente verificare l’esistenza in capo alla parte ricorrente: - di una posizione qualificata e differenziata (avente consistenza di interesse legittimo), correlata al bene della vita oggetto di esercizio del pubblico potere, idonea a distinguere il ricorrente da ogni altro consociato (accertamento strumentale alla verifica della legittimazione al ricorso); - di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente, suscettibile, pertanto, di essere beneficiato - e, dunque, di trarre un’utilità effettiva - da un’eventuale sentenza di accoglimento della propria impugnazione. Invero, ciò che caratterizza l’interesse legittimo – e che costituisce la differenza essenziale dello stesso dal diritto soggettivo – è la sua inerenza alla esistenza e, soprattutto, all’esercizio del potere amministrativo: l’interesse legittimo, infatti, non è percepibile sul piano, per così dire, “statico”, senza, cioè, che la pubblica amministrazione abbia esercitato o negato di esercitare, nei confronti del soggetto, il potere del quale essa è titolare. La posizione di interesse legittimo (alla quale inerisce la legittimazione ad agire in sede processuale) presuppone dunque ed esprime necessariamente una relazione intercorrente tra un soggetto che ha (o intende ottenere) una determinata utilità (riferita ad un “bene della vita”), e la pubblica amministrazione nell’esercizio di un potere ad essa attribuito dall’ordinamento giuridico, sia che tale utilità consista nel neutralizzare l’esercizio del potere amministrativo, a tutela di un patrimonio giuridico già esistente che verrebbe altrimenti compresso; sia se volta ad ottenere l’esercizio del potere amministrativo negato dall’amministrazione, attraverso il quale si intende(va) conseguire un ampliamento del proprio patrimonio giuridico. Il primo riflesso di tale relazione diretta ed immediata è rappresentato dalla cd. partecipazione procedimentale, dalla possibilità, cioè, riconosciuta a titolari di posizioni qualificate (dall’essere interessate all’esercizio del potere) al modo stesso, epifanico, del “farsi” del potere amministrativo, alla costruzione delle determinazioni della pubblica amministrazione, nel luogo a ciò destinato, il procedimento amministrativo. Ulteriore riflesso della relazione diretta ed immediata tra soggetto titolare di interesse legittimo e pubblica amministrazione è rappresentato dal potere di agire in giudizio per la tutela del proprio interesse legittimo compromesso dall’esercizio o dal mancato esercizio (provvedimento negativo) del potere amministrativo. In tal senso, il giudizio amministrativo, nella sua forma di giudizio impugnatorio di atti, tende ad assicurare, al soggetto che si ritiene leso, un vantaggio che, attraverso l’eliminazione del provvedimento lesivo, consiste o nel recuperare la pienezza del proprio patrimonio giuridico ovvero nel conseguire (o tentare di conseguire) attraverso l’esercizio del potere amministrativo un ampliamento del proprio patrimonio giuridico. Le caratteristiche di “personale” e “diretto”, che devono assistere l’interesse legittimo, svolgono, sul piano sostanziale, anche il ruolo di definire l’ambito della (possibile) titolarità della posizione giuridica, il riconoscimento e tutela della medesima da parte dell’ordinamento giuridico. Nell’ambito della situazione dinamica in cui si pone l’esercizio del potere amministrativo, dunque, l’interesse è “personale” in quanto si appunta solo in capo al soggetto che si rappresenta come titolare, ed è altresì (inscindibilmente con la prima caratteristica), anche “diretto”, in quanto il suo titolare è posto in una relazione di immediata inerenza con l’esercizio del potere amministrativo (per essere destinatario dell’atto e/o per avere nei confronti dell’atto una posizione opposta, speculare a quella del destinatario diretto). Ne consegue che non possono esservi posizioni di interesse legittimo nei confronti della pubblica amministrazione nell’esercizio del potere amministrativo conferitole dall’ordinamento, che non siano quelle (e solo quelle) che sorgono per effetto dello stesso statuto normativo del potere, nell’ambito del rapporto giuridico di diritto pubblico, (pre)configurato normativamente. Mentre gli attributi di “personale” e “diretto” attengono all’interesse legittimo in quanto posizione sostanziale, e consentono di circoscriverne la titolarità, l’ulteriore attributo di “attuale”, attiene alla proiezione processuale della posizione sostanziale, alla emersione della esigenza di tutela per effetto di un atto concreto e sincronicamente appezzabile di esercizio di potere, che renda dunque necessaria l’azione in giudizio, onde ottenere tutela, e quindi “utile”, a tali fini, la pronuncia del giudice. E’ tale posizione giuridica, nei sensi sopra descritti, che legittima al ricorso avverso l’atto amministrativo lesivo, se ed in quanto, attraverso l’annullamento dell’atto, si conserva o consegue (o si può conseguire, anche attraverso il riesercizio del potere amministrativo) quella utilità di cui si è, o si ritiene di dovere diventare, o si intende diventare, “titolare”. Al contrario, laddove non è individuabile tale posizione, ma purtuttavia sono enucleabili generiche posizioni di interesse (anche derivanti da rapporti, quale che ne sia la fonte, intercorrenti tra soggetto in relazione con il potere amministrativo ed ulteriori soggetti), queste ultime – che ben possono ricevere indirettamente e/o di riflesso, un “pregiudizio”- legittimano i loro titolari a spiegare intervento in giudizio, ma non già ad impugnare autonomamente il provvedimento lesivo della sfera giuridica del soggetto con il quale intrattengono a diverso titolo rapporti giuridici.
13 agosto 2022
La modifica soggettiva del raggruppamento temporaneo di imprese, in caso di perdita dei requisiti di partecipazione di cui all’art. 80 DEL d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 da parte del mandatario o di una delle mandanti, è consentita non solo in sede di esecuzione, ma anche in fase di gara. Vanno in tal senso interpretati i commi 17, 18 e 19-ter dell’art. 48 del codice dei contratti pubblici. In particolare, il comma 19-ter dell’art. 48 prevede che “le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 trovano applicazione anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”. Il problema interpretativo dei commi 17, 18 e 19-ter dell’art. 48 del Codice dei contratti pubblici è ingenerato dall’antinomia normativa derivante dal riferimento espresso al “corso dell’esecuzione”, contenuto nei commi 17 e 18 - che farebbe propendere per ritenere l’ipotesi di “perdita dei requisiti di cui all’art. 80”, come limitata ad una sopravvenienza che si verifichi in quella fase -, a fronte dell’ampia dizione del citato comma 19-ter, che rende applicabili tutte le modifiche soggettive contemplate dai commi 17 e 18 (quindi anche la predetta “perdita dei requisiti di cui all’art. 80”) anche in fase di gara. Tale antinomia deve essere superata attraverso il ricorso a considerazioni diverse rispetto all’uso dei normali criteri interpretativi - trattandosi in questo caso di introduzione di norme per il tramite della medesima fonte -, considerazioni che sono riconducibili ai principi di interpretazione secondo ragionevolezza ovvero secondo Costituzione (o costituzionalmente orientata), a cui peraltro lo stesso criterio di ragionevolezza (riferibile all’art. 3 Cost.) si riporta. A tali fini, giova innanzi tutto osservare come una interpretazione che escluda la sopravvenienza della perdita dei requisiti ex art. 80 in fase di gara, per un verso introdurrebbe una disparità di trattamento tra varie ipotesi di sopravvenienze non ragionevolmente supportata; per altro verso, perverrebbe ad un risultato irragionevole nella comparazione in concreto tra le diverse ipotesi, poiché sarebbe consentita la modificazione del raggruppamento in casi che ben possono essere consideratI più gravi – secondo criteri di disvalore ancorati a valori costituzionali che l’ordinamento deve tutelare, come certamente SONO quellI inerentI ALLE ipotesi previste dalla normativa antimafia -, rispetto a quelli relativi alla perdita di requisiti di cui all’art. 80. Inoltre, si verificherebbe un caso di concreta incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione da parte di imprese in sé “incolpevoli”, riguardando il fatto impeditivo sopravvenuto una sola di esse, così finendoSI per costRUIRE una fattispecie di “responsabilità oggettiva”, ovvero una discutibile (e sicuramente non voluta) speciale fattispecie di culpa in eligendo. In definitiva, se uno dei principi fondamentali in tema di disciplina dei contratti con la pubblica amministrazione - tale da giustificare la previsione stessa del raggruppamento temporaneo di imprese - è quello di consentire la più ampia partecipazione delle imprese, in condizione di parità, ai procedimenti di scelta del contraente, una interpretazione restrittiva della sopravvenuta perdita dei requisiti ex art. 80 sarebbe in contrasto sia con il principio di eguaglianza, che con il principio di libertà economica e di par condicio delle imprese nei confronti delle pubbliche amministrazioni (come concretamente declinati anche dall’art. 1 della l. n. 241/1990 e dall’art. 4 del codice dei contrati pubblici), a maggior ragione perché non sorretta da alcuna giustificazione non solo ragionevole, ma nemmeno percepibile ( Adunanza Plenaria n. 2 del 2022 ) L’art. 48, comma 9, del d.lgs. n. 50/2016 prevede, in via generale, il divieto di modificazione della composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti “rispetto a quella risultante dall’impegno in sede di offerta”, fatto salvo quanto disposto ai successivi commi 17 e 18, che costituisce ipotesi di “eccezione” al predetto principio generale. I commi 17, 18 e 19-ter dell’art. 48 del Codice dei contratti sono stati a loro volta in precedenza interpretati, dalla stessa Adunanza Plenaria, nel senso di consentire, ricorrendone i presupposti, esclusivamente la modificazione “in diminuzione” del raggruppamento temporaneo di imprese, e non anche quella cd. “per addizione”, che si verificherebbe con l’introduzione nella compagine di un soggetto ad essa esterno. È chiaro che la modifica sostituiva c.d. per addizione costituisce ex se una deroga non consentita al principio della concorrenza, perché ammette ad eseguire la prestazione un soggetto che non ha preso parte alla gara secondo regole di correttezza e trasparenza, in violazione di quanto prevede attualmente l’art. 106, comma 1, lett. d), n. 2, del d. lgs. n. 50 del 2016, più in generale, per la sostituzione dell’iniziale aggiudicatario Da un lato, dunque, il comma 9 dell’art. 48 introduce un principio generale di “immodificabilità” della composizione del raggruppamento; dall’altro lato, i commi 17, 18 e 19, quali norme di eccezione alla norma generale, introducono una pluralità di esclusioni a tale principio. D’altra parte, le norme di eccezione di cui ai commi 17 e 18 disciplinano fattispecie diverse da quella di cui al comma 19. Invero, mentre le ipotesi disciplinate dal comma 17 (con riferimento al mandatario) e dal comma 18 (con riferimento ad uno dei mandanti) attengono a vicende soggettive, puntualmente indicate, del mandatario o di un mandante, conseguenti ad eventi sopravvenuti rispetto al momento di presentazione dell’offerta, l’ipotesi di cui al comma 19 attiene ad una modificazione della composizione del raggruppamento derivante da una autonoma manifestazione di volontà di recedere dal raggruppamento stesso, da parte di una o più delle imprese raggruppate, senza che si sia verificato nessuno dei casi contemplati dai commi 17 e 18, ma solo come espressione di un diverso e contrario volere rispetto a quello di partecipare, in precedenza manifestato. Ed il recesso in tanto è ammesso, non per una più generale valutazione dei motivi che lo determinano, ma in quanto le imprese rimanenti “abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire”, e sempre che la modifica soggettiva derivante dal recesso non sia “finalizzata ad eludere un requisito di partecipazione alla gara”. Si tratta, dunque, nel caso disciplinato dal comma 19, di eccezione al principio generale di immodificabilità della composizione del raggruppamento del tutto diversa da quelle di cui ai commi 17 e 18, di modo che la possibilità che la stazione appaltante non ammetta il recesso di una o più delle imprese raggruppate non esplica alcun effetto sulle diverse ipotesi di eccezione, relative alle vicende soggettive del mandatario o di uno dei mandanti, disciplinate dai citati commi 17 e 18 dell’art. 48.
30 dicembre 2021
SECONDO L’ADUNANZA PLENARIA, DEVE ESSERE RIAFFERMATA LA DISTINZIONE E L’AUTONOMIA TRA LEGITTIMAZIONE E INTERESSE AL RICORSO QUALI CONDIZIONI DELL’AZIONE, DI MODO CHE, ESSENDO NECESSARIO, IN VIA DI PRINCIPIO, CHE RICORRANO SEMPRE SIA L’UNA CHE L’ALTRA CONDIZIONE, NON PUO’ AFFERMARSI CHE IL CRITERIO DELLA VICINITAS , QUALE ELEMENTO DI DIFFERENZIAZIONE, VALGA DA SOLO E IN AUTOMATICO A SODDISFARE ANCHE L’INTERESSE AL RICORSO. NEL CASO DI VIOLAZIONI EDILIZIE, LO SPECIFICO PREGIUDIZIO DERIVANTE DALL’ATTO IMPUGNATO – IN CUI CONSISTE NORMALMENTE L’INTERESSE AD AGIRE – PUO’ RICAVARSI DALL’INSIEME DELLE ALLEGAZIONI RACCHIUSE NEL RICORSO, SUSCETTIBILI DI ESSERE PRECISATE E COMPROVATE LADDOVE IL PREGIUDIZIO FOSSE POSTO IN DUBBIO DALLE CONTROPARTI O DAI RILIEVI DEL GIUDICANTE. IN PARTICOLARE, IN TEMA DI VIOLAZIONE DELLE DISTANZE LEGALI TRA IMMOBILI, POSSONO ESSERE RILEVANTI, AI FINI DELLA SUSSISTENZA DELL’INTERESSE AD AGIRE, TUTTE LE SITUAZIONI IN CUI DALLA SUDDETTA VIOLAZIONE POSSA DISCENDERE CON L’ANNULLAMENTO DEL TITOLO EDILIZIO UN EFFETTO DI RIPRISTINO CONCRETAMENTE UTILE PER IL RICORRENTE, E NON PURAMENTE EMULATIVO ( Adunanza Plenaria n. 22 del 2021 ) Quello dell’interesse, oppositivo, ad impedire o comunque a contrastare un atto ampliativo della sfera di altri soggetti costituisce una delle tre principali figure più comunemente discusse nello studio della legittimazione al ricorso nel processo amministrativo, per differenziare la posizione dei soggetti legittimati da quella della generalità dei consociati. Limitando il discorso alla tutela dell’interesse legittimo, le altre due figure corrispondono, come noto, all’interesse, oppositivo, ad impedire un atto restrittivo nella propria sfera giuridica (esempio paradigmatico quello dei provvedimenti ablatori) e all’interesse, in questo caso pretensivo, a contestare il diniego ovvero il rifiuto di un atto ampliativo della propria sfera vanamente richiesto dallo stesso interessato (ad esempio il rifiuto di un’autorizzazione o di una concessione). Nella seconda e nella terza figura l’individuazione di un interesse differenziato, e con essa il riconoscimento della legittimazione a ricorrere, è certamente agevolata dall’essere il soggetto “legittimato” destinatario di un provvedimento che – privandolo di un bene che prima aveva o negandogli un bene che non aveva e che aveva richiesto - lo lede direttamente e, prima ancora, parte necessaria del procedimento amministrativo che l’ha preceduto. Nel primo caso invece, laddove procedimento e provvedimento non contemplino il soggetto terzo, il problema che da sempre si pone è quello di stabilire se l’interesse di costui a contrastare un atto ampliativo della sfera altrui sia effettivamente qualificato e differenziato, rispetto all’interesse della generalità, e in base a quali criteri. Nella casistica giurisprudenziale i criteri della qualificazione e della differenziazione, utilizzati per distinguere gli interessi legittimi dagli interessi di fatto e da quelli cd. semplici (nozioni invero non coincidenti, ricevendo i secondi protezione in via amministrativa), sono peraltro strettamente collegati, sebbene nell’impostazione più teorica la qualificazione discenderebbe dalla norma attributiva del potere mentre la differenziazione si coglierebbe sulla base di criteri materiali o caratteri fattuali. Nella realtà delle cose è raro che la norma attributiva del potere, occupata a definire presupposti, forme e modi dell’esercizio del potere amministrativo, menzioni (tutti) gli interessi privati qualificabili come legittimi; sicché il criterio materiale, incentrato sulla dinamica procedimentale e sull’evidenza provvedimentale, svolge un ruolo determinante ed è quello più comunemente praticato. Dove procedimento e provvedimento non siano di particolare ausilio, in quanto il terzo non vi ha partecipato e l’atto finale di lui non fa menzione, può essere rilevante l’elemento fisico-spaziale della vicinitas , intesa quale stabile collegamento tra un determinato soggetto e il territorio o l’area sul quale sono destinati a prodursi gli effetti dell’atto contestato. Nello stabilire se sia sufficiente l’elemento della vicinitas a radicare sia legittimazione che interesse ad agire, oppure occorra una specificazione processuale di entrambi gli elementi, viene incontro il codice del processo amministrativo che fa più volte riferimento, direttamente o indirettamente, all’interesse a ricorrere: all’art. 35, primo comma, lett. b) e c), all’art. 34, comma 3, all’art. 13, comma 4-bis e, in modo più sfumato, all’art. 31, primo comma, sembrando confermare, con l’accentuazione della dimensione sostanziale dell’interesse legittimo e l’arricchimento delle tecniche di tutela, la necessità di una verifica delle condizioni dell’azione (più) rigorosa. Verifica tuttavia da condurre pur sempre sulla base degli elementi desumibili dal ricorso, e al lume delle eventuali eccezioni di controparte o dei rilievi ex officio , prescindendo dall’accertamento effettivo della (sussistenza della situazione giuridica e della) lesione che il ricorrente afferma di aver subito. Nel senso che, come è stato osservato, va verificato che “la situazione giuridica soggettiva affermata possa aver subito una lesione” ma non anche che “abbia subito” una lesione, poiché questo secondo accertamento attiene al merito della lite. Con specifico riferimento alla vicinitas , in ambito edilizio-urbanistico, poi, dove la “qualificazione” dell’interesse del terzo può farsi discendere in ultimo dall’art. 872 c.c., dopo l’abrogazione dell’art. 31 della legge urbanistica ad opera dell’art. 136, comma 1, lett. a) del d.p.r. 380/2001, il discorso va ora ricondotto entro gli schemi generali ricavabili dal c.p.a., di modo che l’interesse al ricorso, inteso come uno stato di fatto, si lega necessariamente all’utilità ricavabile dalla tutela di annullamento e dall’effetto ripristinatorio; utilità che a sua volta è in funzione e specchio del pregiudizio sofferto. Tale pregiudizio, a fronte di un intervento edilizio contra legem , è rinvenuto in giurisprudenza, non senza una serie di varianti, nel possibile deprezzamento dell’immobile, confinante o comunque contiguo, ovvero nella compromissione dei beni della salute e dell’ambiente in danno di coloro che sono in durevole rapporto con la zona interessata.
30 dicembre 2021
NEL SETTORE DELLE PROCEDURE DI AFFIDAMENTO DI CONTRATTI PUBBLICI LA RESPONSABILITA’ PRECONTRATTUALE DELL’AMMINISTRAZIONE, DERIVANTE DALLA VIOLAZIONE IMPUTABILE A SUA COLPA DEI CANONI GENERALI DI CORRETTEZZA E BUONA FEDE, POSTULA CHE IL CONCORRENTE ABBIA MATURATO UN RAGIONEVOLE AFFIDAMENTO NELLA STIPULA DEL CONTRATTO, DA VALUTARE IN RELAZIONE AL GRADO DI SVILUPPO DELLA PROCEDURA, E CHE QUESTO AFFIDAMENTO NON SIA A SUA VOLTA INFICIATO DA COLPA ( Adunanza plenaria n. 21 del 2021 ) Nei rapporti di diritto civile, affinché un affidamento sia legittimo occorre che esso sia fondato su un livello di definizione delle trattative tale per cui la conclusione del contratto, di cui sono già stati fissati gli elementi essenziali, può essere considerato come uno sbocco prevedibile, e rispetto al quale il recesso dalle trattative, in linea di principio libero, risulti invece ingiustificato sul piano oggettivo e integrante una condotta contraria al dovere di buona fede ex art. 1337 cod. civ. Analogamente, per diffusa opinione nella giurisprudenza amministrativa (da ultimo: Cons. Stato, II, 20 novembre 2020, n. 7237), l’affidamento è legittimo quando sia stata pronunciata l’aggiudicazione definitiva, cui non abbia poi fatto seguito la stipula del contratto, ed ancorché ciò sia avvenuto nel legittimo esercizio dei poteri della stazione appaltante. L’aggiudicazione è dunque considerato il punto di emersione dell’affidamento ragionevole, tutelabile pertanto con il rimedio della responsabilità precontrattuale. Il recesso ingiustificato assume i connotati provvedimentali tipici della revoca o dell’annullamento d’ufficio della gara, che interviene a vanificare l’aspettativa dell’aggiudicatario alla stipula del contratto e che, pur legittimo, non vale quindi ad esonerare l’amministrazione da responsabilità per avere inutilmente condotto una procedura di gara fino all’atto conclusivo ed avere così ingenerato e fatto maturare il convincimento della sua positiva conclusione con la stipula del contratto d’appalto. In senso parzialmente diverso si è espressa la Cassazione civile. Con sentenza in data 3 luglio 2014, n. 15260 (Sezione I) la Suprema Corte ha affermato che l’affidamento del concorrente ad una procedura di affidamento di un contratto pubblico è tutelabile «indipendentemente da un affidamento specifico alla conclusione del contratto»; la stazione appaltante è quindi responsabile sul piano precontrattuale «a prescindere dalla prova dell’eventuale diritto all’aggiudicazione del partecipante». L’apparente contrasto rispetto agli approdi della giurisprudenza amministrativa deve tuttavia essere ridimensionato, avuto riguardo al fatto che il caso deciso dalla Cassazione riguardava il concorrente primo classificato in una procedura di gara poi annullata in sede giurisdizionale amministrativa su ricorso di un altro concorrente. La stessa giurisprudenza amministrativa non si è del resto arroccata su rigidi apriorismi, ma con criterio elastico – che questa Adunanza plenaria ritiene condivisibile – ha negato rilievo dirimente all’intervenuta aggiudicazione definitiva, laddove ha in particolare affermato che la verifica di un affidamento ragionevole sulla conclusione positiva della procedura di gara va svolta in concreto, in ragione del fatto che «il grado di sviluppo raggiunto dalla singola procedura al momento della revoca, riflettendosi sullo spessore dell’affidamento ravvisabile nei partecipanti, presenta una sicura rilevanza, sul piano dello stesso diritto comune, ai fini dello scrutinio di fondatezza della domanda risarcitoria a titolo di responsabilità precontrattuale» (Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3831). Nella medesima prospettiva di un accertamento in concreto degli elementi costitutivi della responsabilità precontrattuale si è del resto espressa la stessa Adunanza plenaria nella sentenza 4 maggio 2018, n. 5, secondo cui la responsabilità precontrattuale può insorgere «anche prima dell’aggiudicazione e possa derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri di correttezza e buona fede». Più in generale, l’Adunanza plenaria ha precisato che la tutela civilistica della responsabilità precontrattuale, pur nel quadro del principio generale dell’autonomia negoziale delle parti, ivi compresa l’amministrazione, opera nel senso di assicurare la serietà delle trattative finalizzate alla conclusione del contratto, per cui essa costituisce il punto di equilibrio «tra la libertà contrattuale della stazione appaltante e la discrezionalità nell’esercizio delle sue prerogative pubblicistiche da una parte, rispetto del limite della correttezza e della buona fede, dall’altro», tenuto conto che ciascun contraente assume «un ineliminabile margine di rischio in ordine alla conclusione del contratto» e che dunque non può confidare sempre sulla positiva conclusione delle trattative, ma solo quando queste abbiano raggiunto un grado di sviluppo tale da rendere ragionevolmente prevedibile la stipula del contratto. Individuato un primo requisito dell’affidamento tutelabile nella sua ragionevolezza e nel correlato carattere ingiustificato del recesso, il secondo consiste nel carattere colposo della condotta dell’amministrazione, nel senso che la violazione del dovere di correttezza e buona fede deve esserle imputabile quanto meno a colpa, secondo le regole generali valevoli in materia di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ..
30 dicembre 2021
QUANTO aLl’ammissibilità dell’eccezione di difetto di giurisdizione proposta in appello dal ricorrente soccombente in primo grado, va confermato l’orientamento secondo cui essa è inammissibile, come affermato in modo ormai incontrastato sia dalla giurisprudenza amministrativa, che dalla Corte di Cassazione, per un duplice motivo. da un lato, vi E'abuso del processo e violazione del dovere di cooperazione per la ragionevole durata del processo sancita dall’art. 2, comma 2, cod. proc. amm., tratta dall’ondivago e strumentale comportamento del ricorrente consistente nel contestare in appello la giurisdizione da lui stesso adita dopo l’esito sfavorevole del giudizio di primo grado, e dunque secundum eventum litis; DALL'ALTRO, VI E' difetto del requisito della soccombenza in primo grado sulla questione di giurisdizione, implicitamente risolta a favore dello stesso ricorrente, CON CONSEGUENTE assenza di un interesse ad appellare il capo autonomo di decisione concernente la questione pregiudiziale. qUANTO POI ALLA SUSSISTENZA DELLA giurisdizione amministrativa IN CASO DI LESIONE DELL'AFFIDAMENTO, LA STESSA va affermata quando l’affidamento abbia ad oggetto la stabilità del rapporto amministrativo, costituito sulla base di un atto di esercizio di un potere pubblico, e a fortiori quando questo atto afferisca ad una materia di giurisdizione esclusiva. La giurisdizione è devoluta al giudice amministrativo perché la “fiducia” su cui riposava la relazione giuridica tra amministrazione e privato, asseritamente lesa, si riferisce non già ad un comportamento privato o materiale - a un “mero comportamento” - ma al potere pubblico, nell’esercizio del quale l’amministrazione è tenuta ad osservare le regole speciali che connotano il suo agire autoritativo e al quale si contrappongono situazioni soggettive del privato aventi la consistenza di interesse legittimo. NEL MERITO, NEI RAPPORTI DI DIRITTO AMMINISTRATIVO, INERENTI ALL’ESERCIZIO DEL PUBBLICO POTERE, E’ CONFIGURABILE UN AFFIDAMENTO DEL PRIVATO SUL LEGITTIMO ESERCIZIO DI TALE POTERE E SULL’OPERATO DELL’AMMINISTRAZIONE CONFORME AI PRINCIPI DI CORRETTEZZA E BUONA FEDE, FONTE PER QUEST’ULTIMA DI RESPONSABILITA’ NON SOLO PER COMPORTAMENTI CONTRARI AI CANONI DI ORIGINE CIVILISTICA RICHIaMATI, MA ANCHE PER IL CASO DI PROVVEDIMENTO FAVOREVOLE ANNULLATO SU RICORSO DI TERZI. L’AFFIDAMENTO TUTELABILE IN VIA RISARCITORIA DEVE ESSERE INCOLPEVOLE, E FONDARSI SU UNA SITUAZIONE DI APPARENZA COSTITUITA DALL’AMMINISTRAZIONE CON IL PROVVEDIMENTO, O CON IL SUO COMPORTaMENTO CORRELATO AL PUBBLICO PROVATO, IN CUI IL PRIVATO ABBIA SENZA COLPA CONFIDATO. NEL CASO DI PROVVEDIMENTO POI ANNULLATO, IL SOGGETTO BENEFICIARIO DEVE DUNQUE VANTARE UNA FONDATA ASPETTATIVA ALLA CONSERVAZIONE DEL BENE DELLA VITA OTTENUTO CON IL PROVVEDIMENTO STESSO, LA FRUSTRAZIONE DELLA QUALE PUO’ QUINDI ESSERE CONSIDeRATA MERITEVOLE DI TUTELA PER EQUIVALENTE IN BASE ALL’ORDINAMENTO GIURIDICO. LA TUTELA RISARCITORIA NON INTERVIENE QUINDI A COMPENSARE IL BENE DELLA VITA PERSO A CAUSA DELL’ANNULLAMENTO DEL PROVVEDIMENTO FAVOREVOLE, CHE COMUNQUE SI E’ ACCERTATO NON SPETTANTE NEL GIUDIZIO DI ANNULLAMENTO, MA A RISTORARE IL CONVINCIMENTO RAGIONEVOLE CHE ESSO SPETTASSE. IN QUESTA PROSPETTIVA, IL GRADO DELLA COLPA DELL’AMMINISTRAZIONE, E DUNQUE LA MISURA IN CUI L’OPERATO DI QUESTA E’ RIMPROVERABILE, RILEVA SOTTO IL PROFILO DELLA RICONOSCIBILITA’ DEI VIZI DI LEGITTIMITA’ DA CUI POTREBBE ESSERE AFFETTO IL PROVVEDIMENTO, NEL SENSO CHE PIU’ RENDE MANIFESTA L’ILLEGITTIMITA’ DEL PROVVEDIMENTO FAVOREVOLE AL SUO DESTINATARIO, E PIU’ CONSENTE DI RITENERE CHE EGLI NE POTESSE PERTANTO ESSERE CONSAPEVOLE. IN ALTRI TERMINI, IL RAGIONEVOLE CONVINCIMENTO SULLA LEGITTIMITA’ DEL PROVVEDIMENTO FAVOREVOLE POI ANNULLATO - SULLA CUI BASE PUo' FONDARSI LA RESPONSABILITA’ DELL’AMMINISTRAZIONE PER LESIONE DELL’AFFIDAMENTO - E’ ESCLUSO SIA NEL CASO DI ILLEGITTIMITA’ EVIDENTE CHE NEL CASO IN CUI IL DESTINATARIO DI TALE PROVVEDIMENTO ABBIA CONOSCENZA DELL’IMPUGNAZIONE DI TERZI CONTRO IL PROVVEDIMENTO STESSO ( Adunanze Plenarie n. 19 e 20 del 2021 ) Le regole di legittimità amministrativa e quelle di correttezza operano su piani distinti, uno relativo alla validità degli atti amministrativi e l’altro concernente invece la responsabilità dell’amministrazione e i connessi obblighi di protezione in favore della controparte. Oltre che distinti, i profili in questione sono autonomi e non in rapporto di pregiudizialità, nella misura in cui l’accertamento di validità degli atti impugnati non implica che l’amministrazione sia esente da responsabilità per danni nondimeno subiti dal privato destinatario degli stessi. L’affidamento è un principio generale dell’azione amministrativa che opera in presenza di una attività della pubblica amministrazione che fa sorgere nel destinatario l’aspettativa al mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito di tale attività. Pur sorto nei rapporti di diritto civile, con lo scopo di tutelare la buona fede ragionevolmente riposta sull’esistenza di una situazione apparentemente corrispondente a quella reale, da altri creata (e di cui sono applicazioni concrete, tra le altre, la “regola possesso vale titolo” ex art. 1153 cod. civ., l’acquisto dall’erede apparente di cui all’art. 534 cod. civ., il pagamento al creditore apparente ex art. 1189 cod. civ. e l’acquisto di diritto di diritti dal titolare apparente ex artt. 1415 e 1416 cod. civ.), l’affidamento è ormai considerato canone ordinatore anche dei comportamenti delle parti coinvolte nei rapporti di diritto amministrativo, ovvero quelli che si instaurano nell’esercizio del potere pubblico, sia nel corso del procedimento amministrativo sia dopo che sia stato emanato il provvedimento conclusivo. A conferma della descritta evoluzione si pone l’art. 1, comma 2-bis, della legge 7 agosto 1990, n. 241, il quale dispone che: «(i) rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede». La disposizione ora richiamata ha positivizzato una regola di carattere generale dell’agire pubblicistico dell’amministrazione, che trae fondamento nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97, comma 2, Cost.) e che porta a compimento la concezione secondo cui il procedimento amministrativo - forma tipica di esercizio della funzione amministrativa - è il luogo di composizione del conflitto tra l’interesse pubblico primario e gli altri interessi, pubblici e privati, coinvolti nell’esercizio del primo. Per il migliore esercizio della discrezionalità amministrativa il procedimento necessita pertanto dell’apporto dei soggetti a vario titolo interessati, nelle forme previste dalla legge sul procedimento del 7 agosto 1990, n. 241. Concepito in questi termini, il dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede ha quindi portata bilaterale, perché sorge nell’ambito di una relazione che, sebbene asimmetrica, è nondimeno partecipata ed in ragione di ciò esso si rivolge all’amministrazione e ai soggetti che a vario titolo intervengono nel procedimento. L’aspettativa al mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito dell’attività della pubblica amministrazione trova però un sicuro limite quando il beneficiario del provvedimento favorevole assume la qualità di controinteressato nel giudizio intrapreso da terzi per l’annullamento di tale provvedimento. In tal caso, il beneficiario/controinteressato è posto nelle condizioni di conoscere la possibile illegittimità del provvedimento a sé favorevole, per giunta entro il ristretto arco temporale dato dal termine di decadenza entro cui, ai sensi dell’art. 29 cod. proc. amm., l’azione deve essere proposta, e di difenderlo. La situazione che viene così a crearsi induce per un verso ad escludere un affidamento incolpevole, dal momento che l’annullamento dell’atto per effetto dell’accoglimento del ricorso diviene un’evenienza non imprevedibile, di cui il destinatario non può non tenere conto ed addirittura da questo avversata allorché deve resistere all’altrui ricorso; per altro verso porta ad ipotizzare un affidamento tutelabile prima della notifica dell’atto introduttivo del giudizio. Non costituisce, inoltre, elemento costitutivo dell’affidamento il fattore temporale, che in astratto è configurabile già al momento in cui è presentata l’istanza per il rilascio del provvedimento favorevole. Il tempo trascorso dalla sua emanazione costituisce semmai fattore che fonda l’interesse oppositivo all’esercizio del potere di annullamento d’ufficio e che, peraltro, con le recenti modifiche all’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, da originaria regola di comportamento dell’amministrazione, espressa con carattere generale dal principio di ragionevolezza del tempo in cui viene esercitato il potere di autotutela, è stato incorporato nell’ambito delle regole di validità dell’atto, attraverso la previsione di un termine massimo, ora fissato in dodici mesi.
30 dicembre 2021
L’ADUNANZA PLENARIA RIBADISCE IL PRINCIPIO SECONDO CUI IL DIRITTO DELL’UNIONE IMPONE CHE IL RILASCIO O IL RINNOVO DELLE CONCESSIONI DEMANIALI MARITTIME (O LACUALI O FLUVIALI) AVVENGA ALL’ESITO DI UNA PROCEDURA DI EVIDENZA PUBBLICA, CON CONSEGUENTE INCOMPATIBILITA’ DELLA DISCIPLINA NAZIONALE CHE PREVEDE LA PROROGA AUTOMATICA EX LEGE FINO AL 31 DICEMBRE 2033 DELLE CONCESSIONI IN ESSERE. TALE INCOMPATIBILITA’ SUSSISTE SIA RISPETTO ALL’ART. 49 TFUE CHE RISPETTO ALL’ART. 12 DELLA COSIDDETTA DIRETTIVA SERVIZI. IN PARTICOLARE, QUALSIASI ATTO DELLO STATO CHE STABILISCE LE CONDIZIONI ALLE QUALI E’ SUBORDINATA LA PRESTAZIONE DI UN’ATTIVITA’ ECONOMICA E’ TENUTO A RISPETTARE I PRINCIPI FONDAMENTALI DEL TRATTATO, IVI COMPRESI I PRINCIPI DI NON DISCRIMINAZIONE IN BASE ALLA NAZIONALITA’ E DI PARITA’ DI TRATTAMENTO, NONCHE’ L’OBBLIGO DI TRASPARENZA CHE NE DERIVA. NELL’OTTICA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA DETTO OBBLIGO DI TRASPARENZA IMPONE ALL’AUTORITA’ CONCEDENTE DI ASSICURARE, A FAVORE DI OGNI POTENZIALE OFFERENTE, UN ADEGUATO LIVELLO DI PUBBLICITA’ CHE CONSENTA L’APERTURA DEL RELATIVO MERCATO ALLA CONCORRENZA, NONCHE’ IL CONTROLLO SULL’IMPARZIALITA’ DELLE RELATIVE PROCEDURE DI AGGIUDICAZIONE. NEL CASO SPECIFICO DELLE CONCESSIONI DEMANIALI CON FINALITA’ TURISTICO-RICREATIVE, A VENIRE IN CONSIDERAZIONE COME STRUMENTO DI GUADAGNO OFFERTO DALLA P.A. NON E’ IL PREZZO DI UNA PRESTAZIONE NE’ IL DIRITTO DI SFRUTTARE ECONOMICAMENTE UN SINGOLO SERVIZIO, MA VIENE MESSO A DISPOSIZIONE DEI PRIVATI CONCESSIONARI UN COMPLESSO DI BENI DEMANIALI CHE ACQUISISCONO IMPORTANZA ECONOMICA RILEVANTISSIMA SE VALUTATI UNITARIAMENTE E COMPLESSIVAMENTE, IN QUANTO PATRIMONI NATURALISTICI ESTREMAMENTE RINOMATI. L’ATTRATTIVA ECONOMICA E’ INOLTRE AUMENTATA DALL’AMPIA POSSIBILITA’ DI RICORRERE IN VIA GENERALIZZATA E SENZA LIMITI TEMPORALI ALLA SUB-CONCESSIONE, EX ART. 45 BIS DEL CODICE DELLA NAVIGAZIONE. E’ DUNQUE EVIDENTE CHE, A CAUSA DEL RIDOTTO CANONE VERSATO ALL’AMMINISTRAZIONE CONCEDENTE, IL CONCESSIONARIO HA GIA’ LA POSSIBILITA’ DI RICAVARE, TRAMITE UNA SEMPLICE SUB-CONCESSIONE, UN PREZZO PIU’ ELEVATO RISPETTO AL CANONE CONCESSORIO. D’ALTRA PARTE, IL PATRIMONIO COSTIERO NAZIONALE, PER CONFORMAZIONE, UBICAZIONE GEOGRAFICA, CONDIZIONI CLIMATICHE E VOCAZIONE TURISTICA E’ CERTAMENTE OGGETTO DI INTERESSE TRANSFRONTALIERO, ESERCITANDO UNA INDISCUTIBILE CAPACITA’ ATTRATTIVA VERSO LE IMPRESE DI ALTRI STATI MEMBRI. SONO INOLTRE DEGNI DI CONFUTAZIONE TUTTI GLI ARGOMENTI TESI A SOTTRARRE IL RILASCIO E IL RINNOVO DELLE CONCESSIONI DEMANIALI MARITTIME ALL’APPLICAZIONE DELL’ART. 12 DELLA DIRETTIVA 2006/123, CON CONSEGUENTE INCOMPATIBILITA COMUNITARIA, ANCHE SOTTO TALE PROFILO, DELLA DISCIPLINA NAZIONALE CHE PREVEDE LA PROROGA AUTOMATICA E GENERALIZZATA DELLE CONCESSIONI GIA’ RILASCIATE. D’ALTRA PARTE, IL CONFRONTO COMPETITIVO, OLTRe AD ESSERE IMPOSTO DAL DIRITTO DELL’UNIONE, RISULTA COERENTE CON L’EVOLUZIONE DELLA NORMATIVA INTERNA SULL’EVIDENZA PUBBLICA, CHE INDIVIDUA IN TALE METODO LO STRUMENTO PIU’ EFFICACE PER LA SCELTA DEL MIGLIOR CONTRAENTE (IN TAL CASO, CONCESSIONARIO), MA ANCHE COME MEZZO PER GARANTIRE TRASPARENZA ALLE SCELTE AMMINISTRATIVE E APERTURA DEL SETTORE DEI SERVIZI AL DI LA’ DELLE BARRIERE ALL’ACCESSO. INOLTRE, IL CONFRONTO E’ ESTREMAMENTE PREZIOSO PER GARANTIRE AI CITTADINI UNA GESTIONE DEL PATRIMONIO NAZIONALE COSTIERO E UNA CORRELATA OFFERTA DI SERVIZI PUBBLICI PIU’ EFFICIENTI E DI MIGLIORE QUALITA’ E SICUREZZA, POTENDO CONTRIBUIRE IN MISURA SIGNIFICATIVA ALLA CRESCITA ECONOMICA E, SOPRATTUTTO, ALLA RIpRESA DEGLI INVESTIMENTI DI CUI IL PAESE NECESSITA. TUTTAVIA, L’ADUNANZA PLENARIA HA RITENUTO DI DOVERE MODULARE GLI EFFETTI TEMPORALI DELLA PROPRIA DECISIONE, STABILENDO CHE IL VENIR MENO DEGLI EFFETTI DELLE CONCESSIONI PROROGATE EX LEGE DEVE ESSERE CONTEMPERATO CON LA NECESSITA’ DI ASSICURARE ALLE AMMINISTRAZIONI UN RAGIONEVOLE LASSO DI TEMPO PER INTRAPRENDERE SIN D’ORA LE OPERAZIONI FUNZIONALI ALL’INDIZIONE DI PROCEDURE DI GARE, E ADEGUATO AGLI EFFETTI AD AMPIO SPETTRO CHE INEVITABILMENTE DERIVeRANNO SU UNA MOLTITUDINE DI RAPPORTI CONCESSORI, DI MODO CHE L’INTERVALLO TEMPORALE PER L’OPERATIVITA’ DEGLI EFFETTI DELLA DECISIONE E’ STATO INDIVIDUATO AL 31 DICEMBRE 2023. SCADUTO TALE TERMINE, TUTTE LE CONCESSIONI DEMANIALI IN ESSERE DOVRANNO CONSIDERARSI PRIVE DI EFFETTO, INDIPENDEnTEMENTE DALLA SUSSISTENZA O MENO DI UN SOGGETTO SUBENTRANTE NELLA CONCESSIONE ( Adunanze plenarie n. 17 e 18 del 2021 ) L’Adunanza plenaria ha deciso di non disporre rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE in merito alla questione esaminata, ricorrendo, nel caso di specie, una delle situazioni in presenza delle quali, in base alla c.d. “giurisprudenza Cilfit” (di recente, ribadita, sia pure con alcuni correttivi volti a renderla più flessibile, dalla Corte di giustizia, Grande Camera, nella sentenza 6 ottobre 2021, C-569/19), i giudici nazionali di ultima istanza non sono sottoposti all’obbligo di rinvio pregiudiziale. La questione controversa è stata, infatti, già oggetto di interpretazione da parte della Corte di giustizia e gli argomenti invocati per superare l’interpretazione già resa dal giudice europeo non sono in grado di sollevare ragionevoli dubbi, come confermato anche dal fatto che i principi espressi dalla sentenza Promoimpresa sono stati recepiti da tutta la giurisprudenza amministrativa nazionale sia di primo che di secondo grado, con l’unica isolata eccezione del T.a.r. Lecce, il quale, peraltro, più che mettere in discussione l’esistenza di un regime di evidenza pubblica comunitariamente imposto cui sottoporre il rilascio o il rinnovo della concessioni demaniali, ha negato la sussistenza di un potere di non applicazione in capo agli organi della P.A., toccando, quindi, una questione sulla quale esistono orientamenti giurisprudenziali (elaborati dai giudici europei e nazionali) ancor più consolidati e granitici. In effetti, quanto alla doverosità o meno della disapplicazione, da parte della Repubblica Italiana, delle leggi statali o regionali che prevedano proroghe automatiche e generalizzate delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative (con particolare riferimento alla sussistenza dell’obbligo, per l’apparato amministrativo e per i funzionari dello Stato membro, di disapplicare la norma nazionale confliggente col diritto dell’Unione europea e all'interrogativo se detto obbligo, qualora sussistente, si estenda a tutte le articolazioni dello Stato membro, compresi gli enti territoriali, gli enti pubblici in genere e i soggetti ad essi equiparati), l’Adunanza plenaria ha ribadito che l’obbligo di non applicare la legge anticomunitaria gravi in capo all’apparato amministrativo, anche nei casi in cui il contrasto riguardi una direttiva self-executing . In termini generali, è stato osservato che la sussistenza di un dovere di non applicazione anche da parte della P.A. rappresenta un approdo ormai consolidato nell’ambito della giurisprudenza sia europea sia nazionale. In particolare, nella sentenza Fratelli Costanzo si legge espressamente che “tutti gli organi dell’amministrazione, compresi quelli degli enti territoriali”, sono tenuti ad applicare le disposizioni UE self-executing, “disapplicando le norme nazionali ad esse non conformi” (22 giugno 1989, C-103/88). Anche la Corte costituzionale (sentenza n. 389 del 1989) ha ribadito che “tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza o valore di legge) – tanto se dotati di poteri di dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri, come gli organi amministrativi – sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con le norme” comunitarie nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia europea. Il Consiglio di Stato, a sua volta, sin dalla sentenza sez. V 6 aprile 1991, n. 452, ha chiarito che tutti i soggetti dell’ordinamento, compresi gli organi amministrativi, devono riconoscere come diritto legittimo e vincolante le norme comunitarie, non applicando le norme nazionali contrastanti. Opinare diversamente significherebbe autorizzare la P.A. all’adozione di atti amministrativi illegittimi per violazione del diritto dell’Unione, destinati ad essere annullati in sede giurisdizionale, con grave compromissione del principio di legalità, oltre che di elementari esigenze di certezza del diritto. Queste conclusioni, secondo l’Adunanza plenaria, valgono anche per il caso in cui a venire in rilievo sia una direttiva self-executing . Secondo il T.a.r. Lecce, occorrerebbe valorizzare la distinzione tra regolamenti comunitari – che sono, per loro stessa natura, direttamente applicabili e tali quindi da giustificare la non applicazione anche da parte della P.A. – e direttive, che, al contrario, di regola non possono produrre effetti diretti e la cui eccezionale natura self-executing richiederebbe una complessa attività interpretativa, la quale, ove rimessa ai singoli organi amministrativi, rischierebbe di legittimare non applicazioni della legge nazionale affidate a valutazioni soggettive ed opinabili del singolo funzionario, prive di riscontro in sede di giurisprudenza nazionale o europea. In senso contrario a tale argomentazione, è tuttavia dirimente, secondo l’Adunanza plenaria, la circostanza che nel caso di specie tale incertezza circa il carattere self-executing della direttiva 2006/123 non sussiste, perché tale carattere è stato espressamente riconosciuto dalla Corte di giustizia nella sentenza Promoimpresa (C-174/06), oltre che da una copiosa giurisprudenza nazionale che ad essa ha fatto seguito. In secondo luogo, la prospettata distinzione, nell’ambito delle norme U.E. direttamente applicabili, fra i regolamenti, da un lato, e le direttive self-executing , dall’altro – al fine di ritenere solo le prime e non le seconde in grado di produrre l’obbligo di non applicazione in capo alla P.A. – si tradurrebbe nel parziale disconoscimento del c.d. effetto utile delle stesse direttive autoesecutive e nella artificiosa creazione di un’inedita categoria di norme U.E. direttamente applicabili (nei rapporti verticali) solo da parte del giudice e non della P.A. Di tale limitazione non vi è traccia nella giurisprudenza comunitaria, la quale, anzi, è da tempo orientata verso una progressiva valorizzazione dell’effetto diretto della direttiva self-executing (cui si riconosce una crescente incidenza anche nella disciplina dei rapporti orizzontali). Infine, la tesi della non disapplicabilità da parte della P.A. della legge in contrasto con una direttiva self-executing cade in una contraddizione logica, che finisce per sterilizzarne ogni utilità pratica. Basti pensare che, anche ad ammettere che la legge in contrasto con la direttiva self-esecuting non sia disapplicabile dalla P.A. ma solo dal giudice, rimarrebbe fermo che l’atto amministrativo emanato in base ad una legge poi riconosciuta anticomunitaria in sede giurisdizionale sarebbe comunque illegittimo e, come tale, andrebbe annullato. E allora, nel momento in cui la P.A. ha comunque deciso di “non applicare” quella legge (nel caso di specie, negando la proroga) e il privato ha sottoposto al vaglio giurisdizionale l’atto amministrativo frutto di quella non applicazione, il giudice, che certamente ha il potere di non applicazione, non potrebbe che prendere atto della legittimità dell’atto e respingere il ricorso. Altrimenti si dovrebbe ritenere che nemmeno il giudice può disapplicare la legge che la P.A. ha applicato, con chiara violazione di consolidati principi sui rapporti tra ordinamenti nazionale e comunitario. Ne consegue dunque che la legge nazionale in contrasto con una norma europea dotata di efficacia diretta, ancorché contenuta in una direttiva self-executing , non può essere applicata né dal giudice né dalla pubblica amministrazione, senza che sia all’uopo necessario (come chiarito dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 170 del 1984) una questione di legittimità costituzionale, dal momento che un sindacato di costituzionalità in via incidentale su una legge nazionale anticomunitaria è oggi possibile solo se tale legge sia in contrasto con una direttiva comunitaria non self-executing oppure, secondo la recente teoria della c.d. doppia pregiudizialità, nei casi in cui la legge nazionale contrasti con i diritti fondamentali della persona tutelati sia dalla Costituzione sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (cfr., in particolare, Corte Cost., sentenze n. 289/2017, n. 20/2019, n. 63/2019, n. 112/2019). Non rilevano, in senso contrario, neanche le esigenze correlate alla tutela dell’affidamento degli attuali concessionari. In primo luogo, l’affidamento del concessionario dovrebbe trovare tutela (come chiarito da Corte di giustizia e anche dalla Corte costituzionale) non attraverso la proroga automatica, ma al momento di fissare le regole per la procedura di gara. In secondo luogo, secondo il diritto europeo un legittimo affidamento può sorgere solo se un certo numero di condizioni rigorose sono soddisfatte. In primo luogo, rassicurazioni precise, incondizionate e concordanti, provenienti da fonti autorizzate ed affidabili, devono essere state fornite all’interessato dall’amministrazione. Inoltre, tali rassicurazioni devono essere idonee a generare fondate aspettative nel soggetto cui si rivolgono. In terzo luogo, siffatte rassicurazioni devono essere conformi alle norme applicabili. Tali condizioni, ad avviso dell’Adunanza plenaria, non sussistono nella materia in esame, specie se si considera che, ancor prima e a prescindere dalla direttiva 2006/123, il Consiglio di Stato aveva già affermato che per le concessioni demaniali la sottoposizione ai principi della concorrenza e dell’evidenza pubblica trova il suo presupposto sufficiente nella circostanza che con la concessione del bene pubblico si fornisca un’occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato, tale da imporre una procedura competitiva ispirata ai suddetti principi di trasparenza e non discriminazione.
30 dicembre 2021
IL DISPOSTO APPLICATIVO DELLA LEGGE 25/2/1992 N. 210, E DELLE SUCCESSIVE LEGGI 29.11.2007 N. 222 e 31.12.2007, N. 244, IN MATERIA DI TRANSAZIONI DEL MINISTERO CON SOGGETTI DANNEGGIATI DA TRASFUSIONI, VA TENUTO DISTINTO DALLE DISPOSIZIONI CODICISTICHE IN TEMA DI PRESCRIZIONE, SIA PER IL TENORE TESTUALE DELLE DISPOSIZIONI, CHE PER I CRITERI EMERNEUTICI DI CARATTERE SISTEMATICO E TELEOLOGICO, IN QUANTO IL PROCEDIMENTO TRANSATTIVO DE QUO E’ CERTAMENTE PROCEDIMENTO DI CARATTERE SPECIALE CHE NON ESCLUDE LA PERCORRIBILITA’ DELLA TRANSAZIONE ORDINARIA TRA LE PARTI, OVE NE RICORRANO I PRESUPPOSTI GENERALI DI CUI ALL’ART. 1965 C.C.. INOLTRE, TALE PROCEDIMENTO HA LA DUPLICE FINALITA’ DI INCIDERE SUL VASTO CONTENZIOSO GENERATOSI IN MATERIA NONCHE’ DI OFFRIRE IN TEMPI RAPIDI AI DANNEGGIATI E AI LORO EREDI UN RISTORO. LA SOLUZIONE INTERPRETATIVA DELLA “NON INTERFERENZA” TRA LE DISPOSIZIONI DEL DM 28 APRILE 2009, N. 132 E QUELLE DEL “DM MODULI”, CON LE NORME CODICISTICHE IN MATERIA DI PRESCRIZIONE, E’ ANCHE L’UNICA COERENTE CON IL TOPOS ERMENEUTICO DELL’INTERPRETAZIONE “CONFORME”, ATTESO CHE E’ L’UNICA, ALLA LUCE DELLA FORMULAZIONE TESTUALE DELLA DISPOSIZIONE, AD ASSICURARE LA CONFORMITA’ DELL’IMPIANTO ATTUATIVO CON LE SUPERIORI REGOLE IN MATERIA DI PRESCRIZIONE, COSI’ COME CHIARITE DALLA CORTE DI CASSAZIONE, A MENTE DELLE QUALI IN CASo DI DECESSO DEL DANNEGGIATO A CAUSA DEL CONTAGIO, LA PRESCRIZIONE RIMANE QUINQUENNALE PER IL DANNO SUBITO DA QUEL SOGGETTO IN VITA, DEL QUALE IL CONGIUNTO CHIEDA IL RISARCIMENTO IURE HEREDITATIS , TRATTANDOSI PUR SEMPRE DI UN DANNO DA LESIONE COLPOSA, E DUNQUE DI UN REATO A PRESCRIZIONE QUINQUENNALE. NE DERIVA CHE IL TERMINE DECENNALE CONTEMPLATO DALL’ ART. 5, COMMA 1, LETTERA B) DEL D.M. 4 maggio 2012 (COSIDDETTO “DECRETO MODULI”), NON E’ RIFERIBILE ALLA PRESUNTA PRESCRIZIONE MA SI LIMITA A SEGNARE L’AMBITO TEMPORALE ENTRO IL QUALE LA PENDENZA DEL GIUDIZIO COSTITUISCE IL NECESSARIO PRESUPPOSTO PER L’AMMISSIONE ALLA TRANSAZIONE ( Adunanza Plenaria n. 16 del 2021 ) Il regime della prescrizione del diritto al risarcimento del danno spettante ai familiari della persona deceduta a causa di emotrasfusione va correlato al titolo della responsabilità fatto valere, in correlazione con la qualificazione penalistica della vicenda. I congiunti, se agiscono iure hereditatis , non possono far valere altro che il reato di lesioni, perché quello è il solo reato rispetto al quale il defunto avrebbe potuto avanzare una pretesa risarcitoria diretta, e conseguentemente la prescrizione è quinquennale; viceversa, qualora essi agiscano iure proprio , cioè chiedendo il risarcimento di un danno diretto da loro patito per la morte del congiunto, allora è invocabile il delitto di omicidio colposo, con il corollario della prescrizione decennale. Né il regolamento di cui al DM 28 aprile 2009, n. 132, né il “DM moduli”, a cui il primo ha demandato la fissazione di alcuni profili meramente attuativi della fattispecie, avrebbero potuto prevedere alcunché di innovativo in materia di prescrizione, non avendo tali decreti forza di legge (cfr. art. 2946 c.c. e seguenti). Trattasi di fonti e atti generali applicativi, il cui unico compito è piuttosto quello di dettare criteri e modalità operative per la definizione transattiva delle liti pendenti, alla luce dei principi generali in materia di decorrenza dei termini di prescrizione del diritto fissati dal codice civile. L’amministrazione, nell’adempiere a tale compito a mezzo del “DM moduli” (decreto ministeriale del 4 maggio 2012, con cui sono stati definiti i moduli transattivi), ha ritenuto di individuare quale criterio primario, idoneo a scremare l’area della materia contenziosa suscettibile di speciale transazione, quello dell’insussistenza di una sentenza dichiarativa della prescrizione (lett. c). Questa è invero l’unica previsione che deve ritenersi direttamente collegata all’effettivo decorso dei termini prescrizionali: essa è declinata nel senso che se la prescrizione è stata oggetto di accertamento giurisdizionale, seppur non coperto da giudicato, l’accesso al modulo transattivo è da ritenersi precluso. Le altre due coordinate selettive, riferite rispettivamente ai “danneggiati viventi” (lett. a) e agli “eredi dei danneggiati deceduti” (lett. b) si limitano, ferma la condizione del mancato intervento di una sentenza accertativa della prescrizione, a definire un arco temporale entro il quale la domanda di adesione alla procedura transattiva può essere presentata. Ciò fanno, è da ritenere, sulla base di motivazioni che non attengono al presunto maturarsi della prescrizione alla luce delle previsioni codicistiche, ma a ragioni di carattere gestionale correlate alla limitatezza delle risorse messe a disposizione, e, probabilmente, al grado di interesse e bisogno del danneggiato presuntivamente evincibile dai tempi di attivazione del giudizio.
30 dicembre 2021
CON RIGUARDO ALLA SELEZIONE PER LA NOMINA A VICE SOVRINTENDENTE DELLA POLIZIA DI STATO, CON ALIQUOTA RISERVATA DI POSTI DESTINATI AI POSSESSORI DELL’ATTESTATO DI BILINGUISMO, NEL CASO DI IMPUGNAZIONE DI CLAUSOLE DEL BANDO CHE CONSENTONO LA PARTECIPAZIONE A SOGGETTI NON IN POSSESSO DI UN DETERMINATO LIVELLO DELL’ATTESTATO DI BILINGUISMO RICHIESTO, E DELLA RISPETTIVA PARTE DELLA GRADUATORIA DI MERITO, SEBBENE SI SIA IN PRESENZA, SUL PIANO FORMALE, DI UNA GRADUATORIA UNITARIA, NON PUO’ DISCONOSCERSI CHE LA COLLOCAZIONE IN ESSA DEI CONCORRENTI DESTINATI ALLA QUOTA RISERVATA COSTITUISCA UNA ESORTA DI “SUB-GRADUATORIA” FACILMENTE INDIVIDUABILE. INOLTRE, LA RATIO DEL MECCANISMO DI RISERVA E’ DI POTERE INDIVIDUARE E POI ASSUMERE IN SERVIZIO PERSONALE BILINGUE, IN FUNZIONE ALLA SPECIALE TUTELA DELLE MINORANZE LINGUISTICHE E DATA L’ESIGENZA PARTICOLARE CHE GLI UFFICI, ENTI E REPARTI MILITARI O DI TIPO MILITARE, CON SEDE NELLA PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO , SIANO STRUTTURATI IN MODO TALE DA CONSENTIRE NEI RAPPORTI ESTERNI L’UTILIZZO DI ENTRAMBE LE LINGUE ITALIANA E TEDESCA, CON DOVERE, TRA L’ALTRO, DELLA REDAZIONE DEGLI ATTI IMMEDIATAMENTE NELLA MADRELINGUA DEL CITTADINO. NE CONSEGUE CHE, IN BASE ALLA SPECIFICA PROCEDURA E AGLI EFFETTI CHE LA LEGGE PREVEDE, SEPPURE LA FORMA SCELTA DAL MINISTERO E’ UN CONCORSO UNICO CON RISERVA DI POSTI, SOLO MEDIANTE L’ATTESTAZIONE DI BILINGUISMO SI ACCEDE ALLA GRADUATORIA RISERVATA, MENTRE L’ATTESTAZIONE IN SERVIZIO NON E’ CONSENTITA AGLI ALTRI SOGGETTI PARTECIPANTI AL CONCORSO. IN ALTRI TERMINI, E’ SOLO PER ECONOMIA PROCEDIMENTALE E DI EFFICIENZA, CHE L’AMMINISTRAZIONE HA OPTATO PER LA VIA DELL’UNICO PROCEDIMENTO DI SELEZIONE, MA, SOTTO ALTRO PROFILO, IL BANDO E LA RELATIVA GRADUATORIA SONO DESTINATI A PRODURRE I PROPRI EFFETTI DIRETTI, PER QUANTO DI INTERESSE DEI RICORRENTI (IMPUGNAZIONE DI CLAUSOLE DEL BANDO SULL’ATTESTAZIONE DI BILINGUISMO) LIMITATAMENTE AI SOGGETTI DESTINATI AL TERRITORIO DELLA PROVINCIA DI BOLZANO. PERTANTO, GLI EVENTUALI AVANZAMENTI NELLA PARTE RISERVATA DELLA GRADUATORIA CONCORSUALE DERIVANTE DA UN UNICO BANDO, PUR EVENTUALMENTE COMPORTANTI SCORRIMENTI ANCHE NELLA GRADUATORIA NAZIONALE, NON SONO IDONEI A RADICARE LA COMPETENZA DEL T.A.R. LAZIO. COMPORTANO ALTRESI’, ESSENDO OGGETTO DEL CONTENZIOSO L’INTERPRETAZIONE DI UNO SPECIFICO STRUMENTO A GARANZIA DELLA TUTELA DELLE MINORANZE LINGUISTICHE, LA COMPETENZA ESCLUSIVA DEL T.R.G.A., COME DEFINITA DALL’ARTICOLO 43 DEL D.P.R. 752/1976 ( Adunanza Plenaria n. 15 del 2021 ) L’effetto diretto consiste nella capacità della norma di creare diritti ed obblighi direttamente e utilmente in capo a singoli soggetti, mentre è di mero riflesso, o indiretto, quando si tratta di sole ripercussioni, senza necessaria certezza dell’effetto stesso. Il comma 2 dell’art. 13 cod. proc. amm. definisce gli effetti diretti “limitati all’ambito territoriale della regione ove il tribunale ha sede”, considerando quindi la dimensione spaziale dell’effetto. Si vuole in questo modo individuare se l’atto sia destinato a produrre i suoi effetti o ad essere messo in esecuzione in un luogo determinato. In altre parole, la norma si riferisce agli effetti tipici che la legge riconduce al potere, come configurato dalla norma. È quindi necessario individuare gli effetti tipici diretti nell’ambito delle conseguenze giuridiche dell’azione amministrativa, estrapolandoli dalla pluralità di effetti indiretti, contestuali o riflessi che da quell’azione possono del pari derivare. Orbene, specialmente negli “atti plurimi” (come il bando di concorso oggetto della controversia esaminata dal Consiglio di Stato), la valutazione degli effetti diretti territorialmente limitati è possibile se e in quanto questi sono scindibili e contestati per la parte che determina la lesione della posizione del ricorrente. Quando gli atti amministrativi impugnati sono adottati da una pubblica amministrazione centrale, ma gli effetti diretti di essi potrebbero essere idonei, in parte, a radicare la competenza di un Tribunale amministrativo periferico invece di quella del T.A.R. per il Lazio, occorre verificare se si sia in presenza di una graduatoria unitaria non solo sul piano formale ma anche sul piano sostanziale, o se invece la riserva di posti previsti per un determinato ambito territoriale – caratterizzato da autonomia statutaria speciale – sia destinata a produrre effetti soltanto nei confronti dei soggetti che possono, per particolari competenze (in questo caso, linguistiche), assumere servizio in quel determinato territorio.
30 dicembre 2021
IN CASO DI SOPRAVVENUTA INTERDITTIVA ANTIMAFIA, AI SENSI E PER GLI EFFETTI DEGLI ARTICOLI 92, COMMA 3 e 94, COMMA 2 DEL D.LGS. N. 159/2011, NEGLI APPALTI PUBBLICI DI SERVIZI AGGIUDICATI A SEGUITO DI UNA PROCEDURA DI EVIDENZA PUBBLICA, AVENTI AD OGGETTO PRESTAZIONI PERIODICHE O CONTINUATIVE CONNOTATE DA STANDARDIZZAZIONE, OMOGENEITA’ E RIPETITIVITA’, IL VALORE DELLA PRESTAZIONI GIA’ ESEGUITE DA PAGARSI ALL’ESECUTORE NEI LIMITI DELLE UTILITA’ CONSEGUITE DALLA STAZIONE APPALTANTE CORRISPONDE AL PREZZO CONTRATTUALE STABILITO DALLE PARTI, SALVA LA POSSIBILITA’ DI PROVA CONTRARIA DA PARTE DELLA STAZIONE APPALTANTE CHE ESERCITA IL RECESSO. NELLA DETERMINAZIONE DI TALE VALORE, PER GLI APPALTI DI SERVIZI, DEVE INTENDERSI COMPRESA ANCHE LA SOMMA RISULTANTE DALL’APPLICAZIONE DEL PROCEDIMENTO OBBLIGATORIO DI REVISIONE DEI PREZZI DI CUI ALL’ART. 115 DEL D.LGS. N. 163/2006 ( Adunanza plenaria n. 14 del 2021 ) L’Adunanza plenaria ha preliminarmente dovuto stabilire che cosa debba intendersi per “valore delle opere (o servizi) già eseguiti”, pagabili al contraente privato interdetto “nei limiti delle utilità conseguite” dall’Amministrazione, non potendosi dare per scontata la equivalenza tra prezzo contrattuale e valore delle prestazioni, ove si consideri il tenore letterale delle norme in commento, che, da un lato, non prevedono il pagamento del “prezzo” delle prestazioni già eseguite, ma fanno riferimento al “valore” di dette prestazioni, e dall’altro lato pongono l’ulteriore limite delle utilità conseguite. Sulla scorta della sentenza dell’ Adunanza plenaria n. 23 del 2020 ( qui commentata ), con l’espressione “utilità conseguite” si intende riconoscere al soggetto interdetto il diritto a vedersi corrisposto un compenso limitato all’utilità conseguita dall’amministrazione, onde evitare che quest’ultima, dall’esecuzione dell’opera, possa trarre un ingiustificato arricchimento. “Le utilità conseguite” non sono dunque necessariamente equivalenti al valore e nemmeno al prezzo delle opere e servizi eseguiti. Si tratta di nozione riferibile ad una parte specifica e da questa apprezzabile attraverso il filtro selettivo di una valutazione di convenienza, tipica dell’operatore economico-giuridico individuale; pertanto, essa deve essere intesa in un senso più limitato e strettamente patrimoniale, tale da applicarsi alle sole opere, servizi o forniture che accrescono il patrimonio dell’amministrazione e che per quest’ultima rappresentano un valore economicamente valutabile. Può, in conclusione, affermarsi che la determinazione delle utilità conseguite è compito della p.a. che provvede, ricorrendone le condizioni di fatto, alla quantificazione alla stregua delle norme di legge. Invero, con la quantificazione delle utilità conseguite non si riconoscono diritti soggettivi o interessi legittimi sorti in capo al destinatario dopo l’adozione dell’interdittiva antimafia ma si intende evitare che la pubblica amministrazione dall’esecuzione dell’opera o dalla prestazione di servizi, possa trarre un ingiustificato arricchimento, in applicazione dei principi generali in materia del nostro ordinamento (art. 2041 cod.civ.). Secondo l’Adunanza plenaria, dunque, negli appalti di servizi, in cui l’aggiudicazione e quindi la determinazione del prezzo contrattuale seguono a una procedura di evidenza pubblica, il valore dei servizi già eseguiti, pagabile nel limite delle utilità conseguite, può essere ritenuto coincidente con il prezzo contrattuale pattuito dalle parti. Il prezzo contrattuale, stabilito a seguito di una procedura di gara ad evidenza pubblica, deve infatti ritenersi coincidente con il miglior prezzo di mercato conseguibile e quindi con il valore di mercato della prestazione. Finalità della gara è proprio quella di individuare il contraente che offra un prezzo che meglio corrisponda al valore di mercato della prestazione che la pubblica amministrazione intende acquisire per soddisfare i bisogni che la hanno indotta ad esperire il procedimento ad evidenza pubblica.
30 dicembre 2021
NEL CASO ESAMINATO DALL’ADUNANZA PLENARIA (DICHIARAZIONE DI INAMMISSIBILITA’ GIA’ IN FASE DI PROTOCOLLAZIONE DELLA DOMANDA DI CITTADINANZA PERCHE’ PRIVA DI UN ELEMENTO ESSENZIALE), NON SI E’ AL COSPETTO DI UN PROVVEDIMENTO DI DINIEGO DELLA CITTADINANZA STESSA, MA DI UNA DECISIONE PREFETTIZIA CHE SI ESAURISCE SUL PIANO PROCEDIMENTALE E NON ATTRIBUISCE NE’ NEGA LO STATUS DI CITTADINO VALIDO ERGA OMNES . NE DERIVA CHE NON SUSSISTE ALCUNA RAGIONE PER GIUSTIFICARE LA DEROGA ALLA COMPETENZA DEL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DOVE HA SEDE LA PREFETTURA PROCEDENTE, TRATTANDOSI DI ATTO EMANATo DA UN ORGANO PERIFERICO DELLO STATO CON EFFICACIA NON ESORBITANTE LA CIRCOSCRIZIONE TERRITORIALE IN CUI HA SEDE IL DETTO ORGANO. TALE ATTO NON E’ IN ALCUN MODO EQUIPARABILE AL DINIEGO DI CITTADINANZA, CHE E’ INVECE UN PROVVEDIMENTO EMANATO DA UN ORGANO CENTRALE DELLO STATO, IDONEO AD INCIDERE SULLO STATUS DEL SOGGETTO INTERESSATO CON EFFICACIA ERGA OMNES , E, QUINDI, CON EFFICACIA SU TUTTO IL TERRITORIO NAZIONALE. DA UN LATO, IL DECRETO DI INAMMISSIBILITA’ NON PRECLUDE LA POSSIBILITA’, PER L’INTERESSATO, DI RIPRESENTARE LA DOMANDA ANCHE IL GIORNO SUCCESSIVO ALL’ADOZIONE DEL DECRETO PREFETTIZIO, DALL’ALTRO, IL TRASFERIMENTO DELLE COMPETENZE IN CAPO ALL’AMMINISTRAZIONE CENTRALE E’ SOLO EVENTUALE E SUBORDINATO ALLA PREVIA VERIFICA DI AMMISSIBILITA’ DELLA DOMANDA, CON IMPOSSIBILITA’ PER LA PREFETTURA PROCEDENTE DI ENTRARE NEL MERITO DELLA SUSSISTENZA DEI PRESUPPOSTI PER L’ACCOGLIMENTO DELLA DOMANDA DI CONCESSIONE DELLA CITTADINANZA, E VALUTAZIONE CHE NON INCIDE SULLA PRETESA SOSTANZIALE DELLO STRANIERO, DOVENDOSI RICONOSCERE EFFICACIA ERGA OMNES , E DUNQUE ULTRAREGIONALE, SOLTANTO AL PROVVEDIMENTO CHE, ENTRANDO NEL MERITO, PRESUPPONE UN GIUDIZIO CIRCA LA SPETTANZA DEL BENE DELLA VITA, PERALTRO RICONOSCIBILE, NEL CASO DI SPECIE, SOLO DALL’AUTORITA’ CENTRALE. NE CONSEGUE CHE NELLA VICENDA ESAMINATA DALL’ADUNANZA PLENARIA IL CRITERIO DA UTILIZZARE PER LA DETERMINAZIONE DELLA COMPETENZA CONCERNE INSIEME E ARMONICAMENTE SIA IL PROFILO DELL’EFFICACIA DELL’ATTO CHE IL PROFILO DELLA SEDE DELL’ORGANO EMANANTE ( Adunanza Plenaria n. 13 del 2021 ) Il rapporto tra i due criteri di competenza territoriale previsti dall'art. 13, comma 1, c.p.a. segue una logica di complementarietà e di reciproca integrazione: il criterio principale è quello della sede dell'autorità che ha adottato l'atto impugnato, ma nel caso in cui la potestà pubblicistica spieghi i propri effetti diretti esclusivamente nell'ambito territoriale di un Tribunale periferico, il criterio della sede cede il passo a quello dell'efficacia spaziale. La conclusione si evince dalla parola «comunque» inserita nel secondo periodo della norma richiamata, atta ad indicare che si deve avere riguardo, per individuare il Tribunale amministrativo regionale competente per territorio, in primo luogo all'efficacia dell'atto: se questa è limitata ad una determinata Regione, sarà competente il Tribunale competente per tale Regione. Naturalmente, se il criterio della sede e quello dell'efficacia spaziale dell'atto impugnato finiscano per coincidere, la controversia si radica nella competenza territoriale dello stesso TAR. Quando invece l’efficacia spaziale di un provvedimento è circoscritta ad una Regione diversa da quella in cui ha sede l’Autorità emanante, sarà il Tribunale nel cui ambito territoriale si esplicano gli effetti dell’atto ad essere investito della relativa competenza e non il Tribunale nella cui circoscrizione ha sede l’Autorità emanante. Soltanto per gli atti emanati da un’Autorità periferica aventi efficacia non limitata ad un preciso ambito territoriale (e, dunque, aventi efficacia ultraregionale, intesa come non limitabile alla circoscrizione di una singola Regione) riprenderà vigore il criterio della sede dell’Autorità emanante per individuare il Tribunale competente, al pari degli atti statali non limitabili territorialmente quoad effectum , così come esplicita l’art. 13, comma 3, c.p.a.
29 giugno 2021
Le disposizioni che consentono nella fase dell’esecuzione del contratto la modificabilità soggettiva del raggruppamento solo in tassative, eccezionali, ipotesi, ora estese anche alla fase pubblicistica di gara, rispondono ad una duplice esigenza, fortemente avvertita sia a livello nazionale che a livello europeo: - di evitare, da un lato, che la stazione appaltante si trovi ad aggiudicare la gara e a stipulare il contratto con un soggetto, del quale non abbia potuto verificare i requisiti, generali o speciali, di partecipazione, in conseguenza di modifiche della composizione del raggruppamento avvenute nel corso della procedura ad evidenza pubblica o nella fase esecutiva del contratto; - di tutelare, dall’altro, la par condicio dei partecipanti alla gara con modifiche della composizione soggettiva del raggruppamento “calibrate” sull’evoluzione della gara o sull’andamento del rapporto contrattuale. Nella sola fase dell’esecuzione, peraltro, il legislatore, dopo la riforma apportata dall’art. 32, comma 1, lett. h), del d. lgs. n. 56 del 2017, ha previsto che anche il venir meno di uno dei requisiti di partecipazione, di cui all’art. 80 del d. lgs. n. 50 del 2016, in capo ad uno dei componenti – non essendo tale ipotesi applicabile alla fase di gara – possa giustificare la modifica soggettiva, ma sempre e solo interna al raggruppamento perché, diversamente, la fase dell’esecuzione presterebbe il fianco ex post all’aggiramento delle regole della trasparenza e della concorrenza, che presiedono alla fase della scelta del contraente, con l’inserzione postuma di soggetti esterni che nemmeno hanno preso parte alla gara e si troverebbero ad essere contraenti della pubblica amministrazione. L’ART. 48, COMMI 17, 18 E 19-TER, DEL D.LGS. N. 50 DEL 2016, SECONDO L'ADUNANZA PLENARIA, CONSENTE LA SOSTITUZIONE MERAMENTE INTERNA DEL MANDATARIO O DEL MANDANTE DI UN RAGGRUPPAMENTO TEMPORANEO DI IMPRESE CON UN ALTRO SOGGETTO DEL RAGGRUPPAMENTO STESSO IN POSSESSO DEI REQUISITI, ANCHE NELLA FASE DI GARA, MA SOLO NELLE IPOTESI DI FALLIMENTO, LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA, AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA, CONCORDATO PREVENTIVO O DI LIQUIDAZIONE O, QUALORA SI TRATTI IMPRENDITORE INDIVIDUALE, DI MORTE, INTERDIZIONE, INABILITAZIONE O ANCHE LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE. E' CONSENTITA POI, PIU’ INGENERALE, LA SOSTITUZIONE, SEMPRE INTERNA, PER ESIGENZE RIORGANIZZATIVE DELLO STESSO RAGGRUPPAMENTO TEMPORANEO DI IMPRESE, A MENO CHE – IN COERENZA CON QUANTO PREVEDE, PARALLELAMENTE, IL COMMA 19 PER IL RECESSO DI UNA O PIU' IMPRESE RAGGRUPPATE – QUESTE ESIGENZE NON SIANO FINALIZZATE AD ELUDERE LA MANCANZA DI UN REQUISITO DI PARTECIPAZIONE DI GARA. L’EVENTO CHE CONDUCE ALLA SOSTITUZIONE MERAMENTE INTERNA DEVE ESSERE PORTATO DAL RAGGRUPPAMENTO A CONOSCENZA DELLA STAZIONE APPALTANTE PER CONSENTIRLE, SECONDO UN PRINCIPIO DI SOSTITUIBILITA’ PROCEDIMENTALIZZATA A TUTELA DELLA TRASPARENZA E DELLA CONCORRENZA, DI ASSEGNARE AL RAGGRUPPAMENTO UN CONGRUO TERMINE PER LA RIORGANIZZAZIONE DEL PROPRIO ASSETTO DI PARTECIPAZIONE ALLA GARA O LA PROSECUZIONE DEL RAPPORTO CONTRATTUALE (Adunanza plenaria n. 10/2021) La giurisprudenza del Consiglio di Stato è ferma nell’escludere la modifica del raggruppamento temporaneO di imprese con l’addizione di un soggetto esterno, essendo consentita in sede di gara solo quella c.d. per sottrazione (interna), per ragioni riorganizzative tutte interne allo stesso raggruppamento, e ora, eccezionalmente, per la sola fase esecutiva, anche per il venir meno, eventualmente, di uno dei requisiti di cui all’art. 80 del d. lgs. n. 50 del 2016 in capo ad una delle imprese partecipanti. La sostituzione esterna non è consentita né per la figura della mandataria né per quella della mandante e, in senso contrario, non assume alcun rilievo sul piano letterale la diversa formulazione del comma 17 al rispetto al comma 18 dell’art. 48 del codice dei contratti pubblici, perché il riferimento del comma 18 all’operatore economico “subentrante” non allude certo all’ingresso nel raggruppamento di soggetto esterno, ma semplicemente alla struttura stessa del raggruppamento, che presuppone una pluralità di mandanti, e al subentro, appunto, di un mandante in possesso dei prescritti requisiti di idoneità ad altro mandante, salvo l’obbligo, per il mandatario, di eseguire direttamente le prestazioni, direttamente o a mezzo degli «altri mandanti», purché abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori e ai servizi o fornitura «ancora da eseguire». La disposizione del comma 18 correttamente interpretata intende disciplinare la prosecuzione del rapporto contrattuale tra la stazione appaltante e i rimanenti soggetti del raggruppamento, mandatario e mandanti, non certo – e quasi surrettiziamente – introdurre ab externo un terzo soggetto mandante nell’esecuzione di un rapporto contrattuale tra l’originario raggruppamento aggiudicatario e la stazione appaltante. La stessa conclusione vale a fortiori per il comma 17, in rapporto alla figura della mandataria, centrale nell’esecuzione dell’appalto, essendo necessario costituire un nuovo rapporto di mandato, ai sensi dei commi 12 e 13 del medesimo art. 48, nella «prosecuzione del rapporto» tra i medesimi soggetti, esclusa, appunto, la mandataria colpita dall’evento ostativo, da sostituirsi con uno dei mandanti, purché abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire. Altrimenti, non sussistendo tali condizioni, così come ancora prevede l’ultimo periodo del comma 17 novellato dal d. lgs. n. 56 del 2017, la « stazione appaltante deve recedere dal contratto ». Le disposizioni dell’art. 48 del d. lgs. n. 50 del 2016 non intendono certo “sanzionare” gli altri incolpevoli partecipanti al raggruppamento, che non abbiano alcuna responsabilità nell’evento che ha colpito la mandataria o la mandante, né avvilire il principio dell’iniziativa economica, sancito dall’art. 41 Cost., con l’esclusione del raggruppamento al quale viene impedito di ricorrere ad una sostituzione aggiuntiva, mediante l’inserzione di un soggetto nuovo, ma semplicemente regolare la prosecuzione del rapporto contrattuale, o – in forza di quanto prevede ora il comma 19-ter – anche della gara, con il raggruppamento in cui un’impresa partecipante, mandataria o mandante, sia stata raggiunta da un evento eccezionale, che impedisce la sua partecipazione alla fase della gara o all’esecuzione del contratto. È semmai l’aggiunta di un soggetto esterno all’originario raggruppamento a ledere non solo l’interesse pubblico al corretto svolgimento della gara e alla trasparenza nell’esecuzione del contratto aggiudicato al contraente più affidabile, ma anche lo stesso interesse alla concorrenza, tutelato dall’art. 41 Cost., degli altri partecipanti alla gara, che devono concorrere a parità di condizioni con soggetti che, tendenzialmente, abbiano preso parte a tutte le sue fasi a tutela della trasparenza e, insieme, della concorrenza stessa. Rispetto a questi interessi, ben delineati dalla Corte di Giustizia nella propria giurisprudenza e dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 85 del 2020, l’interesse del raggruppamento è senz’altro recessivo e non può prevalere per un malinteso senso della concorrenza che, paradossalmente, produrrebbe effetti anticoncorrenziali a livello più generale.
29 giugno 2021
SULLA SCORTA DELL’ART. 186-BIS, COMMA 4, DELLA LEGGE FALLIMENTARE, LA PRESENTAZIONE DI UNA DOMANDA DI CONCORDATO IN BIANCO O CON RISERVA NON PUO’ CONSIDERARSI CAUSA DI AUTOMATICA ESCLUSIONE, NE’ INIBISCE LA PARTECIPAZIONE ALLE PROCEDURE PER L’AFFIDAMENTO DI CONTRATTI PUBBLICI. IN PARTICOLARE, NON SI PUO’ RITENERE CHE LA PRESENTAZIONE DI UNA TALE DOMANDA COMPORTI PER CIO’ SOLO LA PERDITA DEI REQUISITI GENERALI DI PARTECIPAZIONE – IL CUI EVENTUALE SUCCESSIVO RECUPERO IN CASO DI BUON ESITO DELLA PROCEDURA NON VARREBBE NEPPURE AD ELIDERE UNA SIMILE CESURA, IN RAGIONE DEL NOTO PRINCIPIO DI CONTINUITA’ – OSTANDO A TALE RICOSTRUZIONE, OLTRE CHE LA LETTERA DELL’ART. 186-BIS, LA FUNZIONE PRENOTATIVA E PROTETTIVA DELL’ISTITUTO DEL CONCORDATO CON RISERVA CHE, COME SPIEGATO NELLA RELAZIONE MINISTERIALE ALL’ART. 372 DEL CODICE DELLA CRISI DI IMPRESA E DELL'INSOLVENZA, DA STRUMENTO DI TUTELA NON PUO’ TRADURSI NEL SUO CONTRARIO, OSSIA IN UN OSTACOLO ALLA PROSECUZIONE DELL’ATTIVITA’ IMPRENDITORIALE, IN QUANTO PROPRIO TALE PROSPETTIVA POSTULA CHE RESTI CONSENTITO, PER QUANTO “VIGILATO”, L’ACCESSO AL MERCATO DEI CONTRATTI PUBBLICI. QUESTA CONCLUSIONE, CHE SUBORDINA LE PROCEDURE DI GARA AL PRUDENTE APPREZZAMENTO DEL TRIBUNALE, VALE SIA PER L’IPOTESI CHE L’IMPRESA ABBIA GiA' ASSUNTO LA QUALITA’ DI DEBITORE CONCORDATARIO NEL MOMENTO IN CUI E’ INDETTA LA NUOVA PROCEDURA AD EVIDENZA PUBBLICA, SIA PER IL CASO IN CUI, ALL’INVERSO, LA DOMANDA DI CONCORDATO SEGUA TEMPORALMENTE QUELLA GIA’ PRESENTATA DI PARTECIPAZIONE ALLA GARA. IN QUESTO SENSO, LA FORMULA “PARTECIPAZIONE A PROCEDURE DI AFFIDAMENTO DI CONTRATTI PUBBLICI", CONTENUTA NELL’ART. 186-BIS, COMMA 4 (COME RICHIAMATA ANCHE DALL’ART. 110, COMMA 4, DEL D.LGS. N. 50 DEL 2016), DEVE ESSERE LETTA NEL SUO SIGNIFICATO PIU’ PIENO E PiU' COERENTE CON QUELLA ESIGENZA DI CONTROLLO GIUDIZIALE AB INITIO CHE, REALIZZANDOSI SIN DAL MOMENTO IN CUI SI COSTITUISCE IL RAPPORTO PROCESSUALE CON IL GIUDICE FALLIMENTARE, RAPPRESENTA IL PUNTO DI EQUILIBRIO TRA LA TUTELA DEL DEBITORE E QUELLA DEI TERZI (Adunanze Plenarie n. 9 e 11 del 2021) L’indirizzo favorevole all’applicabilità anche al concordato in bianco o con riserva della deroga all’art. 80 , comma 5, lett. b) del codice dei contratti pubblici prevista per il concordato con continuità aziendale, fa leva sull’effetto prenotativo della domanda di concordato in bianco, in funzione del possibile concordato con continuità aziendale, e sulle finalità anticipatorie e protettive dell’istituto. L’indirizzo restrittivo, che conduce all’esclusione in via automatica dalla procedura di gara, muove dalla duplice premessa che con la domanda di concordato in bianco il debitore riconosca il venir meno dei propri requisiti di affidabilità e che la partecipazione alla gara sia un atto di straordinaria amministrazione, autorizzabile a mente dell’art. 161, comma 6, solo se urgente, per poi sottolineare l’incertezza e la fluidità della fase che si apre a seguito della domanda in bianco o con riserva, il che renderebbe tale fattispecie non comparabile con quella del concordato con continuità aziendale in senso proprio, il solo caso peraltro contemplato dall’art. 80, comma 5, lett. b) quale ragione di eccezione alla veduta regola che, in omaggio alla tradizione della contrattualistica pubblica nazionale, dispone altrimenti l’esclusione dell’operatore che si trovi in stato di insolvenza o di crisi, giudicandolo inaffidabile. La soluzione del contrasto ha imposto un approfondimento del rapporto tra le discipline della legge fallimentare e del codice dei contratti. Secondo l’Adunanza, l’art. 186-bis, comma 4, contempla (anche) l’ipotesi del concordato in bianco o con riserva, dal momento che per il concordato preventivo ordinario la nomina del commissario giudiziale è doverosa, sicché l’uso della formula ipotetica (“se nominato”, “ove già nominato”) si spiegherebbe solo se riferita al concordato in bianco dove, invece, la nomina del commissario giudiziale è una facoltà lasciata al tribunale. Oltre al dato ricavabile dalla legge fallimentare, e al progressivo riavvicinamento normativo da parte del codice dei contratti pubblici, viene in soccorso nella soluzione del quesito l’inquadramento che la domanda con riserva riceve da parte della giurisprudenza della Suprema Corte nel più ampio contesto della procedura di concordato preventivo, secondo cui con il ricorso di cui all’art. 161, comma 6 della legge fallimentare (cosiddetta richiesta di “concordato in bianco”), l’imprenditore presenta la domanda di concordato preventivo, e non già un ricorso di portata diversa e più circoscritta, non trattandosi di un procedimento distinto (e antecedente) rispetto a quello ordinario, che si apre solo con la presentazione della proposta, del piano e della documentazione, ma costituendo un segmento dell’unico procedimento che rileva, articolato in due fasi per così dire interne. La partecipazione alle gare pubbliche è dal legislatore considerata, a seguito del deposito della domanda di concordato anche in bianco o con riserva, come un atto che deve essere comunque autorizzato dal tribunale, acquisito il parere del commissario giudiziale ove già nominato, ai sensi dell’art. 186 bis, comma 4, da ultimo richiamato anche dagli articoli 80 e 110 del codice dei contratti; a tali fini, l’operatore che presenta domanda di concordato in bianco o con riserva è tenuto a richiedere senza indugio l’autorizzazione, anche qualora sia già partecipante alla gara, e ad informarne prontamente la stazione appaltante. L’autorizzazione giudiziale alla partecipazione alla gara pubblica deve intervenire entro il momento dell’aggiudicazione della stessa, non occorrendo che in tale momento l’impresa, inclusa quella che ha presentato domanda di concordato in bianco o con riserva, sia anche già stata ammessa al concordato preventivo con continuità aziendale. Quanto ai raggruppamenti temporanei di imprese, l’art. 48, commi 17, 18 e 19-ter, del d. lgs. n. 50 del 2016, nella formulazione attuale, consente la sostituzione, nella fase di gara, del mandante del raggruppamento, che abbia presentato domanda di concordato in bianco o con riserva a norma dell’art. 161, comma 6, l. fall, e non sia stato utilmente autorizzato dal tribunale fallimentare a partecipare a tale gara, solo se tale sostituzione possa realizzarsi attraverso la mera estromissione del mandante, senza quindi che sia consentita l’aggiunta di un soggetto esterno al raggruppamento.
29 giugno 2021
L’AMMINISTRAZIONE CHE E’ RISULTATA SOCCOMBENTE IN SEDE GIURISDIZIONALE NON PERDE IL PROPRIO POTERE DI PROVVEDERE, PUR IN PRESENZA DELLA NOMINA E DELL’INSEDIAMENTO DI UN COMMISSARIO AD ACTA (AL QUALE E’ CONFERITO IL POTERE DI PROVVEDERE PER IL CASO DI SUA INERZIA NELL’OTTEMPERANZA AL GIUDICATO, OVVERO NELL’ADEMPIMENTO DI QUANTO NASCENTE DA SENTENZA PROVVISORIAMENTE ESECUTIVA OVVERO DA ORDINANZA CAUTELARE), E FINO A QUANDO LO STESSO NON ABBIA PROVVEDUTO. IL PERIMETRO DEI COMPITI DEL COMMISSARIO AD ACTA COINCIDE CON I CONFINI DELLA GIURISDIZIONE DEL GIUDICE CHE LO HA NOMINATO E NEL CUI AMBITO IL COMMISSARIO AGISCE, MA, DIVERSAMENTE DAGLI ALTRI AUSILIARI PREVISTI DAL CODICE, QUALI IL VERIFICATORE ED IL CONSULENTE TECNICO, CHE SVOLGONO COMPITI STRUMENTALI E ANTECEDENTI ALLA PRONUNCIA DELLA SENTENZA, IL COMMISSARIO AD ACTA SVOLGE COMPITI AUSILIARI DEL GIUDICE DOPO LA DECISIONE, LADDOVE QUESTI, NELL’AMBITO DELLA PROPRIA GIURISDIZIONE, “DEVE SOSTITUIRSI ALL’AMMINISTRAZIONE”. LA DISCIPLINA NORMATIVA, NEL DEFINIRE ESPRESSAMENTE IL COMMISSARIO AD ACTA QUALE AUSILIARIO DEL GIUDICE, ESCLUDE AL TEMPO STESSO CHE A QUESTI POSSA ESSERE RICONOSCIUTA LA NATURA DI ORGANO STRAORDINARIO DELL’AMMINISTRAZIONE, E CIO’ ANCHE NEI CASI IN CUI IL COMMISSARIO DEVE ESERCITARE POTERI DISCREZIONALI PER LE FINALITA’ PROPRIE DELL’INCARICO AFFIDATOGLI. IL FONDAMENTO DEL POTERE DA LUI ESERCITATO NON E’ LO STESSO DEL POTERE DI CUI E’ TITOLARE L’AMMINISTRAZIONE, POICHE’ IL PRIMO SI COLLOCA NELLA DECISIONE DEL GIUDICE E HA LA SUA GIUSTIFICAZIONE FUNZIONALE NELL’EFFETTIVITA’ DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE, IL SECONDO SI COLLOCA NELLA NORMA CHE LO ATTRIBUISCE ALL’AMMINISTRAZIONE E TRAE RAGIONE NELLA CURA DELL’INTERESSE PUBBLICO CHE COSTITUISCE, AL CONTEMPO, FONDAMENTO GENETICO DELL’ATTRIBUZIONE E FUNZIONALIZZAZIONE DELL’ESERCIZIO DEL POTERE. LA SOSTITUZIONE DEL GIUDICE E DEL COMMISSARIO AD ACTA ALL’AMMINISTRAZIONE NON AVVIENE DUNQUE NELL’ESERCIZIO DI UN MEDESIMO POTERE, MA SOLO CON RIFERIMENTO A CIO’ CHE L’AMMINISTRAZIONE AVREBBE DOVUTO COMPIERE PER DARE ATTUAZIONE AL GIUDICATO E RISPETTO AL QUALE E’ INVECE RIMASTA INOTTEMPERANTE. LA NATURA DISTINTA DEL POTERE ESERCITATO DAL COMMISSARIO AD ACTA RISPETTO AL POTERE DEL QUALE E’ TITOLARE LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE SOCCOMBENTE COSTITUISCE, GIA’ DI PER SE’, CHIARA INDICAZIONE IN ORDINE ALLA AMMISSIBILITA’ DELLA CONCORRENZA DELLA COMPETENZA COMMISSARIALE CON QUELLA DELL’AMMINISTRAZIONE. PU0’ ULTERIORMENTE AGGIUNGERSI CHE LA DUPLICE POSSIBILITA’ DI OTTENERE L’OTTEMPERANZA ALLA DECISIONE SIA DA PARTE DELL’AMMINISTRAZIONE CHE DA PARTE DEL COMMISSARIO AD ACTA RAFFORZA LA POSIZIONE DELLA POSIZIONE DELLA PARTE GIA’ VITTORIOSA IN SEDE DI COGNIZIONE, DI MODO CHE LA CONCORRENZA DELLA COMPETENZA DEL COMMISSARIO AD ACTA E DELL’AMMINISTRAZIONE DEVE AVERE TERMINE SOLTANTO ALLORCHE’ UNO DEI DUE SOGGETTI DA’ ATTUAZIONE ALLA DECISIONE DEL GIUDICE (Adunanza Plenaria n. 8 del 2021) Non vi è alcun dato normativo che consenta di affermare con certezza la perdita del potere dell’amministrazione di provvedere per effetto della nomina o dell’insediamento del Commissario ad acta . E ciò a fronte della sussistenza non solo di un dovere per la parte soccombente di dare attuazione a quanto a proprio carico derivante dalla sentenza del giudice, ma anche della sussistenza di un “diritto” di adempiere al fine di evitare l’aggravarsi della propria posizione, anche quanto alle conseguenze patrimoniali derivanti dall’inottemperanza. Laddove, infatti, non si ammettesse il potere dell’amministrazione di dare attuazione alla decisione del giudice, la stessa rimarrebbe senza rimedio esposta, oltre che ai costi derivanti dall’intervento dell’ausiliario, anche alla “ azione di risarcimento dei danni connessi all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato . . .”, di cui all’art. 112, co. 3, c.p.a.. Ne consegue che gli atti emanati dall’amministrazione, pur in presenza della nomina e dell’insediamento del Commissario ad acta , non possono essere considerati affetti da nullità, poiché essi sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando a tal fine la nomina o l’insediamento del Commissario medesimo. Tali atti potranno essere, ricorrendone le condizioni, dichiarati nulli dal giudice per la diversa ipotesi di violazione o elusione del giudicato (art. 21-septies, l. n. 241/1990), ovvero annullati perché ritenuti illegittimi all’esito di domanda di annullamento in un ordinario giudizio di cognizione, ma non possono in ogni caso essere considerati emanati in difetto assoluto di attribuzione e, per questa ragione, ritenuti affetti da nullità. Il Commissario ad acta nominato dal giudice potrà dunque esercitare il proprio potere fintanto che l’amministrazione non abbia eventualmente provveduto, e gli atti da lui emanati, non essendo espressione di potere amministrativo, non sono annullabili dall’amministrazione in esercizio del proprio potere di autotutela. Qualora l’amministrazione intenda dolersi di tali atti (ritenendoli illegittimi ovvero non coerenti con il comando contenuto nella decisione del giudice), potrà esclusivamente rivolgersi al giudice dell’ottemperanza, ai sensi dell’art. 114, co. 6, c.p.a., ovvero al giudice del silenzio, ai sensi dell’art. 117, co. 4, c.p.a.. Qualora poi il Commissario ad acta adotti atti dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, gli stessi sono da considerarsi inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse al giudice dell’ottemperanza o al giudizio sul silenzio. Allo stesso modo deve concludersi per la speculare ipotesi di atti adottati dall’amministrazione, dopo che il Commissario abbia provveduto.
28 giugno 2021
PRELIMINARMENTE, L’ADUNANZA PLENARIA HA PRECISATO CHE LA RESPONSABILITA’ IN CUI INCORRE L’AMMINISTRAZIONE PER L’ESERCIZIO DELLE SUE FUNZIONI PUBBLICHE E' INQUADRABILE NELLA RESPONSABILITA’ DA FATTO ILLECITO, SIA PURE CON GLI INEVITABILI ADATTAMENTI RICHIESTI DALLA SUA COLLOCAZIONE ORDINAMENTALE NEI RAPPORTI INTERSOGGETTIVI, QUALE RISULTANTE DALL’EVOLUZIONE STORICO-ISTITUZIONALE E DI DIRITTO POSITIVO CHE L'HA CARATTERIZZATA. IN PARTICOLARE, L’ACCERTAMENTO DELLA LESIONE DI INTERESSI LEGITTIMI, SIA CHE DERIVI DA ILLEGITTIMITA’ PROVVEDIMENTALE SIA CHE DERIVI DA INOSSERVANZA DOLOSA O COLPOSA DEL TERMINE DI CONCLUSIONE DEL PROCEDIMENTO, NON GENERANDO UNA RESPONSABILITA’ DA INADEMPIMENTO CONTRATTUALE, BENSI’ UNA RESPONSABILITA’ DA FATTO ILLECITO AQUILIANO, PRESUPPONE L’ACCERTAMENTO CHE VI SIA STATA LA LESIONE DI UN BENE DELLA VITA E CHE TALE LESIONE ABBIA PRODOTTO DELLE CONSEGUENZE RISARCIBILI, PER LA CUI QUANTIFICAZIONE SI APPLICANO, IN VIRTU’ DELL’ART. 2056 C.C. – DA RITENERE ESPRESSIONE DI UN PRINCIPIO GENERALE DELL’ORDINAMENTO - I CRITERI LIMITATIVI DELLA CONSEQUENZIALITA’ IMMEDIATA E DIRETTA E DELL’EVITABILITA’ CON L’ORDINARIA DILIGENZA DEL DANNEGGIATO, DI CUI AGLI ARTT. 1223 e 1227 C.C., CON ESCLUSIONE DEL CRIETRIO DELLA PREVEDIBILITA’ DEL DANNO PREVISTO DALL’ART. 1225 C.C. (Adunanza Plenaria n. 7/2021) La responsabilità da inadempimento si fonda, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., sul non esatto adempimento della «prestazione» cui il debitore è obbligato in base al contratto. Un vincolo obbligatorio di analoga portata non può essere configurato per la pubblica amministrazione che agisca nell’esercizio delle sue funzioni amministrative e, quindi, nel perseguimento dell’interesse pubblico definito dalla norma attributiva, che fonda la causa giuridica del potere autoritativo. Sebbene a quest’ultimo si contrapponga l’interesse legittimo del privato, la relazione giuridica che si instaura tra il privato e l’amministrazione è caratterizzata da due situazioni soggettive entrambe attive, l’interesse legittimo del privato e il potere dell’amministrazione nell’esercizio della sua funzione. In questo caso, quindi, è configurabile non già un obbligo giuridico in capo all’amministrazione – rapportabile a quello che caratterizza le relazioni giuridiche regolate dal diritto privato - bensì un potere attribuito dalla legge, che va esercitato in conformità alla stessa e ai canoni di corretto uso del potere individuati dalla giurisprudenza. Né la fattispecie in esame può essere ricondotta alla dibattuta, in dottrina come in giurisprudenza, nozione di “contatto sociale”, in quanto, a tacer d’altro, oltre a quanto osservato sulla natura del “rapporto amministrativo”, la relazione tra privato e amministrazione è comunque configurata in termini di “supremazia”, cioè da un’asimmetria che mal si concilia con le teorie sul “contatto sociale” che si fondano sulla relazione paritaria. Anche in un’organizzazione dei pubblici poteri improntata al buon andamento, in cui si afferma il modello dell’amministrazione “di prestazione”, quest’ultima mantiene rispetto al privato la posizione di supremazia necessaria a perseguire «i fini determinati dalla legge» (art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990), con atti di carattere autoritativo in grado di incidere unilateralmente sulla sfera giuridica del privato. Nel rapporto amministrativo contraddistinto dalla ora descritta asimmetria delle posizioni si manifesta ad un tempo l’essenza dell’ordinamento giuridico di diritto amministrativo e allo stesso tempo si creano le condizioni perché la pubblica amministrazione – per ragioni storiche, sistematiche e normative - non possa essere assimilata al “debitore” obbligato per contratto ad “adempiere” in modo esatto nei confronti del privato. Elemento centrale nella fattispecie di responsabilità da fatto illecito della pubblica amministrazione è l’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio, diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui la valutazione sull’ingiustizia del danno è assorbita dalla violazione della regola contrattuale. Declinata nel settore relativo al «risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi», di cui all’art. 7, comma 4, cod. proc. amm., il requisito dell’ingiustizia del danno implica che il risarcimento potrà essere riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere od ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi. Infatti, diversamente da quanto avviene nel settore della responsabilità contrattuale, il cui aspetto programmatico è costituito dal rapporto giuridico regolato bilateralmente dalle parti mediante l’incontro delle loro volontà, concretizzato con la stipula del contratto-fatto storico, il rapporto amministrativo si caratterizza per l’esercizio unilaterale del potere nell’interesse pubblico, idoneo, se difforme dal paradigma legale e in presenza degli altri elementi costitutivi dell’illecito, a ingenerare la responsabilità aquiliana dell’amministrazione. Mentre sono comuni all’illecito civile le questioni concernenti il danno-conseguenza, in cui non vengono in rilievo profili di carattere pubblicistico, ma si pone la questione di individuare e quantificare i danni derivanti dalla lesione dell’interesse legittimo, e dunque di imputare all’evento dannoso causalmente correlato al fatto illecito, sul piano della causalità materiale, i pregiudizi patrimoniali da reintegrare per equivalente monetario, conseguenze “dirette e immediate” dell’evento sul piano della causalità giuridica, l’art. 1227, comma 2, cod. civ. rileva nella determinazione del danno, in combinato disposto con l’art. 1223, in qualità di criterio, tra gli altri, in base al quale selezionare le conseguenze risarcibili, dopo che si sia positivamente accertata la ingiusta lesione di un interesse giuridico meritevole di tutela in termini di conseguenza immediata e diretta della condotta. Invero, nel settore della responsabilità dell’amministrazione da illegittimo o mancato esercizio dei suoi poteri autoritativi il criterio in questione si declina nel senso che a carico del privato è posto un onere di ordinaria diligenza - come tale valutabile dal giudice - di attivarsi con ogni strumento procedimentale o processuale utile a salvaguardare il bene della vita correlato al suo interesse legittimo, in modo da delimitare in termini quantitativi, anche con riguardo a ciò, il perimetro del danno risarcibile. In modo parzialmente diverso da quanto si tende ad affermare nei rapporti regolati dal diritto civile, l’onere di cooperazione del privato nei confronti dell’esercizio della funzione pubblica assume quindi i connotati di un «obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno)», con la sola esclusione di «attività straordinarie o gravose attività», per cui «non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza» (così anche l’Adunanza plenaria nella sentenza del 23 marzo 2011, n. 3).
28 giugno 2021
LA QUESTIONE PRINCIPALE CHE L’ADUNANZA PLENARIA HA DOVUTO RISOLVERE E’ SE E IN PRESENZA DI QUALI PRESUPPOSTI IL GIUDICATO CIVILE DI RIGETTO, PER INTERVENUTA PRESCRIZIONE DEL DIRITTO FATTO VALERE IN GIUDIZIO, DI UNA DOMANDA DI RISARCIMENTO PER EQUIVALENTE DEI DANNI DA PERDITA DELLA PROPRIETA’ DEL SUOLO PER EFFETTO DELL’OCCUPAZIONE ILLEGITTIMA E DELLA TRASFORMAZIONE IRREVERSIBILE DEL BENE DA PARTE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, IN APPLICAZIONE DELL’ORMAI SUPERATO ISTITUTO DELLA OCCUPAZIONE ACQUISITIVA, PRECLUDA L’ESERCIZIO DI UN’AZIONE DI RISARCIMENTO IN FORMA SPECIFICA DINANZI AL GIUDICE AMMINISTRATIVO, DIRETTA ALLA RESTITUZIONE DELL’ EADEM RES , PREVIA RIMESSIONE IN PRISTINO. SECONDO L’ADUNANZA, ALLE PARTI E AI LORO EREDI O AVENTI CAUSA E’ PRECLUSO IL SUCCESSIVO ESERCIZIO, IN RELAZIONE AL MEDESIMO BENE, DELL’AZIONE (DI NATURA PERSONALE E OBBLIGATORIA) DI RISARCIMENTO DEL DANNO IN FORMA SPECIFICA ATTRAVERSO LA RESTITUZIONE DEL BENE PREVIA RIMESSIONE IN PRISTINO, ESSENDO SUFFICIENTE, AI FINI DELLA PRODUZIONE DI TALE EFFETTO PRECLUSIVO, CHE LA SENTENZA PASSATA IN GIUDICATO CONTENGA UN ACCERTAMENTO, ANCHE IMPLICITO, DEL PERFEZIONAMENTO DELLA FATTISPECIE DELLA OCCUPAZIONE ACQUISITIVA E DEI RELATIVI EFFETTI SUL REGIME PROPRIETARIO DEL BENE, PURCHE’ SI TRATTI DI DI ACCERTAMENTO EFFETTIVO E COSTITUENTE UN NECESSARIO ANTECEDENTE LOGICO DELLA STATUIZIONE FINALE DI RIGETTO. IN PARTICOLARE, L’AZIONE DI RISARCIMENTO IN FORMA SPECIFICA E L’AZIONE DI RISARCIMENTO DEI DANNI PER EQUIVALENTE SONO RIMEDI IN RAPPORTI DI CONCORSO ALTERNATIVO, DIRETTI ALL’ATTUAZIONE DELL’UNICO DIRITTO ALLA REINTEGRAZIONE DELLA SFERA GIURIDICA LESA, CHE TROVA LA SUA FONTE NELLA MEDESIMA FATTISPECIE DI ILLECITO, CON LA PARTICOLARITA’ CHE L’EFFETTO PROGRAMMATO DALLA NORMA AL VERIFICARSI DELLA FATTISPECIE SI DETERMINA, NEL SUO SPECIFICO CONTENUTO, CON RIGUARDO ALLA SCELTA COMPIUTA DAL TITOLARE CIRCA L’UNA O L’ALTRA FORMA DI TUTELA. CON SPECIFICO RIFERIMENTO A FATTISPECIE DI OCCUPAZIONE ILLEGITTIMA DEL BENE DA PARTE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, I DUE RIMEDI COSTITUISCONO MEZZI CONCORRENTI E ALTERNATIVI A TUTELA DELL’UNICO DIRITTO AL RISARCIMENTO DEI DANNI, CON SCELTA POSSIBILE QUALE EMENDATIO LIBELLI IN CORSO DI GIUDIZIO, CON LA CONSEGUENZA CHE, RIMANENDO UNICO IL DIRITTO, IL GIUDICATO DI RIGETTO DELLA DOMANDA DI RISARCIMENTO PER EQUIVALENTE PRECLUDE UNA NUOVA AZIONE DI RISARCIMENTO IN FORMA SPECIFICA (Adunanza Plenaria n. 6 del 2020) Secondo l’Adunanza plenaria, è irrilevante, ai fini della configurabilità del giudicato implicito sul regime proprietario scaturito dalla cd. occupazione acquisitiva, la mancata adozione, nella sentenza e nel relativo dispositivo, di una formale ed espressa statuizione sul trasferimento del bene in favore dell’amministrazione. Infatti, i relativi effetti scaturiscono ipso iure dal perfezionamento della citata fattispecie, complessa, di creazione giurisprudenziale – integrante un’ipotesi di estinzione della proprietà in capo al privato (effetto illecito) e di acquisto a titolo originario in capo all’amministrazione (effetto lecito) –, rispetto ai quali la pronuncia giudiziale assume natura di sentenza di accertamento (alla stregua, ad es., di una sentenza che accerti l’intervenuta usucapione). Ai fini della produzione di tali effetti non è, invece, richiesta l’adozione di una sentenza costitutiva che, nell’ordinamento processualcivilistico, a norma dell’art. 2908 cod. civ., è relegata ad ipotesi tassativamente predeterminate dal legislatore. Se, dunque, il giudicato civile deve ritenersi formato - sulla base di un’interpretazione logico-sistematica della parte motiva, in combinazione con la parte dispositiva della sentenza -, sia sull’inesistenza del diritto al risarcimento dei danni per equivalente, perché estinto per prescrizione, sia sul regime proprietario del bene conseguente all’accertato perfezionamento della cd. occupazione acquisitiva, si genera conseguentemente un effetto preclusivo rispetto a successive statuizioni giudiziali che riguardino, alternativamente: - una domanda di risarcimento del danno in forma specifica con riguardo allo stesso bene e sulla base degli stessi presupposti già fatti valere, essendo unico il diritto sostanziale azionato; - un’azione reale di rivendicazione ex artt. 948 ss. cod. civ., per il principio logico di non contraddizione, che non consente la coesistenza di due diritti dello stesso contenuto relativi ad un identico bene di cui siano titolari attivi esclusivi due soggetti diversi, e per l’impossibilità di far valere in un secondo processo tra le stesse parti (e/o relativi eredi e/o aventi causa) un diritto direttamente incompatibile con il diritto accertato da un primo giudicato; - l’azione ex artt. 31 e 117 Cod. proc. amm., magari sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, per l’incompatibilità sussistente tra la situazione giuridica soggettiva azionata, presupponente la persistente titolarità della proprietà del bene in capo alla parte ricorrente, e l’accertamento, con efficacia di giudicato, dell’effetto acquisitivo in favore dell’amministrazione, senza considerare che l’istituto dell’acquisizione “sanante” trova il suo limite nei rapporti esauriti, quali quelli definiti con autorità di cosa giudicata.
28 giugno 2021
NON V’E’ RAGIONE PER RISERVARE AL CONSORZIO CHE SI AVVALE DEI REQUISITI DI UN CONSORZIATO “NON DESIGNATO” UN TRATTAMENTO DIVERSO DA QUELLO RISERVATO AD UN QUALUNQUE PARTECIPANTE, SINGOLO O ASSOCIATO, CHE RICORRE ALL’AVVALIMENTO. NELL’UNO E NELL’ALTRO CASO, IN VIRTU’ DELL’ART. 89 COMMA 3 DEL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI, OVE IL REQUISITO PRESTATO VENGA MENO, L’IMPRESA AVVALSA POTRA’ E DOVRA’ ESSERE SOSTITUITA. TALE CHIAVE INTERPRETATIVA NON TOCCA LA PERDURANTE VALIDITA’ DEL PRINCIPIO DI NECESSARIA COTINUITA’ NEL POSSESSO DEI REQUISITI, AFFERMATO DALL’ADUNANZA PLENARIA N. 8 DEL 2015, NE’ IL PIU’ GENERALE PRINCIPIO DI IMMODIFICABILITA’ SOGGETTIVA DEL CONCORRENTE (SALVI I CASI PREVISTI DALLA LEGGE NEL CASO DI RAGGRUPPAMENTO TEMPORANEO DI IMPRESE). IL SUDDETTO PRINCIPIO DEVE OGGI ADEGUARSI ALL’ART. 63 DELLA DIRETTIVA 2014/24/UE, CHE IMPONE CHE IL SOGGETTO AVVALSO CHE NELLE MORE DEL PROCEDIMENTO DI GARA O DURANTE L’ESECUZIONE DEL CONTRATTO PERDA I REQUISITI, VENGA SOSTITUITO. NE CONSEGUE CHE IN QUESTA PECULIARE FATTISPECIE NON SI APPLICA IL PRINCIPIO DI NECESSARIA “CONTINUITA’” NEL POSSESSO DEI REQUISITI DEL CONCORRENTE. IN EFFETTI, LA SOSTITUZIONE E’ LO STRUMENTO NUOVO E ALTERNATIVO CHE, ALLA LUCE DEL PRINCIPIO DI PROPORZIONALITA’, CONSENTE QUELLA CONTINUITA’ PREDICATA DALL’ADUNANZA PLENARIA NEL 2015, IN TUTTI I CASI IN CUI IL CONCORRENTE SI AVVALGA DELL’AUSILIO DI OPERATORE TERZO. TALE STRUMENTO INNOVATIVO RESTITUISCE AL SOGGETTO AVVALSO LA SUA VERA NATURA DI SOGGETTO CHE PRESTA I REQUISITI AL CONCORRENTE, SENZA PARTECIPARE ALLA COMPAGINE E ALL’OFFERTA DA QUESTA FORMULATA E RISPONDE ALL’ESIGENZA, STIMATA SUPERIORE, DI EVITARE L’ESCLUSIONE DEL CONCORRENTE, SINGOLO O ASSOCIATO, PER RAGIONI A LUI NON DIRETTAMENTE RICONDUCIBILI O IMPUTABILI (Adunanza Plenaria n. 5/2020) L’Adunanza Plenaria parte dalla peculiare configurazione del consorzio stabile, prevista dall’ art. 45, comma 2, lett. c) del d.lgs. n. 50/2016, rispetto al consorzio ordinario di cui agli artt. 2602 e ss. del codice civile. Quest’ultimo, pur essendo un autonomo centro di rapporti giuridici, non comporta l’assorbimento delle aziende consorziate in un organismo unitario costituente un’impresa collettiva, né esercita autonomamente e direttamente attività imprenditoriale, ma si limita a disciplinare e coordinare, attraverso un’organizzazione comune, le azioni degli imprenditori riuniti. Nel consorzio con attività esterna la struttura organizzativa provvede all’espletamento in comune di una o alcune funzioni (ad esempio, l’acquisto di beni strumentali o di materie prime, la distribuzione, la pubblicità, etc.), ma nemmeno in tale ipotesi il consorzio, nella sua disciplina civilistica, è dotato di una propria realtà aziendale. Ne discende che, ai fini della disciplina in materia di contratti pubblici, il consorzio ordinario è considerato un soggetto con identità plurisoggettiva, che opera in qualità di mandatario delle imprese della compagine. Esso prende necessariamente parte alla gara per tutte le consorziate e si qualifica attraverso di esse, in quanto le stesse, nell’ipotesi di aggiudicazione, eseguiranno il servizio, rimanendo esclusa la possibilità di partecipare solo per conto di alcune associate (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 6 ottobre 2015, n. 4652, il quale ha statuito l’illegittimità della partecipazione di un consorzio ordinario che, pur riunendo due società, aveva dichiarato di gareggiare per conto di una sola di esse). Non è così per i consorzi stabili. Questi, a mente dell’art. 45, comma 2, lett. c) del d.lgs. n. 50/2016, sono costituiti “tra imprenditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro” che “abbiano stabilito di operare in modo congiunto nel settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni, istituendo a tal fine una comune struttura di impresa”. E’ in particolare il riferimento aggiuntivo e qualificante alla “comune struttura di impresa” che induce ad approdare verso lidi ermeneutici diversi ed opposti rispetto a quanto visto per i consorzi ordinari. I partecipanti, in questo caso, danno infatti vita ad una stabile struttura di impresa collettiva, la quale, oltre a presentare una propria soggettività giuridica con autonomia anche patrimoniale, rimane distinta e autonoma rispetto alle aziende dei singoli imprenditori ed è strutturata, quale azienda consortile, per eseguire, anche in proprio (ossia senza l’ausilio necessario delle strutture imprenditoriali delle consorziate), le prestazioni affidate a mezzo del contratto (da ultimo, Cons. St., sez. VI, 13 ottobre 2020, n. 6165). Proprio sulla base di questa impostazione, la Corte di Giustizia UE (C-376/08, 23 dicembre 2009) è giunta ad ammettere la contemporanea partecipazione alla medesima gara del consorzio stabile e della consorziata, ove quest’ultima non sia stata designata per l’esecuzione del contratto e non abbia pertanto concordato la presentazione dell’offerta ( ex multis , Cons. St., sez. III, 4 febbraio 2019, n. 865). Ulteriore distinguo, ai diversi fini dei legami che si instaurano nell’ambito della gara, va poi fatto tra consorzio stabile e consorziate, a seconda se queste ultime siano o meno designate per l’esecuzione dei lavori. Solo le consorziate designate per l’esecuzione dei lavori partecipano alla gara e concordano l’offerta, assumendo una responsabilità in solido con il consorzio stabile nei confronti della stazione appaltante (art. 47 comma 2 del codice dei contratti pubblici). Per le altre il consorzio si limita a mutuare, ex lege , i requisiti oggettivi, senza che da ciò discenda alcun vincolo di responsabilità solidale per l’eventuale mancata o erronea esecuzione dell’appalto. Si è dinanzi, in quest’ultimo caso, ad un rapporto molto simile a quello dell’avvalimento, anche se, per certi versi, meno intenso: da una parte, infatti, il consorziato presta i requisiti senza partecipare all’offerta, similmente all’impresa avvalsa (senza bisogno di dichiarazioni, soccorrendo la “comune struttura di impresa” e il disposto di legge), dall’altra, pur facendo ciò, rimane esente da responsabilità (diversamente dall’impresa avvalsa). Sussiste dunque una forma di avvalimento attenuata dall’assenza di responsabilità, dunque, che giustifica l’applicazione a tale fattispecie dell’art. 89 comma 3 del codice dei contratti pubblici. Secondo la disposizione citata, infatti la stazione appaltante (in luogo di disporre l’esclusione in cui inesorabilmente incorrerebbe un concorrente nell’ambito di un raggruppamento o di un consorzio ordinario o stabile) impone all'operatore economico di “sostituire” i soggetti di cui si avvale “che non soddisfano un pertinente criterio di selezione o per i quali sussistono motivi obbligatori di esclusione”. Ne consegue che se è possibile, in via eccezionale, sostituire il soggetto legato da un rapporto di avvalimento, a fortiori dev’essere possibile sostituire il consorziato nei confronti del quale sussiste un vincolo che rispetto all’avvalimento è meno intenso.
28 giugno 2021
AI FINI DEL BILANCIAMENTO TRA IL DIRITTO DI ACCESSO DIFENSIVO, PREORDINATO ALL’ESERCIZIO DEL DIRITTO ALLA TUTELA GIURISDIZIONALE IN SENSO LATO, E LA TUTELA DELLA RISERVATEZZA FINANZIARIA ED ECONOMICA, SECONDO LA PREVISIONE DELL’ART. 24, COMMA 7 DELLA L. N. 241 DEL 1990 NON TROVA APPLICAZIONE NE’ IL CRITERIO DELLA STRETTA INDISPENSABILITA’ (RIFERITO AI DATI SENSIBILI E GIUDIZIARI) NE’ IL CRITERIO DELL’INDISPENSABILITA’ E DELLA PARITA’ DI RANGO (RIFERITO AI DATI COSIDDETTI SUPERSENSIBILI), MA IL CRITERIO DELLA “NECESSITA’” AI FINI DELLA “CURA” E DELLA “DIFESA” DI UN PROPRIO INTERESSE GIURIDICO, RITENUTO DAL LEGISLATORE TENDENZIALMENTE PREVALENTE SULLA TUTELA DELLA RISERVATEZZA, A CONDIZIONE DEL RISCONTRO DELLA SUSSISTENZA DEI PRESUPPOSTI GENERALI DELL’ACCESSO DOCUMENTALE DI TIPO DIFENSIVO. NE DERIVA CHE IL COLLEGAMENTO TRA LA SITUAZIONE LEGITTIMANTE E LA DOCUMENTAZIONE RICHIESTA IMPONE UN’ATTENTA ANALISI DELLA MOTIVAZIONE CHE LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE HA ADOTTATO NEL PROVVEDIMENTO CON CUI HA ACCOLTO O RESPINTO L’ISTANZA DI ACCESSO, POSTO CHE SIA LA P.A. DETENTRICE DEL DOCUMENTO CHE IL GIUDICE AMMINISTRATIVO ADITO NEL GIUDIZIO DI ACCESSO NON DEVONO SVOLGERE ALCUNA ULTRONEA VALUTAZIONE SULLA INFLUENZA O SULLA DECISIVITA’ DEL DOCUMENTO RICHIESTO NELL’EVENTUALE E COLLEGATO GIUDIZIO INSTAURATO, POICHE' UN SIMILE APPREZZAMENTO COMPETE, SE DEL CASO, SOLO ALL’AUTORITA’ GIUDIZIARIA INVESTITA DELLA QUESTIONE. DIVERSAMENTE RAGIONANDO, SI REINTRODURREBBERO NELLA DISCIPLINA DELL’ACCESSO DIFENSIVO E NELLA SUA PRATICA APPLICAZIONE LIMITI E PRECLUSIONI CHE NON SONO PREVISTI DALLA LEGGE, LA QUALE SI E’ INVECE LIMITATA A STABILIRE ADEGUATI CRITERI PER VALUTARE LA SITUAZIONE LEGITTIMANTE ALL’ACCESSO DIFENSIVO E PER EFFETTUARE IL BILANCIAMENTO TRA GLI INTERESSI CONTRAPPOSTI ALL’OSTENSIONE DEL DOCUMENTO O ALLA RISERVATEZZA (Adunanza plenaria n. 4 del 2021) In materia di accesso difensivo ai sensi dell’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990 si deve escludere che sia sufficiente nell’istanza di accesso un generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando, poiché l’ostensione del documento richiesto passa attraverso un rigoroso, motivato, vaglio sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende curare o tutelare. L’interprete deve operare, in termini di pratica sussunzione, un raffronto tra la fattispecie concreta di cui la parte domanda la tutela in giudizio e l’astratto paradigma legale che ne costituisce la base legale. Siffatto giudizio di sussunzione, che costituisce la base fondante dell’accesso difensivo, è regolato in ogni suo aspetto dalla legge (e dal rispettivo regolamento di attuazione), mostrandosi privo di tratti “liberi” lasciati alla interpretazione discrezionale dell’autorità amministrativa ovvero alla prudente interpretazione del giudice. Più in particolare, la legge ha proceduto a selezionare, tra i canoni ermeneutici in astratto possibili, quelli della immediatezza, della concretezza e dell’attualità (art. 22, comma 1, lettera d), della l. n. 241 del 1990), in modo tale da ancorare il giudizio sull’interesse legittimante a due parametri fissi, rigidi e predeterminati quanto al loro contenuto obiettivo. Quanto al primo dei suddetti parametri, la “corrispondenza” circoscrive esattamente l’interesse all’accesso agli atti in senso «corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata». L’unico interesse legittimante all’accesso difensivo sarà dunque quello che corrisponderà in modo diretto, concreto ed attuale alla cura o anche difesa in giudizio di tali predeterminate fattispecie, in chiave strettamente difensiva. Tale ultimo aspetto, peraltro, è chiarito dal secondo dei parametri ai quali si è fatto cenno, e cioè quello riguardante il c.d. “collegamento”. Il legislatore ha ulteriormente circoscritto l’oggetto della situazione legittimante l’accesso difensivo rispetto all’accesso “ordinario”, esigendo che la stessa, oltre a corrispondere al contenuto dell’astratto paradigma legale, sia anche collegata al documento al quale è chiesto l’accesso (art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990), in modo tale da evidenziare in maniera diretta ed inequivoca il nesso di strumentalità che avvince la situazione soggettiva finale al documento di cui viene richiesta l’ostensione, e per l’ottenimento del quale l’accesso difensivo, in quanto situazione strumentale, fa da tramite. Questa esigenza è soddisfatta, sul piano procedimentale, dal successivo art. 25, comma 2, della l. n. 241 del 1990, ai sensi del quale «la richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata».
28 giugno 2021
GLI OBBLIGHI DI CUI ALL’ART. 192 DEL D.LGS. N. 152 DEL 2006 (RIPRISTINO DELLO STATO DEI LUOGHI A SEGUITO DI ABBANDONO E DEPOSITO INCONTROLLATI DI RIFIUTI SUL SUOLO E NEL SUOLO, O DI IMMISSIONE DI RIFIUTI DI QUALSIASI GENERE NELLE ACQUE SUPERFICIALI E SOTTERRANEE), A CUI ERA TENUTA LA SOCIETA’ FALLITA PRIMA DEL FALLIMENTO, NON PERDONO GIURIDICA RILEVANZA, E RICADONO SULLA CURATELA FALLIMENTARE, DOPO LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO. LA RESPONSABILITA’ DELLA RIMOZIONE E’ RICONNESSA ALLA QUALIFICA DI DETENTORE ACQUISITA DAL CURATORE FALLIMENTARE, NON CON RIFERIMENTO AI RIFIUTI, MA IN VIRTU’ DELLA DETENZIONE DELL’IMMOBILE INQUINATO SU CUI I RIFIUTI INSISTONO E CHE, PER ESIGENZE DI TUTELA AMBIENTALE E DI RISPETTO DELLA NORMATIVA NAZIONALE E COMUNITARIA, DEVONO ESSERE SMALTITI. L’ABBANDONO DI RIFIUTI E L’INQUINAMENTO COSTITUISCONO “DISECONOMIE ESTERNE” GENERATE DALL’ATTIVITA’ D’IMPRESA, PER CUI I COSTI DERIVANTI DA TALI DISECONOMIE RICADONO SULLA MASSA DEI CREDITORI DELL’IMPRENDITORE STESSO, CREDITORI CHE, PER CONTRO, BENEFICIANO DEGLI EFFETTI DELL’UFFICIO FALLIMENTARE DELLA CURATELA IN TERMINI DI RIPARTIZIONE DEGLI EVENTUALI UTILI DEL FALLIMENTO. I COSTI DELLA BONIFICA, IN ALTRI TERMINI, NON POSSONO RICADERE SULLA COLLETTIVITA’ INCOLPEVOLE, PERCHE’ CIO’ ANDREBBE IN CONTRASTO NON SOLO CON IL PRINCIPIO COMUNITARIO “CHI INQUINA PAGA” MA ANCHE CON LA REALTA’ ECONOMICA SOTTESA ALLA RELAZIONE CHE INTERCORRE TRA IL PATRIMONIO DELL’IMPRENDITORE E LA MASSA FALLIMENTARE DI CUI IL CURATORE HA LA RESPONSABILITA’, MASSA CHE, SOTTO IL PROFILO ECONOMICO, SI PONE IN CONTINUITA’ CON DETTO PATRIMONIO (Adunanza Plenaria n. 3 del 2021) L’Adunanza plenaria ha preliminarmente escluso che il curatore possa qualificarsi come avente causa del fallito nel trattamento di rifiuti, salve, ovviamente le ipotesi in cui la produzione dei rifiuti sia ascrivibile specificamente all’operato del curatore, non dando vita il Fallimento ad alcun fenomeno successorio sul piano giuridico. Né ha ritenuto di dovere utilizzare, per risolvere la questione esaminata, il richiamo al principio di diritto enunciato dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 10 del 2019, che ha riguardato una fattispecie in cui vi era stata la successione di un ‘distinto soggetto giuridico’ a quello su cui precedentemente gravava l’onere della bonifica, il quale era dunque subentrato negli obblighi gravanti sul precedente titolare. Non verificandosi dunque un fenomeno successorio, a seguito di dichiarazione di fallimento, ed essendo da escludere una responsabilità del curatore del fallimento, né in quanto autore della condotta di abbandono incontrollato dei rifiuti, né in quanto avente causa a titolo universale del soggetto inquinatore, posto che la società dichiarata fallita conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio, attribuendosene la facoltà di gestione e di disposizione al medesimo curatore, l’Adunanza plenaria ha ritenuto che la presenza dei rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore dal momento della dichiarazione del fallimento dell’impresa, tramite l’inventario dei beni dell’impresa medesima ex artt. 87 e ss. L.F., comportino in ogni caso la sua legittimazione passiva all’ordine di rimozione. Invero, l'unica lettura del decreto legislativo n. 152 del 2006 compatibile con il diritto europeo, essendo ispirati entrambi ai principi di prevenzione e di responsabilità, è quella che consente all’amministrazione di disporre misure appropriate nei confronti dei curatori che gestiscono i beni immobili su cui i rifiuti prodotti dall'impresa cessata sono collocati e necessitano di smaltimento. Nell’ottica del diritto europeo (che non pone alcuna norma esimente per i curatori), i rifiuti devono comunque essere rimossi, pur quando cessa l’attività, o dallo stesso imprenditore che non sia fallito, o in alternativa da chi amministra il patrimonio fallimentare dopo la dichiarazione del fallimento.
8 marzo 2021
LA "CLAUSOLA DI SALVAGUARDIA" DI CUI AGLI ARTT. 92, COMMA 3, E 94, COMMA 2, DEL D. LGS. 159/2011 - SECONDO CUI L'INTERDITTIVA ANTIMAFIA SOPRAVVENUTA COMPORTA LA RESTITUZIONE DI QUANTO OTTENUTO DAL PRIVATO "NEI LIMITI DELLE UTILITÀ CONSEGUITE" DALL'AMMINISTRAZIONE - NON SI APPLICA ALL'IPOTESI DELLA CONCESSIONE DI FINANZIAMENTI PUBBLICI, MA SOLO AL CASO DEL RECESSO DAI CONTRATTI DI APPALTO. SI TRATTA DI NORME ECCEZIONALI – E DUNQUE DI STRETTA INTERPRETAZIONE - CHE RAPPRESENTANO UNA PRECISA SCELTA DEL LEGISLATORE, SCELTA CHE SI GIUSTIFICA IN RAGIONE DI UN “BILANCIAMENTO” DELLE CONSEGUENZE DERIVANTI DA UNA ESECUZIONE DEL CONTRATTO DISPOSTA “IN ASSENZA” DI INFORMATIVA ANTIMAFIA. PERALTRO, LA LOCUZIONE “FATTO SALVO IL PAGAMENTO DEL VALORE DELLE OPERE GIÀ ESEGUITE E IL RIMBORSO DELLE SPESE SOSTENUTE” NON PUÒ CHE ESSERE RIFERITA SOLTANTO AL CASO DI CONTRATTI PER I QUALI, STANTE LA SOPRAVVENIENZA DELL’INFORMAZIONE ANTIMAFIA INTERDITTIVA, SI PROCEDA AL “RECESSO”. LA DISPOSIZIONE PARLA INFATTI ESPLICITAMENTE DI “OPERE GIÀ ESEGUITE”, OVVERO DI “SPESE SOSTENUTE PER L’ESECUZIONE DEL RIMANENTE”, CON CIÒ FACENDO EVIDENTE RIFERIMENTO, PER IL TRAMITE DEI LEMMI “OPERE” ED “ESECUZIONE”, AI CONTRATTI DI APPALTI DI LAVORI, AI QUALI IL COMMA 3 DELL’ART. 94 ASSIMILA POI I CONTRATTI DI APPALTI DI SERVIZI E FORNITURE. UNA DIVERSA INTERPRETAZIONE, SECONDO CUI DOVREBBE CONSIDERARSI “SALVO” ANCHE IL PAGAMENTO DI QUANTO REALIZZATO SULLA BASE DI FINANZIAMENTI, COMPORTEREBBE UN DUPLICE PASSAGGIO ESTENSIVO DELL’INTERPRETAZIONE, COME TALE MOLTO LONTANO DAI LIMITI PROPRI DELLA INTERPRETAZIONE DELLE NORME ECCEZIONALI E, DUNQUE, NON CONSENTITO (Adunanza Plenaria n. 23/2020) I tratti distintivi del caso oggetto di indagine da parte dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sono due: il programma finanziato è stato interamente eseguito senza che sia stato mosso alcun rilievo alla sua corretta realizzazione, e l'informativa interdittiva è intervenuta soltanto dopo il completamento dell'opera finanziata (si tratta dell'ipotesi di c.d. 'informativa sopravvenuta'). A tali fini, l’art. 92, co. 4 del d.lgs. n.159/2011 sembrerebbe giustificare sempre e comunque l'adozione del provvedimento di revoca in ragione della sola adozione dell'interdittiva, e indipendentemente dai profili temporali della vicenda; il comma 3, a parziale correzione del comma 4, parrebbe connotare in termini di sostanziale “corrispettività” le poste reciproche tra privato e amministrazione, legittimando l'operatore economico attinto da informativa interdittiva ad invocare il pagamento degli importi corrispondenti alla parte del programma che sia stata concretamente realizzata, entro il limite, tuttavia, delle 'utilità conseguite'. L’Adunanza Plenaria dà atto dell’esistenza di due opposti orientamenti giurisprudenziali al riguardo. Un primo orientamento (c.d. estensivo), secondo cui la norma innanzi richiamata dovrebbe essere intesa nel senso di consentire lo ius ritentionis da parte dell'operatore colpito da informativa interdittiva in tutti i casi in cui il programma beneficiato da finanziamento pubblico sia stato correttamente realizzato e quindi risulti soddisfatto, anche in via indiretta, l'interesse generale sotteso all'erogazione. Tale orientamento propone, quindi, una nozione ampia e onnicomprensiva del concetto di 'utilità conseguite', svincolandone il riferimento dalle utilità economiche direttamente ritraibili dall'amministrazione concedente - come nel caso dei contratti di appalto, in cui è più evidente il nesso di corrispettività fra l'erogazione di risorse pubbliche e l'acquisizione di utilità sotto forma di beni e servizi - ed estendendolo anche a quei vantaggi di ordine generale che sono sottesi a qualunque iniziativa privata finanziata dall'amministrazione e che, per ciò stesso, non possono che mirare al conseguimento di scopi di interesse pubblico. Secondo un secondo orientamento, più restrittivo, la nozione di 'utilità conseguite' non sarebbe dilatabile sino al punto da ricomprendervi anche l'ipotesi del finanziamento andato a buon fine mercé l'integrale realizzazione del programma finanziato, e ciò in quanto in tale evenienza l'interesse pubblico risulterebbe essere soltanto “indiretto”. In tal senso, viene sottolineata la differenza che sussiste tra i rapporti contrattuali, come quelli derivanti dalla stipula di contratti di appalto - in cui è più evidente il nesso di corrispettività sussistente fra le reciproche prestazioni -, e le erogazioni di benefìci pubblici derivanti da atti unilaterali, in cui la reciprocità degli impegni e la corrispettività delle prestazioni offerte risulta certamente più attenuata. E anche il termine “utilità” dovrebbe essere, quindi, colto in un senso più limitato e strettamente patrimoniale, tale, dunque, da applicarsi alle sole opere o ai soli servizi che accrescono il patrimonio dell’amministrazione e che per quest’ultima rappresentano un valore economicamente valutabile: dal che discende l’applicabilità della disciplina di salvezza di cui all’art. 92 comma 3 ai soli contratti di appalto nei quali la pubblica amministrazione è parte committente. L’Adunanza Plenaria ritiene che la salvezza del “pagamento delle opere già eseguite e il rimborso del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”, di cui agli articoli 92, co. 3, e 94, co. 2, del d.lgs. n.159/2011 vada riferita solo al recesso dai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, con esclusione, dunque, delle ipotesi riconnesse alla concessione di finanziamenti pubblici o simili, aderendo all’orientamento restrittivo sopra prospettato, e ciò sia per argomenti di carattere semantico-testuale, sia per argomenti di tipo logico–sistematico. Già nel 2018 l’Adunanza Plenaria aveva avuto modo di affermare che il provvedimento di c.d. “interdittiva antimafia” determina una particolare forma di incapacità giuridica in ambito pubblico, e dunque l’impossibilità per il soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario di essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive che si sostanzino in rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione. Il legislatore ha adottato un sistema di estremo rigore, onde evitare che i soggetti indicati all’art. 83, co. 1 e 2 del d. lgs. n. 159/2011 possano entrare in contatto con soggetti colpiti da cause di decadenza, di sospensione o di divieto, di cui all’art. 67, ovvero che siano destinatari di un tentativo di infiltrazione mafiosa, e ciò al fine di evitare che tali soggetti possano condizionare le scelte e gli indirizzi delle amministrazioni pubbliche, ledendo i principi di legalità, imparzialità e buon andamento riconosciuti dall’art. 97 Cost., ovvero possano incidere sul leale e corretto svolgimento della concorrenza tra imprese ovvero ancora possano appropriarsi a qualunque titolo di risorse pubbliche (beni, danaro o altre utilità). L’Adunanza Plenaria rileva che, a fronte di un tale rigore risultante dal complessivo sistema normativo disciplinante l’informazione antimafia e le sue conseguenze, costituiscono norme di eccezione, e come tali di stretta interpretazione ex art. 14 disp. prel. cod. civ., quelle che, pur in presenza di una riconosciuta situazione di incapacità, consentono la conservazione da parte di un soggetto destinatario di informazione interdittiva di attribuzioni patrimoniali medio tempore eventualmente acquisite, ovvero la possibilità di procedere alla loro dazione da parte delle pubbliche amministrazioni. Pertanto, l’esame ermeneutico degli articoli 92, co. 3 e 94, co. 2 del d.lgs. n. 159/2011, nella parte in cui questi consentono la salvezza del “pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite” – da accertare se con riferimento ai contratti da cui si recede ovvero anche ai finanziamenti o simili medio tempore erogati –, deve rispondere alla regola di stretta interpretazione propria delle norme di eccezione. Le norme esaminate, peraltro, disciplinano non già la situazione “ordinaria” di particolari rapporti giuridici con le pubbliche amministrazioni, bensì una situazione che costituisce già essa stessa “deroga” all’ordinario procedimento volto alla adozione di atti ovvero alla costituzione di rapporti contrattuali. La disciplina ordinaria, infatti, prevede che il rilascio di autorizzazioni, concessioni, ovvero la stipula di contratti o subcontratti da parte dei soggetti pubblici di cui all’art. 83, deve essere preceduta necessariamente dalla acquisizione dell’informazione antimafia, e ciò proprio al fine di realizzare quelle finalità di tutela di valori costituzionalmente previsti, innanzi ricordate. A fronte di ciò, tuttavia, si è prevista una disciplina (che si è definita “derogatoria”), che consente - nel caso in cui il Prefetto non abbia provveduto a comunicare l’informazione antimafia entro i termini previsti dall’art. 92, co. 2, ovvero nei casi di urgenza (“lavori o forniture di somma urgenza”, come si esprime l’art. 94, co. 2) - ai soggetti pubblici di procedere anche in assenza dell’informazione. A ciò consegue, quanto ai provvedimenti di concessione di benefici economici, comunque denominati, che l’intervenuto accertamento dell’incapacità del soggetto, cui si riconnette la “precarietà” degli effetti dei medesimi, espressamente enunciata dalle norme, esclude che possa esservi legittima ritenzione delle somme da parte del soggetto beneficiario, ma giuridicamente incapace. Né è possibile ipotizzare, in presenza di un chiaro riferimento normativo alla “precarietà” dei provvedimenti adottati o del provvedimento stipulato, l’insorgere di un “affidamento” in capo al soggetto privato. Le eccezioni di cui agli articoli 92, co. 3 e 94, co. 2 rappresentano una precisa scelta del legislatore, che si giustifica in ragione di un “bilanciamento” delle conseguenze derivanti da una esecuzione del contratto disposta in assenza di informativa antimafia. Se è pur vero che la stipula del contratto e la sua esecuzione sono avvenute sub condicione, è altrettanto vero che appare confliggente con evidenti ragioni di equità, oltre che con i princìpi dell’attribuzione causale, addossare tutto il peso delle conseguenze di ciò in capo al privato contraente, consentendo all’Amministrazione, che pure ha tenuto un comportamento non coerente con le disposizioni normative (il ritardo nell’informativa antimafia), di conseguire un indebito arricchimento. Allo stesso modo, sono ragioni evidenti di opportuno perseguimento dell’interesse pubblico - inerente all’acquisizione di un’opera ormai terminata, ovvero inerente alla prosecuzione di una fornitura o di un servizio per i quali la sostituzione del soggetto prestatore non potrebbe intervenire in tempi rapidi – quelle che sorreggono l’art. 94, co. 3, evitando in via eccezionale “revoche” e “recessi”. Ed in quest’ultimo caso, le ragioni che sorreggono la prosecuzione del contratto, proprio perché questa costituisce una forte eccezione alle normali conseguenze dell’interdittiva antimafia, devono essere rappresentate dall’amministrazione con atto congruamente motivato in ordine alla sussistenza dei presupposti previsti dal legislatore. Nel più specifico caso di cui agli articoli 92, co. 3 e 94, co. 2 del d. lgs. 159/2011, la salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e del rimborso delle spese già sostenute per l’esecuzione del rimanente, deve essere commisurata “all’utilità conseguita”, intendendosi per tale l’arricchimento derivante al patrimonio dell’amministrazione. L’Adunanza Plenaria conclude, quindi, affermando che la salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite, previsti dagli articoli 92, comma 3, e 94, comma 2, del d. lgs. 6 settembre 2011 n. 159, si applicano solo con riferimento ai contratti di appalto di lavori, di servizi e di forniture.
8 marzo 2021
LA CLAUSOLA DEL DISCIPLINARE DI GARA CHE SUBORDINI L’AVVALIMENTO DELL’ATTESTAZIONE SOA DI ALTRO OPERATORE ECONOMICO ALLA PRODUZIONE, IN SEDE DI GARA, DELL’ATTESTAZIONE SOA ANCHE DELLA STESSA IMPRESA AUSILIATA, SI PONE IN CONTRASTO CON GLI ARTT. 84 E 89, COMMA 1, DEL D. LGS. N. 50 DEL 2016, ED È PERTANTO NULLA AI SENSI DELL’ARTICOLO 83, COMMA 8, ULTIMO PERIODO, DEL MEDESIMO DECRETO LEGISLATIVO. LA NULLITÀ DELLA CLAUSOLA ESCLUDENTE CONTRA LEGEM , PREVISTA DALL’ART. 83, COMMA 8, DEL D. LGS. N. 50 DEL 2016, CONFIGURA UN’IPOTESI DI NULLITÀ PARZIALE LIMITATA ALLA CLAUSOLA, DA CONSIDERARE NON APPOSTA, CHE NON SI ESTENDE DUNQUE ALL’INTERO PROVVEDIMENTO, IL QUALE CONSERVA NATURA AUTORITATIVA. NE’ SI PUO’ CONSIDERARE APPLICABILE, AI FINI DEL TERMINE DI DECADENZA DELL’IMPUGNAZIONE, L’ART. 31, COMMA 4, PRIMO PERIODO DEL CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO, IL QUALE SI RIFERISCE AI CASI IN CUI UN PROVVEDIMENTO SIA NULLO ED ‘INTEGRALMENTE’ IMPRODUTTIVO DI EFFETTI, MENTRE NEL CASO DI SPECIE, COME DETTO, SI TRATTA DI NULLITA’ PARZIALE. LA CLAUSOLA ESCLUDENTE NULLA NON DEVE DUNQUE ESSERE IMPUGNATA IMMEDIATAMENTE, MA SE NE PUO’FARE VALERE L’INEFFICACIA IN OGNI TEMPO (ESSENDO PERALTRO “SEMPRE” RILEVABILE DI UFFICIO DAL GIUDICE) E UNITAMENTE AI SUCCESSIVI PROVVEDIMENTI ADOTTATI DALL’AMMINISTRAZIONE, CHE FACCIANO APPLICAZIONE O COMUNQUE SI FONDINO SULLA CLAUSOLA NULLA, IVI COMPRESI IL PROVVEDIMENTO DI ESCLUSIONE DALLA GARA O LA SUA AGGIUDICAZIONE. I PROVVEDIMENTI APPLICATIVI DELL’ATTO NULLO, PERALTRO, VANNO IMPUGNATI NEL TERMINE DI DECADENZA PREVISTO PER LEGGE (TERMINE CHE E’ DIMEZZATO, IN CASO DI PROCEDURE DI AGGIUDICAZIONE DI APPALTI PUBBLICI), E NON DEVONO CONSIDERSI A LORO VOLTA NULLI IN VIA DERIVATA MA SEMPLICEMENTE ANNULLABILI, ANCHE QUALORA SE NE VOGLIA SEMPLICEMENTE FAR VALERE L’ILLEGITTIMITÀ DERIVANTE DALL’APPLICAZIONE DELLA CLAUSOLA NULLA (Adunanza plenaria n. 22 del 2020) I quesiti posti all’attenzione dell’Adunanza Plenaria sono due: a) se rientrino nel concetto delle clausole escludenti atipiche, di cui all’art. 83, comma 8, del decreto legislativo n. 50 del 2016, le previsioni dei bandi o delle lettere d’invito con le quali la stazione appaltante, limitando o vietando, a pena di esclusione, il ricorso all’avvalimento al di fuori delle ipotesi consentite dall’art. 89 del medesimo decreto legislativo, escluda, di fatto, la partecipazione alla gara degli operatori economici che siano privi dei corrispondenti requisiti di carattere economico-finanziario o tecnico-professionale; b) se, in particolare, possa reputarsi nulla la clausola con la quale, nel caso di appalti di lavori pubblici di importo pari o superiore a 150.000 euro, sia consentito il ricorso all’avvalimento dell’attestazione SOA soltanto da parte di soggetti che già ne posseggano una propria. La norma che viene anzitutto in rilievo, al riguardo, è l’art. 89 del decreto legislativo n. 50 del 2016, che consente l’utilizzazione dell’avvalimento in via generale da parte delle imprese che negoziano con la pubblica amministrazione, prevedendo quali uniche eccezioni alla regola le ipotesi contemplate nei commi 4, 10 e 11 della stessa. La seconda norma da tenere in considerazione è l’art. 83, comma 8, del medesimo decreto legislativo, laddove, nel disciplinare i criteri di selezione e il soccorso istruttorio, stabilisce che: «Le stazioni appaltanti indicano le condizioni di partecipazione richieste, che possono essere espresse come livelli minimi di capacità, congiuntamente agli idonei mezzi di prova, nel bando di gara o nell’invito a confermare interesse ed effettuano la verifica formale sostanziale delle capacità realizzative, delle competenze tecniche professionali, ivi comprese le risorse umane, organiche all’impresa, nonché delle attività effettivamente eseguite. I bandi e le lettere d’invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle». La disciplina contenuta nella prima disposizione si incentra sui rapporti tra l’impresa ausiliaria e l’impresa ausiliata nonché sui rapporti giuridici che ciascuna di esse instaura con la stazione appaltante, prevedendo in capo a quest’ultima penetranti poteri di controllo sull’effettivo possesso dei requisiti professionali e tecnico-finanziari - che si estendono anche alla fase esecutiva - dell’impresa ausiliaria, la quale, pur non diventando parte nel contratto che segue l’aggiudicazione, è obbligata in solido con l’impresa ausiliata. Naturalmente, i poteri di controllo vengono esercitati dalla stazione appaltante anche nei confronti dell’impresa ausiliata, che è comunque l’unica che partecipa alla gara e sottoscrive il contratto in caso di aggiudicazione, risultando, così, garante dell’esatta esecuzione del contratto di avvalimento da parte dell’impresa ausiliaria. La disciplina contenuta nella seconda norma ricordata (art. 83) non elimina, anzi regolamenta, il potere della stazione appaltante di indicare nel bando le condizioni minime di partecipazione e i mezzi di prova. Questo, al fine di consentire la verifica, in via formale e sostanziale, delle capacità realizzative dell’impresa, nonché le competenze tecnico-professionali e le risorse umane, organiche all’impresa medesima. Dalle richiamate disposizioni normative emerge tuttavia che, conformemente al diritto dell’Unione europea, la stazione appaltante incontra il limite di non poter escludere il meccanismo dell’avvalimento se non nei casi tassativamente previsti dalla legge. Ritiene l’Adunanza plenaria che l’art. 20 del disciplinare di gara, nel caso di specie, sia illegittimo, per contrasto con l’art. 83, comma 8. La disposizione appare intrinsecamente contraddittoria, nel consentire l’avvalimento dell’attestazione SOA di altro soggetto e, poi, nel richiedere cionondimeno il possesso di propria attestazione SOA. Essa, inoltre, prevedendo una causa di esclusione (il mancato possesso della propria attestazione SOA) sprovvista di idonea base normativa, si pone in contrasto col divieto di porre cause di esclusione non previste per legge, a pena di nullità della clausola (art. 83, comma 8, ultimi due periodi). Tuttavia, per evitare che l’avvalimento dell’attestazione SOA, ammissibile in via di principio per il favor partecipationis che permea l’istituto dell’avvalimento, divenga in concreto un mezzo per eludere il rigoroso sistema di qualificazione nel settore dei lavori pubblici, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha più volte ribadito che l’avvalimento dell’attestazione SOA è consentito ad una duplice condizione: a) che oggetto della messa a disposizione sia l’intero setting di elementi e requisiti che hanno consentito all’impresa ausiliaria di ottenere il rilascio dell’attestazione SOA; b) che il contratto di avvalimento dia conto, in modo puntuale, del complesso dei requisiti oggetto di avvalimento, senza impiegare formule generiche o di mero stile. Pertanto, risulta illegittima, per violazione degli artt. 84 e 89, comma 1, del d. lgs. n. 50 del 2016, la clausola del disciplinare di gara che, senza indicare le specifiche ragioni ai sensi dell’art. 89, comma 4, del d. lgs. n. 50 del 2016, subordini l’avvalimento dell’attestazione SOA alla produzione, in sede di gara, dell’attestazione SOA della impresa ausiliata, ed è, conseguentemente, di per sé illegittima l’esclusione della concorrente. Ritenuta l’illegittimità della clausola escludente in contestazione, l’Adunanza Plenaria si sofferma sulla nullità o l’annullabilità della clausola stessa. In estrema sintesi, viene affermato che la clausola escludente del bando è affetta da nullità, e pertanto da considerare come non apposta e quindi disapplicabile, poiché essa finisce per integrare un requisito ulteriore rispetto a quelli espressamente previsti dagli artt. 80 e 83 del codice dei contratti pubblici; cosa non consentita dall’ordinamento, che anzi in tal caso prevede la sanzione massima della nullità. Si desume che si tratti di una nullità parziale che non invalida l’intero bando e che non si configuri una fattispecie di nullità derivata o successiva, bensì propria, ossia di una clausola in contrasto con una norma imperativa di legge. L’Adunanza Plenaria ritiene che la clausola escludente che si ponga in violazione dell’art. 83, comma 8, del ‘secondo codice’ sugli appalti pubblici non si possa considerare annullabile (e dunque efficace). Sancisce, infatti, che – al cospetto della nullità della clausola escludente contra legem del bando di gara – non vi sia l’onere per l’impresa di proporre alcun ricorso: tale clausola, in quanto inefficace e improduttiva di effetti, si deve intendere come ‘non apposta’, a tutti gli effetti di legge. Non si possono considerare, quindi, applicabili l’art. 21-septies della legge n. 241 del 1990 e l’art. 31 del codice del processo amministrativo, i quali si riferiscono ai casi in cui un provvedimento sia nullo ed ‘integralmente’ improduttivo di effetti: la clausola escludente affetta da nullità, in base al principio vitiatur sed non vitiat già affermato dalla sentenza dell’Adunanza n. 9 del 2014, non incide sulla natura autoritativa del bando di gara, quanto alle sue ulteriori determinazioni. Il legislatore, nel prevedere la nullità della clausola in questione, ha disposto la sua inefficacia, tanto che – se anche il procedimento dura ben più dei sei mesi previsti dall’art. 31 del c.p.a. per l’esercizio della azione di nullità – la stazione appaltante comunque non può attribuire ad essa rilievo perché ritenuta “inoppugnabile”. I successivi atti del procedimento, inclusi quelli di esclusione e di aggiudicazione, pur basati sulla clausola nulla, conservano il loro carattere autoritativo e sono soggetti al termine di impugnazione previsto dall’art. 120 del codice del processo amministrativo, entro il quale si può chiedere l’annullamento dell’atto di esclusione (o comunque degli atti successivi definitori della gara) per aver fatto illegittima applicazione della clausola escludente nulla. L’art. 120 non prevede alcuna deroga al termine di decadenza di trenta giorni, che sussiste qualsiasi sia il vizio – più o meno grave – dell’atto impugnato. Né può farsi discendere, quanto meno nell’ordinamento amministrativo, la nullità di un atto applicativo di un precedente provvedimento solo parzialmente affetto da una nullità riferita a una sua specifica clausola inidonea a inficiare la validità di quel provvedimento nel suo complesso. Non vi è dunque alcun onere, in conclusione, per le imprese partecipanti alla gara di impugnare (entro l’ordinario termine di decadenza) la clausola escludente nulla e quindi “inefficace” ex lege, ma vi è uno specifico onere di impugnare nei termini ordinari gli atti successivi che facciano applicazione (anche) della clausola nulla contenuta nell’atto precedente.
7 marzo 2021
L’ACCESSO DIFENSIVO PREVISTO DALLA LEGGE N. 241 DEL 1990 E I METODI DI ACQUISIZIONE PROBATORIA PREVISTI DALLE DISPOSIZIONI DEL CODICE DI PROCEDURA CIVILE SONO ISTITUTI COMPLEMENTARI, E NON SI ESCLUDONO RECIPROCAMENTE, DAL MOMENTO CHE LA DISCIPLINA INERENTE GLI STRUMENTI PROCESSUALCIVILISTICI DI ESIBIZIONE ISTRUTTORIA EX ARTT. 210, 211 E 213 C.P.C., LUNGI DAL COSTITUIRE LIMITE ALL’ESPERIBILITÀ DELL’ACCESSO DIFENSIVO PRIMA O IN PENDENZA DEL GIUDIZIO, SEMBRA ADDIRITTURA PRESUPPORRE UN PREVIO ESPERIMENTO DELL’ACCESSO DIFENSIVO, ESSENDO TALI MEZZI DI PROVA CONFIGURATI COME STRUMENTI ISTRUTTORI TENDENZIALMENTE RESIDUALI RISPETTO ALLE FORME DI ACQUISIZIONE DEI DOCUMENTI DA PARTE DEI PRIVATI SULLA BASE DI CORRELATIVE DISCIPLINE DI NATURA SOSTANZIALE, ANCHE IN FUNZIONE DELLA LORO PRODUZIONE IN GIUDIZIO (Adunanze plenarie n. 19, 20 e 21 del 2020) L’Adunanza del Consiglio di Stato ha, da un lato, indagato ancora una volta la natura e le funzioni del diritto di accesso e, sotto altro profilo, individuato i rapporti tra il diritto di accesso e gli altri strumenti istruttori del codice di procedura civile, con particolare riferimento a quelli posti a disposizione del giudice civile in tema di famiglia. Il punto in relazione a cui l’Adunanza era stata chiamata a decidere, esistendo un contrasto giurisprudenziale nella quarta sezione del Consiglio di Stato, verteva sul rapporto tra diritto di accesso volto alla tutela processuale e strumenti istruttori a disposizione del giudice civile in materia di famiglia; in particolare, il contrasto riguardava la sussistenza della possibilità o meno di accedere ai documenti presenti nell’anagrafe tributaria da parte del soggetto che volesse utilizzarli nel processo in materia di famiglia, come accade, ad esempio, al fine dell’individuazione del contributo dei coniugi per il mantenimento di un figlio minore. Il codice di procedura civile prevede strumenti istruttori che consentono di ottenere questi dati dall’amministrazione finanziaria, ma mentre alcuni ritenevano che fosse lesiva del diritto di difesa la possibilità di ottenere documenti finanziari attraverso l’utilizzo della legge n. 241 del 1990, altri ritenevano che l’accesso fosse un rimedio di carattere generale, non limitato né limitabile dalla presenza di questi speciali strumenti a disposizione del giudice civile. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato parte dalla considerazione che i documenti rilasciati dall’amministrazione come documenti finanziari (contenenti dati patrimoniali, reddituali e finanziari) rientrano a pieno titolo nei documenti di cui all’art. 22, comma 1, lettera d) della legge sul procedimento amministrativo. Il legislatore dell’epoca ha infatti offerto una nozione molto ampia di documento amministrativo, facendo rientrare al suo interno tutti i documenti formati da una pubblica amministrazione o da un soggetto privato nell’ambito di attività di pubblico interesse. La questione centrale riguarda il rapporto tra la normativa in materia di accesso e il codice di procedura civile. Il codice di procedura civile delinea strumenti che consentono al giudice di acquisire documenti utili per il giudizio, ma come si rapportano questi strumenti con la legge sul procedimento amministrativo, e, in particolare, con le norme sull’accesso? L’Adunanza Plenaria si diffonde innanzitutto sulla natura del diritto di accesso, e, in particolare, sull’oggetto e sulla funzione di tale istituto. L’accesso documentale ha un suo ruolo centrale in materia di trasparenza; l’art. 22, comma 2 della legge n. 241 del 1990 è un principio generale dell’attività amministrativa, di natura regolatoria, che soddisfa necessità di pubblico interesse e ha la funzione di favorire la partecipazione al procedimento. L’art 24, ultimo comma, della legge sul procedimento amministrativo descrive un’ulteriore funzione del diritto di accesso, ovvero quella di tutela processuale; il diritto di accesso dev’essere comunque garantito ai richiedenti, laddove la conoscenza sia necessaria per difendere i propri diritti o interessi. Ci sono due funzioni distinte nel diritto di accesso, la prima è quella di garantire la partecipazione al procedimento e la seconda è garantire la trasparenza; tali funzioni riguardano il diritto di accesso in generale, e, quindi, anche l’accesso difensivo, come si desume dall’art. 24, comma 7 della legge sul procedimento amministrativo Il comma 7 appena citato, in particolare, sancisce un’estensione e una limitazione. La limitazione è costituita dall’aggravamento probatorio, nel senso che la parte deve dimostrare che i documenti sono necessari in funzione della sua difesa (o, se sono documenti “supersensibili”, deve dimostrare che sono indispensabili per la sua difesa). L’aggravamento si giustifica con l’estensione della portata del diritto di accesso. L’accesso c.d. processuale fuoriesce da una logica meramente partecipativa e svolge una funzione difensiva. Già l’Adunanza Plenaria n. 6 del 2006 ha descritto puntualmente le caratteristiche dell’istituto dell’accesso, stabilendo che non è necessario stabilire se il diritto di accesso sia un interesse legittimo o un diritto soggettivo, in quanto ciò che conta è che si ponga a tutela di un interesse legittimo o di un diritto soggettivo. Nell’accesso difensivo, la valutazione sulla ostensibilità viene condotta in astratto dalla pubblica amministrazione sulla base delle informazioni fornite dal richiedente, e la pertinenza del documento dev’essere valutata sulla base della res controversa o che potrebbe essere controversa. Viene svolta, di fatto, un’operazione di sussunzione in astratto su un processo anche non instaurato, ancora da instaurare. L’obbligo di motivazione della richiesta deve consentire all’Amministrazione di valutare la pertinenza della richiesta di accesso rispetto al processo instaurato o instaurando. Alla luce di quest’analisi, possono essere compiutamente valutati, secondo l’Adunanza Plenaria, i rapporti tra accesso e istituti del codice di procedura civile. L’Adunanza Plenaria sostiene che in realtà i due strumenti concorrono; il diritto di accesso non ha solo natura processuale, ma anche un substrato sostanziale. È attribuito al richiedente anche in fase pre-processuale, proprio perché in base alla piena conoscenza degli atti un soggetto può valutare se agire in giudizio. A maggior ragione, mai potrebbe essere negato di accedere a documenti alla luce del fatto che il processo sia già instaurato. L’accesso difensivo ha dunque una duplice natura, sostanziale e processuale. Gli strumenti di acquisizione probatoria a disposizione del giudice civile, previsti dagli articoli 210, 211, 213, 155 sexies e 492 e ss c.p.c., si muovono solo all’interno del processo e sono sottoposti al vaglio del giudice e impugnabili solo impugnando la sentenza, non essendo possibile proporre altro tipo di reclamo. Non è pensabile, quindi, una riduzione della tutela procedimentale. Argomento a favore di tale conclusione è che l’art. 24, comma 7 della L. n. 241 del 1990 non limita affatto l’accesso nel caso di pendenza di un processo. Non possono altresì essere individuati criteri di specialità delle norme processualcivilistiche rispetto alle legge n. 241 del 1990. Ancora, i metodi di acquisizione probatoria del codice civile sono in realtà complementari rispetto alla produzione documentale. Infatti, gli strumenti istruttori a disposizione del giudice intervengono allo scopo di far fronte a una carenza probatoria che non è dipesa da mancanze delle parti. Devono essere le parti ad ottenere la documentazione. Gli ordini di esibizione istruttoria possono essere utilizzati solo nelle ipotesi dell’ispezione ex art 118 c.p.c., quando i documenti sono indispensabili e la parte non è in grado di produrli in giudizio. L’accesso documentale non può dunque essere precluso, in quanto gli strumenti processuali sono residuali, servono soltanto quando siano falliti ulteriori tentativi, e tutelano la parte che si sia attivata, ma non abbia ottenuto il documento. Sono, tra l’altro, strumenti che non sono coercibili: l’ordine del giudice ineseguito non può portare ad esecuzione manu militari, e il giudice potrà al più trarre elementi di prova ex art 116 c.p.c.. Diversamente, nella legge 241 del 1990 si possono ottenere documenti anche per il tramite del commissario ad acta. Per la giurisprudenza, questi poteri non possono essere azionati neanche nell’ambito del diritto di famiglia, qualora la parte avrebbe potuto ottenere aliunde questi documenti. Solo la tutela del minore supera qualsiasi ostacolo e consente al giudice l’acquisizione ex officio dei documenti, mentre nelle altre ipotesi il potere di ufficio non serve a far fronte ad un’inerzia della parte. I rapporti tra i diversi valori in gioco sono fissati da un bilanciamento individuato dalla stessa legge n. 241, che individua criteri di bilanciamento soltanto nel caso di dati giudiziari, sensibili o supersensibili, non con riguardo ai dati finanziari. Non va utilizzato, quindi, con riferimento ai dati finanziari, il criterio di indispensabilità e parità di rango, ma quello della necessità per la cura e la difesa di un proprio interesse giuridico. In altri termini, nel rapporto tra norme processualcivilistiche e la legge n. 241 del 1990 in tema di accesso, la presenza di strumenti istruttori anche molto incisivi a disposizione del giudice non elimina la possibilità della parte di ottenere documenti finanziari detenuti dall’anagrafe tributaria, laddove siano necessari per la difesa dei propri interessi giuridici. Infine, l’Adunanza Plenaria ricorda che l’art. 22 comma 1 della legge sul procedimento amministrativo prevede quale forma generale di accesso quella di prendere visione ed estrarre copia dei documenti amministrativi, e non la facoltà alternativa di procedere nell’uno o nell’altro modo.
7 marzo 2021
L’ART. 80, COMMA 5, LETT. C-BIS) DEL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI PREVEDE TRE FATTISPECIE DI “GRAVI ILLECITI PROFESSIONALI" – IN PRECEDENZA COLLOCATE NELLA LETTERA C) DELLO STESSO COMMA –, UNA DELLE QUALI CONCERNE UN’IPOTESI DI FALSO CONSISTENTE NEL FORNIRE, ANCHE PER NEGLIGENZA, INFORMAZIONI FALSE O FUORVIANTI SUSCETTIBILI DI INFLUENZARE LE DECISIONI SULL’ESCLUSIONE, LA SELEZIONE O L’AGGIUDICAZIONE, CHE E’ DA CONSIDERARSI BEN DISTINTA DALL’ULTERIORE FATTISPECIE CONSISTENTE NELL’OMETTERE LE INFORMAZIONI DOVUTE AI FINI DEL CORRETTO SVOLGIMENTO DELLA PROCEDURA DI SELEZIONE. RISPETTO ALL’IPOTESI DELLA FALSITA’ DICHIARATIVA O DOCUMENTALE DI CUI ALLA SUCCESSIVA LETTERA F-BIS) (PRESENTAZIONE DI DOCUMENTAZIONE E DICHIARAZIONI “NON VERITIERE”), L’ILLECITO IN QUESTIONE HA UN ELEMENTO SPECIALIZZANTE, COSTITUITO DALLA IDONEITA’ DELLE INFORMAZIONI FALSE O FUORVIANTI A INFLUENZARE LE DECISIONI DI RILIEVO DELLA STAZIONE APPALTANTE. L’INFORMAZIONE, DUNQUE, DEVE ESSERE NON SOLTANTO FALSA MA ANCHE IN GRADO DI SVIARE L’AMMINISTRAZIONE NELL’ADOZIONE DEI PROVVEDIMENTI CONCERNENTI LA PROCEDURA DI GARA; INOLTRE, VIENE EQUIPARATA ALLA DICHIARAZIONE FALSA LA DICHIARAZIONE FUORVIANTE, CHE PUO’ ESSERE DEFINITA COME INFORMAZIONE POTENZIALMENTE E INDEBITAMENTE INCIDENTE SULLE DECISIONI DELLA STAZIONE APPALTANTE, E CHE RISPETTO ALL’IPOTESI DELLA FALSITA’ PUO’ ESSERE DISTINTA PER IL MAGGIOR GRADO DI ADERENZA AL VERO. L’ELEMENTO COMUNE TRA L'IPOTESI DI FALSO DI CUI ALL'ART. 80, COMMA 5, LETT. C-BIS) E QUELLA DELL’OMISSIONE DICHIARATIVA – PREVISTA A CHIUSURA DEI TRE ILLECITI CONTEMPLATI DALLA RICHIAMATA LETTERA DELL'ART. 80 DEL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI – E’ DATO DAL FATTO CHE IN NESSUNA DI QUESTE FATTISPECIE SI HA L’AUTOMATISMO ESPULSIVO PROPRIO DEL FALSO DICHIARATIVO DI CUI ALLA SUCCESSIVA LETTERA F-BIS (CHE COSTITUISCE OGGI UN’IPOTESI RESIDUALE E CONNESSA A IPOTESI DI OBIETTIVA FALSITA’), DI MODO CHE DEVE ESSERE SEMPRE RISERVATO UNO SPAZIO VALUTATIVO ALL’AMMINISTRAZIONE. TALE MARGINE DECISIONALE, IN CASO DI MANCATO ESERCIZIO DELLA VALUTAZIONE DA PARTE DELLA STAZIONE APPALTANTE, NON PUO’ ESSERE “COLMATO” DAL GIUDICE AMMINISTRATIVO, PENA LA VIOLAZIONE DELL’ART. 34, COMMA 2 C.P.A.; SE POI L’AMMINISTRAZIONE EFFETTUA LA VALUTAZIONE, LA STESSA PUO’ ESSERE SINDACATA NEI LIMITI DELLA CORRETTEZZA DI UN ESERCIZIO DEL POTERE CHE DEVE ESSERE INFORMATO AI PRINCIPI DI RAGIONEVOLEZZA, PROPORZIONALITA’ E ATTENDIBILITA’ DELLA SCELTA EFFETTUATA, E FERMO RESTANDO CHE SOLTANTO LA STAZIONE APPALTANTE INTERESSATA PUO’ FISSARE IL PUNTO DI ROTTURA DELL’AFFIDAMENTO NEL FUTURO CONTRAENTE (Adunanza Plenaria n. 16/2020) In presenza di un margine di apprezzamento discrezionale, la demarcazione tra informazione contraria al vero e informazione ad essa non rispondente ma comunque in grado di sviare la valutazione della stazione appaltante diviene da un lato difficile, con rischi di aggravio della procedura di gara e di proliferazione del contenzioso ad essa relativo, e dall’altro lato irrilevante rispetto al disvalore della fattispecie, consistente nella comune attitudine di entrambe le informazioni a sviare l’operato della medesima amministrazione. «L’omissione di informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione», quale ulteriore fattispecie di grave illecito professionale, è ipotesi di completamento e chiusura di quella precedente, ma rispetto a questa tipizzata in termini più ampi, con il riferimento al «corretto svolgimento della procedura di selezione», ed in cui il disvalore si polarizza sull’ «elemento normativo della fattispecie», ovvero sul carattere doveroso dell’informazione. L’ipotesi presuppone un obbligo il cui assolvimento è necessario perché la competizione in gara possa svolgersi correttamente e il cui inadempimento giustifica invece l’esclusione. Rispetto alle esigenze di trasparenza che si pongono tra i preminenti valori giuridici che presiedono alle procedure di affidamento di contratti pubblici (art. 30, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016), l’obbligo dovrebbe essere previsto a livello normativo o dall’amministrazione, attraverso le norme speciali regolatrici della gara. Nondimeno, deve darsi atto che è consolidato presso la giurisprudenza il convincimento secondo cui l’art. 80, comma 5, lett. c) [ora lett. c-bis)], è una norma di chiusura in grado di comprendere tutti i fatti, anche non predeterminabili ex ante, ma in concreto comunque incidenti in modo negativo sull’integrità ed affidabilità dell’operatore economico, donde il carattere esemplificativo delle ipotesi previste nelle linee-guida emanate in materia dall’ANAC, ai sensi del comma 13 del medesimo art. 80.
7 marzo 2021
NEI CONTRATTI DI LAVORI PUBBLICI AVENTI AD OGGETTO ANCHE LA PROGETTAZIONE - SECONDO LA DISPOSIZIONE ORMAI ABROGATA DELL’ART. 53, COMMA 3, DEL D.LGS. N. 163 DEL 2006 – IL PROGETTISTA INDICATO DALL’OPERATORE ECONOMICO (E DI CUI QUESTO SI AVVALE) DEVE ESSERE QUALIFICATO COME PROFESSIONISTA ESTERNO INCARICATO DI REDIGERE IL PROGETTO ESECUTIVO. TALE PROFESSIONISTA NON RIENTRA NELLA FIGURA DEL CONCORRENTE NE’ TANTO MENO DELL’OPERATORE ECONOMICO, NEL SIGNIFICATO ATTRIBUITO DALLA NORMATIVA INTERNA E DA QUELLA EUROPEA, E NON PUO’ DUNQUE UTILIZZARE A SUA VOLTA L’ISTITUTO DELL’AVVALIMENTO, PER LE DUE SEGUENTI RAGIONI: - L’AVVALIMENTO E’ RISERVATO ALL’OPERATORE ECONOMICO; - L’AMMISSIBILITA’ DELL’AVVALIMENTO A CASCATA ERA ESCLUSA ANCHE NEL REGIME DEL VECCHIO CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI ED E’ ORA ESPRESSAMENTE IMPEDITA DAL DECRETO LEGISLATIVO N. 50 DEL 2016 (Adunanza Plenaria n. 13/2020) La questione sostanziale sulla quale l’Adunanza Plenaria è stata chiamata a pronunciarsi è consistita nello stabilire quale sia la qualificazione giuridica del progettista indicato, nell’accezione e nella terminologia dell’art. 53, comma 3 del d.lgs. n. 163/2006, e se questi possa ricorrere a un progettista terzo, utilizzando a sua volta la qualifica di altro professionista, singolo o associato. Qualora il progettista originariamente indicato dal costituendo raggruppamento sia da qualificare come ausiliario in senso tecnico, ossia come l’effetto del meccanismo proprio dell’avvalimento (artt. 49 e 53, comma 3, d.lgs. n. 163/2006), si pone l’ulteriore questione se vi possa legittimamente essere, per un’offerta in gara, un duplice e consequenziale avvalimento di professionisti. L’istituto dell’avvalimento, di origine comunitaria, è stato disciplinato per la prima volta dall’abrogato codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo n. 163 del 2006, agli artt. 49, 50, e dall’art. 88 del d.P.R. n. 207 del 2010. L’art. 49 stabiliva, al comma 1: «Il concorrente, singolo o consorziato o raggruppato ai sensi dell’articolo 34, in relazione ad una specifica gara di lavori, servizi, forniture può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto o dell’attestazione SOA di altro soggetto». L’articolo 53 del medesimo codice, che è quello di cui la stazione appaltante ha fatto applicazione nel caso di specie, stabiliva, al comma 3: «Quando il contratto ha per oggetto anche la progettazione, ai sensi del comma 2, gli operatori economici devono possedere i requisiti prescritti per i progettisti, ovvero avvalersi di progettisti qualificati, da indicare nell’offerta, o partecipare in raggruppamento con soggetti qualificati per la progettazione. Il bando indica i requisiti richiesti per i progettisti, secondo quanto previsto dal Capo IV del presente Titolo (progettazione e concorsi di progettazione), e l’ammontare delle spese di progettazione comprese nell’importo a base del contratto». Dal confronto delle due norme risulta come, mentre quella generale ha individuato nel “concorrente” il soggetto legittimato ad avvalersi dell’istituto, quella speciale ha adoperato l’espressione “operatori economici”, che può essere considerata come la sintesi dei soggetti così come intesi dalla prima norma riportata oppure come un’espressione polisensa, capace di allargare la legittimazione fino a ricomprendervi anche il progettista esterno alla compagine che ha formulato l’offerta. Secondo l’Adunanza Plenaria, l’espressione “concorrente” non può che avere il significato proprio di chi effettua l’offerta, ovvero di «colui che offra sul mercato, rispettivamente, la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti, la prestazione di servizi», ossia l’imprenditore, il fornitore e il prestatore di servizi. In tale categoria non rientra il professionista indicato quale progettista, che dunque non è legittimato ad utilizzare l’istituto dell’avvalimento, non essendo un operatore economico nel senso voluto dalla disciplina dei contratti pubblici. La posizione giuridica del progettista indicato dall’impresa, che ha formulato l’offerta con la conseguente aggiudicazione, è, pertanto, quella di un prestatore d’opera professionale che non entra a far parte della struttura societaria che si avvale della sua opera, e men che meno rientra nella struttura societaria quando questa formula l’offerta. Rimangono due soggetti separati e distinti, che svolgono funzioni differenti, con conseguente diversa distribuzione delle responsabilità. Tale situazione non muta neppure nel caso di appalto c. d. integrato, caratterizzato dal fatto che l’oggetto negoziale è unico, nel senso che non vi è una doppia gara, una per la progettazione e un’altra per l’esecuzione dei lavori, poiché il contratto viene sottoscritto unicamente da chi si è aggiudicato la gara. D’altronde, anche l’impresa ausiliaria, figura propria dell’avvalimento, rimane sempre estranea alla vicenda dell’aggiudicazione e del conseguente contratto di appalto o di servizi, nonostante la legge fissi una forma di responsabilità solidale che viene assunta in adempimento del contratto di avvalimento, e che al tempo stesso è la riprova di una soggettività separata e distinta. Il contratto ha come contenuto la promessa dell’obbligazione (o fatto) del terzo (art. 1381 c. c.), e la dichiarazione dell’ausiliario di impegno verso la stazione appaltante ne costituisce l’esecuzione; senza tale dichiarazione non vi sarebbe nessuna possibilità per la stazione appaltante di pretendere il coinvolgimento dell’ausiliaria nell’esecuzione del contratto attraverso la messa a disposizione dei mezzi e delle qualifiche e men che meno vi sarebbe la responsabilità solidale. La dichiarazione dell’ausiliaria costituisce il punto di contatto giuridico tra la fase negoziale e il subprocedimento dell’avvalimento che si apre nella fase dell’offerta di gara. Secondo la giurisprudenza dell’Unione europea, l’avvalimento si applica non ai soli concorrenti, ma a tutti gli operatori economici, tenuti a qualsiasi titolo a dimostrare il possesso dei requisiti in gara (si veda da ultimo Corte di giustizia CE, sez.X, 11 giugno 2020, C-219/19 Parsec, che, in linea con la nozione ampia di operatore economico, va incluso in detta categoria qualunque persona o ente collettivo che operi sul mercato < >). Anche nel diritto dell’Unione, tuttavia, il significato di operatore economico non è stato mai esteso alla figura del professionista, che anche in quell’ordinamento ha la stessa connotazione giuridica dell’ordinamento interno, ossia non è operatore del mercato nell’accezione tecnica indicata. Successivamente, la legge delega 28 gennaio 2016, n. 11, ha dettato uno specifico criterio di delega per l’avvalimento (criterio di cui all’art. 1, comma 1, lett. zz), in attuazione dell’art. 63 della Direttiva 2014/24/UE), stabilendo sia l’esclusione della possibilità di fare ricorso al cosiddetto “avvalimento a cascata”, sia il divieto che oggetto dell’avvalimento possa essere “il possesso della qualificazione dell’esperienza tecnica e professionale necessarie per eseguire le prestazioni da affidare”. Le disposizioni sono poi penetrate nell’art. 89 del nuovo codice dei contratti pubblici, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, che, al comma 6, vieta espressamente il cosiddetto avvalimento “a cascata”, consentendo invece quello plurimo e frazionato; con possibilità, in via eccezionale, di non consentire l’avvalimento, purché tale circostanza venga indicata nel bando, con il rispetto del principio di proporzionalità. Ciò rende nuovamente di attualità la giurisprudenza formatasi nel vigore del precedente codice, secondo cui nelle gare pubbliche non è consentito avvalersi di un soggetto che, a sua volta, utilizza i requisiti di un altro soggetto, sia pure ad esso collegato, in quanto una deroga al principio di personalità dei requisiti di partecipazione è collegata alla possibilità per la stazione appaltante di avere un rapporto diretto e immediato con l’ausiliaria, che non viene assicurato dalla semplice dichiarazione dell’ausiliaria in esecuzione del contratto di avvalimento con l’impresa ausiliata, anche se dal meccanismo ne consegue la responsabilità solidale delle due imprese in relazione all’intera prestazione dedotta nel contratto da aggiudicare. Al riguardo, l’Adunanza Plenaria ha osservato che il divieto contenuto nel Codice dei contratti pubblici attualmente in vigore, pur non essendo direttamente applicabile alla fattispecie in esame, ha comunque un ruolo di orientamento per l’interprete, che è tenuto a tenere nel debito conto le tendenze evolutive dell’ordinamento.
7 marzo 2021
IL TERMINE PER L’IMPUGNAZIONE DELL’AGGIUDIGAZIONE DI UNA GARA PUBBLICA DI APPALTO DECORRE DALLA PUBBLICIZZAZIONE GENERALIZZATA DI TUTTI GLI ATTI FACENTI PARTE DELLA GARA STESA, IVI COMPRESI I VERBALI, EX ART. 29 DEL D.LGS. N. 50 DEL 2016. LE INFORMAZIONI DOVUTE DALLA STAZIONE APPALTANTE AI SENSI DELL’ART. 76 DEL CITATO DECRETO LEGISLATIVO CONSENTONO DI PROPORRE MOTIVI AGGIUNTI O UN RICORSO PRINCIPALE, SE IDONEE A FORNIRE ULTERIORI ELEMENTI RISPETTO AI VIZI GIA’ INDIVIDUATI O AD ACCERTARE NUOVI VIZI. IN CASO DI PROPOSIZIONE DI ISTANZA DI ACCESSO AGLI ATTI DI GARA, QUALORA L’AMMINISTRAZIONE AGGIUDICATRICE RIFIUTI L’ACCESSO O IMPEDISCA CON COMPORTAMENTI DILATORI L’IMMEDIATA CONOSCENZA DEGLI ATTI DI GARA E DEI RELATIVI ALLEGATI, IL TERMINE PER L’IMPUGNAZIONE DEGLI ATTI, QUANDO I MOTIVI DI RICORSO CONSEGUANO ALLA CONOSCENZA DEI DOCUMENTI CHE COMPLETANO L’OFFERTA DELL’AGGIUDICATARIO OVVERO DELLE GIUSTIFICAZIONI RESE NELL’AMBITO DEL PROCEDIMENTO D VERIFICA DELL’ANOMALIA DELL’OFFERTA, COMINCIA A DECORRERE SOLO DA QUANDO L’INTERESSATO LI ABBIA CONOSCIUTI. L’ACCESSO INFORMALE, LE CUI REGOLE SONO CONTENUTE IN TERMINI GENERALI NELL’ART. 5 DEL D.P.R. N. 184 DEL 2006, E’ COMUNQUE ESERCITABILE – ANCHE QUANDO SI TRATTI DI DOCUMENTI PER I QUALI LA LEGGE NON PREVEDE ESPRESSAMENTE LA PUBBLICAZIONE – NON OLTRE IL TERMINE PREVISTO DALL’ART. 76, PRIMA PARTE DEL COMMA 2 DEL D.LGS. N. 50 DEL 2016 (QUINDICI GIORNI DALLA COMUNICAZIONE DEL PROVVEDIMENTO LESIVO). IN OGNI CASO, LA PUBBLICAZIONE DEGLI ATTI DI GARA, CON I RELATIVI ALLEGATI, EX ART. 29 DEL D.LGS. N. 50 DEL 2016, O, IN ALTERNATIVA, LE FORME DI COMUNICAZIONE E DI PUBBLICITA’ INDIVIDUATE NEL BANDO DI GARA ED ACCETTATE DAI PARTECIPANTI ALLA GARA – PURCHE’ GLI ATTI SIANO COMUNICATI O PUBBLICATI UNITAMENTE AI RELATIVI ALLEGATI - SONO CIRCOSTANZE IDONEE A FAR DECORRERE IL TERMINE PER L’IMPUGNAZIONE DELL’ATTO DI AGGIUDICAZIONE (Adunanza Plenaria n. 12 del 2020) Secondo l’Adunanza Plenaria, non essendovi stato il necessario coordinamento del richiamo effettuato dal comma 5 dell’art. 120 c.p.a. (secondo cui per l'impugnazione degli atti delle procedure di affidamento “il ricorso, principale o incidentale e i motivi aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già impugnati, devono essere proposti nel termine di trenta giorni, decorrente, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all’ articolo 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (…)”) il riferimento alle formalità previste dall’art. 79 del ‘primo codice’ deve ora intendersi effettuato alle formalità previste dall’art. 76 del ‘secondo codice’ (d.lgs. n. 50 del 2016). Inoltre, a seguito della mancata riproduzione nel ‘secondo codice’ di specifiche disposizioni sull’accesso informale agli atti di gara, rilevano le disposizioni generali sull’accesso informale, previste dall’art. 5 del regolamento approvato con il d.P.R. n. 184 del 2006. Queste sono divenute applicabili per gli atti delle procedure di gara in questione a seguito della abrogazione delle disposizioni speciali, previste dall’art. 79, comma 5-quater, del ‘primo codice’.
7 marzo 2021
L’ACCESSO CIVICO AGLI ATTI INERENTI ALLA FASE DI ESECUZIONE DEGLI APPALTI PUBBLICI E’ SEMPRE POSSIBILE, FATTA SALVA LA VERIFICA DELLA COMPATIBILITA’ DELL’ACCESSO IN QUESTIONE CON LE ECCEZIONI RELATIVE DI CUI ALL’ART. 5-BIS, COMMA 1 e 2, A TUTELA DEGLI INTERESSI-LIMITE, PUBBLICI E PRIVATI, PREVISTI DA TALE DISPOSIZIONE (FRUTTO DEL BILANCIAMENTO TRA IL VALORE DELLA TRASPARENZA E QUELLO DELLA RISERVATEZZA). IN PARTICOLARE, NON SI RIENTRA IN UNO DEI CASI DI DIVIETO DI ACCESSO O DIVULGAZIONE PREVISTI DALLA LEGGE, CHE ESCLUDONO CIOE’, AI SENSI DEL COMMA 3 DELL’ART. 5-BIS DEL D.LGS. N. 33 DEL 2013, IN MODO ASSOLUTO L’APPLICAZIONE DELLA NORMATIVA SUL DIRITTO DI ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO. TALI CASI ECCEZIONALI (C.D. ECCEZIONI ASSOLUTE) SONO STATI PREVISTI DAL LEGISLATORE PER GARANTIRE UN LIVELLO DI PROTEZIONE MASSIMA A DETERMINATI INTERESSI, RITENUTI DI PARTICOLARE RILEVANZA PER L’ORDINAMENTO GIURIDICO, COME AD ESEMPIO IN MATERIA DI SEGRETO DI STATO, SICCHÉ IL LEGISLATORE HA OPERATO GIÀ A MONTE UNA VALUTAZIONE ASSIOLOGICA E LI HA RITENUTI SUPERIORI RISPETTO ALLA CONOSCIBILITÀ DIFFUSA DI DATI E DOCUMENTI AMMINISTRATIVI. NE DERIVA L’ESERCIZIO, DA PARTE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, DI UN POTERE VINCOLATO, CHE DEVE ESSERE NECESSARIAMENTE PRECEDUTO DA UN’ATTENTA E MOTIVATA VALUTAZIONE IN ORDINE ALLA RICORRENZA, RISPETTO ALLA SINGOLA ISTANZA, DI UNA ECCEZIONE ASSOLUTA E ALLA SUSSUNZIONE DEL CASO NELL’AMBITO DELL’ECCEZIONE ASSOLUTA, CHE È DI STRETTA INTERPRETAZIONE. LE TRE IPOTESI PREVISTE DAL COMMA 3 NON HANNO CIASCUNA UN AUTONOMO RAGGIO APPLICATIVO AUTONOMO, IN QUANTO COSI’ INTERPRETATE SI SPEZZEREBBE L’INDUBBIO NESSO SISTEMATICO, GIÀ EVIDENTE NELLA FORMULAZIONE DEL COMMA, CHE ESISTE TRA LE SINGOLE IPOTESI. E’ INVECE PREFERIBILE UNA LETTURA UNITARIA – A PARTIRE DALL’ENDIADI «SEGRETI E ALTRI DIVIETI DI DIVULGAZIONE» –, PERCHÉ UNA LETTURA SISTEMATICA, COSTITUZIONALMENTE E CONVENZIONALMENTE ORIENTATA, IMPONE UN NECESSARIO APPROCCIO RESTRITTIVO (AI LIMITI), SECONDO UNA INTERPRETAZIONE TASSATIVIZZANTE, DI MODO CHE LA FORMULA INERENTE AI “CASI IN CUI L'ACCESSO E' SUBORDINATO DALLA DISCIPLINA VIGENTE AL RISPETTO DI SPECIFICHE CONDIZIONI, MODALITA' O LIMITI” NON PUÒ INTESA NEL SENSO DI ESENTARE DALL’ACCESSO GENERALIZZATO INTERI AMBITI DI MATERIE (COME APPUNTO GLI APPALTI PUBBLICI) PER IL SOLO FATTO CHE TALI MATERIE PREVEDANO CASI DI ACCESSO LIMITATO E CONDIZIONATO (Adunanza Plenaria n. 10 del 2020) L’istanza di accesso documentale può concorrere con quella di accesso civico generalizzato e la pretesa ostensiva può essere contestualmente formulata dal privato con riferimento tanto all’una che all’altra forma di accesso. L’art. 5, comma 11, del d.lgs. n. 33 del 2013 ammette chiaramente il concorso tra le diverse forme di accesso, allorquando specifica che restano ferme, accanto all’accesso civico c.d. semplice (comma 1) e quello c.d. generalizzato (comma 2), anche «le diverse forme di accesso degli interessati previste dal capo V della legge 7 agosto 1990, n. 241». Il riferimento dell’istanza ai soli presupposti dell’accesso documentale non preclude alla pubblica amministrazione di esaminare l’istanza anche sotto il profilo dell’accesso civico generalizzato, laddove l’istanza contenga sostanzialmente tutti gli elementi utili a vagliarne l’accoglimento sotto il profilo “civico”, salvo che il privato abbia inteso espressamente far valere e limitare il proprio interesse ostensivo solo all’uno o all’altro aspetto. In quest’ultimo caso, in presenza di una istanza di accesso ai documenti espressamente motivata con esclusivo riferimento alla disciplina generale della L. n. 241 del 1990, o ai suoi elementi sostanziali, la pubblica amministrazione, una volta accertata la carenza del necessario presupposto legittimante della titolarità di un interesse differenziato in capo al richiedente, ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. b), della l. n. 241 del 1990, non può esaminare la richiesta di accesso civico generalizzato, a meno che non sia accertato che l’interessato abbia inteso richiedere, al di là del mero riferimento alla l. n. 241 del 1990, anche l’accesso civico generalizzato, e non abbia inteso limitare il proprio interesse ostensivo al solo accesso documentale, uti singulus. Diversamente, infatti, la pubblica amministrazione si pronuncerebbe, con una sorta di diniego difensivo “in prevenzione”, su una istanza, quella di accesso civico generalizzato, mai proposta, nemmeno in forma, per così dire, implicita e/o congiunta dall’interessato, che si è limitato a richiedere l’accesso ai sensi della L. n. 241 del 1990. Correlativamente, ne discende che al giudice amministrativo, in sede di esame del ricorso avverso il diniego di una istanza di accesso motivata con riferimento alla disciplina ordinaria di cui alla L. n. 241 del 1990, o ai suoi presupposti sostanziali, è precluso di accertare la sussistenza del diritto del richiedente secondo i più ampi parametri di legittimazione attiva stabiliti dalla disciplina dell’accesso civico generalizzato, stante l’impossibilità di convertire, in sede di ricorso giurisdizionale, il titolo dell’accesso eventualmente rappresentato all’amministrazione sotto l’uno o l’altro profilo. Anche se il giudizio di accesso è un giudizio sul rapporto, oggetto di giurisdizione esclusiva, tale circostanza non può essere la ragione per esaminare per la prima volta avanti al giudice questo rapporto, in quanto è il procedimento la sede elettiva nella quale la composizione degli interessi, secondo la tecnica del bilanciamento, deve essere compiuta da parte del soggetto pubblico competente, senza alcuna inversione tra procedimento e processo. L’esigenza di una conoscenza diffusa dei cittadini sulle dinamiche di esecuzione dei contratti pubblici è con forza avvertita nella normativa europea e l’esecuzione del contratto non è una terra di nessuno, lasciata all’arbitrio dei contraenti e all’indifferenza dei terzi, ma sottoposta all’attività di vigilanza da parte dell’ANAC, trattandosi di una fase rilevante per l’ordinamento giuridico, come dimostrano le funzioni pubbliche di vigilanza e controllo previste, nella cui cornice trova spazio, in funzione si direbbe complementare e strumentale, anche l’accesso generalizzato dei cittadini. La possibilità di consentire la segnalazione a qualsivoglia cittadino che ne abbia interesse risponde al principio di vigilanza sulla legittimità degli atti di gara, «quale interesse a carattere generale ed azionabile anche dal cittadino contribuente», e l’accesso generalizzato, quale via elettiva della trasparenza, soddisfa ampiamente questo diffuso desiderio conoscitivo finalizzato alla garanzia della legalità nei contratti pubblici, che è in qualche modo la rinnovata e moderna cifra dell’evidenza pubblica, non solo nella tradizionale fase dell’aggiudicazione ma anche nella fase dell’esecuzione, dovendo questa, come detto, rispettarne specularmente condizioni, contenuti e limiti. L’accesso civico generalizzato è dunque non solo consentito, in questa materia, ma anche doveroso perché connaturato, per così dire, all’essenza stessa dell’attività contrattuale pubblica; esso opera, in funzione della c.d. trasparenza reattiva, soprattutto in relazione a quegli atti, rispetto ai quali non vigono i pur numerosi obblighi di pubblicazione (c.d. trasparenza proattiva) previsti. La disciplina dell’accesso civico generalizzato, fermi i divieti temporanei e/o assoluti di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 50 del 2016, è applicabile, in conclusione, anche agli atti delle procedure di gara e, in particolare, agli atti inerenti all’esecuzione dei contratti pubblici, non ostandovi in senso assoluto l’eccezione del comma 3 dell’art. 5-bis del d. lgs. n. 33 del 2013 in combinato disposto con l’art. 53 e con le previsioni della L. n. 241 del 1990, che non esenta in toto la materia dall’accesso civico generalizzato, anche se resta ferma la verifica della compatibilità dell’accesso con le eccezioni relative di cui all’art. 5-bis, comma 1 e 2, a tutela degli interessi-limite, pubblici e privati, previsti da tale disposizione, nel bilanciamento tra il valore della trasparenza e quello della riservatezza.
7 marzo 2021
IL SOCCORSO ISTRUTTORIO NON E’ POSSIBILE QUANDO UN’OFFERTA ECONOMICA PRESENTATA NELL’AMBITO DI UNA PROCEDURA DI AGGIUDICAZIONE DI UN APPALTO PUBBLICO NON INDICA SEPARATAMENTE I COSTI DELLA MANODOPERA, ANCHE SE TALE OBBLIGO DI INDICAZIONE SEPARATA NON SIA RICHIAMATO NELLA DOCUMENTAZIONE DELLA GARA DI APPALTO, A MENO CHE LE DISPOSIZIONI REGOLANTI LA SPECIFICA PROCEDURA CONCORSUALE NON IMPEDISCANO IN CONCRETO AGLI OFFERENTI DI INDICARE I COSTI IN QUESTIONE NELLE LORO OFFERTE ECONOMICHE (Adunanza Plenaria n. 7 del 2020, che richiama la sentenza della Nona Sezione, 2 maggio 2019, causa C-309/18, della Corte di Giustizia UE) L’Adunanza Plenaria parte con una breve premessa sui rapporti intercorrenti tra giudice nazionale e Corte di giustizia UE a seguito di domanda di pronuncia pregiudiziale proposta ai sensi dell’articolo 267 TFUE, ricordando che “dopo aver ricevuto la risposta della Corte ad una questione vertente sull’interpretazione del diritto dell’Unione da essa sottopostale, o allorché la giurisprudenza della Corte ha già fornito una risposta chiara alla suddetta questione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza deve essa stessa fare tutto il necessario affinché sia applicata tale interpretazione del diritto dell’Unione” (Corte di giustizia UE, Grande Sezione, 5 aprile 2016 causa C‑689/13). E’ dunque superfluo procedere a una nuova formulazione del principio di diritto quando la stessa consisterebbe in una mera ripetizione di quanto già affermato dal giudice del Lussemburgo. D’altra parte, la struttura dell’art. 99 c.p.a., che regola il deferimento all’Adunanza plenaria, evidenzia una flessibilità applicativa che consente al Consiglio di Stato una pluralità di soluzioni diversificate, che variano dalla decisione dell’intera vicenda (comma 4, prima parte), alla mera enunciazione del principio di diritto (comma 4, seconda parte) fino alla semplice restituzione degli atti alla Sezione remittente per ragioni di opportunità (comma 1, seconda frase), per cui, nel momento in cui la questione è stata sostanzialmente decisa dal Giudice sovranazionale e il principio di diritto sia stato pronunciato aliunde, nell’ambito dei meccanismi del sistema di cooperazione fra gli organi giurisdizionali nazionali e la Corte di giustizia UE, instaurato dall’articolo 267 TFUE, l’ Adunanza Plenaria può provvedere alla decisione dell’intera causa, secondo il già citato comma 4 dell’art. 99 c.p.a.. Nel merito, il Consiglio di Stato ribadisce che i principi della certezza del diritto, della parità di trattamento e di trasparenza, quali contemplati nella direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014 sugli appalti pubblici, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che prevede che la mancata indicazione separata dei costi della manodopera, in un’offerta economica presentata nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, comporta l’esclusione della medesima offerta, senza possibilità di soccorso istruttorio. E ciò, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo di indicare i suddetti costi separatamente non sia stato specificato nella documentazione della gara d’appalto, e sempre che tale condizione e tale possibilità di esclusione siano chiaramente previste dalla normativa nazionale relativa alle procedure di appalti pubblici espressamente richiamata in detta documentazione. Tuttavia, se le disposizioni della gara d’appalto non consentono agli offerenti di indicare separatamente i costi in questione nelle loro offerte economiche, i principi di trasparenza e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi non ostano alla possibilità di consentire agli offerenti di sanare la loro situazione e di ottemperare agli obblighi previsti dalla normativa nazionale in materia, entro un termine stabilito dall’amministrazione aggiudicatrice.
7 marzo 2021
GLI ENTI ASSOCIATIVI CHE RAPPRESENTANO LEGITTIMAMENTE INTERESSI COLLETTIVI FACENTI CAPO A DETERMINATE COMUNITA’ O CATEGORIE POSSONO ESPERIRE, TRA LE AZIONI A TUTELA DI TALI INTERESSI, ANCHE L’AZIONE GENERALE DI ANNULLAMENTO IN SEDE DI GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA DI LEGITTIMITA’, INDIPENDENTEMENTE DA UN’ESPRESSA PREVISIONE DI LEGGE CHE CONSENTA A TALI ENTI DI SOSTITUIRSI PROCESSUALMENTE AD ALTRI SOGGETTI (Adunanza Plenaria n. 6/2020) L’interesse diffuso è un interesse sostanziale che eccede la sfera dei singoli per assumere una connotazione condivisa e non esclusiva, quale interesse di “tutti” in relazione ad un bene dal cui godimento individuale nessuno può essere escluso, ed il cui godimento non esclude quello di tutti gli altri. Ciò chiarito, l’interesse sostanziale del singolo, inteso quale componente individuale del più ampio interesse diffuso, non assurge ad una situazione sostanziale “personale” suscettibile di tutela giurisdizionale (non è cioè protetto da un diritto o un interesse legittimo) posto che l’ordinamento non può offrire protezione giuridica ad un interesse sostanziale individuale che non è in tutto o in parte esclusivo o suscettibile di appropriazione individuale. E’ solo proiettato nella dimensione collettiva che l’interesse diviene suscettibile di tutela, quale sintesi e non sommatoria dell’interesse di tutti gli appartenenti alla collettività o alla categoria, e che dunque si dota della protezione propria dell’interesse legittimo, sicché, seppure è lecito opinare circa l’esistenza o meno, allo stato dell’attuale evoluzione sociale e ordinamentale, di un interesse legittimo collettivo, deve invece recisamente escludersi che le associazioni, nel richiedere in nome proprio la tutela giurisdizionale, azionino un “diritto” di altri. La situazione giuridica azionata è la propria. Essa è relativa ad interessi diffusi nella comunità o nella categoria, i quali vivono sprovvisti di protezione sino a quando un soggetto collettivo, strutturato e rappresentativo, non li incarni. Non in forza di una fictio ma di un giudizio di individuazione e selezione degli interessi da proteggere, nonché della rigorosa verifica della rappresentatività del soggetto collettivo che ne promuove la tutela. La concreta questione portata all’attenzione dell’Adunanza plenaria, riguarda, tuttavia, un caso concernente la tutela consumeristica, che richiede ulteriori approfondimenti in considerazione della sussistenza di peculiari norme di settore. Tali norme di settore escluderebbero l’esperibilità dell’azione di annullamento, in quanto l’art. 32-bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico della finanza) prevede testualmente che: “Le associazioni dei consumatori inserite nell'elenco di cui all'articolo 137 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, sono legittimate ad agire per la tutela degli interessi collettivi degli investitori, connessi alla prestazione di servizi e attività di investimento e di servizi accessori e di gestione collettiva del risparmio, nelle forme previste dagli articoli 139 e 140 del predetto decreto legislativo”, e dallo specifico riferimento alle “forme previste dagli articoli 139 e 140” deriverebbe che le uniche azioni possibili sono quelle proponibili dinanzi al giudice ordinario, tese a: a) inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; b) adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate; c) ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate” (così l’art. 140 cit.). Secondo l’Adunanza Plenaria, però, le disposizioni citate riguardano il diritto civile e il relativo processo, e rappresentano il definitivo riconoscimento della rilevanza giuridica degli interessi nella loro dimensione collettiva, persino in un ambito, quello civilistico, in cui non viene in rilievo l’esercizio di un potere suscettibile di concretizzarsi in atti autoritativi generali lesivi, impugnabili a mezzo dell’azione demolitoria secondo la traiettoria già tracciata dalla giurisprudenza amministrativa, ma in cui piuttosto assumono importanza anche i temi della disparità di forza contrattuale, dell’asimmetria informativa, dell’abuso di posizione dominante. In altri termini, la tenuta del diritto vivente sulla tutela degli interessi diffusi non è messa in dubbio nemmeno dagli articoli 139 e 140 del codice del consumo (oggi trasposti nel nuovo titolo VIII-bis del libro quarto del codice di procedura civile, in materia di azione di classe dalla L. 12/04/2019, n. 31), che riguardano altro ambito processuale, e che di certo non possono essere letti nell’ottica di un ridimensionamento della tutela degli interessi collettivi nel giudizio amministrativo, nei termini sin qui chiariti dalla giurisprudenza amministrativa. Deve quindi ritenersi che un’associazione di utenti o consumatori, iscritta nello speciale elenco previsto dal codice del consumo, ovvero munita dei requisiti individuati dalla giurisprudenza per riconoscere la legittimazione delle associazioni non iscritte, sia abilitata a ricorrere dinanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione di legittimità. La legittimazione, cioè, si ricava o dal riconoscimento del legislatore quale deriva dall’iscrizione negli speciali elenchi o dal possesso dei requisiti a tal fine individuati dalla giurisprudenza. Una volta “legittimata”, l’associazione è abilitata a esperire tutte le azioni eventualmente indicate nel disposto legislativo e comunque l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità.
7 marzo 2021
Il GIUDICATO RESTITUTORIO (AMMINISTRATIVO O CIVILE, E SCATURENTE O MENO DA UNA PROCEDURA ESPROPRIATIVA ILLEGITTIMA O DA UN CONTRATTO ANNULLATO), SE SI LIMITA A STABILIRE IL SOLO OBBLIGO DI RESTITUIRE AL PROPRIETARIO UN’AREA OCCUPATA SINE TITULO DALL’AMMINISTRAZIONE, NON PRECLUDE LA SUCCESSIVA ADOZIONE DI UN ATTO DI IMPOSIZIONE DI UNA SERVITU’ DI PASSAGGIO SULLA STESSA AREA, IN QUANTO TALE ATTO PRESUPPONE IN OGNI CASO IL MANTENIMENTO DEL DIRITTO DI PROPRIETA’ IN CAPO AL SUO TITOLARE (Adunanza plenaria n. 5 del 2020) L’art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001 (norma che regola la fattispecie del provvedimento di acquisizione di un bene utilizzato senza titolo per scopi di interesse pubblico) è applicabile, secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, anche al di fuori dei casi in cui vi sia stato un procedimento espropriativo e questo non si sia concluso, o si sia concluso con un provvedimento poi annullato dal giudice amministrativo. In particolare, la stessa formulazione letterale dell’art. 42- bis induce a ritenere che questa disposizione, lungi dal poter trovare applicazione solo nei casi in cui “la P.A. agisce nella sua veste di autorità, sia pure senza un valido titolo”, deve essere invece intesa come una “disposizione di chiusura” del sistema. Dal comma 1 della norma in discorso si evince che i presupposti fondanti il potere di acquisizione siano unicamente due, e cioè l’avvenuta modifica del bene immobile e la sua utilizzazione per scopi di interesse pubblico, senza che assumano alcun rilievo le circostanze che hanno condotto alla occupazione sine titulo e alla riconducibilità di tali circostanze a vicende di natura privatistica o pubblicistica. La natura di “norma di chiusura”, propria dell’art. 42-bis del testo unico sulle espropriazioni, rende evidente la finalità di ricondurre nell’alveo legale del sistema tutte le situazioni in cui l’amministrazione, quale che ne sia la causa, si trovi ad avere utilizzato la proprietà privata per ragioni di pubblico interesse, ma in difetto di un valido titolo legittimante. Ne consegue che il dato letterale della norma non osta all’applicazione dell’art. 42-bis nelle ipotesi in cui il difetto di titolo si manifesti per intervenuta declaratoria di nullità ovvero per annullamento del contratto di compravendita. Tale articolo trova possibile applicazione in tutti i casi in cui un bene immobile, che si trovi nella disponibilità dell’amministrazione, sia stato da questa utilizzato (o sia da questa in corso di utilizzazione), e dunque modificato nella sua consistenza materiale, per finalità di pubblico interesse; finalità che denota l’agire dell’amministrazione quale pubblica autorità. Se l’amministrazione – dopo avere individuato per il tramite di un generale e preventivo atto di esercizio di potestà, anche in ossequio al principio di legalità, la finalità di pubblico interesse – decida di perseguire quest’ultima non già attraverso procedimenti amministrativi tipici ed esercizio di poteri provvedimentali, bensì ricorrendo a ordinari modelli privatistici (nei limiti consentiti dall’ordinamento), la predetta finalità di interesse pubblico resta immanente al contratto ed al rapporto così posto in essere. Ciò comporta, di conseguenza, che, laddove la finalità di pubblico interesse non risulta (o non risulta più) essere perseguita (o perseguibile) per il tramite del contratto, non può escludersi, in generale, che l’amministrazione possa intervenire sul rapporto insorto (ovvero sulle conseguenze di fatto di un rapporto comunque cessato) per il tramite dell’esercizio di poteri pubblicistici. Una volta riconosciuta l’applicazione “ampia” dell’art. 42-bis – cioè in tutti i casi in cui “per qualsiasi ragione un immobile altrui sia utilizzato (sine titulo) dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico” – l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha dovuto accertare se il giudicato civile precluda o meno l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio sullo stesso bene, e ciò anche nel caso in cui la sentenza non abbia espressamente inibito l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis. Al riguardo, se oggetto del petitum è il recupero del bene alla piena proprietà e disponibilità del soggetto privato originariamente proprietario, è evidente che un provvedimento che, senza incidere sulla titolarità del bene, imponga sullo stesso ex novo (e, quindi, ex nunc) una servitù, non rientra nell’ambito oggettivo del giudicato, e dunque non si pone in contrasto con lo stesso, trattandosi di ipotesi diversa da quella inibita dal giudicato e assolutamente coerente con (e anzi presupponente) il mantenimento della proprietà in capo al privato. In particolare, il comma 6 dell’art. 42-bis del testo unico sulle espropriazioni (in base al quale “le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale”) non deve essere interpretato nel ristretto senso di consentire all’amministrazione l’adozione di un provvedimento solo quando “è stata” imposta una servitù, poi venuta meno. Deve, invece, ritenersi che, una volta venuto meno il titolo di proprietà del bene (o di sua legittima disponibilità), la pubblica amministrazione, alla quale è riconosciuto il potere di avvalersi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, in considerazione di quanto “modificato” sul bene appreso per la realizzazione dell’opera pubblica, può limitare l’esercizio del potere, e, quindi, procedere con limitazioni parziali delle facoltà e/o dei poteri connessi al diritto reale del privato, adottando decreti di imposizione di servitù, in luogo della piena acquisizione del bene medesimo.
6 marzo 2021
IN CASO DI OCCUPAZIONE ILLEGITTIMA, DA PARTE DELL’AMMINISTRAZIONE, DI UN BENE IMMOBILE APPARTENENTE A UN PRIVATO, LA DOMANDA GIUDIZIALE DI RISARCIMENTO DEL DANNO NON IMPLICA UNA RINUNCIA ABDICATIVA AL BENE STESSO (Adunanze Plenarie nn. 2, 3 e 4/2020) La rinuncia abdicativa è un negozio giuridico unilaterale, non recettizio, con il quale un soggetto, il rinunciante, nell'esercizio di una facoltà, dismette, abdica, perde una situazione giuridica di cui è titolare, senza che ciò comporti trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto, né automatica estinzione dello stesso. A differenza della rinuncia c.d. traslativa, manca il carattere traslativo-derivativo dell'acquisto e non ha natura contrattuale, di modo che l'effetto in capo al terzo si produce ipso iure, a prescindere dalla volontà del rinunciante, quale mero effetto di legge. Per il suo perfezionamento, pertanto, non è richiesto l'intervento o l’espressa accettazione del terzo, né che lo stesso debba esserne notiziato. Con riferimento alla rinuncia abdicativa nella materia dell’espropriazione, e cioè se sia possibile riconoscere la rinuncia abdicativa nell’atto di proposizione in giudizio della richiesta di risarcimento del danno per perdita della proprietà illecitamente occupata dalla P.A., in seguito all’irreversibile trasformazione del fondo occupato, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato dà risposta negativa, sulla base delle seguenti considerazioni: 1) se l’atto abdicativo è astrattamente idoneo a determinare la perdita della proprietà privata, non è altrettanto idoneo a determinare l’acquisto della proprietà in capo all’Autorità espropriante; 2) l’istituto della rinuncia abdicativa si pone come radicalmente estraneo alla teorica degli atti impliciti, che riguarda solo gli atti amministrativi (quando vi è la sussistenza di un atto formale, perfetto e validamente emanato il quale contiene “per implicito” un’ulteriore volontà provvedimentale, oltre a quella espressa claris verbis nel testo del provvedimento medesimo) e non gli atti del privato. D’altra parte, la volontà di chiedere il risarcimento del danno non è riconducibile alla volontà di abdicare alla proprietà privata, sia sul piano sostanziale (non sembra che da una domanda risarcitoria sia possibile univocamente desumere la rinuncia del privato al bene), sia sul piano formale (la domanda di risarcimento del danno contenuta nel ricorso giurisdizionale amministrativo è una domanda redatta e sottoscritta dal difensore e non dalla parte proprietaria del bene che ha la disponibilità dello stesso e che è l’unico soggetto avente la legittimazione ad abdicarvi, in quanto atto incidente e dispositivo di un bene immobiliare proprio della parte); 3) la rinuncia abdicativa non è provvista di base legale in un ambito, quello dell’espropriazione, dove il rispetto del principio di legalità è richiamato con forza sia a livello costituzionale (art. 42 Cost.), sia a livello di diritto europeo. Va ricordato, infatti, sotto questo profilo, che occorre evitare, in materia di espropriazione c.d. indiretta, di ricorrere a istituti che in qualche modo si pongano sulla falsariga dell’occupazione acquisitiva, a cui la giurisprudenza fece ricorso negli anni Ottanta del secolo scorso per risolvere le situazioni connesse a una espropriazione illegittima di un terreno che avesse tuttavia subìto una irreversibile trasformazione in forza della costruzione di un’opera pubblica. E’ noto che tale istituto non può più trovare spazio nel nostro ordinamento a seguito delle ripetute pronunce della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che ne hanno evidenziato la contrarietà alla Convenzione Europea, in particolare per quanto riguarda l'art. 1 del primo protocollo Addizionale (ex multis, sentenza CEDU 17 novembre 2005).
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